lunedì 31 gennaio 2011

Anne in graphic biography


"E’ difficile aggiungere ad Anne Frank qualcosa su Anne Frank. E’ difficile trovare cose – parole o immagini – che dicano sulla vittima-simbolo della Shoah più di quanto non abbia detto lei stessa nei suoi diari di giovane ebrea destinata allo sterminio. Dal chiuso del suo "alloggio segreto" nella Amsterdam occupata dai tedeschi, e con l’incredibile maturità dei suoi quattordici o quindici anni.
A lungo conosciuto come Il diario di Anne Frank, ormai da un ventennio il documento ritrovato nel nascondiglio di Prinsengracht 263 è apparso come un palinsesto di diari: oltre al testo scritto di getto, un secondo diario che Anne riscrisse prima di essere deportata ad Auschwitz, e il collage dei due originali riunito dopo la guerra dal padre Otto, l’unico sopravvissuto dalla famiglia Frank.
Dunque, un documento più stratificato e complesso di quanto fosse sembrato per quasi mezzo secolo.
E talmente ricco nella sua natura di opera evolutiva, aperta, da rendere perigliosa qualunque iniziativa di illustrazione o di spiegazione, di rielaborazione o di commento. Come per Primo Levi, così per Anne Frank ogni parola in più rischia di essere una parola di troppo.
D’altra parte, leggere Anne è diventato più difficile da quando si è conosciuto l’insieme dei suoi manoscritti. Soltanto l’edizione critica dei Diari (un volume di ottocento pagine e passa, dove le diverse versioni sono stampate in una presentazione sinottica) consente di apprezzare la ricchezza della loro trama testuale: ma l’edizione critica non si presta a essere frequentata dal lettore comune.
Se a tutto ciò si aggiungono le innovazioni tecnologiche dell’ultimo ventennio e il loro impatto sui consumi culturali delle nuove generazioni, si può intuire perché la Casa di Anne Frank abbia scelto di promuovere questa graphic biography: così da rendere la storia di Anne "accessibile al pubblico il più largo possibile".
Fin dalla prima edizione olandese del Diario e dalle sue traduzioni nelle principali lingue del mondo, pubblicate tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del Novencento, la vita di Anne era stata raccontata per immagini oltreché per parole.La fotografia dello scaffale girevole che mascherava l’ingresso dell’alloggio dove i Frank rimasero nascosti con altri quattro ebrei clandestini dall’estate 1942 all’estate 1944; un ritratto di Anne bambina, la foto che lei stessa aveva incollato all’inizio del suo diario; la facciata lungo il canale dov’era (dov’è) lo stabile di Prinsengracht 263; il disegno in pianta dell’appartamento-nascondiglio: appena una manciata di immagini, ma entrate a far parte del canone iconografico della Shoah. E immagini alle quali si sono aggiunte, via via, altre fotografie riprese dagli album di famiglia: la nascita delle due bambine, Margot e Anne, nella Germania dei tardi anni Venti; la fuga verso i Paesi Bassi dopo l’avvento di Hitler al potere; l’infanzia relativamente serena nella Amsterdam di prima della guerra.
La sfida di un racconto grafico della vita di Anne Frank non si presentava quindi, a priori, come sfida del mai visto. Per evocare tale vita a fumetti, Sid Jacobson ed Ernie Colòn dovevano misurarsi semmai con il problema contrario: il problema del "visto troppo" la sfida di raffigurare i lineamenti di una ragazzina ultraconosciuta attraverso le sue foto, incarnazione della Shoah, e l’interno di una casa ultravisitata della Amsterdam di oggi, luogo di memoria per eccellenza. Ma di là da questo, una graphic biography di Anne Frank comportava il problema di rappresentare il non rappresentabile: Anne deportata ad Auschwitz e morta a Bergen-Belsen. Il buco nero della Soluzione finale, che inghiottì l’autrice dei diari senza lasciare più modo di trasmettere una singola parola né una singola immagine di sé.
Rappresentare Auschwitz, il non rappresentabile, è diventato uno dei terreni elettivi dell’arte contemporanea. Proprio un fumetto, il memorabile Maus di Art Spiegelman, ha aperto la strada, e il genere è stato poi alimentato nelle forme più varie.
Ha prodotto diversa paccottiglia, ma anche capolavori del cinema documentario (Shoah di Claude Lanzmann), del cinema di fiction (La vita è bella di Roberto Benigni), della letteratura (Le Benevole di Jonathan Littell). Artisti collaudati, gli americani Jacobson e Colón hanno interpretato la doppia sfida – rappresentare Anne Frank, e rappresentarla ad Auschwitz – senza stravolgere la loro cifra stilistica, in piena continuità con la loro opera pregressa. Attraverso un disegno sobrio, composto, di un realismo quasi pedagogico. E attraverso didascalie e dialoghi scrupolosamente ricalcati sulle fonti storiche: di un’esattezza implacabile anche perché letterale, quasi filologica.
In fondo, il problema che Sid Jacobson ed Ernie Colòn avevano bisogno di risolvere qui non era dissimile da quello che li aveva impegnati in un’impresa precedente: il graphic novel sull’11 settembre 2001.
Lì come qui c’è un prima, c’è un dopo, e c’è un intervallo così intrinsecamente tragico da apparire non dicibile e non raffigurabile. In 9/11, il prima è la vigilia remota e prossima dell’attentato, la lunga preparazione dell’attacco alle Torri gemelle; il dopo è l’impatto degli aerei sulle Torri, il crollo, la morte di migliaia di innocenti, l’elaborazione collettiva del lutto; l’intervallo – il buco nero – è la vita-non vita sugli aerei dirottati verso New York. E’ il conto alla rovescia di terroristi e passeggeri precipitati verso una morte tanto sicura quanto mostruosa nell’eguaglianza dei carnefici e delle vittime. Nel racconto su Anne, il prima è l’evoluzione storica che fa di una famiglia di tedeschi niente più che quattro pezzi (come i nazisti chiamavano gli ebrei) destinati alle camere a gas; il dopo è la decisione di Otto Frank, unico sopravvissuto, di dedicare il resto della sua esistenza e una diffusione planetaria del diario della figlia; l’intervallo – il buco nero – è la vita di Anne e Margot nel lager. E’ il loro precipitare inesorabile verso la condizione di vittime totali: tanto inermi quanto inette, fatalmente votate alla morte (musulmani, nel gergo di Auschwitz).
Ci voleva coraggio, per dare voce e lineamenti a un’Anne Frank tanto diversa da quella che tutti noi serbiamo dentro gli occhi della memoria. Ci voleva coraggio per rappresentarla come Jacobson e Colón hanno accettato d rappresentarla qui, in disegni che pure ci porteremo dietro a lungo.
Eccola la Anne di Auschwitz, la bambina che a Prinsengracht 263 era cresciuta nel corpo come nella mente, e che aveva vissuto con un compagno di clandestinità, il giovane Peter, il suo primo idillio amoroso. Eccola, inguardabile e indimenticabile, nella sua condizione di “musulmana”.
Valgano anche per lei le parole (insieme, un monito e una preghiera) poste da Primo Levi all’inizio di Se questo è un uomo:

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
" (da Sergio Luzzatto, Anne in graphic biography, "Il Sole 24 Ore Domenica", 23/01/'11)

sabato 29 gennaio 2011

E' formidabile! Ma chi lo legge?


"Esistono grandi libri illeggibili, e grandi libri non molto letti. Una sera da Rosati, nella via Veneto di Flaiano, primi Anni Cinquanta, due giovani giornalisti, uno calabrese uno toscano, fingevano di conoscere La recherche, e di averla trovata noiosa. «Si ripete ...» dicevano. A un tavolo vicino il critico teatrale Sandro De Feo, un proustiano doc, drizzò le orecchie. «Non sapete di cosa state parlando» si inserì. E cominciò a fare loro domande. «Vediamo un po’, come si chiama la duchessa de Guermantes?», «Chi è la zia del baron de Charlus?». I due farfugliarono, si impappinarono. Alla fine il toscano, che era il più sincero, confessò: «O Sandro ... ’un s’ebbe tempo!»
Be’, non tutti hanno letto Proust, ma oggi non esiste lettore acculturato che non abbia perlomeno gli strumenti onde fingere convincentemente di averlo fatto. Lo stesso si può dire per il più famoso libro di James Joyce, altro pilastro del rinnovo del romanzo nel Novecento. Quando Ulisse uscì con enorme risonanza fu anche un successo di scandalo, e la sua pubblicazione negli Stati Uniti (se è per questo, anche nell’Irlanda patria dell’autore) fu severamente proibita. Molti intellettuali protestarono, e in prima fila si distinse il giovane ma già celebre Hemingway, che ne importò personalmente di contrabbando e diffuse molte copie. Peccato che la sua, ritrovata dopo la morte, fosse rimasta intonsa tranne le prime poche pagine.
Anche Ulisse può essere una lettura ardua, e forse la maggior parte degli acquirenti del romanzo si arrende durante il percorso, salvo saltare al fatidico finale col monologo di Molly Bloom. Diverso il discorso per Finnegans Wake, alla stesura del quale Joyce dedicò sedici anni, dichiarando che sarebbe stata l’ultima impresa della sua vita artistica. Rispetto ai pur ardui libri appena citati - Ulisse per la tortuosità, la Recherche per la mole - Finnegans Wake presenta l’ostacolo ulteriore e pressoché insormontabile della lingua in cui fu scritto, lingua che pur partendo dall’inglese, sia pure con accento irlandese, è poi un impasto di neologismi inventati da Joyce attingendo sia alla sua insaziabilità di autodidatta, sia al suo talento di poliglotta. Joyce sapeva infatti moltissime lingue. Prima dei vent’anni, per esempio, si era studiato da solo il norvegese allo scopo di comprendere meglio Ibsen, e in quella lingua aveva scritto una lettera ammirata al grande drammaturgo, il quale gli aveva risposto scambiandolo per un vecchio accademico. Nella Trieste asburgica si era trovato a contatto con un crogiolo di etnie dal quale aveva appreso una moltitudine di idiomi.
Ora, esistono in letteratura libri scritti in lingue segrete, o addirittura inventate. Al tempo in cui nell’Iran regnava lo scià e si promuovevano festival internazionali, il poeta Ted Hughes scrisse per Peter Brook un testo intitolato Orghast da rappresentare sulle rovine di Persepoli, appunto in una lingua fatta solo di sonorità; il pubblico doveva capire l’azione come quando si va a teatro all’estero, riconoscendo i significati dalla musicalità dei fonemi. Non veniva fornita, né esisteva, una spiegazione.
Anche nella sua operazione matta e disperatissima Joyce vuole che il lettore capisca; ma a costo di risalire all’origine di tutte le sue invenzioni, parola per parola. Il primo a corredare di chiose puntuali anche se non esaurienti quello che veniva scrivendo, fu proprio lui. Dante - mettiamo - espone il suo sistema - la sua cultura, la sua cosmologia, la sua religione - per così dire, li porge. Va verso il lettore. Joyce fa il contrario. Il lettore deve andare da lui, e sviscerare quanto lui gli fa solo balenare.
Intendiamoci, la sua creazione non si esaurisce nella lingua. Nell’introduzione al primo volume della traduzione di Luigi Schenoni, uscito nell’ormai lontano 1982, Giorgio Melchiori sintetizzò mirabilmente le pazienti esplorazioni di molti esegeti, mostrando la complicata eppur limpida simmetria che organizza gli innumerevoli episodi della vicenda (questa di per sé sarebbe semplice, la notte e i sogni del protagonista H. C. Earwicker), con un fittissimo tessuto di simboli e allusioni e richiami.
Pesante come svago, poco utile come oggetto di studio (quale allievo è in grado di leggerlo, quale docente di spiegarlo adeguatamente?), Finnegans Wake ha tuttavia sempre trovato appassionati che non si sono stancati di interrogarlo. Tra questi in Italia spicca Luigi Schenoni, venuto purtroppo a mancare senza terminare l’eroica fatica di tradurlo, oggi giunta a un quarto volume. Ma non di tradurlo in una lingua «normale», così da consentire di leggerlo come con una versione interlineare. Schenoni ha voluto riprodurre per il lettore italiano l’effetto che Finnegans Wake produce sul lettore anglofono. Lì l’inglese, come si diceva sopra, è la base, ma ci sono richiami ad altre lingue (ne sono state individuate 47), più innumerevoli parole composte, come la sempre citata «meanderthale», dove convivono i significati di meandro più «tale», storia - storia-labirinto - ma anche di Neandertal, con richiamo alle origini della lingua stessa. Schenoni dunque reinventa, sulla traccia dell’originale, arrivando a frasi come «Halloggio di chiamata è tutto il loro evenpane, sebbene la sua cartomanza abbia un’allucinazione come un’erezione di notte ...», che poi spiega in un corpo di note lungo il triplo del testo stesso. Come Joyce, non pensa tanto al fruitore, quanto a cimentarsi con la propria ossessione. Joyce ha eretto un monumento all’impossibilità di procedere oltre nella strada del romanzo, costruendo un romanzo totale e definitivo, in cui tutto lo scibile e la stessa favella sono rielaborati come in una nuova Babele di unione anziché di disgregazione. Condividendo la sua orgogliosa solitudine, Schenoni la fa sentire meno arrogante e più umana." (da Masolino D'Amico, E' formidabile! Ma chi lo legge?, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/01/'11)

