martedì 28 dicembre 2010

Mille viaggi straordinari


"Terre estreme, luoghi (quasi) inaccessibili, avventure nei luoghi più freddi del mondo. Ecco tre libri pubblicati quest'anno che raccontano di esperienze ai confini e un volume di suggerimenti per viaggi stravaganti, ma possibili.

Storie antiche e nuove di avventure polari.
«Infine, il Polo. La ricompensa di tre secoli di ricerche. Il mio sogno e la mia meta per vent'anni. Finalmente mio!» scrisse il comandante Robert Peary, il 6 aprile 1909, quando affermò di aver raggiunto per primo, o per secondo, l'elusivo punto geografico. «Il Polo Nord è certo uno strano oggetto del desiderio – afferma John E. Lewis, curatore di Alla fine del mondo, in libreria da giovedì (Newton Compton)–: Non vi si trova nulla, a eccezione di uno strato di ghiaccio galleggiante spesso cinque metri e, forse, qualche uccello migratore, poiché nemmeno gli orsi polari si avventurano a cacciare a una distanza di 725 chilometri dalla terraferma». Eppure il vertice della calotta boreale, così come quello della calotta australe, continua a calamitare l'interesse degli uomini, pronti a pagare con la vita l'avventura in questi deserti di gelo. Alla fine del mondo è una raccolta di racconti firmati da esploratori di luoghi estremi, ottocenteschi, novecenteschi o contemporanei.
A Nord troviamo per esempio il resoconto della discussa conquista del polo di Frederick A. Cook, del 1908; Knud Rasmussen che ricorda un incontro con gli eschimesi; Umberto Nobile a bordo del dirigibile Italia; le imprese del "sorvolatore" Richard E. Byrd, sia a Nord sia a Sud e la circumnavigazione polare di Ranulph Fiennes. A Sud le indimenticabili imprese di Ernest Shackleton (la conquista del punto più a sud del 1908-09, la perdita dell'Endurance, il viaggio nella Georgia australe); il sorpasso di Roald Amundsen, che soffiò a Scott il primato; le riflessioni sul riscaldamento climatico del giornalista David Helvarg, nel 1999 e la pazza nuotata di Lynne Cox, nel mare antartico.

Nelle terre selvagge
La biologa Erin McKittrick ha percorso con il marito seimila chilometri nelle terre selvagge del Canada nordoccidentale e dell'Alaska. Quattro stagioni spostandosi a piedi, in canotto o sugli sci da Seattle alle isole Aleutine, alla scoperta del meraviglioso equilibrio precario di luoghi estremi e disabitati. Il vento feroce, gli iceberg, i colori struggenti dei tramonto ma anche le zone devastate dalla deforestazione, dallo sfruttamento minerario, e gli incontri occasionali con le popolazioni locali, le balene, gli alci, gli orsi e i leoni marini.
Erin McKittrick, La strada alla fine del mondo (Bollati Boringhieri)

Viaggio nei luoghi ghiacciati del globo
Il biologo Bill Streever ama il brivido. O meglio, i brividi. Vive nel Nord dell'Alaska e per lui il rallentamento molecolare che segue il precipitare della colonnina di mercurio è una forza ispiratrice. Tanto da dedicargli un intero libro: Gelo, selezionato tra i cento libri più interessanti del 2009 dal «New York Times». Il freddo è un «motore», plasma i paesaggi, scolpisce le foreste e spinge branchi di animali sulle rotte migratorie o nelle tane per un lungo sonno. Da poco tradotto in italiano, Gelo parla di scoiattoli in letargo il cui sangue incomincia a gelare e che, come piacerebbe fare anche a noi, riprendono vita in preda ai brividi, di orsi tanto pingui da non riuscire a camminare, di rane surgelate e di uova di bruchi al glicerolo (un antigelo). Dalle meraviglie dell'ibernazione passa alle esplorazioni nei luoghi più estremi del pianeta, racconta del suo viaggio in una galleria scavata nel permafrost ai tempi della Guerra fredda per osservare strati di ghiaccio e terra che risalgono a 40mila anni fa e che odorano di muffa. Racconta delle tuffatrici «ama» giapponesi e coreane, che per raccogliere frutti di mare sfidano in apnea temperature tanto fredde che ucciderebbero la maggior parte degli uomini. Si addentra poi a spiegare come i metodi di refrigerazione hanno cambiato il nostro destino e quello del mondo. Streever si muove agilmente tra geografia, biologia, storia, mitologia, folklore e scienze dell'ambiente, snocciolando aneddoti e citazioni, passando da Coriolis o Celsius, alle balene, da Alessandro Magno o Napoleone agli alberi che, incapaci di migrare, congelano, rilasciando – nel cambiamento di stato – una vampata di calore, ed eliminando i fluidi dalle cellule.

Viaggi straordinari ma possibili
Lonely Planet, nota guida per viaggiatori-zaino-in-spalla, ha selezionato Mille viaggi straordinari. Dai più classici ai più stravaganti. Alla voce "gli ambienti più estremi" troviamo: il deserto di Atacama, in Cile, quello del Sahara, Delhi, città dei contrasti e degli eccessi e sempre in India il Ladakh, il parco nazionale di Banff, nelle montagne rocciose canadesi, l'outback australiano, la depressione di Danakil, in Etiopia, le montagne dell'Alaska Range, le Ande equadoregne (il Tungurahua e la via dei vulcani), la megalopoli effervescente e soffocante di Città del Messico. Per "I luoghi più caldi e più freddi" troviamo la stazione antartica di Vostok, la base di ricerche Eureka a Ellesmere Island, nel Nord del Canada, il villaggio siberiano di Oymyakon che detiene il record di temperatura più bassa mai registrata nell'emisfero nord (-71,2°), la cima più alta del Nord America, il monte Denali (o McKinley), la capitale più fredda del mondo: Ulaanbaatar, in Mongolia, la città libica di Al ‘Aziziyah, dove si è registrata la temperatura più alta del mondo (57,8°), di nuovo la depressione della Dancalia, in Etiopia, dove il vulcano Dallol può far aumentare la già rovente temperatura dell'aria di qualche centinaio di gradi, il deserto iraniano di Dasht-e Lut, dove il suolo raggiunge i 70°, la californiana Valle della Morte e infine Bangkok, che secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale è la città più calda del mondo, con una temperatura media annuale di 28°." (da Terre estreme e luoghi (quasi) inaccessibili. Quando i libri raccontano viaggi nei posti più freddi del mondo, "Il Sole 24 Ore", 27/12/'10)

