mercoledì 29 maggio 2013

La verità sul caso Harry Quebert


"«Un'ora fa vi avevo fatto una promessa, cari amici: avevo promesso che vi avrei raccontato una storia vera». Avvolto dal mantello a ruota dell'illusionista, nel finale di F come falso, il suo controverso film cult sui grandi falsari d'arte, Orson Welles guarda nella camera, si accende il sigaro e aggiunge: «L'ora è passata, e io vi posso giurare che negli ultimi diciassette minuti non avete sentito altro che un cumulo di menzogne». Se ha un maestro, il giovane scrittore ginevrino Joël Dicker, che con questo suo La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani) ha fatto gridare al miracolo la critica francese e ha già venduto centinaia di migliaia di copie in Francia, Svizzera e Belgio, è proprio il Welles che esplora il regno del Falso, investigando il confine spesso impalpabile che lo separa dal Vero. La verità sul caso Harry Quebert ha tutta l'apparenza di un odierno F come falso letterario. Se Welles parlava di quadri e bugie, Dicker scrive di libri e bugie. Tutti mentono, in questa storia. Mentono alla comunità e mentono a se stessi. Tutti. A partire dall'autore. E solo nella menzogna, par di capire, stanno le verità più profonde.
Tutto comincia quando il giovane romanziere Marcus P. Goldman, preda della sindrome da foglio bianco che immancabilmente assale lo scrittore travolto da improvviso successo, abbandona la scintillante scena letteraria di New York e si rifugia nel ridente villaggio di Aurora, nel cuore del quieto, elegante, solido e accogliente New Hampshire. Inseguito dal ringhiante editore Roy Barnaski che strepita e minaccia perché il secondo, atteso capolavoro del giovane autore veda finalmente la luce, Marcus va a cercare ispirazione dal suo antico mentore, Harry L. Quebert. Colui che trent'anni prima aveva commosso l'America con Le origini del male, straziante storia dell'amore impossibile fra un uomo e una donna divisi da ragioni di classe. Harry ha insegnato tutto a Marcus: a scrivere, a tirare di boxe, e, soprattutto, a vivere. Trasformando un ambizioso adolescente furbetto in un Vero Essere Umano. Il suo debito di riconoscenza è così grande che Marcus non si scompone più di tanto quando, frugando nelle carte dell'amico, scopre che, trent'anni prima, Harry era stato perdutamente innamorato della quindicenne Nora Kellergan, poi scomparsa in misteriose e drammatiche circostanze, forse vittima di un maniaco. Se la love-story di Harry con la piccola Nora venisse alla luce, l'America puritana reagirebbe con sdegno. Marcus, però, non giudica, e dopo aver giurato di mantenere il segreto, se ne torna a New York, sempre più sprofondato in una crisi creativa senza rimedio.
Ma il destino è in agguato, pronto a colpire. Harry ordina lavori nel giardino della sua villa che sembra uscita da un dipinto di Hopper. I giardinieri scavano e portano alla luce ciò che resta di Nora Kellergan. Accanto alle povere ossa, il manoscritto del romanzo di Harry con una dedica d'amore. Esplode lo scandalo. Harry Quebert, esposto all'odio come pedofilo e assassino, finisce in galera. Marcus pianta New Yorke torna ad Aurora per salvarlo. Indagando su quella tenebrosa vicenda di tanti anni prima, riuscirà a sciogliere l'enigma della morte di Nora e, by the way, a produrre, finalmente, l'attesa "opera seconda": La verità sul caso Harry Quebert, appunto. Da questo spunto iniziale, si dipartono, come in un gioco di specchi (come non pensare ancora al Welles della Signora di Shanghai?), vari filoni narrativi, tutti di rigorosa ascendenza letteraria. L'investigazione di Marcus sta fra il noir classico e il true crime, compresa una descrizione della cittadina di Aurora che rimanda al memorabile incipit di A sangue freddo di Truman Capote.