venerdì 28 gennaio 2011

La biblioteca sociale


"Nello Stato di New York l'80% delle biblioteche pubbliche dichiara di svolgere anche attività di sostegno ai disoccupati in cerca di lavoro. I tavoli delle «library» diventano l'ufficio provvisorio di chi ha perso l'impiego, i computer e le connessioni gratuite a Internet il canale per presentarsi ai possibili datori di lavoro. Spesso con l'aiuto di volontari: professionisti che nelle ore libere vanno ad aiutare i disoccupati insegnando loro come si costruisce un curriculum o quali sono gli errori da non commettere quando ci si presenta in azienda per un colloquio. Nel Maine i fondi del «pacchetto» di stimoli fiscali anticrisi del presidente Obama sono stati utilizzati anche per finanziare corsi di aggiornamento professionale che spesso si svolgono proprio nelle biblioteche pubbliche. Che in Minnesota sono, invece, divenute il principale polmone dell' integrazione culturale delle comunità di immigrati nella società americana: «latinos», vietnamiti, somali, hmong (un popolo che ha le sue radici nella penisola indocinese e nel sud della Cina) frequentano abitualmente le biblioteche di Minneapolis dove possono leggere online il «Times» di Mogadiscio, consultare i siti Internet delle loro comunità di origine, compilare i documenti necessari per regolarizzare la loro posizione o per avere accesso ai servizi pubblici con l'aiuto di volontari e degli stessi bibliotecari. Che organizzano anche corsi d'inglese per i figli degli immigrati, attratti nelle biblioteche pubbliche con l'esca di qualche playstation messa a loro disposizione. Le biblioteche americane reagiscono allo sviluppo delle tecnologie digitali e alla diffusione dell' informazione online che le sta lentamente uccidendo inventandosi nuovi mestieri che trasformano sempre più questi austeri fari della cultura, silenziose cattedrali del sapere, in «community center». Apparentemente l'operazione sta avendo un certo successo visto che, nonostante il continuo calo del numero dei libri consultati o presi a prestito, secondo uno studio della fondazione filantropica di Bill e Melinda Gates, nel 2009 il 69% degli americani ultraquattordicenni ha varcato il portone di una biblioteca pubblica. Che però, nota Nicholas Carr - esperto di tecnologia ma anche coscienza critica della cultura internettiana - è ormai un luogo nel quale il rumore delle pagine sfogliate è stato sostituito da quello del ticchettio sulle tastiere dei «desktop». Vero. Anzi, è il luogo vivace nel quale rimbombano sempre più anche voci e risate. Un'istituzione che, insieme all'attività tradizionale di consultazione dei testi, offre i servizi più impensati in un Paese a corto di strutture pubbliche di accoglienza: dal «doposcuola» dove i ragazzi fanno i compiti e giocano in attesa che i genitori tornino dal lavoro fino, addirittura, all'ospitalità degli homeless. Sono ormai molte, da San Francisco alla Florida, le biblioteche che non solo forniscono (durante il giorno) un riparo ai senzatetto, ma organizzano per loro cineforum o, come avviene alla Mecklenburg Library di Charlotte, in North Carolina, veri e propri «book club». Nulla di rivoluzionario: il Primo Emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce a tutti libero accesso a ogni tipo di informazione, vieta di selezionare gli utenti, un comportamento che verrebbe bollato subito come discriminatorio. Ma una legge federale autorizza i bibliotecari a imporre alcune regole minime di comportamento e loro la usano per spingere gli homeless a curare l'igiene personale e a non infastidire gli altri cittadini che si servono della struttura pubblica. La gente deve poter continuare ad andare in biblioteca senza il timore di essere infastidita: deve sapere che la «library» è un luogo di solidarietà che può visitare senza dover temere di ritrovarsi in sale maleodoranti o di subire l'aggressione di un ubriaco. La Central Library di Madison, in Wisconsin, che sta conducendo una ristrutturazione da trenta milioni di dollari, ha ripensato la sua architettura - dalla disposizione e dalla forma dei sedili alla struttura e collocazione dei bagni - proprio sulla base delle esigenze di chi vive in strada. La trasformazione in atto in qualche caso è favorita dalle autorità locali che non dispongono di altre strutture sociali per cercare di riavvicinare i disoccupati al mercato del lavoro e per gestire l'integrazione delle comunità di immigrati nella società americana. Nella maggior parte dei casi, però, il fenomeno è spontaneo: i bibliotecari si rimboccano le maniche per cercare di individuare un nuovo ruolo, una loro nuova utilità sociale, prima di finire anch'essi nella lista dei disoccupati. Come nel resto dell'Occidente che sprofonda nel dissesto delle sue finanze pubbliche, anche negli Usa le «cattedrali della lettura» sono in crisi: prima di ridursi a licenziare poliziotti, pompieri e maestri, i municipi fanno cadere la scure sui bibliotecari. Tanto più che, tra diffusione degli ebook e Google che ha già digitalizzato e messo online dieci milioni di volumi, spesso non serve più consultare il libro di carta: andando su Internet è facile trovare tutto l' essenziale. E infatti il numero dei volumi presi in prestito cala ovunque (meno 6%, in media). Nella sola Public Library di New York nel 2009 sono stati ritirati un milione di libri in meno. Eppure, come detto, le 123 mila biblioteche degli Stati Uniti oggi appaiono più affollate che in passato. O meglio, le volte gotiche delle sale di lettura sono spesso semivuote, ma i sotterranei, sempre più spesso attrezzati con «desktop» e playstation, sono un formicaio. La spiegazione sta proprio nella rapida trasformazione di questi luoghi in centri sociali che, oltre a dispensare cultura, offrono vari servizi, a partire dall' assistenza a chi cerca lavoro. Le domande di impiego, ormai, si fanno online, ma più di un terzo della popolazione non ha un computer o non ha, comunque, accesso a Internet. Per risparmiare, molti hanno perfino disdetto l'abbonamento alla tv via cavo. Nella biblioteca queste persone trovano un posto caldo, sempre aperto, con schermi ad alta definizione e i «desktop» che garantiscono l'accesso gratuito alla rete: si può lavorare o semplicemente socializzare mentre si guardano i programmi della tv cable. I bibliotecari, poi, hanno imparato ad aiutare queste persone a preparare un curriculum o una domanda di assunzione. L'anno scorso in tutti gli Stati Uniti le «library» hanno gestito trenta milioni di richieste di lavoro (un milione e 700 mila sono andate a buon fine) e hanno ospitato corsi di aggiornamento professionale per quasi sette milioni di americani. Con i governi locali sempre più in crisi e la bancarotta che minaccia municipi e Stati come Michigan e California, cresce la pressione per tagli massicci di spesa accompagnati dall'abolizione di strutture considerate ormai inutili. E tra queste, molti cominciano a includere anche le biblioteche. Capita, ad esempio, di sentirne parlare da esponenti dei Tea Party, la destra radicale che ha alzato il vessillo del taglio della spesa pubblica e del ritiro dello Stato dalla vita dei cittadini. Ma molti, anche a livello di governo, resistono a questa pressione: ritengono che un presidio culturale pubblico sia necessario anche in un periodo di crisi economica e in presenza di una rivoluzione digitale che va assecondata facendo della biblioteca una casa della tecnologia. Un luogo nel quale si prova anche ad assecondare l'evoluzione dei gusti dei giovani che tendono a saltellare da una lettura all'altra senza soffermarsi quasi mai a lungo su un unico testo e che magari acquisiscono qualche «skill» professionale più alla console dei videogiochi che immergendosi in un manuale. Ovviamente gli scettici non mancano: «Se volete riempire sale di lettura poco frequentate con tavoli da ping pong e giochi elettronici, fate pure. Organizzate anche tornei di poker se volete. Ma non pretendete di continuare a chiamare quei luoghi biblioteche pubbliche», protesta Michael Godman, ex presidente dell'American Library Association. «L'argomento secondo il quale i ragazzi vengono da noi per divertirsi coi videogame e poi pensano "già che sono qui quasi quasi prendo a prestito quel libro di Dostoevskij", a me pare semplicemente ridicolo». Ma i più ritengono che non ci sia nulla di male a integrare la funzione tradizionale della biblioteca con l'offerta di nuovi servizi: gli utenti tradizionali non ne sono danneggiati e l'istituzione culturale viene utilizzata meglio. «E poi la vecchia biblioteca basata solo sui libri», dice Romina Gutierrez, responsabile dello sviluppo tecnologico della "public library" di Princeton, «era un luogo passivo. Oggi le biblioteche devono essere luoghi che vivono e respirano, che cambiano ogni giorno». Luoghi in cui la creatività degli individui può prendere pieghe mai pensate prima.
Succede, ad esempio a Rangeview, in Colorado, dove, alcuni dei bibliotecari più innovativi d'America, dei veri visionari, hanno aperto perfino una scuola di giardinaggio che svela a chi la frequenta l'arte del landscaping, e un laboratorio musicale nel quale gruppi di giovani di talento producono opere rock basate sulle storie di Harry Potter. Ma il vero interesse dei politici è quello di fare delle biblioteche un polmone per la gestione di problemi sociali che una nazione con strutture di assistenza e accoglienza molto limitate ha pochi modi per affrontare. E le questioni sulle quali si concentra la loro attenzione riguardano una disoccupazione di lungo periodo che per la prima volta si sta cronicizzando anche negli Usa, come già accade da molto tempo in Europa e, soprattutto, l'assimilazione degli immigrati. Davanti all'esercito dei lavoratori stranieri - regolari e non - quasi sempre sospettosi dell'autorità costituita, la «library» si offe come una struttura «neutra», pubblica ma non percepita come un luogo di sorveglianza governativa, alla quale l'immigrato in difficoltà si rivolge con una certa fiducia. E dove, sempre più spesso, trova la possibilità di frequentare corsi gratuiti d'inglese o viene istruito sulle procedure da seguire per avanzare su un percorso di naturalizzazione o per ottenere la cittadinanza americana. Quello che veramente manca ancora alla «public library» Usa in questa complessa transizione è una partnership con imprese private capace di funzionare anche da polmone economico, soprattutto ora che è più difficile ottenere contributi pubblici. In passato il partner naturale delle biblioteche erano le case editrici ben felici di sostenere, magari fornendo copie-omaggio, enti pubblici che finivano per funzionare anche da loro struttura promozionale. Nell'era digitale tutto cambia: gli editori sono molti più guardinghi e qualche volta trascinano addirittura in tribunale le biblioteche che distribuiscono copie digitali non autorizzate dei testi da loro pubblicati, infrangendo così il copyright. Molte biblioteche sono corse ai ripari rivolgendosi a società private come OverDrive Inc attraverso il cui software è possibile acquistare un certo numero di copie digitali di un libro. Chi lo prende a prestito riceve sul suo computer il file digitale del volume che si autocancella dopo due o tre settimane. Vale, ovviamente per le opere coperte da copyright, solo poche migliaia delle quali sono attualmente disponibili in versione digitale, mentre sono liberamente accessibili i dieci milioni di libri non più vincolati al diritto d'autore, scannerizzati da Google e inseriti nella sua biblioteca digitale. Nell'era di Internet a sostenere le biblioteche dovrebbero essere, al posto degli editori, le grandi industrie delle tecnologie informatiche. Oltre il 70% degli americani vive, infatti, in comunità per le quali la biblioteca pubblica rappresenta l'unica possibilità di accesso gratuito ai computer e a Internet. Finora, però, solo la Sony - il precursore dei lettori per ebook anche se ora è stato in parte spiazzato dai Kindle di Amazon e dagli iPad della Apple - ha provato a percorrere la strada di una partnership pubblico-privata lanciando il Sony Reader Library Program per aiutare le biblioteche ad allargare la loro offerta di servizi tecnologici agli utenti." (da Massimo Gaggi. La biblioteca sociale, "Corriere dela Sera", 23/01/'11)