Tre secoli di diari, prima dei blog: Hawthorne, Einstein, Burroughs


"Nathaniel Hawthorne usava il suo diario per celebrare l’amore profondo per la moglie Sophia. Nel suo journal, Tennessee Williams confessava con quotidiano puntiglio la solitudine e l’insicurezza che l’attanagliarono fino alla morte, mentre le annotazioni giornaliere aiutarono John Steinbeck a liberare con catartica onestà il tormento artistico che accompagnò la stesura di Furore, il suo capolavoro. Questi e altri settanta diari, scritti nell’arco di tre secoli, fanno parte di The Diary: Three Centuries of Private Lives. La mostra, allestita alla Morgan Library & Museum di New York dal prossimo 21 gennaio e curata da Christine Nelson, illustra come la diaristica non sia affatto un’invenzione dei blog, di Twitter o dei social network. Da secoli poeti e scrittori utilizzano il diario, la più privata e onesta delle forme letterarie, per documentare le proprie esperienze di viaggio, liberare l’animo da tribolazioni e affanni, attenuare la solitudine o semplicemente tramandare ai posteri l’affresco della propria era. Si tratta, insomma, di uno dei generi di scrittura più eterogenei, che va dai celebri diari osé di Anaïs Nin e quelli castigati della Regina Vittoria — pubblicati e apprezzati da milioni di lettori in tutto il mondo — ai manoscritti privati e inediti di Albert Einstein (che saranno pubblicati nel 2011 dall’Einstein Papers Project), di John Newton, l’autore dell’inno cristiano Amazing Grace, scritto intorno al 1772 e di Baron Larrey, il chirurgo dell’esercito napoleonico. Che cosa ha mosso questi ultimi a tenere segreti i loro scritti? Forse lo stesso pudore che negli anni '30, durante la stesura di Furore, spinse il premio Nobel Steinbeck a confessare, nel suo privatissimo quaderno: «Ho già tentato prima d’ora di scrivere un diario, ma non ci sono riuscito a causa della necessità di essere onesto con me stesso» . Una preoccupazione, questa, estranea al filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau, al centro della mostra. Tra i suoi 39 diari e dozzine di blocchi per appunti nella collezione permanente della Morgan Library spiccano titoli come «verità» , «alba» e il lirico «i ruscelli immobili sono i più profondi» che il padre dell’ambientalismo moderno decorò con disegni di paesaggi e animali, tra cui il dettaglio di una piuma di falco.
Nel diario di nozze compilato a quattro mani da Nathaniel e Sophia Hawthorne, qualcuno individuerà il primo documento interattivo dell’era moderna, 150 anni prima della nascita di Internet. «Credo profondamente che non vi sia il sole in questo mondo — scriveva Hawthorne nel 1842 — eccetto quello che irradia dagli occhi di mia moglie» . «Mi sento nuova — ribatte lei — come la terra appena rinata». Più tardi i loro tre figli inserirono schizzi e disegni tra le pagine, trasformandole in un vero e proprio quadro di famiglia. La lettera scarlatta, rivela la mostra, ebbe origine proprio da uno di questi diari. «Vorrei scrivere un libro sulla vita di una donna condannata dalla vecchia legge delle colonie a indossare sempre la lettera A trapuntata sul petto, come punizione per aver commesso un adulterio», scrive Hawthorne, dando per la prima volta forma a quello che era destinato a diventare uno dei romanzi più celebrati della letteratura americana.
Lo scrittore della beat generation William Burroughs, un diarista tra i più prolifici, pubblica uno dei suoi «giornali» — The Retreat Diaries — nel 1976: la cronaca dettagliata del suo soggiorno di due settimane in una comunità buddista del Vermont. Vent’anni prima, durante un viaggio a Barcellona, Tennessee Williams aveva immortalato l’incontro con un giovane amante: «Un figlio dell’amore», spiega. «Abbiamo cenato sulla terrazza con le guglie della cattedrale illuminate e il coro della messa che cantava motivi catalani nella piazza sottostante» . All’apice del suo successo letterario, quando La gatta sul tetto che scotta trionfava sulle scene e una nuova produzione di Un tram chiamato desiderio stava per debuttare a Broadway, Williams, sempre più dipendente da droghe e alcool, scrisse freneticamente il suo diario tra New York, Roma, Atene e Istanbul, registrando con maniacale onestà il suo dolore fisico ed emotivo, i suoi frequenti incontri sessuali con uomini e la sua disperazione con frasi quali: «Nulla da dire oggi, tranne che sono ancora vivo». Lo stesso desiderio di sfogo emerge dai diari dell’allora ventenne Charlotte Brontë che nel 1836, ai tempi in cui insegnava alla Roe Head School, scribacchiava annotazioni autobiografiche su sottili fogli di carta per esprimere il suo bisogno di fuga da una quotidianità fatta di solitudine e tristezza. Alcuni anni dopo, quando insegnava a Bruxelles, l’autrice di Jane Eyre utilizzò un testo di geografia per confidare il proprio stato d’animo: «È una vita abominevole, specialmente perché c’è solo una persona in questo luogo che meriti di essere apprezzata». Una delle pagine più struggenti appartiene a John Newton, autore dell’inno cristiano Amazing Grace, consumato dal timore di Dio e dall’ansia di rettitudine morale, che nei suoi scritti non menziona mai il suo passato di ex schiavista, nonostante il tacito senso di colpa che li permea. Nel diario scritto nel 1974 durante la tournée con The Band, Bob Dylan combina immagini e poesia. «Galassie che esplodono nel rosso-bianco-blu pulsante nella notte del grande occhio», annota accanto al disegno della sua stanza d’albergo a Memphis.
Meno ermetico Charles Seliger, il pittore scomparso nel 2009 che ci ha lasciato oltre 150 diari dove ha registrato quotidianamente opinioni, pensieri e attività. Il suo mentore è il leggendario Samuel Pepys, il politico scrittore inglese, autore del diario-bestseller in mostra alla Morgan: un’avvincente commistione di idee personali e testimonianze di grandi avvenimenti londinesi, dalla Grande Peste al tragico incendio del 1666." (da Alessandra Farkas, Tre secoli di diari, prima dei blog. Hawthorne, Einstein, Burroughs: gli sfoghi segreti dei grandi, "Corriere della Sera", 28/12/'10)

