venerdì 4 giugno 2010

Le rondini di Montecassino


"Quando vengo a sapere che Helena Janeczek ha pubblicato un nuovo libro, faccio tutto il possibile per averlo prima che entri in libreria. Ogni uscita di Helena mi ossessiona: l'attesa di avere quelle pagine per le mani diventa urgenza. Da poco è uscito per Guanda Le rondini di Montecassino. Helena Janeczek è una figlia di Auschwitz. Sua madre si è salvata dai campi di sterminio nazisti, e lei sa che a quel destino di salvezza deve la sua vita, ma anche l'eterno tormento che i figli dei sopravvissuti si portano dentro. Tedesca di nascita, figlia di ebrei polacchi, è in Italia dal 1983, e ha fatto della lingua italiana la sua lingua di scrittrice. Il suo romanzo racconta di guerra. Anzi di una battaglia: la battaglia di Montecassino, una delle battaglie più feroci di tutti i tempi, definita la Stalingrado d'Italia. Lì si realizzò l'epopea dell'armata polacca al comando del generale Anders che si lasciò decimare sino all'ultimo uomo ma riuscì a far arretrare i nazisti. Quello che non erano riusciti a fare in Polonia, un manipolo di polacchi riuscì a farlo in Italia: respingerei tedeschi. Nelle quattro battaglie di Montecassino morirono più di cinquantamila uomini, furono scaricate 1250 tonnellate di bombe e dalle bocche di fuoco di 754 cannoni uscirono duecentomila proiettili. Gli alleati dovevano sfondare la linea Gustav per arrivare a Roma. E lo fecero con tutta la loro potenza. Senza risparmiare civili, abbazia, animali, case. Nei miei ricordi i cimiteri dei reduci non sono mai spariti. Le lapidi sbiadite dal tempo. Ricordo l'obelisco: «Per la nostrae la vostra libertà noi soldati polacchi demmo l' anima a Dio, i corpi alla terra d'Italia, alla Polonia i cuori". Cassino dalle mie parti non viene raccontata: viene tramandata. Come la discendenza di sangue. Helena Janeczek scrive un romanzo potentissimo con quella stessa forza tramandata. La sua è una gestazione di storie sconvolgenti. Se si passeggia sulle colline o semplicemente nelle campagne di Montecassino ancora si trovano schegge, granate inesplose, proiettili. Battaglia dimenticata perché lì il volto della guerra ha preso la forma del silenzio dopo gli stupri di massa seguiti alla vittoria francese. Le truppe in campo erano spesso cumuli di gente straniera. Carne da macello delle colonie. Animali feroci da combattimento sguinzagliati tra le greggi. La storia le ricorda come "marocchinate", la gente del luogo invece le ricorda come violenze di massa a danni di civili innocenti: si stimano 3000 vittime di stupro tra uomini donne e bambine, molti di loro sodomizzati a morte o impalati. Ma Montecassino è stato anche il luogo dove si è testimoniato l'eroismo dei polacchi. Gente che ha combattuto in un paese estraneo in nome di una libertà collettiva. Marocchini, polacchi, algerini: etnie che tutt'oggi provengono dagli stessi posti e affollano il basso Lazio e il Casertano. Una volta arrivavano qui come soldati, ora arrivano come immigrati. Ed è proprio qui che la Janeczek apre il sipario degli eventi scrivendo un libro che ti da un sapore mondiale. Dove tutto è connesso e annodato in un perimetro mondiale. Ci raccontano sempre di guerra mondiale ma vediamo solo americani e tedeschi. I fronti erano molti di più e le nazioni coinvolte molte di più. "Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro, ma i disegni incisi nell' anima sono, a modo loro, astratti più di una mappa, impersonali quanto un documento, e io allora non posso fare a meno di figurarmeli a immagine e somiglianza di un moko che confonde nelle sue spire un più recente tatuaggio." Il romanzo di Helena Janeczek è questo, un tatuaggio inciso nella pelle non senza dolore. Una mappa che raccoglie i fili di molte storie confluite nell'intrico della battaglia leggendaria ai piedi di un'abbazia distrutta dagli americani per un errore di valutazione. Questo diventa luogo mitico, un punto geografico al centro di una valle scura capace di contenere tutti i luoghi e di lasciar passare tutte le identità possibili. All' ombra della grande battaglia di Montecassino si incrociano, come in una vertigine, la storia immaginata con quella reale. Si incrociano le vite del sergente texano Jako Wilkins, felice e fiero di servire la propria nazione, di Rapata Sullivan, il giovane maori che segue le orme eroiche del battaglione del nonno, di Edoardo Belinski e Anand Gupta, due studenti romani che nell'ultima estate della loro