La storia d'amore fra Harry e Nola è puro Lolita. I segreti di Aurora ricordano I peccati di Peyton Place, la famiglia fondamentalista di Nora echeggia venature di un perbenismo assassino che dalla Casa Usher di Poe approderà a Stephen King, passando per legioni di b-movies. Nei fantasmi di Nora e nel suo rapporto con la madre si rinvengono tracce del Norman Bates di Psycho, e via dicendo.
Il gioco coinvolge, con diabolica simmetria, anche i personaggi minori, maschere di una sapiente commedia dell'arte letteraria: dal sergente in apparenza burbero e in realtà duttile e intelligente, alla "jewish mama" di Marcus, che spara battute a raffica come in un Woody Allen d'annata. Trainate dal trionfo degli archetipi, le pagine scorrono inquiete e veloci. Tanto febbrili che, se non sapessimo che Dicker esiste veramente, penseremmo alla beffa di una sofisticata intelligenza meccanica, un raffinato "software" di ultimissima generazione che si diverte a edificare una monumentale epopea post-moderna avulsa da qualsivoglia seduzione del realismo. Ma Dicker c'è, e del senso dell'opera è lucidamente e onestamente consapevole: voleva scrivere proprio questo, un romanzo "voltapagina", sedotto dalla meticolosità narrativa di serie televisive come Homeland. Sulla costa orientale degli Stati Uniti ci ha davvero vissuto. Anche se resta pur sempre l'europeo alla corte dell'impero a stelle&strisce, il suo sguardo sull'America profonda è meno sbigottito e più incisivo di quello di tanti visitors che l'hanno preceduto. Una certa esperienza del reale gli consente inoltre di introdurre nel prisma compositivo alcune intelligenti distorsioni nelle quali si cela la zampata d'autore. Ci sono, ad esempio, domande che Marcus non fa al momento opportuno e atti concreti d'indagine che i poliziotti incomprensibilmente ignorano. E non si tratta solo di espedienti per mandare avanti la macchina narrativa. È un'orgogliosa professione di indifferenza nei confronti delle regole, il tradimento manifesto di quel manuale di "consigli a un giovane scrittore" che il maturo Harry elargisce all'apprendista Marcus. L'ennesima sottolineatura del Segno del Falso che è l'unica vera strada per il Vero. D'altronde, la verità svelata nel finale è decisamente meno seducente delle parziali e frammentarie verità - tutte false - che si erano affacciate strada facendo: print the legend, chéè meglio.
I fatti, quasi sempre, ci deludono. Da anni si dice che scrivere noir è un modo intelligente per aggredire il contemporaneo, raccontandone il lato oscuro. Dicker usa il noir - e non solo quello - per ristabilire la centralità del letterario. È presto per affermare che siamo di fronte a un'inversione di tendenza, ma comunque chapeau: con questo giovane svizzero dovremo tutti fare i conti, prima o poi.
Post scriptum. In quanto "caso letterario", Dicker è stato paragonato a Stieg Larsson. Niente di più sbagliato. Larsson era un comunista combattente che denunciava le ingiustizie di una società corrotta e, neanche troppo occultamente, si proponeva di cambiarla. Dicker è, per dirla ancora con Welles, «l'arte come menzogna che ci fa capire la verità». E bisogna dire che ci riesce maledettamente bene." (da Giancarlo De Cataldo, L'arte della menzogna, "La Repubblica", 27/05/2013)