lunedì 27 dicembre 2010

Liberi tutti. Scadono i diritti. Il 2011 sarà l'anno di Gatsby e Margherita


"Raffaello Avanzini della Newton Compton è il più rapido. Quando scadono i diritti d'autore di un grande scrittore, la settimana seguente è già presente in libreria con i titoli più importanti a 4,90 euro. Una prova? Il 1° gennaio 2011 Francis Scott Fitzgerald sarà libero dai diritti e il 5 gennaio la Newton Compton proporrà Il grande Gatsby, Tenera è la notte e I racconti del jazz in una nuova traduzione. E poiché tra i grandi della letteratura morti nel 1940 Fitzgerald se la batterà con Michail Bulgakov, prepariamoci con l'anno nuovo a un'invasione di Maestri e Margherite, uova fatali e cuori di cane a prezzi di super tascabili.
Il miracolo si compie ogni inizio di anno perché la nostra legge prevede che i diritti d'autore durino settant'anni e scadano il 1° gennaio dell'anno successivo al settantesimo anniversario della morte. Quindi, se Joseph Roth è morto il 27 maggio 1939, i diritti scadranno il 1° gennaio 2010. Per caso avete notato quante edizioni della Marcia di Radetsky sono fiorite nell'ultimo anno? Almeno quattro, secondo IBS: Baldini Castoldi Dalai, Barbes, Giunti e Newton Compton.
Ci sarebbe da chiedersi per quale motivo in libreria siano disponibili quattro edizioni di Roth e Il placido Don di Aleksandr Sholochov che ha ispirato due film famosi non viene ristampato dal 1957. Forse perché ancora sotto diritto d'autore? 'No. Evidentemente non c'è richiesta' risponde Giovanni Peresson dell'Aie. 'Attraverso Arianna, un servizio a cui sono abbonate alcune case editrici, i librai comunicano le richieste dei testi introvabili. Ma soltanto quando la richiesta diventa significativa un editore comincia a pensare di ripubblicare il titolo. In Italia non c'è il mercato garantito negli altri Paesi europei dalle biblioteche di pubblica lettura, caopaci di assorbire fino a duemila copie di un classico in un paio di anni. Da noi alcuni libri importanti della Fondazione Valla quando vanno fuori catalogo diventano introvabili'.
Titoli introvabili e altri sovraesposti, ma nel rispetto del lettore non potrebbe esserci una politica editoriale concordata? 'Noi editori non ci mettiamo d'accordo per statuto' spiega Sandro Dalai della Baldini Castoldi Dalai. 'Siamo la categoria più stupida presente sul mercato. Ho avuto un passato da manager della Henkel e della Unilever e posso assicurarle che parlavamo con i concorrenti della Procter & Gamble per metterci d'accordo sugli sconti. Nell'editoria tutto ciò è impensabile, gli editori sono una categoria tragica. Nel senso dei classici, comunque, non è una corsa all'oro. Tutte le case editrici vogliono avere nel catalogo alcuni titoli. Di Joseph Roth noi abbiamo fatto tre libri. Non vende sfracelli, ma è bello averlo in catalogo'.
Per il piccolo editore fiorentino Barbes, che basa il 50% del suo catalogo su autori fuori diritti, la politica invece è di andare a cercare testi che mancano sul mercato. Dice Tommaso Guerrieri: 'Fitzgerald non ci interessa, puntiamo a riempire i vuoti, non al raddoppio di un titolo e soprattutto a proporre edizioni fresche promuovendo nuove leve di traduttori. E' una scelta editoriale. Su Internet si possono scaricare un po' tutte le traduzioni di fine Ottocento'.
E' vero. Andate su LiberLiber e troverete molto della letetratura mondiale. Shakespeare compreso. Una lodevolissima iniziativa, rendere gratis sul web l'accesso ai capolavori della letteratura, ma per gli editori che cercano scappatoie è un gioco da ragazzi riciclare una vecchia traduzione. 'Si prende un pischello e lo si mette a lavorare su quella. Si cambia l'incipit, si rinfresca un po' il testo e ci si mette il nome del ragazzo', afferma una gola profonda che chiede l'anonimato.
'Ma chi certifica la qualità della traduzione che si scarica da Internet?' si chiede Carmine Donzelli. 'E' proprio nel cuore della traduzione dei classici che si annida l'identità dell'editore. Non siamo degli stampatori, il nostro mestiere è certificare la qualità'. Donzelli ha da poco ripubblicato Il Conte di Montecristo in una nuova traduzione, con un lavoro filologico accuratissimo che ha richiesto tre anni di lavoro e un investimento cospicuo. 'Prima di cominciare l'avventura ho guardato cosa c'era in giro. Decine di edizioni, una il calco dell'altra. E con un sapore di stantio, una patina ottocentesca. Così ho fatto il detective e ho scoperto che la Mondadori nel 1984 aveva publicato negli Oscar il romanzo nella traduzione di Emilio Franceschini. La stessa che nel '99 prenderà Rizzoli. Ma chi è Emilio Franceschini? Nessuna traccia. Mi sono intestardito e alla biblioteca nazionale di firenze ho scoperto che questo Emilio Franceschini non esiste. E' un nom de plume. Oppure, se è esistito, ha vissuto due secoli fa, perché la stessa traduzione l'ho ritrovata, anonima, in un'edizione Salani nel 1898 che aveva clonato un'edizione, anonima, di Sonzogno del 1896. Quindi per 130 anni le generazioni che hanno letto Il Conte di Montecristo si sono affidate a un traduttore fantasma. Secondo me non è questo il modo di tenere i classici nel catalogo'.
Ma perché per risparmiare su una traduzione, se notoriamente è un lavoro sottopagato? E quanto incide sul prezzo di copertina una traduzione? Come è possibile, per esempio, che il bravissimo e velocissimo Raffaello Avanzini possa proporci Tutte le poesie e tutto il teatro di Garcìa Lorca nella collana I Mammut, un tomo di 1500 pagine a meno di 15 euro, per di più con traduzione nuova di zecca dell'ispanista poetessa Eva Clementelli, rivista da Claudio Rendina? Siamo certi che la traduzione sia nuova e non semplicemente rinfrescata? 'Nuova di zecca' assicura Rendina, che ha curato anche il Mammut di Guillaume Apollinaire.
Eppure, dopo quanto ha raccontato Donzelli, non possiamo non guardare con sospetto i classici appena ristampati. Negli anni '70 la Newton Compton era tristemente famosa per le sue traduzioni di Freud che sembravano fatte da un traduttore automatico o da un letterato ubriaco. 'Non è più così' risponde Raffaello Avanzini. In questi anni abbiamo rinnovato tutte le traduzioni. Freud compreso, affidandole a professionisti. Per esempio Scott Fitzgerald a Bruno Armando e i tre titoli che andranno in libreria con l'anno nuovo sono riviste da Walter Mauro. La stessa cosa vale per Roth e per Freud. Riusciamo a tenere i prezzi bassi perché abbiamo numeri da grande azienda e una struttura molto snella che ci consente di comprimere i costi fissi'.
Allora saranno i diritti d'autore a incidere tanto sul prezzo del libro? 'Dipende dall'autore' dice Avanzini. 'Se si tratta di Ken Follett, anche il 20%'.
Forse per questo conviene stampare scrittori defunti settant'anni fa. Aspettiamoci dunque, nel 2012, l'opera omnia di James Joyce, Virginia Woolf, Tagore e Maurice Leblanc (l'inventore di Arsenio Lupin), tutti morti nel lontano 1941." (da Brunella Schisa, Liberi tutti. Scadono i diritti. Il 2011 sarà l'anno di Gatsby e Margherita, "Il Venerdì di Repubblica", 24/12/'10)