adolescenza inseguono le tracce deboli di una memoria che in pochi vogliono raccontare. Poi, un passo a lato accanto alla battaglia, Irka Szer, ebrea polacca che fugge ragazzina dal ghetto ma si ritrova in Siberia con la sola protezione del suo violino abbracciato forte contro la violenza invincibile del lager. E Milek Steinwurzel, sceso in Italia con le truppe del generale Andres, e morto a Milano senza lasciare dietro si sé una parola su quegli anni terribili, su come era riuscito a salvarsi. Milek sopravvive nel silenzio. La parola non sempre salva. Non sempre è necessaria. Sempre più spesso è superflua: è ritorno al dolore. Helena Janeczek questo lo sa. In un suo libro, il primo, Lezioni di tenebra (che non si trova in libreria, inviterei gli editori a rioffrirlo al pubblico: è troppo prezioso per non essere ristampato) è proprio una battaglia con la memoria. Una lotta tra il decidere se ricordare o meno: anestetizzare il male emotivo oppure lasciar fluire tutto, come unica terapia per impedire alla storia di ripetersi, alla tragedia di tornare, al dolore di rinascere. E questa scrittrice dal nome impronunciabile, dal viso di donna slava, con il passaporto tedesco, l'anima italiana, la memoria polacca, il figlio napoletano e la residenza lombarda fa del suo mondo e del suo passato una placenta dove si formano storie di individui che non si possono dimenticare. La bellezza di questo romanzo risiede nella struttura, nel coincidere degli opposti: il caos della battaglia coi silenzi dei vinti, la normalità con l'eroismo degli ultimi, la cura della memoria e l'irruenza delle nuove generazioni, il passato inanellato indissolubilmente col presente. Sono tutte storie singolari, in qualche modo minori, quelle che Helena Janeczek racconta, eppure in ognuna il respiro e il battito del cuore è quello del coraggio e della generosità di chi si trova nei minuti decisivi della propria vita a scegliere tra il bene e il male nel frastuono della battaglia. Ed è anche la storia di chi si fa carico di questa scelta, di chi si trova molti anni dopo a fare i conti con una memoria di cui sa poco o nulla, perché in molti sono rimasti sommersi e i salvati non parlano. È una storia che si costruisce passo passo attraverso documenti falsificati per poter fuggire e le testimonianze brucianti raccolte senza fare domande, atterriti davanti all' enormità del ricordo. Quanto conta la verità dei fatti? Molto sembra, perché la ricerca dell'autrice è scrupolosa e maniacale al punto da suscitare nelle persone interrogate una domanda spontanea: "Ma tu sei uno storico o stai scrivendo un romanzo?". Dalle prime pagine il racconto si mescola con la menzogna, con l' invenzione. L'autrice sale su un taxi e per evitare le domande indiscrete del guidatore racconta di avere un cognome polacco e una madre italiana. Immagina di confessare che suo padre è stato soldato nella battaglia di Montecassino, tra le truppe del generale Andres. Ma immagina appunto tutto questo, non lo dice, e poi suo padre non ha mai combattuto a Montecassino. O forse sì? La sua immagine si confonde con quella dell'amico di una vita, quel Milek Steinwurzel che invece soldato lo era stato per davvero, le loro identità si sovrappongono in un gioco di specchi dove il giusto, il dato obiettivo, non sta mai da una parte sola, non è afferrabile perché i testimoni sono reticenti e la verità assume il tono della diceria inverificabile. Ma la verità non è l'elemento indispensabile in questa storia. La forza grandiosa e potente di queste pagine viene interamente da un gesto che è un azzardo, un atto di fiducia verso il potere dell'immaginazione di riempire un vuoto. Il tentativo di tendere un filo tra vero e falso, realtà e finzione, su cui far correre quel confine labile che a volte separa la vita dalla morte. Fa questo Helena Janeczek. E lo fa con una maestria da scrittrice vera. Lo fa portando con sé la consapevolezza del piacere narrativo e il sapore del racconto tramandato col sangue, ancora prima che con le parole. Quando si arriva alla fine di questo romanzo, ci si sente addosso il torpore della battaglia, come se la polvere delle macerie della guerra fosse composta dalle molteplici schegge dei nostri conflitti quotidiani. E Montecassino diviene la guerra di tutti, il luogo da cui tutti veniamo" (da Roberto Saviano, Montecassino, la battaglia eterna, "La Repubblica", 03/06/'10)

Ascolta da Fahrenheit

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