mercoledì 26 gennaio 2011

Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz


"Un tredicenne che si trova gettato nella bocca dell'inferno, solo e senza istruzioni. È un tema adatto a uno scrittore dell'orrore dalla fantasia perversa. Ma è esattamente la sorte toccata a Thomas Geve, un bambino ebreo di Stettino deportato ad Auschwitz nel 1943. Thomas era vissuto con la mamma e i nonni, esercitando gli unici mestieri possibili per un ebreo come lui, il giardiniere e il becchino. Il padre, espatriato a Londra, faceva vani tentativi per richiamare a sé i suoi cari. Ad Auschwitz, Thomas fu deportato con la madre, che resistette pochi mesi al lavoro forzato. In base alle norme vigenti nel Lager, tutti i bambini inferiori ai quattordici anni (e tutti i vecchi) venivano mandati direttamente alle camere a gas. Thomas, sottratto al forno crematorio perché giudicato robusto, costituì dunque un'eccezione. E a quest'eccezione allude il terribile titolo dell'opera di Thomas Geve, Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz (traduzione di Margherita Botto, Einaudi).
Libro straordinario perché sulla sua esperienza di bambino c'informa, soprattutto, con i disegni.
Infatti, dopo la liberazione da parte degli alleati (Thomas era finito a Buchenwald, in seguito all'evacuazione di Auschwitz), nei quindici giorni di convalescenza Thomas si procurò carta, matite colorate e acquerelli, e gettò giù in fretta settantanove disegni, con spiegazioni in tedesco che documentano con esattezza architettura e organizzazione del Lager, ma anche il funzionamento interno, i tipi di lavoro, i regolamenti disciplinari, i problemi igienici, l'alimentazione. Tutto questo per comunicare al padre, poi finalmente raggiunto, come aveva passato i due anni di prigionia. I disegni di Thomas trovarono scarso interesse, e solo quarant'anni dopo, depositati allo Yad Vashem di Gerusalemme, città nella quale Thomas abita dal 1950, hanno cominciato a circolare con una mostra itinerante e poi in pubblicazioni parziali. Questa è la prima completa.
Sarebbe frivolo affrontare questi disegni come opere d'arte. Ben più importante notarvi i segni di una dura esperienza, l'attenzione alle misure, agli spazi, alle prospettive di un mondo artificiale e perverso che il ragazzo viene a conoscere e cerca di memorizzare. Le baracche realizzano e contengono i mezzi per una tortura implacabile; il filo spinato è reclusione e insieme assassinio; le fognature propongono sogni di evasione; gli orari sono un cilicio per il tempo, e le annotazioni non attenuano nulla: «Nel reparto di chirurgia i detenuti venivano semplicemente legati e poi operati senza anestesia. Da quel luogo uscivano grida barbare». C'è persino lo schema delle camere a gas.
Ma Thomas ha un orizzonte morale maturo: sente pietà per i deportati zingari, capisce la vergogna delle prostitute al servizio del comando militare, non certo dei detenuti, fa amicizia con qualche altro ragazzo, ma spesso li vede morire; le canzoni dei deportati lo commuovono sempre più intensamente. Date le misure ristrette delle illustrazioni, i personaggi di Thomas sono tutti omini, ma non sfuggono all'occhio attento né i lavori inutili, né la caccia ai pidocchi, né gli espedienti per trovare un tozzo di pane in più, né le bastonature o le impiccagioni. Sullo sfondo i canti dei deportati, e le marce militari degli aguzzini. Gli omini di Geve ricordano a volte, certo per caso, Klee. E alla fine le sorprendenti qualità artistiche di Thomas non possono più essere taciute. Se ossessionano le file di vagoni e di baracche che Thomas rappresenta, altre volte sintetizza in pochi riquadri minacciosi i temi di questa sopravvivenza disperata, oppure costruisce figure a schema circolare che rispecchiano la coerenza criminale del disegno realizzato con il Lager. Memoria e giudizio vengono a coincidere." (da Cesare Segre, Nell'inferno di Auschwitz c'è un bambino che disegna, "Corriere della Sera", 25/01/'11)

martedì 25 gennaio 2011

I libri sterilizzati


"«Tutta la letteratura americana moderna», ha scritto Ernest Hemingway, «discende da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn ». L'essere un classico per antonomasia non ha risparmiato Le avventure di Huckleberry Finn dall'essere proibito, espurgatoe censurato a colpi di bip. Non ha protetto il romanzo dall' essere ripulito, aggiornato e "migliorato". L'ultimo tentativo di bonificare Huckleberry Finn viene da Alan Gribben, professore di inglese alla Auburn University di Montgomery, in Alabama, il quale ha curato una nuova edizione del romanzo di Twain in cui la parola "nigger" (negro) è sostituita dalla parola "slave" (schiavo). Il termine "nigger", che nel libro compare più di 200 volte, era un epiteto razziale comune negli stati del Sud prima della guerra di secessione e Twain lo usa come facente parte del gergo dei suoi personaggi, ma anche come riflesso degli atteggiamenti sociali esistenti sulle rive del Mississippi alla metà del XIX secolo (...). E' scontato che su Huckleberry Finn scoppino puntualmente delle controversie. Nel 2009, poco prima dell'insediamento di Barack Obama, il Seattle Post-Intelligencer pubblicò l'articolo di un insegnante di scuola superiore, John Foley, il quale asseriva che Huckleberry Finn, Il buio oltre la siepe e Uomini e topi non dovrebbero più rientrare nel curriculum scolastico (...). Non abbiamo ancora imparato che togliere dei libri dal curriculum serve soltanto a impedire che gli studenti entrino in contatto con i classici della letteratura? Peggio ancora, solleva gli insegnanti dalla responsabilità fondamentale di collocare questi libri nel loro contesto; di aiutare gli studenti a capire che Huckleberry Finn, in realtà, rappresenta un formidabile atto d'accusa contro lo schiavismo (di cui il negro Jim è il più nobile protagonista). Censurare o correggere i libri da leggere nelle scuole è una forma di negazione: è chiudere la porta su realtà storiche dure, abbellirle o fare finta che non esistano. Il tentativo del professor Gribben di aggiornare Huckleberry Finn, come l'affermazione del professor Foley che si tratta di un libro vecchio e che "siamo pronti per cose nuove", ratifica la convinzione narcisistica contemporanea che l' arte debba essere inoffensivae accessibile; che i libri, le opere teatrali e la poesia di altri tempi e luoghi debbano, in qualche modo, rendersi conformi agli ideali democratici odierni. E' ciò che avvenne con i tentativi politically correct degli anni Ottanta di esiliare dal canone letterario grandi autori come Conrad e Melville perché nelle loro opere non ci sono abbastanza donne o perché vi si proiettano atteggiamenti colonialisti. I testi originali degli autori dovrebbero essere una proprietà intellettuale sacrosanta, che un libro sia un classico o meno. Manomettere le parole di uno scrittore mette in evidenza la straordinaria arroganza dei curatori e l' atteggiamento superbo adottato da un numero sempre maggiore di persone in questi tempi di ibridazioni, campionamenti e libri digitali, un atteggiamento secondo il quale tutti i testi sono intercambiabili, e quindi i lettori hanno il diritto di alterarli a loro piacimento, perché l' idea stessa della paternità letteraria è passata di moda. I tentativi di bonificare la letteratura classica hanno una lunga e mediocre storia. Dai Racconti di Canterbury di Chaucer a La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl, tutto è stato messo in discussione o ha dovuto subire i rimaneggiamenti di curatori ansiosi. Ci sono state perfino versioni purificate della Bibbia (tutto quel sesso e quella violenza!). A volte, la voglia di espurgare (se non di vietare totalmente) viene dalla destra, dal mondo evangelico e conservatore, preoccupato delle bestemmie, del linguaggio profano e delle allusioni sessuali. In altri casi, la spinta a bonificare viene dalla sinistra, desiderosa di imporre la propria visione del mondo femminista e multiculturale e preoccupata di non offendere gruppi etnici o religiosi. La versione cinematografica del Mercante di Venezia di Michael Radford, uscita nel 2004 (con Al Pacino nel ruolo del protagonista), ha rielaborato l'opera offrendo uno Shylock più gentile e compassionevole e smussando le domande difficili sull'antisemitismo. In modo ancora più assurdo, una compagnia teatrale britannica, nel 2002, ha cambiato il titolo del suo allestimento di Il gobbo di Notre Dame in Il campanaro di Notre Dame.
Che vengano dai conservatori o dai liberali, c'è un aspetto paternalistico da Grande Fratello. Noi censori dobbiamo proteggerti, delicato e sprovveduto lettore. Noi curatori dobbiamo sorvegliare gli scrittori (perfino quelli di altri tempi), che potrebbero aver scritto cose offensive per qualcuno in un dato momento. Come ha scritto nel 1969 Noel Perrin, nel suo libro Dr. Bowdler's Legacy: A History of Expurgated Books in England and America, i vittoriani spiegavano la propria avversione per le opere pittoresche e disinibite di autori come Laurence Sterne e Henry Fielding invocando il principio del "progresso morale" e la propria superiorità etica: "Nel XVIII secolo e ancor prima, la gente non si offendeva per certi brani volgari perché era volgare essa stessa". Nel 1807, Thomas Bowdler - medico inglese al cui nome si ispira il verbo bowdlerize (espurgare) - pubblicò con sua sorella la prima edizione di uno Shakespeare espurgato, a suo parere più adatto a donne e bambini dell' originale, con il suo linguaggio licenzioso e i suoi volgari doppi sensi (...). Questo è l'equivalente accademico del puritano Ed Sullivan che, nel 1967, costrinse i Rolling Stones a cantare "Let's spend some time together" invece di "Let's spend the night together". O di Cole Porter che, in "I Get a Kick Out of You", dovette cambiare "cocaine" con "perfume in Spain". A volte gli scrittori sono spinti a usare degli eufemismi dagli editori. Rinehart& Company persuase Norman Mailer a usare "fug" invece di "fuck" nel suo romanzo Il nudo e il morto del 1948. In seguito, Mailer disse che quell'incidente lo mise in "un grande imbarazzo". L'agente letterario di Tallulah Bankhead avrebbe raccontato ai giornali, infatti, che gli disse: "Oh, salve, lei è Norman Mailer? Lei è quel giovanotto che non conosce l'ortografia". Alcuni anni dopo, la Ballantine Books pubblicò una versione espurgata di Fahrenheit 451, il famoso classico di fantascienza di Ray Bradbury sulla messa al bando dei libri, in cui erano state cancellate parole come "inferno" e "aborto"; Bradbury ci mise 13 anni ad accorgersene e pretese il ripristino della versione originale. Per quanto sia difficile immaginare una compagnia teatrale odierna che usi uno degli adattamenti di Shakespeare realizzati da Bowdler, assistiamo a un ritorno dei poliziotti del linguaggio. Non solo con un Huckleberry Finn espurgato, ma anche con tentativi politici di porre un freno al linguaggio riprovevole. L'anno scorso, è apparsa sul Boston Globe la notizia che i legislatori, in California, hanno votato e poi rinviato una risoluzione che stabiliva la settimana senza parolacce; che nella Carolina del Sud si è discussa una legge radicale contro la bestemmia e che dei gruppi conservatori, come il Parents Television Council, si sono lamentati per le volgarità che si insinuano negli spettacoli dei network televisivi in fasce orarie protette. Tuttavia, anche se James V. O'Connor, autore del libro Cuss Control (Il controllo della parolaccia), sostiene che la gente può e deve trovare delle parole sostitutive, perfino il suo sito web concede una "licenza poetica" a Rhett Butler in Via col vento. "Francamente, mia cara, non me ne importa un cavolo"? Questo non si dice!" (da Michiko Kakutani, I libri sterilizzati. Da Twain a Mailer, storia delle censure, "La Repubblica", 24/01/'11; traduzione di Luis E. Moriones)