La verità delle menzogne


"Mario Vargas Llosa è essenzialmente un letterato, oltre a essere un grande romanziere, e tuttavia, all'annuncio del premio Nobel, di lui si sono piuttosto sottolineate le vicende e convinzioni politiche. Benvenuto dunque il suo libro esile ma essenziale, La verità delle menzogne. Saggi sulla letteratura, nella traduzione di Angelo Morino. Un libro, che risale al 1990, in cui si consacra la fede di Vargas Llosa nel romanzo, offrendo i tanti «spunti della sua ben attrezzata officina» (sono parole del critico José Carlos Mainer su Babelia).
Tra questi spunti, nella riedizione spagnola del 2002, si trovava Cuore di tenebra di Joseph Conrad con il sottotitolo Le radici dell'umano. Circostanza assai importante perché proprio dalla lettura di Cuore di tenebra nacque, in Vargas Llosa, molti anni più tardi, il proposito di scrivere la sua opera più recente: quel Sueño del Celta, che, appena uscito in Spagna, sarà pubblicato in Italia nel maggio 2011, come sempre presso Einaudi, tradotto da Glauco Felici.
A dire il vero nell’edizione italiana tra i tanti romanzi esaminati, che vanno da Morte a Venezia a Festa mobile, passando per opere notissime quali Il grande Gatsby, La signora Dalloway, Il dottor Zivago, Il Gattopardo, manca proprio Cuore di tenebra.
Compare, tuttavia, più volte, proprio il nome di Conrad, citato per i suoi «meditabondi bucanieri», accanto ai «flemmatici aristocratici proustiani», agli «omuncoli incalzati dall'avversità» di Kafka e dagli «eruditi metafisici» di Borges: personaggi estremamente diversi tra loro che, pure, come dice Vargas Llosa, ci esaltano e ci commuovono «non perché non hanno nulla a che vedere con noi», ma perché il romanzo è un'abilissima mescolanza di verità e di menzogna.
Diciamo pure che tutto il testo di Vargas Llosa è un'appassionata disamina della finzione romanzesca, in quanto fronteggia la nostra vita «per raccontarla», pur trasformandola. E tanto è più abile la mescolanza, tanto più valido è il romanzo in cui «i fatti sono sottoposti a profonde modificazioni» ora dettate dal tempo ora dalla disposizione d'animo dell'autore ora dalla Storia.
Fondamentale concludere che «ogni buon romanzo dice la verità e ogni brutto romanzo mente» e questo, proprio perché «dire la verità» per un romanzo significa far vivere al lettore un'illusione e «mentire», invece, è, al contrario, essere incapace di compiere quel sopruso.
La verità delle menzogne, come si sarà capito, è un testo appassionante per il modo personalissimo in cui l'autore rilegge testi molto noti offrendone singolari interpretazioni: esemplari, in questo senso, ci sembrano, tra i tanti, Lolita, Il Gattopardo, Gente di Dublino, ma se ne potrebbero citare molti di più. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Vargas Llosa nel 1965, alla sessione del Premio Internazionale Formentor che, in quell'anno, si tenne a Saint Raphaël, nel Sud della Francia. Il giovane, poco più di un ragazzo, magro e bruno, con un gran ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, all'epoca aveva pubblicato La città e i cani, affidandosi all'editrice spagnola Seix Barral, che tanti meriti ebbe nel lancio dei nuovi scrittori spagnoli antifranchisti.
La sua vita, da sempre caratterizzata dalla passione per la letteratura, e di questo Vargas Llosa ha parlato anche nella prolusione del Nobel, e da atti di coraggio, ebbe, attraverso l'amicizia con Carlos Barral, una svolta. Fu, infatti lì, negli uffici di Barral, che Carmen Balcells, a quel tempo non ancora agente letteraria ma soltanto una giovane collaboratrice, adorna di una vistosa crocchia, lesse le prime quaranta pagine della Casa Verde, le sentì come una rivelazione, come un'opera innovatrice e decise di recarsi a Londra. Lì abitava Vargas Llosa che manteneva la famiglia lavorando come insegnante. Carmen si fece prestare cinquecento dollari da un amico, persuase Vargas Llosa a lasciare la cattedra e, di colpo, assumendo la veste di agente letterario, si sostituì a Seix Barral perché terminasse la stesura di Conversazione nella Cattedrale.
Come ricorda ora Vargas Llosa, fu una congiunzione di straordinaria generosità anche da parte di Carlos Barral, il quale, senza porre alcuna condizione lo liberò dall'impegno con la casa editrice. Dice Vargas Llosa: «soltanto lui poteva fare un simile gesto. Il che dimostra che tipo fosse». Insomma, nonostante le difficoltà, i sacrifici e le disavventure anche politiche, la «carriera» di Vargas Llosa, fortemente sostenuta da Carmen Balcells e oggi consacrata dal Nobel, suona proprio come un buon romanzo." (da Angela Bianchini, Quanti scrittori per fare un Nobel, "La Stampa", 23/12/'10)

mercoledì 22 dicembre 2010

Hoepli, una dinastia da manuale


"Capelli a spazzola, pizzetto, occhiali rotondi che incorniciano uno sguardo severo. Il ritratto di Ulrico primo, 'l'ardito e avveduto' capostipite, che sorveglia l'ufficio di Ulrico (Carlo) quarto, l'attuale presidente, è il simbolo di una longevità aziendale e dinastica da Guinness dei primati. Ulrico Carlo, classe 1935, Hoepli di quarta generazione, festeggia in questi giorni con i tre figli che lavorano al suo fianco, con gli otto nipoti che sta già allendando alla successione e con i centodieci fedelissimi dipendenti, i primi, formidabili 140 anni della libreria e casa editrice di famiglia.
La libreria è una delle più grandi d'Europa: sei piani nel cuore nobile di Milano, tra la Scala e il Duomo, 2500 clienti al giorno tra gli scaffali più altri 75 mila che quitidianamente la visitano (e fanno acquisti) online. La casa editrice licenzia 120 novità l'anno (300 volumi con le ristampe) e celebra l'anniversario con un'edizione speciale del Catalogo Generale (introdotta da Enrico Decleva) che non è soltanto un fitto elenco di autori e titoli (1600), ma anche un capitolo della cultura italiana.
Dottor Hoepli, da dove parte la vostra avventura? 'Da un villaggio della Svizzera tedesca: Tuttwil, nel cantone di Turgovia. Qui nasce Ulrico, nel 1847. I genitori sono contadini, ma a lui piacciono i libri. A quindici anni lascia il paese e va a fare il commesso in una libreria di Zurigo. proseguirà l'apprendistato a magonza, Trieste, Breslavia, perfino al Cairo. Finché, a ventitré anni, si sentirà pronto per mettersi in proprio'.
A Milano come arriva? 'Legge su una rivista che c'è una libreria in vendit. La acquista per corrispondenza, al prezzo di 16 mila lireprestate dai fratelli. E il 7 dicembre del 1870 sbarca in città per prenderne possesso. L'ha scelta perché è dotata di legatoria. Presto infatti diventa anche editore'.
Il primo libro che pubblica? 'Una grammatica francese, nel 1871. E quattro anni dopo, con il Manuale del tintore del chimico svizzero Robert Lepetit, inaugura la nostra collana più importante e fortunata'.
Un'importanza 'sfuggita troppo spesso all'attenzione della classe dei colti', ha notato Tullio De Mauro. 'Un'esperienza unica, una novità rivoluzionaria. A cominciare dal nome, che Ulrico tradusse alla sua maniera dall'inglese Handbook. I manuali Hoepli svecchiarono la cultura italiana elitaria essenzialmente umanistica, nel segno della scienza e della tecnica. Rappresentarono un'enciclopedia permanente per la formazione di un Paese che da agricolo diventava industriale. Nascevano nuovi mestieri e professioni che avevano bisogno di strumenti di formazione a buon prezzo, facilmente accessibili ma completi. I nostri manuali furono innovativi in tutto, anche dal punto di vista grafico e linguistico'.
Cosa resta oggi di quella intuizione? 'Una strategia editoriale ancora essenzialmente legata alla scienza, alla tecnologia, alla formazione. Che oggi significa, per esempio, pubblicare i manuali di informatica, marketing, management. O anche Il Cinese per gli italiani. Eravamo e restiamo editori di una nicchia specializzata. Senza la meraviglia, ma anche senza il pericolo, dei bestseller. Preferiamo i longseller: libri eterni, che vendono poco ma vendono sempre'. [...]
La storia della Hoepli non è stata solo una bella favola. Le bombe della Seconda guerra mondiale distrussero la vecchia sede, e con essa il 90% dei volumi in magazzino. 'Allora fu decisivo mio padre, che contro il parere di tutta la famiglia acuistò il terreno in questa zona, oggi elegante, ma allora malfamata. Quartiere di scaricatori e prostitute, si diceva. Ma lui tenne duro, e affidò a due grandi architetti razionalisti, Figini e Pollini, il progetto di questo palazzo che ha resistito al tempo e funziona ancora benissimo'.
Un'altra, più straziante tragedia l'ha raccontata Alina Marazzi nel film Un'ora sola ti vorrei, dedicato alla mamma suicida. L'infelice Liseli era sua sorella. Alina è sua nipote. E c'era suo padre dietro la cinepresa a girare quelle immagini private diventate pubbliche in un film che immagino vi abbia scosso. 'Non me. Ogni volta che lo rivedo mi commuovo. E' un film importante, vero, solido, bellissimo. Alza il velo di verità dolorosa ma necessaria, ricostruisce un mattone della nostra storia. Alina è una di noi'.
Centoquarant'anni dopo, qual è la morale della storia Hoepli? 'Una famiglia capace di restare unita, nonostante le diverse opinioni, intorno a un leader forte. la fedeltà alla doppia vocazione editoriale e libraria. La coerenza nelle scelte culturali. E un po' di fortuna'.
I suoi nipoti venderanno ancora libri di carta? 'Magari un po' meno, ma credo proprio di sì. Avere un libro tra le mani, toccarlo, sfogliarlo, diventare suo complice. Me lo insegnava mio padre, e io cerco di trasmetterlo a loro. E' un piacere che nessun libro elettronico potrà mai sostituire'." (da Armando Besio, Hoepli, una dinastia da manuale, "La Repubblica", 22/12/'10)