De Cataldo su IBS

"La Cina si svela grazie al noir. Il genere poliziesco, lo sappiamo, è una chiave esplorativa ideale per sondare una società, cogliendone i recessi più segreti: ce l'hanno insegnato le storie di James Ellroy, da cui affiora il volto più torbido di Los Angeles, e l'invischiante provincia francese dei libri di Georges Simenon. Da tale prospettiva ben rodata, ma anche da personaggi e ambienti originali, dipende l'ascesa di un filone autoctono capace di scavare con acume nei conflitti del Paese, scansando almeno in parte l'incombente censura: il marcio emerge da sciarade di delitti solo apparentemente innocue. La star di questa tendenza è Xiaolong Qiu, nato a Shanghai nel 1953 ed emigrato negli Stati Uniti dopo la repressione di Piazza Tienanmen. Ora è docente di letteratura cinese a Saint Louis, ma i suoi noir circolano pure in Cina, dove il pingue professore (ha l'aspetto morbido e vasto di un Nero Wolfe orientale) torna spesso indisturbato per conferenze e incontri universitari.
Fulcro del suo successo è la serie dell'ispettore Chen Cao, capace di vendere nel mondo due milioni di copie (di cui 150mila in Italia, dove lo pubblica Marsilio), e affascinante soprattutto per l'ambientazione, affidata a una Shanghai resa violenta e mafiosa dal frenetico passaggio al capitalismo. Sconvolta anche da una metamorfosi esterna (i vecchi edifici coloniali cedono il passo a selve incontrollate di grattacieli), la metropoli è il teatro delle imprese di un detective animato da un'irresistibile testardaggine eticae da una rigorosa logica deduttiva, e sospinto dalla malinconica memoria della morale confuciana ereditata da suo padre, caduto vittima delle Guardie Rosse. Le passioni di Chen sono la poesia e la cucina, con descrizioni gastronomiche ossessive, e ogni suo tuffo nei misfatti di Shanghai è infarcito da citazioni occidentali colte, con una predilezione per Shakespeare. I titoli della serie usciti in Italia, tra il 2002 e il 2012, sono La misteriosa morte della compagna Guan (segnalato dal Wall Street Journal come uno tra i cinque migliori gialli politici di tutti i tempi), Visto per Shanghai, Quando il rosso è nero, Ratti rossi, Di seta e di sangue e La ragazza che danzava per Mao.
Di volta in volta la trama scardina un tema della Cina odierna per anatomizzarne i contenuti politicamente più scottanti, e la censura cinese «interviene con tagli e con un accorgimento: Shanghai è chiamata "la città H", come fosse uno scenario inventato», avverte Francesca Varotto, editor della Marsilio per la narrativa straniera. Ma le denunce, almeno nelle traduzioni italiane, si evincono con chiarezza.
Accusatorio è il plot de La misteriosa morte della compagna Guan, che fotografa la relazione sporca instauratasi tra il Partito e la polizia, dando un'immagine perversa degli alti quadri del primo. Operazione non passata inosservata in Cina: «Interi paragrafi e tutto un capitolo sono spariti dall'edizione cinese del libro», segnala l'autore Xiaolong Qiu. E a proposito dell'eliminazione della parola "Shanghai" dai propri testi, fa notare che «anche i nomi delle strade e dei ristoranti vengono cambiati, per non rendere riconoscibile la città. Ma il paradosso è che le recensioni cinesi parlano dei miei lavori come di "romanzi su Shanghai". Ho chiesto come ciò sia possibile al mio editore cinese e mi ha risposto che i censori non leggono mai le critiche sui giornali!».
Diretto è l'affondo nella reputazione di Mao compiuto dal suo La ragazza che danzava per Mao. Stavolta l'ispettore si infiltra nell'entourage della giovane Jiao, nipote di una delle favorite del Grande Timoniere, in mezzo a viziosi che rimpiangono il periodo pre-rivoluzionario. Via via l'indagine si trasforma in un viaggio nella sfera privata di un politico sadico e tirannico nei rapporti con le donne, e ancora in grado di condizionare, col suo ricordo, l'immoralità che infetta il sistema. «È l'unico dei miei titoli bandito dalla Cina», riferisce Xiaolong, specificando che «un tale ritratto di Mao è evidentemente inaccettabile». In ottobre approderà in Italia il suo ultimo libro, Le lacrime del lago Tai, dove il bersaglio si sposta sul disastro ecologico che sta devastando il Paese. A Chen toccherà stanare i colpevoli della morte del dirigente di un'industria chimica che butta le scorie in un lago le cui acque erano esemplari per purezza.
Un altro buon giallista cinese è He Jiagong, che è rimasto a Pechino, dove lavora come criminologo e docente di diritto penale. Federico Rampini, su Repubblica, lo definì «un esperto stimato nel suo primo mestiere, ma con una doppia vita da romanziere tutt'altro che politically correct». La sua creatura letteraria è l'avvocato Hong Jun, un personaggio che avanza come un donchisciotte inascoltato nella selva maledetta della modernizzazione della Cina. Il suo La donna pazza (Mursia) si svolge nel degrado di una Manciuria delinquenziale, relegata ai margini dall'industrializzazione. Siamo distanti geograficamente e storicamente, ma non moralmente, dal clima di Intrigo a Shanghai, firmato da Xiao Bai (il nome è uno pseudonimo) e appena portato in Italia da Sellerio. È una storia di denaro sporco e di trafficanti d'armi dirottata negli anni Trenta, durante il tramonto del colonialismo. Ma la trama, benché declinata al passato, ricalca in modo evidente l'atmosfera di dissidio economico e sociale della Cina contemporanea. Con i suoi smascheramenti "morbidi" delle verità più inconfessabili, il noir cinese tocca zone che la letteratura "colta" non arriva neppure a sfiorare." (da Leonetta Bentivoglio, L'ondata noir degli autori d'Oriente così il thriller denuncia le verità nascoste, "La Repubblica", 17/05/'13)