Light Out, Huck, They Still Want to Sivilize You (NewYorkTimes)

sabato 22 gennaio 2011

Visitare Auschwitz


"Perché la memoria? Perché Auschwitz? Per rispondere a questi interrogativi mai esausti, niente di più tempestivo che Visitare Auschwitz, un libro che esce da Marsilio e che nasce in forma di guida dall’officina di due studiosi e divulgatori della Shoah come Carlo Saletti e Frediano Sessi. Meno noto Saletti, anche se il suo nome corre tra i cultori della materia - da solo e in compagnia - in libri come Il cinema di fronte ad Auschwitz, La voce dei sommersi, Testimoni della catastrofe. Più noto Sessi, che ha portato in Italia per Einaudi l'edizione definitiva del Diario di Anna Frank, ha curato l'edizione del Diario di David Sierakowiak, ha pubblicato da Rizzoli un precedente e grosso «invito» ad Auschwitz, ha tradotto l'opera di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, ha scritto per ragazzi e per adulti, ha frugato angoli bui e riposti della storia d'Italia, cercando di portare a galla una verità che sfugge a tutti gli usi meramente strumentali. E infine, lavorando perché la Shoah non venga dimenticata, si è interrogato sul valore della memoria, sulla sua natura complessa e problematica.
Il vostro è un libro che viene di lontano.
«Direi proprio di sì. Nasce da un lavoro di sei anni e da una competenza scientifica sui materiali di quello che chiamiamo complesso concentrazionario. Siamo partiti dalla consapevolezza che i viaggi della memoria puntano spesso sul sentimento, sull’empatia, ma che così facendo non raggiungono lo scopo. Non il sentimento facile, ma è la conoscenza che occorre incrementare».
In un suo resoconto risalente a tre anni fa, «Domani niente scuola, un viaggio tra gli adolescenti raccontato da un ‘’infiltrato”», Andrea Bajani iniziava così un capitolo su dei ragazzi in visita a Mauthausen: «Ho capito che un campo di sterminio nazista, in gita di classe, non si nega a nessuno».
Voi parlate di «turismo della memoria», di «turismo concentrazionario». Soltanto ad Auschwitz 1.300.000 persone l'anno. «Nonostante i tanti limiti, resta un'utilità di fondo, e la giornata della memoria vi contribuisce. Intanto perché ha favorito e favorisce la diffusione di pubblicazioni importanti anche in Italia. E poi perché ha attivato molti istituti di storia e universitari sul tema della Seconda guerra, fascismo, Olocausto (vorrei ricordare ad esempio il bellissimo Master sulla didattica della Shoah a Roma Tre diretto da David Meghnagi). Certo le ombre sono molte, perché a volte si fa di Auschwitz un luogo cerimoniale e retorico. Molti gli errori di prospettiva e diffusa l'incapacità di spingere a una riflessione sul presente».
Comunque stiano le cose, Auschwitz resta l'universo concentrazionario più significativo.
«Senza dubbio, perché racchiude in sé tutto l'universo concentrazionario: un campo di lavoro coatto (Monowitz, che era poi il campo di Primo Levi), il campo di punizione e rieducazione (Auschwitz 1), il campo di sterminio (Birkenau). E poi altri 47 sottocampi. Un'estensione di ben 40 km quadrati. Nel pensiero nazista, una vera e propria regione concentrazionaria. Ma nata per addizioni, piano piano, a poco a poco. Tutto questo dà l'idea di una mente umana del tutto normale. Non viene fuori il mostro, una facile scorciatoia che sposta Auschwitz - follia e orrore - sul piano dell’umana cattiveria. Se vedi solo il mostro, dici: com’è cattivo l'uomo. Se guardi al progresso dell’insieme ne intendi meglio la complessità».
Nelle note «sull’utilizzo del libro», voi parlate non solo di lettura lineare, ma anche di lettura rapsodica. Ciò significa che è possibile leggere anche trasversalmente?
«La prima parte ristabilisce il contesto (torno a ricordare che ciò che si vede oggi si è costruito in diversi anni). Poi viene la sezione specifica che ci permette di capire particolare per particolare quanto si vede. Ma alla fine si possono scegliere strade diverse. Noi abbiamo voluto fare il punto della ricerca a oggi mettendo a fuoco le varie letture possibili sul piano storico e archeologico. Poi, sul piano memoriale, abbiamo voluto sottolineare la necessità di ripensare Auschwitz nelle varie letture che emergono dai padiglioni nazionali».
Ad esempio?
«Ad esempio, il Belgio ha rifatto già ben tre volte il suo padiglione alla luce dei modelli di memoria e ai cambiamenti che si sono succeduti nel tempo. I padiglioni dei Paesi comunisti prima del crollo del Muro di Berlino enfatizzavano soprattutto la forza antinazista del comunismo. L'Austria si presentava come vittima del nazismo escludendo ogni intenzione collaborazionista. Per chiudere, il padiglione dell’Italia - molto lacunoso ed emozionale - non è mai stato aggiornato. Se non si tiene conto di come le memorie si sono depositate e trasformate, il rischio è di deformare la prospettiva. Non solo archeologia e storia dunque, peraltro importantissime, ma anche riflessione sulle trasformazioni della memoria».
Lei vuole dire che si può restare prigionieri della memoria?
«Certo. Così come si può essere prigionieri della retorica. La memoria diventa un abuso. Non un'elaborazione, ma la conseguenza di un discorso che nega la responsabilità. Nel capitolo “Controversie e dispute memoriali” cerchiamo di fare appunto questo: liberare la documentabilità storica da tutte le ipoteche o incrostazioni di volta in volta ideologiche, politiche, religiose».
Resta che questo vostro libro mira a essere una guida, ricco com’è di cartine, di siti, di percorsi.
«Certo. Perché un luogo diventi parlante occorre conoscere e saper vedere. Soprattutto saper vedere dove adesso c'è il vuoto, dove le macerie e le pietre non parlano. Prendiamo il bosco di betulle di Birkenau. Quello è un luogo di tranquillità e di silenzio, dove spesso gli studenti e gli insegnanti fanno una pausa. Ma i laghetti e gli stagni sono le fosse comuni degli ebrei bruciati e il bosco di betulle era il luogo di attesa dove intere famiglie di ebrei indugiavano prima del Crematorio 4 e 5. Occorre vedere anche nel vuoto e nel silenzio».
C'è una stagione più adatta per visitare Auschwitz?
«L'inverno è la stagione peggiore, perché tutto è coperto da una coltre di neve e di ghiaccio. Meglio la primavera e l'autunno».
È provocatorio se penso ancora a Bajani che scrive: «Un'oretta e mezza di genocidi, guerra, scheletri, morti ammazzati, follia omicida, e se non c'è traffico alle undici saremo a Firenze»? «Certo è molto deludente. Ma proprio per questo abbiamo scritto la guida»." (da Giovani Tesio, Turisti ad Auschwitz?, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/01/'11)