martedì 21 dicembre 2010

Il Libro Rosso


"Il Libro rosso, o Liber Novus, di Carl Gustav Jung è l'evento editoriale dell'anno, così come lo era stata l'anno scorso, a livello internazionale, l'edizione inglese – anticipata su queste pagine il 18 ottobre 2009 – divenuta un best-seller a dispetto della mole e del prezzo. Non è solo un libro splendido, strano, commovente, unico – è scritto in caratteri miniati e corredato di illustrazioni immaginifiche alla William Blake – ma è anche un documento cruciale per la storia delle idee. Non è solo un dialogo serrato con la propria anima, i cui modelli sono il Faust di Goethe e lo Zarathustra di Nietzsche, un'autoanalisi svolta sull'orlo di un autentico naufragio esistenziale, ma è soprattutto il lavoro che segna il distacco da Freud.
Jung era entrato in contatto col padre della psicoanalisi nel 1906 per poi diventare presidente della Società psicoanalitica. Il rapporto tra i due è ampiamente mitologizzato e il Libro rosso chiarisce che la fonte primaria dell'opera junghiana non può essere rintracciata in Freud e nella psicoanalisi. Concetti come quello dei tipi psicologici (introverso e estroverso per esempio), il processo di individuazione e l'inconscio collettivo vengono elaborati qui per la prima volta e sono distanti dall'impronta freudiana.
L'interesse del Libro rosso va anche al di là del mito e dell'aura di mistero alimentati dal divieto di pubblicazione imposto a lungo dagli eredi, superato grazie al paziente lavoro di persuasione dell'infaticabile e acutissimo curatore, lo storico della psicologia indiano Sonu Shamdasani. Perché in realtà questo testo, tenuto "segreto" dallo stesso Jung, non contiene nulla di pruriginoso o di scandaloso. Il suo carattere messianico e allucinatorio non ha a che fare con l'uso di droghe. Le immersioni nel sogno, nel mito e nello spirito religioso non sono i sintomi di una conversione, o concessioni a un'idea di superiorità dell'irrazionale o a pensieri in stile New Age, benché tutto ciò sia la testimonianza di un processo di rinnovamento e di rinascita di sé, elaborato nel contesto di una personale riflessione cosmologica. Qui si gettano piuttosto le basi per lo studio dei meccanismi universali dell'animo umano, andando alla ricerca di quei modelli di comportamento di carattere istintuale e culturale che Jung definirà come «archetipi» e che oggi si suggerisce di approfondire e verificare a partire dalle neuroscienze e in particolare dagli studi sulle emozioni di Antonio Damasio e di Vilayanur S. Ramachandran.
Nel 1957 Jung scrive: «Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini interiori. A essi va fatto risalire tutto il resto. Tutto cominciò allora, e poco hanno aggiunto i dettagli posteriori. La mia vita intera è consistita nell'elaborazione di quanto era scaturito dall'inconscio, sommergendomi come una corrente enigmatica e minacciando di travolgermi. Una sola esistenza non sarebbe bastata per dare forma a quella materia prima. Tutta la mia opera successiva non è stata altro che classificazione estrinseca, formulazione scientifica e integrazione nella vita. Ma l'inizio numinoso che conteneva ogni altra cosa si diede allora».
Il Libro rosso è anche una sorta di modello per un lavoro che ognuno dovrebbe fare su di sé, un "esercizio spirituale" – l'uso e la riflessione sulle immagini rimandano anche alle tecniche di Sant'Ignazio – volto a scandagliare le parti più nascoste e più irrazionali dell'io e dal quale non si può che uscire rafforzati. Un esercizio che ci riguarda tutti, perché, – scrive Shamdasani – «al pari di molti altri psichiatri e psicologi, Jung non considerava la malattia mentale un fenomeno antitetico allo stato di salute, ma riteneva andasse collocata all'estremo limite di uno spettro continuo».
Tutto era cominciato nel 1913. In un viaggio in treno verso Schaffhausen, Jung ebbe la visione di una terribile alluvione che inondava l'Europa – macerie, galleggianti e migliaia di morti – che, come avrebbe detto più tardi, preconizzavano i disastri delle Prima guerra mondiale. Jung, quarantenne e professionalmente affermato, sfida a viso aperto visioni e sogni di questo tipo, non sapendogli dare una interpretazione immediata. Inizia così, nel pieno di una crisi personale, l'esperimento su se stesso (che poi avrebbe chiamato il suo «confronto con l'inconscio») che proseguirà fino al 1930. Sviluppa uno specifico metodo di esplorazione psicologica – detto «immaginazione attiva» – finalizzato a consentirgli di «andare alla base dei processi interiori», «tradurre le emozioni in immagini» e «cogliere le fantasie che sollecitavano dal sottosuolo».
In un primo tempo Jung annota le sue fantasie nei Libri neri, quindi le rielabora aggiungendovi una serie di riflessioni e le trascrive in scrittura calligrafica, corredandole di illustrazioni, nel Liber novus, rilegato in pelle rossa, da cui il nome Libro rosso. L'originale è stato esposto, nell'ultimo anno, insieme ad altri materiali a New York e in California. La mostra inaugurata ieri a Zurigo espone anche le sculture che appartennero a Jung e, per la prima volta, gli originali dei Libri neri e le pergamene su cui egli scriveva in caratteri miniati. Sapeva che il suo non era il lavoro di un "artista", né voleva abbandonare la propria mentalità "scientifica", benché fosse dalla consapevolezza dei limiti di quella che era scaturito il proprio disagio di fronte al fluire dinamico dell'irrazionale e dell'inconscio. «Il lavoro sull'inconscio va fatto in primo luogo per noi stessi – scriveva Jung –, anche se indirettamente andrà a beneficio dei nostri pazienti.
Il pericolo è quello della follia profetica, spesso in agguato quando si ha a che fare con l'inconscio. È il Diavolo che dice: disprezza la ragione e la scienza, eccelsi poteri dell'uomo. Questo fatto non va mai dimenticato, anche se siamo costretti a riconoscere l'esistenza dell'irrazionale»." (da Armando Massarenti, L'esperimento che Jung fece su di sé, "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/12/'10)