sabato 18 maggio 2013

Napolitano: ''Leggiamo poco''



"In Italia si legge troppo poco e così facendo «si crea uno svantaggio oggettivo nella vita individuale e collettiva anche sotto il profilo economico». Giorgio Napolitano cita le statistiche che «riflettono una debolezza di fondo della nostra realtà culturale», il fatto che siano «meno della metà gli italiani che leggono almeno un libro all'anno» e che, rispetto alla media nazionale, «la quota dei lettori scenda ancora di più nelle regioni meridionali». Il videomessaggio del presidente della Repubblica all'inaugurazione del Salone del libro di Torino è un grido d'allarme rivolto certamente agli operatori del settore ma anche e soprattutto alla politica che ha nelle mani le scelte strategiche per il paese. Perché, aggiunge Napolitano, anche la creatività - tema centrale della 26esima edizione delle kermesse torinese - «se vuole generare qualcosa di valido deve poter contare su una base adeguata di conoscenza» e dunque su una popolazione che attraverso la lettura abbia acquisito le nozioni fondamentali del sapere. No dunque alla creatività fai da te, quella che vive di improvvisazione più che di innovazione.
Messaggio accolto con favore dal presidente dell'Aie, Marco Polillo.
Soprattutto nella parte in cui Napolitano attribuisce agli editori la professionalità di chi «opera attraverso strumenti e scientifici e culturali senza limitarsi alla semplice funzione di stampatore» potendo in questo modo competere «con la nuda e cruda immissione in rete di qualsiasi testo da parte di qualunque soggetto». È in questa differenza, dice il presidente, «la centralità del lavoro editoriale». Passaggio accolto con grande favore dagli organizzatori del Salone, a partire dal patron, Rolando Picchioni, che ha voluto aggiungere «la difesa della competenza dei librai, quelli che rischiano di scomparire per la concorrenza dei grandi distributori, dei grandi scaffali dove, come nella notte di Hegel, tutti i gatti sono grigi». Appelli contro l'omologazione che tradiscono un timore diffuso nel mondo dell'editoria di carta, quello della progressiva scomparsa del libro per effetto della concorrenza della Rete. Così il tema del ruolo di mediazione dell'editore, torna nelle parole appassionate del neoministro Massimo Bray, giunto a Torino direttamente dalla serata al Festival di Cannes. Bray ammette che «oggi nelle casse del ministero ci sono pochissimi soldi» ma si impegna «a tutelare l'editoria come un bene comune che va valorizzato al pari degli altri beni culturali, anche in chiave occupazionale. Questo è un compito al quale sento, come ministro, di impegnarmi personalmente». Più in generale Bray annuncia che il progetto del suo ministero «è quello di rilanciare la cultura come motore del cambiamento politico e volano per la ripresa economica». Una nota positiva da cui partire, dice il responsabile del ministero, è «il fatto che il presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbia detto che non ci saranno più tagli alla cultura».
Non un annuncio entusiasmante ma certamente un punto di partenza solido sul quale ricostruire.
Più difficile ottenere dal ministro dettagli su come riuscirà concretamente a realizzare quegli obiettivi che finora i suoi predecessori hanno sistematicamente mancato. Dove troverà i soldi, signor ministro? La risposta è un sorriso silente. Perché tace? «Perché non ho ancora il quadro completo della situazione. Fino a quando non sarò riuscito a comprendere qual è il vero stato delle cose, continueròa tacere». Una dichiarazione che ha certamente il pregio della sincerità." (da Paolo Griseri, Napolitano: ''Leggiamo poco'', "La Repubblica", 17/05/2013)