venerdì 21 gennaio 2011

Discorso sulla matematica


"Nel suo celebre e surreale racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte, Borges proponeva di ravvivare la letteratura basandosi sulla tecnica dell´anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee: «Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l´Odissea come se fosse posteriore all´Eneide, e il libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventura i libri più calmi. Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l´Imitazione di Cristo, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?».
Borges va sempre preso seriamente, soprattutto quando sembra scherzare. Ha fatto dunque bene Gabriele Lolli a seguirne, consciamente o inconsciamente, il consiglio e a proporre nel suo ultimo e bellissimo Discorso sulla matematica. Una rilettura delle Lezioni americane di Italo Calvino. Lo dichiara esplicitamente nel sottotitolo. E lo mostra fin da subito nella prima pagina, che riproduce l´indice autografo delle Sei proposte per il prossimo millennio del grande scrittore, scomparso proprio mentre stava portandole a termine.
L´occasione di scriverle gli era stata fornita dall´Università di Harvard, che l´aveva invitato nel 1984 a tenere le prestigiose Norton Lectures: una serie di sei conferenze distribuite nel corso dell´anno accademico, e dedicate in senso lato alla "poesia". Calvino interpretò il termine liberamente, come "comunicazione poetica", e scelse come argomenti delle sue sei lezioni la leggerezza, la rapidità, l´esattezza, la visibilità, la molteplicità e la consistenza. Riuscì a completare le prime cinque, ma morì prima di poter scrivere la sesta. Le lezioni non furono dunque mai tenute e apparvero postume nel 1988, curate dalla moglie.
Ora, Calvino era uno scrittore particolarmente sensibile alla scienza e alla matematica. Negli anni ´60 si era trasferito a Parigi, aveva incontrato Raymond Queneau ed era entrato a far parte dell´Oulipo che questi aveva fondato: una singolare confraternita di letterati-matematici e matematici-letterati che perseguiva il triplice obiettivo di una scrittura che possedesse ed esibisse immaginazione scientifica, linguaggio logico e struttura matematica. Nelle Lezioni viene tessuta una trama di riferimenti e di connessioni che individuano le stesse caratteristiche in autori parascientifici appartenenti a quella che Calvino stesso definì «una linea di forza della letteratura», che va da Lucrezio a Borges passando per Ariosto, Galileo e Leopardi.
È dunque perfettamente sensato che Lolli abbia voluto rileggere Calvino alla Borges, andando a ricercare quegli stessi aspetti nella matematica invece che nella letteratura. Utilizzando, quindi, le stesse categorie delle Lezioni e applicandole a teoremi, dimostrazioni e paradossi matematici. Ad esempio i racconti noir di Léo Malet vengono accostati alla dimostrazione di "irrazionalità" della radice quadrata di 2 per spiegare come il tempo possa scorrere veloce. Al contrario nel Signore degli Anelli è lentissimo. Oppure: Hilbert si lega a Valéry, mentre dall´infinito di Cantor si può arrivare fino ad una citazione di Anthony Trollope. E d´altra parte cercando di capire l´insiemistica di Dedekind e Zermelo possiamo ritrovarci a leggere Kafka e Musil. Il risultato è un pezzo di bravura che intreccia le due discipline come i fili di un tappeto persiano, un fuoco d´artificio variopinto e scoppiettante che mostra con citazioni ed esempi com´esse siano in realtà due facce di una stessa medaglia, e si prestino perfettamente a parallele analisi strutturali ed estetiche.
Si tratta di un´opera sostanzialmente oulipiana, che soggiace alla costrizione formale di rileggere un libro di critica letteraria come se fosse un testo di filosofia della matematica. È sicuro che l´autore si sarà divertito molto a scriverlo: quanto al lettore, si divertirà anch´egli a leggerlo. E, se è un matematico, si morderà le dita per non aver pensato di fare la stessa cosa anche lui, prima dell´autore.
Oltre che alla lettera, il sentiero aperto da Lolli si può però ripercorrere anche nello spirito, costeggiandolo o allontanandosene a piacere. Ad esempio, si può ricordare che Calvino non fu né il primo, né l´ultimo italiano a ricevere l´onore di tenere le Norton Lectures. Nel 1992-93 toccò a Umberto Eco, che aprì con un doveroso omaggio a Calvino le sue Sei passeggiate nei boschi narrativi, dedicate a entrate e indugi nel bosco, esplorazioni di vari boschi reali o possibili, e indagini di strani casi e fittizi protocolli.
Volendo borghesizzare Eco, invece che Calvino, le cose si fanno più complicate. Ma è lo stesso Eco a suggerirci la via, scegliendo come uno dei boschi possibili un classico della divulgazione matematica quale Flatlandia di Abbott. Essendo in vena di imborghesimenti, però, tanto vale andare direttamente alla fonte. A Borges stesso, cioè, omaggiato sia da Calvino che da Eco, e pure lui autore di uno splendido ciclo di Norton Lectures nel 1967-68, su L´invenzione della poesia. I suoi argomenti, che vanno dal mistero alla metafora, dal racconto alla traduzione, dal pensiero al credo del poeta, sembrano fatti apposta. Ad esempio, non si adatta forse a entrambe le discipline l´affermazione che «la scoperta di un nuovo problema è tanto importante quanto la scoperta della soluzione di uno vecchio»? O che «non ci si deve preoccupare troppo delle definizioni»? O che «si usano parole comuni e le si rendono non comuni estraendone la magia»? O che «le parole sono un´algebra di simboli»?
Ma perché non rileggere anche la musica in chiave matematica? In fondo, già Pitagora parlava di armonia del mondo e della musica delle sfere. Volendo restare nell´ambito delle Norton Lectures, che sono state tenute da musicisti che vanno da Igor Stravinsky nel 1939-40 a Luciano Berio nel 1993-94, il ciclo che forse più attira l´attenzione è quello di Leonard Bernstein nel 1973-74.
Già il titolo, La domanda senza risposta, è una metafora del teorema di Godel e rimanda direttamente ai suoi enunciati indecidibili. Ma il resto non è da meno: non sorprendentemente, visto che l´intero ciclo di conferenze di Bernstein era già, a sua volta, una borghesizzazione di Linguaggio e mente di Noam Chomsky. Le prime tre conferenze, sulla fonologia, la sintassi e la semantica, corrispondono semplicemente alle tre divisioni logiche del linguaggio. Le due successive, sull´ambiguità e la crisi del ventesimo secolo, richiamano i paradossi e la crisi dei fondamenti. L´ultima, infine, sulla poesia della terra, non è altro che una riformulazione dei motti pitagorici.
Volendo, dunque, il ciclo di Bernstein potrebbe costituire una base per una rilettura dell´intera logica. Chissà, forse questo potrebbe essere il prossimo libro di Lolli, che è appunto uno dei più titolati logici italiani. Per ora, godiamoci il suo Discorso sulla matematica (Bollati Boringhieri)." (da Piergiorgio Odifreddi, I numeri della letteratura. Quando la matematica ci aiuta a leggere Kafka, "La Repubblica", 21/01/'10)

mercoledì 19 gennaio 2011

Dove andremo a finire


"Anticipiamo un brano del dialogo tra Umberto Eco e Alessandro Barbano contenuto nel libro Dove andremo a finire (Einaudi): otto interviste ad altrettanti intellettuali italiani (da Giuliano Amato a Umberto Veronesi, da Nicola Cabibbo a Sergio Romano) che raccontano quello che ci aspetta nei prossimi vent'anni sul piano politico, sociale, economico e culturale. iamo a un congresso intergalattico di studi archeologici per discutere le vestigia di quella civiltà che fiorí nella penisola italica prima della catastrofe del 2020 dell'èra antica.
A suscitare l' interesse dei partecipanti è il fatto che nella criptobiblioteca italiana non si rinvengano opere di alcun valore letterario risalenti ai due o tre decenni precedenti all'esplosione, dopo la pubblicazione di un romanzo certamente famoso, poiché ritrovato in decine di copie, intitolato Il nome della rosa.

Tra il 1980 e il 2020 la letteratura italiana è andata incontro a un processo di estinzione? «Questa domanda parafrasa l'inizio di una mia parodia, pubblicata su Diario minimo nel 1961, nella quale gli archeologi vissuti dopo la terribile esplosione trovavano i testi delle canzonette degli anni Cinquanta e le interpretavano come i vertici della poesia del nostro secolo. L'avevo scritta per divertimento, poi ho saputo che era stata discussa in alcuni dipartimenti di letteratura greca, dove ci si è chiesti se noi non abbiamo forse fatto lo stesso errore coni frammenti dei lirici greci che i ragazzi studiano a scuola. Magari i versi di Alcmane del VII secolo avanti Cristo "Dormono gli uccelli dalle lunghe ali" erano canzonette dell'epoca, al pari di "Grazie dei fiori" di Nilla Pizzi. Lei ipotizza invece che l'unico testo trovato sotto le macerie del Colosseo sia Il nome della rosa e che questo sia il segno di una degenerazione della letteratura. È uno sport molto italiano quello di interrogarsi a ogni stagione se chiuderà la Feltrinelli, se è morto il romanzo, se il libro sarà superato dall' ebook, se i giovani non leggeranno più. Ho 78 anni, ho iniziato a leggere che ne avevo sei, quindi sono 72 anni che mi trovo di fronte a simili quesiti sul futuro. In realtà non credo al declino della letteratura e non credo che si possano fare previsioni per così dire scientifiche. Se un'opera è importante lo si sa di solito cento anni dopo che è stata scritta. Quando Manzoni pubblicava I Promessi sposi, c'era probabilmente chi ha pensato: ma che roba è questa? Certo, chi dicesse che oggi in Francia mancano grandi figure alla Jean-Paul Sartre e alla André Malraux si avvicinerebbe alla realtà. Ma questo non impedisce che tra 50 anni non si scopra che proprio quest'anno a Parigi era nato il nuovo Proust e nessuno se n'era accorto».
Eppure l'Italia arranca in quello che Giulio Ferroni definisce il «New Italian Epic», l'arcadia del noir, una letteratura che produce romanzi in serie con la pretesa di mostrare i mali del Paese. C'è uno specifico italiano nella crisi della letteratura? «In giudizi così caustici c'è un errore di prospettiva. In Italia è mancato un mestiere della narrativa. La cultura italiana ha sempre pensato che la narrativa dovesse essere simile alla poesia. Hanno detto che Svevo scriveva male perché non scriveva come Ungaretti. Mentre gli anglosassoni, i francesi, i russi un' arte della narrativa l'hanno sempre avuta. Lo si capisce dalla grande tradizione del romanzo poliziesco tra queste culture. Poiché il romanzo poliziesco è fatto sì di semplici ingredienti, ha pochissima penetrazione psicologica, adotta un linguaggio elementare, ma è narrativa allo stato puro. Ci sono stati paesi che sono stati eccellenti nella produzione del romanzo giallo. L'Italia no. Bisogna andare agli anni dell'anteguerra per ricordare scrittori del calibro di Giorgio Scerbanencoe Augusto De Angelis. Niente di più. Poi, negli ultimi decenni c'è stato un ricambio generazionale e l'Italia ha iniziato a produrre della buona narrativa di successo. Che cosa succede allora? Che questa finisce nelle prime pagine dei giornali, lasciando nell'ombra opere di maggiore approfondimento e di maggiore complessità. Forse il nostro Proust in questo momento sta vendendo mille copie e magari ci accorgeremo di lui tra trenta o cinquant'anni. Siamo stupiti di qualcosa che ci sta capitando e che negli altri paesi è sempre accaduto fin dal 1800, tanto che nessuno ci fa più caso. Qualcuno dirà che anche in Italia c'è stata una stagione, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, che ha visto personaggi effettivamente emergenti, come Moravia, Sciascia, Pasolini, Calvino. Forse oggi questo accade meno, ma nelle culture ci sono sempre giochi di avvallamento e di collina. Però io penso a quanto è stato sbeffeggiato Edoardo Sanguineti e oggi, solo dopo la sua morte, il paese ha capito che era un poeta, un intellettuale, un polemista di grande valore».
Vuol dire che nella letteratura i valori si sedimentano e che la loro gravità è più lenta di quanto non accada nella vita? «È così, può darsi per esempio che tra vent' anni la figura di Roberto Saviano giganteggi più di quanto oggi essa si faccia notare semplicemente per motivi di attualità».
E se risultasse al contrario cancellata? «Potrebbe accadere. Ci sono scrittori che hanno fatto impazzire l'Italia. Penso a Salvator Gotta e a Virgilio Brocchi. Oggi nessuno ne conosce l'esistenza. E non erano affatto da buttar via. Erano buoni narratori di consumo, non peggiori di William Somerset Maugham e di altri scrittori sopravvissuti al cancellino del tempo e dei gusti».
Ma perché l'orizzonte culturale in Italia, lo spazio pubblico degli intellettuali, è un susseguirsi di salotti, premi e festival che manifestano il senso della cultura come mera presenza? «Anche in questo non siamo unici. La Francia è un tipico paese dove la cultura si manifesta come presenza. Che cosa sono in fondo i premi letterari? Un buon artificio che serve a tener desta l'attenzione dei lettori sull' esistenza dei libri. Un fatto prevalentemente pubblicitario. Ne ho vinti alcuni, ma non ci ho mai dato grande importanza. Non servono a stabilire chi è il più bravo. Nei paesi latini, dove l'intellettuale gioca il ruolo di guru e di opinionista politico, il presenzialismo della cultura è manifesto. Ma anche in un paese di cultura anglosassone come gli Stati Uniti, dove lo scrittore se ne sta per conto suo, non sono mancati artifici pubblicitari diretti ad affermare una presenza. Penso a personaggi sovraesposti come Norman Mailer o Truman Capote. Ma penso anche alla misteriosa privacy di scrittori come Jerome David Salinger o Thomas Pynchon. Il valore letterario di questi fenomeni sarà il tempo a misurarlo. Lo stesso Hemingway era un personaggio che faceva presenza molto più di Faulkner. Oggi qualcuno inizia a dire che Faulkner fosse più grande di lui. Non ne sono peraltro sicuro. Ma mi vengono in mente anche i Neoteroi nella Roma augustea. Anche loro si proposero come presenza sulla scena culturale e politica. E che dire dell'Ottocento italiano? Quanti narratori come Francesco Domenico Guerrazzi e Cesare Cantù hanno fatto presenza, adesso nessuno li legge più e di tutto il bailamme risorgimentale sono rimasti solo Manzoni e Nievo. Tutti gli altri, persino D'Azeglio, sono finiti nel dimenticatoio».
Ma il resto d'Europa non se la passa meglio di noi? «I francesi sono i primi a lamentarsi dell'assenza di guru. E non dico qui solo di Sartre e Malraux, ma anche di Roland Barthes e Michel Foucault. Questo però non significa affatto che è in atto un declino della letteratura francese. È vero tuttavia che in questo momento ci sono più autori spagnoli di grande valore. Penso a Javier Marías, per esempio. Ma si tratta di andamenti stagionali. Capirne i meccanismi fino in fondo e interpretarli è come predire la sorte di una pallina di ping-pong abbandonata nell'oceano in tempesta. Nessuno scienziato saprà dirci se andrà a nord o piuttosto a sud. Né bastano riflessioni sul declino politico di un paese per spiegare il declino o il successo della letteratura. Possono esserci periodi di grande degrado civile, nei quali per contraccolpo la letteratura diventa voce di libertà».
E tuttavia non le pare che questa letteratura del presente abbia perso la capacità di costruire miti e finisca per replicare la cronaca? «Personalmente non sono tra quegli scrittori che costruiscono i loro romanzi sulla cronaca del presente. Anzi, ho sempre cercato di costruire i miei miti situandoli ora nel Medioevo ora nell'èra barocca. Non credo di essere il solo ad aver lavorato sull'invenzione. E tuttavia mi chiedo: anche a voler esaminare una letteratura di consumo come quella di Camilleri, non è forse un creatore di miti anche lui? Montalbano diventa un personaggio tipico della società italiana, se non altro del mondo siciliano, quanto il commissario Maigret lo è stato della Francia del Novecento. A distanza di più di mezzo secolo si comincia a capire che le storie del commissario non erano solo un giallo di consumo ma le forme più nobili di una certa letteratura franco-belga. D'Artagnan è un personaggio mitico, ma nasce come feuilleton. È sempre difficile pronunciare giudizi sul proprio tempo. Se pensiamo alle tre corone della letteratura italiana del primo Novecento, Carducci, D'Annunzio e Pascoli, ci accorgiamo di come il tempo compia talvolta un vero e proprio ribaltamento del giudizio. Nel momento in cui vivevano, Carducci era il padre della Patria, D'Annunzio il grande vate, e Pascoli uno che scriveva poesie per bambini. Adesso tutta la critica scopre Pascoli come il genio dell'invenzione linguistica e l'iniziatore della poesia moderna»." (da Umberto Eco - Alessandro Barbano, Chi sarà il nuovo Proust, "La Repubblica", 19/01/'11)