lunedì 20 dicembre 2010

The Night Bookmobile


"Questa storia piacerà a chi pensa che esista un posto dove le pagine vanno in paradiso. Vi sembra strano che anche i libri abbiano una vita oltre la vita? The Night Bookmobile, la graphic novel dell'americana Audrey Niffenegger, racconta ciò che ogni lettore sa o dovrebbe sapere. All'alba di una notte d'estate Alexandra si imbatte in un camper dove l'attende il 'libraio' che cambierà la sua vita. Tutto ciò che ha letto è negli scaffali dell'enigmatico Mr. Openshaw, in realtà un angelo occhialuto che custodisce tutti i suoi libri in un empireo profumato di carta e dove il tempo ha depositato saperi ed emozioni. Come dire: ognuno è ciò che legge. E le parole ci seguono. Da quelle amate dei romanzi a quelle guardate svogliatamente sulle scatole dei cereali. Si accumulano, ci aspettano. Al fondo della nostra anima.
Artista ancora prima che scrittrice, legata ai libri da una liaison romantica (i primi suoi titoli li ha stampati e rilegati da sola e oggi ha circa sei mila volumi), con questa favola la Niffenegger ritorna alla grafica dopo due bestseller, di cui uno da quattro milioni di copie. All'editoria elettronica invece si avvicina con cautela.
Ma l'e-book, con la sua memoria di byte, non potrebbe essere una versione contemporanea della sua Bookmobile su ruote? 'E' diverso. Un bus è un luogo fisico, con dentro oggetti, odori, persone. L'e-book invece è solo un grande raccoglitore dove non potrebbe mai sucedere, come accade ad Alexandra, di vedere riuniti i volumi che le hanno riempito la casa e la vita'.
Che ne sarà delle nostre biblioteche ai tempi dell'iPad? 'Ci sorprenderà vedere quanto i libri tradizionali continueranno a essere pubblicati, letti, collezionati e archiviati. I libri elettronici sono utili, ma non credo che rimpiazzeranno mai la carta'.
Quando ha scoperto l'amore per i libri? 'Già da piccola mi piaceva aggiungerci delle mie ilustrazioni. Sono sempre stata una lettrice 'partecipativa': quando ho imparato a scrivere ho cominciato a integrare anche i testi, per ogni personaggio inventavo storie parallele. A sei anni già realizzavo a mano dei volumi'.
Le è mai venuto in mente di cambiare qualcosa - un finale, un carattere - di ciò che è stato scritto da altri? Forse la fine dell'ultimo libro della saga di Harry Potter. Non perché la Rowling non l'abbia azzeccata, ma perché per certi personaggi mi sarei immaginata vite diverse e un finale più sfumato'.
Qual è il romanzo che l'ha fatta crescere di più? La prima volta che ho letto Donne in amore di D. H. Lawrence avevo dodici anni e non ci ho capito molto. Però mi ha aiutato a intravedere il mondo degli adulti. In seguito mi ha fatto comprendere una serie di cose che nell'adolescenza non potevo intuire'.
Non pensa che la lettura possa anche allontanare dalla vita? 'Sì, ma a volte la vita non è proprio così spassosa. E quando diventa una scocciatura ci si può consolare con i buoni libri'.
Ci sono letture che l'hanno cambiata? 'A loro modo tutte. Sui libri impari qualunque cosa. E tra l'altro magari anche a non ripetere gli errori degli altri'.
Che cosa metterebbe nel Bookmobile di un ventenne? 'A un giovane consiglierei di essere ambizioso, di non escludere argomenti che gli sono poco familiari. Se gli piacciono i romanzi, di provare con la storia. Se gli piace la scienza, con la poesia. Più ampia è la scelta, più vaste sono le connessioni e la possibilità di capire il mondo e le persone. Tra gli irrinunciabili metterei Alice nel paese delle meraviglie, Anna Karenina, le favole di Andersen, Infinite Jest, Donna Tart e Catherine Dunne, senza trascurare Rilke, Dante, le poesie di Emily Dickinson e i romanzi di Henry James, fino a Madame Bovary e a graphic novel come Maus di Art Spiegelman.
Nel suo Bookmobile cosa aggiungerebbe che ancora non c'è? 'Sono indietro nella mia tabella di marcia, anche se leggo varie ore al giorno. Per esmepio, non c'è ancora DeLillo e quasi niente di Philip Roth. La Bibbia c'è ma in modesta quantità. E poi non conosco gli autori non tradotti in inglese'.
Nell'archivio di Mr. Openshaw, Alexandra trova anche parole catturate da opuscoli, etichette, lettere, giornali. Le sue preferite? 'In questi giorni, accanto al computer ho piazzato un foglio di carta con sopra la parola Splendid. Mi piace, ha un suono incantevole e in più è incoraggiante, è positiva'.
Quali vorrebbe cancellare? Non trova che alcune oggi siano abusate? 'Sono le parole dei politici, quelle che soffrono di più. Del resto la gente lo ha capito: non significano niente. Ti dicono: 'Siamo sulla stessa barca ...', e tu sai che il significato in realtà è: 'Pensiamo che siate tutti un branco di idioti'.'" (da Enrica Caretta, Anche i libri prendono il bus, "Marie Clair", 1, gennaio 2011)

The Night Bookmobile (GuardianBooks)