lunedì 17 gennaio 2011

Roberto Bolano: così si costruisce il mito di uno scrittore


"Mentre batteva a macchina Il Terzo Reich, il romanzo che Adelphi manda ora in libreria (traduzione di Ilide Carmignani), Roberto Bolaño credeva ancora che sarebbe morto senza riuscire a vivere della scrittura. Era il 1989, abitava già a Blanes, stazione balneare catalana tutt'altro che esclusiva, e si arrabattava come poteva: cameriere, venditore di bigiotteria, guardiano notturno in un campeggio. Ignorava che il successo critico sarebbe arrivato nel decennio successivo con la pubblicazione dei Detective selvaggi. Ma soprattutto non avrebbe mai saputo quanto la sua morte precoce, a cinquanta anni, nel 2003 per una malattia epatica, avrebbe coinciso con l'inizio della costruzione di un mito. Quale ormai è lo scrittore cileno. Negli Stati Uniti, le sue opere sono state vendute in 100 mila copie, cifra record per un paese che legge libri tradotti solo per il 3%. Le tesi su Bolaño vanno di moda nelle accademie e la fama ha influenzato anche la cultura pop. Patti Smith gli ha dedicato una canzone: Black Leaves', suonata in Catalogna con Lautaro Bolaño López, figlio ventenne dello scrittore, alla chitarra. Mentre Hollywood da un po' ha messo in cantiere un film dai Detective selvaggi con Gael García Bernal. Bolaño eroe on the road. Bolaño bandito. Bolaño ribelle imprigionato durante il golpe di Pinochet. Tombeur de femmes. Eroinomane. Di volta in volta confuso con i suoi alter ego letterari (primo fra tutti, l'Arturo Belano dei Detective). La leggenda che oltreoceano, ma non solo, è fiorita attorno all'autore non è gradita a chi, invece, Roberto "lo conosceva bene". L'amico Javier Cercas, che pure ha trasformato Bolaño in un personaggio del suo romanzo Soldati di Salamina, lo ha ribadito su El País: «Tutto Bolaño è nei suoi libri. Il resto è letteratura e, inutile dirlo, della peggior specie». E ancora: «Lui fu morigerato e prudente». Enrique Vila-Matas accusa «la moda di confondere Bolaño con James Dean». Insomma, il poeta maledetto è una pura invenzione. Che, almeno negli Usa, ha alimentato il successo.
Ma come nasce la fantabiografia? Sarah Pollack, ricercatrice della City University of New York, lo ha spiegato in un saggio: Roberto Bolaño's The Savage Detectives in the United States, apparso sulla rivista Comparative Literature. Dove la risposta alla domanda è una sola: a "ricreare" Bolaño è stata l' industria editoriale americana. Nel 2007, la casa editrice Farrar Straus and Giroux lancia I detective selvaggi negli Stati Uniti con una copertina che ammicca a On the road di Jack Kerouac. Non solo: la foto dell'autore, morto ormai da quattro anni, non è quella del maturo signore con occhiali tondi e sigaretta tra le dita che conosciamo in Europa. Ma un ritratto giovanile degli anni Settanta, dove lo scrittore sfoggia lunghi capelli e baffi alla Dennis Hopper. È un easy rider venuto fuori dalla controcultura del periodo della contestazione. Le critiche entusiastiche, i titoli sui giornali ("Ecco il Kurt Cobain della letteratura latino-americana" recita uno) e il lancio sul sito di Amazon fanno il resto. Dice Pollack: «Poco importa che, mentre scriveva le opere maggiori, Bolaño fosse un tranquillo padre di famiglia: diventa così un'icona a metà tra i beat e Arthur Rimbaud». Basta l'incipit di un racconto («Smisi con l'eroina e tornai al mio paese» in Spiaggia, dalla raccolta Tra parentesi) per diffondere la voce- data per buona anche da Jonathan Lethem sulla New York Times Book Review - di un Bolaño tossicodipendente. Bastano i riferimenti nei romanzi, per immaginarlo prigioniero durante il colpo di Stato di Pinochet, circostanza smentita da molti. E le donne inquiete delle sue storie per spingere la rivista cilena Qué Pasa a raccontare con particolari da feuilleton l'ultima, segreta compagna. Dal 2008, per volontà della vedova Carolina López, i diritti delle opere di Bolaño sono amministrati dal più potente agente letterario del pianeta, Andrew Wylie. Con lui si avvia la pubblicazione postuma degli inediti. Iniziativa che a persone del vecchio entourage dell'autore, come il curatore Ignacio Echevarría, piace poco. Los sinsabores del verdadero policía, giudicato il sequel del capolavoro 2666, arriva adesso in Spagna e America Latina. Paesi che l'anno scorso avevano accolto Il Terzo Reich: "diario" della strana vacanza in Costa Brava di Udo Berger, tedesco appassionato di giochi di strategia militare, che sul tavolo della sua stanza d'albergo spiega mappe e pedine di un Risiko che ricostruisce le battaglie dell'esercito nazista. Ci sono ancora ossessioni e personaggi che scompaiono. Ma soprattutto c'è di nuovo la capacità di Bolaño di trascinare il lettore in un altro luogo, quello della sua letteratura. Al di là del gossip." (da Dario Pappalardo, Roberto Bolano: così si costruisce il mito di uno scrittore, "La Republica", 17/01/'11)

sabato 15 gennaio 2011

Diaro di lettura: Stefano Benni


"A domanda non risponde, ed è un’omissione sacrosanta. Se dovesse proprio scegliere, con la classica e rozza pistola alla tempia, continuerebbe a leggere oppure a scrivere? «Cercherei di scappare». Fuga inutile, grazie al cielo, perché lettura e scrittura sono inestricabili. Ma per ciascuno lo sono in maniera diversa. Di Stefano Benni sta per uscire da Feltrinelli Le Beatrici, otto monologhi al femminile.
Quelle voci da dove vengono? «La molla per Le Beatrici non è scattata con i libri, ma a teatro. Ho visto tante attrici giovani di talento, e mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per loro. Ci ho provato».
Mentre scriveva leggeva qualcosa? «Sì, intanto ho letto Cechov, perché ritengo che sia un grande creatore di personaggi femminili. Poi la vita di Beatrice, in un vecchio volumetto, e Dondolo di Beckett, mentre scrivevo Vecchiaccia».
Vecchiaccia è uno dei monologhi? «È un monologo diverso dagli altri, dura cinquanta minuti, poi ho visto Anita Caprioli e mi ha incantato. Andrà in scena presto, ma non vi dico cos’è, tenetevi la curiosità».
Per il teatro si scrive «insieme» a qualcuno. Esiste una dimensione condivisa anche per la lettura? Quanto parla di libri con gli altri, quanto contano gli amici per Benni lettore? «A teatro si lavora insieme con gli attori e le attrici. Lì ci si scontra e ci si trasforma, è bello. La lettura invece per me è quasi un istinto, puoi consigliarmi cento volte un libro e io non ti ascolto. Certo, se un libro piace a Fofi mi solletica, se piace a Citati un po’ di meno. Con stima per tutti e due, ovviamente».
Se è un istinto, non si può insegnare a leggere. «Non so se si possa insegnare a
leggere. Il talento è unicità. Se a scuola ci sono trenta alunni, non voglio che scrivano nello stesso modo,ma in modo diverso e speciale. Il talento va stimolato, incoraggiato, corretto. Forse questo è insegnare, ma preferisco la parola contagiare. Di una bellissima malattia».
Di questi tempi, molti credono in effetti che leggere sia una malattia. E considerano la cultura una patologia, forse un pericolo, roba per inetti e snob. Se il clima è questo, guardando il telegiornale - con quella pletora di briganti, imbroglioni e prostitute, tutto un mondo fatto solo di soldi e di sesso e di ingordigia - pensa mai che la lettura non ha proprio niente a che fare con tutto ciò? Ma allora, leggere che cos’è: un privilegio, qualcosa di obsoleto, l’unica salvezza, una perdita di tempo? «No, non mi capita. Non guardo quasi mai la televisione, ma non è una questione politica. È una questione didattica: non ci trovo niente da imparare, con l’eccezione dei documentari sui castori, eccetera. Leggere si sceglie, non ci sono le risate registrate mentre leggi un libro comico. Chi dice che leggere è snob, si è già arreso. E poi Internet è un grande mezzo per comunicare. Non amo tutto del Web, ma in dieci anni ha fatto invecchiare la televisione di dieci secoli».
Cos’è più fastidioso, la retorica sulla lettura o il catastrofismo sulla fine del libro e della lettura? «Entrambi micidiali, annoiano tutti e due. Il libro è morto, dice il critico, poi ne scrive tre di fila».
Ma Benni è un lettore in servizio permanente, oppure ci sono stati periodi durante i quali non ha letto nulla? Leggere è collegato, e come, ai momenti della vita - amori e dolori, per dire gli estremi, avvicinano o allontanano dal gesto della lettura? O non c’è nesso? «Nessun nesso. Ho scritto libri allegri in tempi tristi e viceversa. E anche il lettore più triste incontra magari un libro di Queneau, e ride. È un
mistero, è l’incontro di due libere immaginazioni, bello perché imprevedibile».
Che cosa ricorda, dei libri che legge? E che cosa invece dimentica? «Quando rileggo, e rileggo spesso, appaiono cose nuove nello stesso libro. Non erano dimenticate, erano solo in un’altra biblioteca della mia testa. Il cappotto di Gogol’ letto venti anni fa, mi era sembrato una bizzarria, un minuetto. Ora lo ho trovato crudele, spietato. Forse perché personaggi come Akakievic esistono più che mai, sfruttati, licenziati, buttati via, ritenuti inutili. Il cappotto è stato scritto oggi».
A proposito del tempo: il furore delle letture adolescenziali si perde per sempre, si trasforma, ogni tanto ritorna? «Sì, ogni tanto ritorna. In estate ho avuto un attacco d’amore per i russi. Cechov e Gogol’, la Achmatova, Majakovskij. Non so perché».
L’ultimo libro che l’ha fatta ridere, o piangere. «Il giocatore di Dostoevskij. La figura della nonna che si rovina alla roulette è un capolavoro di
umorismo tragico».
Che cosa rileggerebbe sempre? «Una foto che ho sul comodino. E Edgar Allan Poe».
Che cosa invece non leggerebbe mai? «No, non escludo nulla a priori, tutto può interessarmi. La Gazzetta dello Sport, ad esempio, è la mia prima lettura
mattutina».
Quotidiani sportivi a parte, parla della lettura come di qualcosa di attivo, e creativo. Ma esistono libri talmente piatti, opachi, che nessun lettore può trasformarli? «No. Credo che anche il libro più brutto e mal scritto, abbia sempre un lettore che lo amerà. Come nella vita, tutti possono innamorarsi di una megera e di un cretino. Se poi pensiamo alla politica ...».
Preferirei di no, come diceva «Bartleby lo scrivano». Che cosa se ne fa, dei libri che non vuole più in casa? «Non do mai via i libri. Li presto, e spesso non tornano».
Anche i suoi viaggiano. Che effetto le fa leggere Stefano Benni in lituano, macedone, norvegese, eccetera? «Godo da matti, mi sembra impossibile. Tengo tutte le edizioni estere in uno scaffale, e le esibisco con vanità».
Se va a Stoccolma, si porta dietro un romanzo svedese? E legge un libro sulla camorra o sulla privatizzazione dell’acqua, se di questi temi parlano i giornali? In qualche modo l'attualità, pubblica e privata, «sceglie» i libri da leggere? «Spesso mi documento a modo mio. Se devo mettere in un libro una zuppa di funghi pregiati, mi vado a leggere un libro sui funghi. Così è nato un mio racconto su due cuochi, Sofronia e Rasputin, ho letto un sacco di ricette».
Ma ... «So cosa vuole chiedermi: poi ti metti ai fornelli? No. Montalbán, che era un gourmet e una persona deliziosa, mi fece mangiare una zuppa di mare scritta in un libro. Pensi se la invitasse a cena Rabelais!»." (da Giovanna Zucconi, “La vita non è rosea? E io rido con Queneau”, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/01/'11)

venerdì 14 gennaio 2011

Pronti alla resa


"Settecentoventi ore, trenta giorni. I più pessimisti dimezzano a quindici. In Italia, il ciclo vitale di un libro equivarrebbe a una meteora. Negli ambienti editoriali se ne parla da diverso tempo: all'inizio dell'autunno furono i piccoli editori del Festival di Belgioioso a denunciare che l'esistenza di un romanzo o di un saggio stava diventando effimera come quella di una farfalla: se entro un mese non vende, si restituisce all'editore. Un tempo che si è dimezzato rispetto a qualche anno fa. Le cause? «Troppa offerta, ma soprattutto poco curata: occorre più attenzione a quello che si pubblica, la quantità non è negativa di per sé - sostiene Paolo Pisanti, presidente dell'Associazione Librai Italiani - Comunque, sessantamila uscite l'anno (cioè più di 160 libri al giorno, ndr) sono una cifra incredibile rispetto a qualsiasi categoria merceologica, e senza soluzione di continuità. Un pasticcere sa che ci sono i momenti più impegnativi, come il panettone a Natale e la colomba a Pasqua. Noi non abbiamo pause. Non possiamo far altro che sostituire le quasi-novità con altre novità».
Tutto, dunque, si giocherebbe nell'arco di una manciata di giorni: non è troppo poco? «No. Perché per fare spazio ai nuovi arrivi abbiamo bisogno di liberare i magazzini, e prima ancora di passare dalla vetrina al banco e dal banco allo scaffale: ci sono tempi tecnici,e tempi finanziari. I pagamenti all'editore avvengono mediamente a novanta giorni. Se voglio fare un'operazione economicamente valida, devo vendere i libri prima di pagarli, ma in tempi così brevi è difficilissimo. Dunque, diventa antieconomico tenere un libro che stenta a decollare più di ventitrenta giorni: se fosse possibile pagare solo quello che si vende, o avere termini di pagamento più lunghi, le cose andrebbero diversamente. Infine, i numeri sono cresciuti troppo. Quindici anni fa un best-seller vendeva centomila copie: oggi, per essere tale, deve venderne un milione. Favorire un gruppo ristretto di autori danneggia il pluralismo della diffusione: sembra un paradosso, ma l' Italia non è il paese dei best-seller».
Ma non è neppure il paese dei troppi libri, dice Cecilia Perucci, direttore editoriale di Corbaccio. «Anzi, teoricamente i libri non sono mai abbastanza. Sicuramente c'è stata un'accelerazione dei tempi, per esempio nel passaggio dall' edizione rilegata al tascabile. Ma non di copie: l'editore, ormai, lavora in base agli ordini che riceve dal libraio, che ha la parola finale sulla quantità».
Forse le cose potrebbero cambiare con gli e-book, anche se il mercato è partito lentamente: ma il magazzino della Rete potrebbe garantire una vita diversa. Per ora, comunque, la corsa alla pubblicazione e alla libreria rischia di essere un falso traguardo per l'esordiente: «Oggi - dice Marco Zapparoli, direttore di Marcos y Marcos - sarebbe difficilissimo vendere un Calvino al suo debutto. Ci sono libri che possono essere apprezzati solo in tempi lunghi e sarebbe impossibile riconoscere la novità rappresentata da Calvino in una manciata di giorni».
Responsabilità dei librai o degli editori? «Diciamo che la situazione è divenuta tesa per mancanza di complicità fra libraio ed editore: più gli interessi sono solidali, più il libraio rifletterà prima di procedere alle rese. Cosa che non può avvenire se l' editore continua a battere moneta, ovvero a mettere fuori libri. Sa perché gli editori pubblicano sempre più titoli? Perché pensano erroneamente di poter compensare le rese che riceveranno e di far quadrare il budget: in poche parole, se in un anno non è stata raggiunta la fatturazione prefissata, in quello successivo si "picchiano fuori", per usare il termine aggressivo oggi di moda, più titoli a una tiratura alta. I librai stanno al gioco per un po', ma infine si stancano e rendono. Un abbaglio molto simile a quello degli swap finanziari: che alla fine si sono rivelati carta straccia senza alcun valore. Il libro ha un valore, invece: deve essere trattato con rispetto proprio perché ha bisogno di maturare. Cinque anni fa noi lanciammo la campagna "Meno tre": passammo da diciotto novità di narrativa annuali a quindici. L'anno successivo siamo scesi a tredici. Andò benissimo e non abbiamo mai cambiato: anzi, nel 2011 festeggiamo i nostri trent' anni proprio con una collana che si chiama "Tredici": perché le energie che prima mettevamo nella produzione, le abbiamo trasferite nella promozione dei nostri libri».
Annuisce, a distanza, Romano Montroni, principe dei librai, a lungo direttore delle librerie Feltrinelli, dal 2005 consulente delle Coop: «Il libro è come una pianta: diventa grande se lo innaffi tutti i giorni. Trenta giorni di vita? Può essere vero, ma dipende dalla libreria in cui viene collocato e dalla missione di quella libreria. Nelle Coop abbiamo sempre il 30% di novità e il settanta di catalogo. Perché una filosofia di comportamento è necessaria: vedo troppi librai che per affrontare un problema finanziario fanno clic sul computer, tirano fuori l'elenco dei libri che hanno venduto meno negli ultimi tre mesi e rendono a più non posso. Una buona libreria deve sempre avere tre tipi di libri: quelli che si vendono molto, quelli che si vendono meno e quelli che servono a far vendere gli altri. E, soprattutto, un libraio deve saper riconoscere il valore di un libro indipendentemente da quanto vende: se a uno scrittore giovane dai fiducia, devi tenerlo. E non può mancare, in nessuna libreria, un testo di Calvino. Anche solo una copia». Anche se oggi, forse, vivrebbe la vita di una farfalla." (da Loredana Lipperini, Pronti alla resa, "La Repubblica", 14/01/'11)