Tlön, Uqbar, Orbis Tertius et El Sur


"«Debo a la conjunción de un espejo y de una enciclopedia el descubrimiento de Uqbar ...»: «Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo di un corridoio in una villa di via Gaona ...». Lo avrete riconosciuto. È il celeberrimo inizio di uno dei libri capitali della letteratura del Novecento (anzi, di sempre): Finzioni di Jorge Luis Borges. Il libro più raffinato dello scrittore argentino, quello cui deve – più di tutto – la sua immortalità. Uscì nel 1944 in Argentina, poi dilagò pian piano per tutto il mondo. In Italia arriverà nel 1955 grazie a Franco Lucentini e a una di quelle combinazioni che solo la letteratura può dare: la racconta molto bene Domenico Scarpa nel suo benemerito Storie avventurose di libri necessari (Gaffi). Ma questa è un'altra storia ...
Lo stesso Scarpa confessa in più punti di quel suo libro di critica, che è uso trascrivere a mano i passi degli scrittori che sta cercando di capire e interpretare. È una pratica, a mio parere, molto utile. Scrivere, o trascrivere, è entrare dentro la scrittura, è ricreare le parole e l'universo che esse sottendono; è ricercare l'essenza della letteratura nel suo farsi concreto: nell'essere scritta.
C'è stato un tempo – e parrà sempre più strano, in futuro – che gli scrittori, i libri li scrivevano a mano. Niente macchine da scrivere, meno che mai pc, figurarsi tablet. Posto che la scrittura resta fondamentalmente una magia, è vero però, che la tecnologia (come e dove si scrive) ne influenzi le caratteristiche intrinseche, e, chissà, forse anche la materia. Sta di fatto che Borges, quei racconti di Finzioni, li scrive mano.
Su carte finemente quadrettate, con quella sua grafia minuta, perfetta, nitidissima. Borges rimette mano al testo fino all'ultimo e trova sempre, nella ri-lettura (una volta che il testo è finalmente di-spiegato) occasione per modificare, migliorare, affinare. Qui sopra vedete come cancelli la parola sottostante e scelga il verbo «inquietare»: che lancia prospettive inaudite al racconto.
Ebbene. Nell'ottobre del 2008, la Fondazione Bodmer di Ginevra acquisì, per 378 mila franchi, il manoscritto: ventisei pagine. Era un modo per rendere omaggio allo scrittore, che a Ginevra aveva vissuto gli ultimi anni. «Abbiamo acquisito un manoscritto mitico» disse allora il direttore della Bodmer, Charles Méla, ben sapendo di non esagerare con gli aggettivi. Il testo di Tlön, redatto nel 1940, andava ad aggiungersi, nel patrimonio bodmeriano, a un altro Borges: il manoscritto di El Sur, cioè l'inizio e la fine di Finzioni. Oggi la Bodmer, grazie all'editore Puf, rende disponibile il manoscritto, in una ristampa anastatica e in un'edizione critica in spagnolo e francese. In un bellissimo libro, che vale la pena possedere e ammirare.
L'emozione di vedere il manoscritto borgesiano è grande. Ma certamente non pareggia quella di averli sottomano, fruscianti sotto le dita. Mi è capitato all'ultima Fiera di Francoforte. Il libraio antiquario Víctor Aizenman ha presentato un catalogo di manoscritti ed edizioni originali di Borges mozzafiato. Penso che fosse anche il precedente proprietario del manoscritto venduto alla Bodmer. Di sicuro alla Buchmesse aveva ancora tutte le prime edizioni originali stampate (e si stava entro i venticinquemila euro) e i manoscritti di Avvicinamento ad Almotàsim (secondo racconto di Finzioni), Le rovine circolari, La lotteria di Babilonia, Esame dell'opera di Herbert Quain. Non bastasse: c'era un pezzo unico. Il manoscritto di La biblioteca total, uscito nell'agosto del 1939 sulla rivista «Sur» e mai raccolto in volume. È la prima, spuria versione di La biblioteca di Babele (1944), il racconto che dà senso alla parola «borgesiano». Il prezzo «superava le centinaia di migliaia di euro», mi disse l'antiquario. Non aveva tempo da perdere con uno che chiaramente non aveva abbastanza soldi per iniziare una trattativa. Ma abbastanza passione da capirne il valore, sì.
È solo un pezzo di carta scritto, direte. Già. È proprio così. E si può dire lo stesso di quasi tutta la letteratura che ci ha fatto sognare. Qualcuno l'ha scritta, e per lo più a mano. E lo ha fatto per noi, i lettori, più che per se stesso. Ecco perché un semplice pezzo di carta ci può essere così prezioso." (da Stefano Salis, La minuta preziosa firmata da Borges, "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/12/'10)

Tlön, Uqbar, Orbis Tertius

sabato 18 dicembre 2010

Dieci prove di fantasia


"Critico e filologo insigne, Cesare Segre si è concesso Dieci prove di fantasia (Einaudi), anche se alimentate da scrittori e da libri che ha amato e frequentato. E, in analogia con la sua mutazione da studioso a scrittore di immaginazione, ha operato nei confronti dei personaggi un capovolgimento, o quanto meno una rettifica, delle loro più accreditate rappresentazioni.
Intendiamoci, il filologo è sempre alle poste, sia quando decide di privilegiare uno tra i diversi racconti tramandati sullo stesso protagonista, sia quando si tratta di contestare le confessioni d’autore o di suggerire la possibilità, per quanto irrealizzata, di un evento. La sorpresa più clamorosa riguarda Gano di Maganza. Il fellone della tradizione cavalleresca diventa un pacifista che vuole porre termine al maniacale e disastroso bellicismo di Rolando, che si atteggia ad «eroe di professione». Del trovatore Guillem de Cabestanh si racconta - con l’avallo di Dante, Boccaccio e Stendhal - la rovinosa passione per Soremonda, la moglie di un barone. Questi, dopo averlo ucciso, gli strappò il cuore facendone un manicaretto per la fedifraga che non gliela diede vinta e si buttò dalla finestra. Gli storici
hanno dimostrato che Guillem durò così vivo e vegeto da partecipare, anni dopo i presunti ammazzamenti, a una famosa battaglia contro i musulmani. Ma gli storici, si sa, non si arrendono, come qualche filologo, alla bellezza e alla verità di una leggenda.
Venendo a tempi più vicini, incontriamo la figura enigmatica della donna cantata da Machado con il nome di Guiomar. Dopo la morte del poeta, svelò la sua vera identità, ingegnandosi tuttavia ad affermare la natura esclusivamente intellettuale e platonica del loro rapporto. Ma Segre non abbocca e rileva con finezza che «il loro gioco di inserire rispettivamente versi dell’uno nelle composizioni dell’altro sembra sublimare un intreccio impetuoso dei corpi».
Non è vero poi, ma sarebbe potuto accadere e avrebbe dato un tocco ideale al racconto della sua ultima notte, che Pavese sfogliasse Il mestiere di vivere. Mentre, dalla stanza accanto, si avvertiva l’ansito di due amanti appagati.
Perché quel libro che traccia due parabole opposte, il trionfo nella letteratura e il fallimento nell’amore, rappresenta un persuasivo viatico per la sua morte. Il manoscritto del diario fu trovato in realtà in un cassetto del suo ufficio: «Basta un particolare - annota Segre rassegnatamente - per cambiare tutto».
Sono variazioni condotte con grande eleganza, con divertita e talora pensosa ironia, movimentate dall’alternanza dei punti di vista.
Riguardano ancora Isotta, trafelata nel tessere inganni a re Marco; la dissoluta Cunizza da Romano messa in Paradiso da quel «mattacchione di Dante»; Vittorio Alfieri, invischiato con esiti farseschi nelle trame amorose di Penelope Pitt; Charles Bovary che contesta il marchio di gonzo impressogli da Flaubert.
Concludono la rassegna due interviste immaginarie: a Giulio Cesare, maestro di una realpolitik non dismessa ai nostri giorni; a Marie Le Jars de Gournay, figlia adottiva e curatrice non disinteressata dei saggi di Montaigne. Il senso complessivo che si ricava da queste Prove di fantasia è, al di là del tono scanzonato, un omaggio alla polivalenza ed effabilità di un testo letterario, che sembra rigenerarsi
nel passare del tempo e offrire sempre nuove occasioni al piacere della lettura." (da Lorenzo Mondo, Se Dante e Pavese avessero preso un’altra via, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/12/'10)

Basta una lettera per il riscatto di Charles Bovary ("La Repubblica")