mercoledì 12 gennaio 2011

La nostra seconda vita custodita dai romanzi


"I romanzi sono una seconda vita, come i sogni di cui parla il poeta francese Gérard de Nerval, i romanzi rivelano i colori e le complessità delle nostre esistenze e sono pieni di persone, facce e oggetti che sentiamo di riconoscere. Proprio come nei sogni, quando leggiamo i romanzi siamo a volte così fortemente colpiti dalla straordinaria natura delle cose che incontriamo da dimenticare dove siamo e da immaginarci in mezzo agli eventi fantastici e alle persone che vediamo. In quei momenti sentiamo che il mondo di finzione in cui ci imbattiamo e che ci fa divertire risulta più reale della realtà stessa. Che queste seconde vite ci appaiono più vere della realtà, spesso significa che scambiamo i romanzi per la vita, o almeno che li confondiamo con l’esistenza vera. Ma mai ci lamentiamo di questa illusione, di questa ingenuità. Al contrario, proprio come in alcuni sogni, vogliamo che il romanzo che stiamo leggendo prosegua e speriamo che questa seconda vita continui a evocare in noi un costante senso di realtà e di autenticità.
A dispetto di quello che sappiamo della fiction, siamo irritati e infastiditi se un romanzo non riesce a sostenere l’illusione che si tratti di una vita vera. Sogniamo supponendo che i sogni siano realtà, tale è la definizione dei sogni. E così leggiamo i romanzi supponendo che siano veri, ma da qualche parte nella nostra mente sappiamo anche che la nostra supposizione è falsa. Questo paradosso deriva dalla natura del romanzo (...).
Ricerchiamo il cuore segreto del romanzo con la massima attenzione questa è l’operazione che più di frequente compie il cervello allorché leggiamo un romanzo, a prescindere che lo faccia con ingenua consapevolezza o con sensibile ponderazione. A differenziare un romanzo da altri generi narrativi è proprio il fatto di avere un suo cuore segreto. O meglio, e più precisamente, un romanzo fa affidamento sulla nostra convinzione che vi sia un nucleo centrale che dobbiamo ricercare allorché lo leggiamo.
Di che cosa è fatto il cuore di un romanzo? Potrei rispondere di qualsiasi cosa costituisce il romanzo stesso. Tuttavia, per taluni versi, noi siamo convinti che questo cuore debba essere lontano rispetto alla superficie del romanzo, che noi seguiamo parola per parola. Immaginiamo che si trovi dunque in secondo piano, che sia invisibile, difficile da individuare, sfuggente, pressoché in movimento. (...)
Il primo elemento che distingue un romanzo da un poema epico, un romanzo cavalleresco medievale o un romanzo avventuroso tradizionale è questo concetto di cuore. I romanzi presentano personaggi di gran lunga più complessi di quelli epici; si imperniano su gente del tutto ordinaria e si interessano a tutti gli aspetti della vita di tutti i giorni. Ma queste qualità e capacità esistono grazie a un cuore, da qualche parte, sullo sfondo, e al fatto che noi li leggiamo con questo tipo di intenzionalità. Quando il romanzo ci rivela i particolari più mondani dell’esistenza e le nostre piccole fantasie, le abitudini quotidiane, gli oggetti famigliari, noi andiamo avanti avvinti dalla curiosità – anzi dall’incredulità – perché sappiamo che hanno un significato più profondo, uno scopo che si sottrae e si nasconde da qualche parte, in secondo piano. Ogni elemento di un panorama, ogni foglia, ogni fiore risultano interessanti, intriganti, perché dietro di essi deve esserci un significato nascosto.
I romanzi possono rivolgersi alla gente dell’epoca moderna, anzi a tutta l’umanità, perché sono fiction tridimensionali. Possono parlare di esperienze personali, della conoscenza che acquisiamo grazie ai nostri sensi, e al tempo stesso fornire un frammento di conoscenza, un’intuizione, una chiave di lettura di qualcosa di più profondo, in altri termini il cuore oppure quello che Tolstoj avrebbe chiamato il significato della vita, quel luogo difficile da raggiungere ma che ottimisticamente pensiamo esistere. Il sogno di raggiungere la conoscenza più profonda, recondita e nascosta del mondo e della vita senza dover affrontare tutte le difficoltà della filosofia o le pressioni sociali della religione – facendolo partire dalla nostra esperienza personale e utilizzando il nostro intelletto – è un genere di speranza molto egualitario e democratico.
È stato con grande intensità e con questo particolare tipo di speranza che ho letto romanzi tra i miei diciotto anni e i trenta. Ogni romanzo che leggevo – seduto quasi in trance nella mia camera a Istanbul – mi svelava un universo importante dal punto di vista dei particolari della vita quanto un’enciclopedia o un museo, profondamente ricco da un punto di vista umano quanto la mia stessa esistenza: pieno di domande, consolazioni, e promesse paragonabili per la loro intensità e vastità soltanto a quelle caratteristiche della filosofia e della religione. Ho letto romanzi quasi in sogno, dimenticando ogni altra cosa, per acquisire conoscenza del mondo, per costruire me stesso, per plasmare la mia anima.
E. M. Forster, che apparirà ogni tanto in queste conferenze, in Aspects of the Novel dice che “l’ultimo banco di prova di un romanzo è il nostro attaccamento a esso”. Il valore di un romanzo, per me, sta tutto nella sua capacità di sollecitare la ricerca del suo cuore, che possiamo oltretutto proiettare ingenuamente sul mondo. In termini più semplici: la misura reale del valore di un romanzo risiede nella sua capacità di evocare la sensazione che la vita sia proprio e esattamente così. I romanzi devono entrare in sintonia con le nostre idee di base concernenti la vita e devono essere letti con l’aspettativa che lo facciano.
A causa della loro struttura, che ben si presta alla ricerca e alla scoperta di un significato nascosto o di un valore perduto, il genere di romanzo che meglio si adatta per spirito e forma all’arte narrativa è quello che i tedeschi chiamano Bildungsroman, ovvero “romanzo di formazione”, nel quale si racconta la crescita, la formazione e la maturazione di giovani protagonisti nel momento in cui fanno conoscenza e esperienza del mondo. Nella mia giovinezza mi sono preparato leggendo libri di questo tipo (come L’educazione sentimentale di Flaubert, La montagna incantata di Mann). Poco alla volta ho iniziato a scoprire la conoscenza basilare che il cuore del romanzo presentava, ad avere comprensione di quale genere di posto sia il mondo e quale la natura della vita, non soltanto nel suo centro, ma in tutto il romanzo. Ciò dipende forse dal fatto che ciascuna frase di un buon romanzo è in grado di evocare in noi un senso del sapere profondo ed essenziale di ciò che significa vivere in questo mondo e di quale sia la natura di questo significato. Ho imparato anche che il nostro viaggio in questo mondo, la vita che trascorriamo in città, strade, case, stanze e nella natura non è nient’altro che la ricerca di un significato segreto che può esistere tanto quanto non esistere.
Nel corso delle nostre chiacchierate, indagheremo in che modo un romanzo può sostenere tutto questo peso. Proprio come i lettori che leggono un romanzo ne cercano il cuore, o come i giovani e ingenui protagonisti di un Bildungsroman ricercano il significato della vita con curiosità, sincerità e fiducia, così noi cercheremo di procedere verso il centro dell'arte del romanzo. Il panorama vasto nel quale ci muoveremo ci porterà allo scrittore, alla sua idea di fiction e di fantasia, ai perosnaggi dei romanzi, alla trama narrativa, al problema del tempo, agli oggetti, al vedere le cose, ai musei e a luoghi che non siamo in grado ancora di anticipare - proprio come in un vero romanzo, forse." (da Orhan Pamuk, Come si legge un romanzo. Epica, fantasia e cuore la magnifica illusione di una seconda vita, "La Repubblica", 11/01/'11; The Naive and the Sentimental Novelist, Harvard University Press, trad. di Anna Bissanti)

Pamuk nel catalogo Einaudi

Il libro dell'ignoto


"Capita, talvolta, nel mezzo dell’ordinaria frenesia di una giornata, di bloccarsi un istante e compiere un gesto insolito, come alzare gli occhi verso l’alto, senza uno scopo preciso, e scoprire un rettangolo di cielo. la sospensione inattesa dà accesso a una dimensione di pensiero diversa, come l’incontro con certe poesie. Alcuni libri fanno lo stesso effetto, è il caso dei dodici racconti di Il libro dell’ignoto. Storie dei trentasei giusti (Giuntina), originale variazione sul tema della leggenda ebraica secondo cui trentasei donne e uomini, ignoti al mondo e persino a se stessi, salvano ogni giorno la terra dal rischio della furia distruttiva di un dio disgustato dal male compiuto dagli uomini.
Autore è il poliedrico Jonathon Keats, romanziere, opinionista di “Wired”, esperto di tecnologie e nuovi linguaggi nonché artista concettuale, autore di provocazioni brillanti, dalla banca dell’antimateria al big bang come orgasmo divino. Keats ha il talento del narratore, le storie dei “suoi” giusti sono favole sospese tra il fantastico e il realismo minuto del quotidiano, come quadri di Chagall. Ambientati in tanti shtetl (i villaggi ebraici premoderni dell’Europa orientale) immaginari, vibrano dell’anima sottile di quel mondo scomparso e rivisiatno la tradizione talmudica con una sensibilità tutta del XXI secolo. La scrittura è misurata, allusiva, poetica e insieme dissacrante, come si conviene alla tradizione dei racconti ebraici (attinge a piene mani all’eredità del premio Nobel Isaac Singer). Un gioco accademico erudito fornisce il pretesto narrativo: il manoscritto sarebbe frutto delle ricerche di uno studioso affermato che per seguire il richiamo di una misteriosa pergamena si metterà sulle tracce degli eredi dei trentasei giusti: perderà la posizione, il prestigio, la credibilità, forse la vita, per accostarsi alla dimensione di mistero che ogni esistenza sempre contiene, ma è destinata a rimanere inaccessibile a chi si confina nel raziocinio o nell’erudizione filologica. Per non stuzzicare l’ira divina, i nomi ritrovati sono celati da lettere dell’alfabeto ebraico: ciascuna è una storia.
Le vite dei giusti incespicano senza volerlo in temi universali, l’amore, la morte, la speranza di salvezza, la guerra, ma anche, in controluce, le nevrosi contemporanee. L’incanto si mescola con la disperazione, eventi atroci sono sintetizzati in poche righe, con lo stesso pudore che userebbero i personaggi per alludervi. Percorsi iniziatici di sofferenza ed emarginazione trovano soluzioni inedite, senza tracce di pietismo consolatorio. Costante l’effetto di spaesamento: i giusti sono gli scarti della società. Sono Dalet il ladro, Vav la sgualdrina, Bet la veggente bugiarda, Aleph l’idiota, Tet il fannullone a innescare involontariamente un meccanismo di trasformazione profonda che coinvolge l’intera comunità del villaggio. Il limite e la mancanza sono l’esperienza necessaria di ogni maturazione. “Il destino è un caso”, esordisce la prefazione, sono i bisogni e gli errori a mettere in moto le macchine potenti del destino: come vuole l’ebraismo, l’uomo è co-artefice, non mero strumento di un disegno provvidenziale, in una costante tensione dinamica tra volontarismo e accettazione.
Chi direbbe mai che la bellissima Chaya, erede della prodigiosa sapienza del padre rabbino, abbia da imparare da quel marito idiota di cui non sopporta di essere tanto innamorata, attraverso l’intervento apparentemente malefico di un dybbuk, un demone? Oppure che un paese ricco e ordinato abbia bisogno di passare attraverso il caos del gioco d’azzardo e una stagione di abbandono per arrivare a una dimensione di vita matura e flessibile? Che serva il figlio bastardo di una prostituta molto simile a Bocca di Rosa perché l’abitudine alla menzogna venga rigettata da un’intera comunità? La purezza si annida nel suo contrario, le esperienze di rottura, viatico per l’autenticità, ignorano o capovolgono le convenzioni, il senso comune di ciò che dovrebbe essere buono. La strada, anche quando non è tragica, è sempre tortuosa, e soprattutto solitaria.
L’amore è narrato con intensità, in una fitta trama di incontri fatali che capovolge i cliché romantici con delicata ironia. Amore come capacità di abbandonare una parte di sé per far spazio all’altro e insieme istinto carnale: nel solco che dal Cantico dei Cantici arriva a Singer, sesso e desiderio sono imprescindibili, spesso sono addirittura ciò che consente il compimento di un’evoluzione spirituale. Affascinante pure il filo di riflessione sul vuoto, incubo contemporaneo per eccellenza. E’ nel vuoto creato da un apparente maleficio che Aleph e Chaya impareranno ad amarsi compiutamente; i furti di Dalet insegneranno agli abitanti di un paese che ha perso l’anima a riscoprire i desideri autentici, a cominciare dal semplice e simbolico godimento del pane fresco.
Lasciatevi trovare da queste storie, percorretele come un esercizio di meditazione laica, una crepa da cui lasciar filtrare pensieri sottilmente disturbanti, ma preziosi. Come recita la massima talmudica in esergo: “Non disprezzare nessuno e non ritenere nulla impossibile, poiché ogni uomo ha la sua ora e ogni cosa il suo posto”." (da Benedetta Tobagi, Come sono belle le storie dei giusti nell’era digitale, "La Repubblica", 08/01/'11)