Mosche d'inverno


"Nella più enigmatica delle Operette morali, una notte Federico Ruysch - nel Seicento passato alla storia per aver preservato i cadaveri dalla putrefazione
- riceve la visita delle sue mummie. È allora che nella penombra dello studiolo si ode intonare questa «canzoncina»: «Che fummo? / Che fu quel punto acerbo / Che di vita ebbe nome? / Cosa arcana e stupenda / Oggi è la vita al pensier nostro, e tale / Qual de’ vivi al pensiero / L’ignota morte appar». Nella modernità (o
piuttosto postmodernità) letteraria - ha spiegato un maestro come Luigi Baldacci - esiste, diremo così, una «funzione Ruysch»: una linea segreta di autori che, proprio come le ilarotragiche mummie leopardiane, guardano «la vita dal punto di vista della morte».
È casuale ma proprio per questo curiosa (e forse sintomatica, giunti come siamo al capolinea degli Anni Zero) la recrudescenza editoriale di libri ascrivibili a questa Stimmung: i quali tutti sintetizzano nel breve spazio della morte, nel punto acerbo che segna il passaggio da un mondo all’altro, il senso sfuggente, appunto enigmatico, delle nostre vite - così brevi e svanenti.
Tanto Il libro dei filosofi morti dell’arguto poligrafo inglese Simon Critchley, tradotto l’anno scorso da Garzanti, che le mirabili Morti favolose degli antichi di un giovane filologo di Prato, Dino Baldi (da poco uscite nella «Compagnia extra» Quodlibet, che continua a non sbagliare un colpo), hanno alle spalle una genealogia che, partendo dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e passando per le Vite brevi di uomini eminenti di un contemporaneo inglese di Ruysch, John Aubrey (libro delizioso, negli Anni Settanta tradotto da J. Rodolfo Wilcock per Adelphi), ha un punto di snodo nelle magnifiche Vite immaginarie del poligrafo fin de siècle Marcel Schwob. Una linea fatta di erudizione compiaciuta e, insieme, gusto dell’equivoco affettivo: dove la brevitas icastica, che livella figure impari per rango biografico e complessità di pensiero, ci regala l'ombra di un sorriso nelle pieghe di una commozione autentica.
Nulla so di Eugenio Baroncelli, se non che è nato a Ravenna nel 1944: ma due anni fa il suo Libro di candele (Sellerio) è stato la migliore rilettura, nella nostra lingua, di questa tradizione. Ora gli tiene dietro Mosche d’inverno (Sellerio), già dal titolo emblematico di questa cultura raffinata ma pacata: la brevità peritosa, la ventosa provvisorietà della vita trova un paragone che, per l'icasticità e insieme l'allusività culturale, fa venire in mente l’Ungaretti dei soldati che stanno «come d’autunno / sugli alberi / le foglie».
Le 271 morti sono trascelte nella storia di tutte le discipline e tutte le culture, e vanno dalle più celebri e proverbiali (da Giovanna d’Arco a Mishima Yukio, da Évariste Galois a Ippolito Nievo, da Walter Benjamin a Primo Levi) a quelle più oscure e leggendarie: che all'autore consentono gli accostamenti, le «rime» più sorprendenti (Attila come Jimi Hendrix, Poppea come Michael Jackson, Basilio I il Macedone come Manolete) ma anche di accludere al suo repertorio delle figure di ignoti - conterranei e, s'intuisce, amici e parenti - ai quali sono lasciate le parole, forse, più personali (di una certa Scilla si dice per esempio: «Vivi gli uomini non le piacciono. Aspetta che siano morti, e allora sì se ne innamora perdutamente. Come va il cuore, chiede? Già. Per fare breccia nel suo bisognerebbe che si fermasse il mio»).
Del campano Franco Arminio, di Baroncelli sedici anni più giovane, so invece forse più del necessario. Anche lui è un poligrafo, certo; e spero che non gli spiaccia se dico che le 128 prose brevi e brevissime, ora raccolte in Cartoline dai morti (Nottetempo), sono il suo capolavoro.
Se tutti i morti di Baroncelli hanno un nome e cognome, qui sono tutti anonimi: ma a loro stessi - proprio come in Leopardi - viene data la parola. Facile pensare all’Antologia di Spoon River, ma il tono di Arminio è tutto un altro.
Insieme ai nomi viene bandita ogni aneddotica: dalla loro vita, di cui poco o nulla sappiamo, ma anche dalla loro morte sempre insignificante.
Di tutti si potrebbe dire quello che dice uno di loro: «Io sono morto di vecchiaia, anche se non ero tanto vecchio, avevo cinquantanove anni». La morte - anziché restituire una verità, un qualche senso all'esistenza - non fa altro che sancire, siglandolo, quel che, pure, materialmente interrompe: «Quel vago fastidio che era sempre stato il mondo, quel vago fastidio di essere al mondo è finito all'improvviso».
Perché quel che viene infine ribadito è che - come dice Baroncelli - «i morti siamo noi». Siamo noi, la nostra vita acerba, a essere evocati da queste evocazioni, queste voci senza corpo: «Però ch’esser beato / Nega ai mortali e nega a’ morti il fato»." (da Andrea Cortellessa, I morti siamo noi, da Attila a Jimi Hendrix, "TuttoLibri", "La stampa", 18/12/'10)

Se Wikileaks sbarcasse a Teheran


"Novembre 2010. Al primo piano di un piccolo caffè di Teheran vicino a piazza dell' imam Khomeini chiacchiero con una ragazza velata che guarda Telephone, il video trash di Lady Gaga. Per molti il web è simbolo di massificazione della cultura e - dato che siamo in tempi di globalizzazione - di americanizzazione. Ne ho una dimostrazione vivente sotto i miei occhi.
Dicembre 2010. Mentre mi trovo a Berlino scopro allibito, insieme al resto del mondo, il contenuto criptato dei telegrammi diplomatici del dipartimento di Stato Usa: WikiLeaks, o la pirateria informatica su scala industriale. È il mondo a rovescio. Avrei preferito che WikiLeaks uscisse fuori in Iran (o in Cina), e che Lady Gaga restasse in America. Apparentemente, quindi, queste due pratiche della Rete sono contraddittorie. Per molto tempo si è detto che il web avrebbe favorito l' avvento di un intrattenimento unico e dominante, che internet sarebbe stata il simbolo della standardizzazione. Ma si è detto anche, inversamente, che internet sarebbe stata il santuario delle controculture e delle sottoculture, che le nicchie e le loro Long Tail avrebbero prosperato. In realtà, queste due visioni coesistono una a fianco dell'altra su Internet e sui social network: al tempo stesso, la massa e la nicchia. Al tempo stesso, la cultura per tutti e la cultura per ciascuno. Al tempo stesso, l' informazione in 140 caratteri e il tempo lungo di 10 pagine di critica a un libro. Al tempo stesso, Avatar e la foto della neve di fronte a casa mia. Al tempo stesso, il mainstream (Flammarion) e l'anti-mainstream. In Iran, ma anche a Cuba, in Arabia Saudita, nel sud del Libano o in Venezuela, quest'anno ho visto dappertutto oppositori, donne o gay meno isolati grazie al web. A Damasco o all' Avana, la cultura di massa americana spesso viene percepita come una cultura emancipatrice: è una controcultura accessibile grazie al web o al mercato nero. All'inverso, il sito di WikiLeaks, europeo e apolide al tempo stesso, esalta una forma di ciberdissidenza nel cuore dei Paesi occidentali, dove la libertà di espressione è incommensurabilmente più forte che in Corea del Nord. Questi paradossi confermano che Internet e i social network sono degli strumenti, di per sé né buoni né cattivi: sono, e saranno, quello che ne faremo noi. Bisogna difenderli (ad esempio contro il Governo americano, garantendo accoglienza a WikiLeaks), ma anche regolamentarli per proteggere il pluralismo, evitare il concentramento e difendere la libertà di espressione senza cadere nella calunnia e nella diffamazione generalizzata. WikiLeaks è utile, ma il futuro del web non è soltanto Wikileaks. Resta da capire se l'azione politica trarrà beneficio da queste evoluzioni. Sì e no. Sì, perché la trasparenza ci guadagna e la parola si libera. Grazie alla perdita del monopolio dell'intermediazione da parte di mediatori, critici, giornalisti, grazie al rinnovamento degli opinion leader culturali, i media sono più numerosi, i giudizi meno controllati e l'informazione più libera. I contenuti partecipativi, il web 2.0, i contenuti generati dagli utenti, gli scambi peer-to-peer, Wikipedia, gli aggregatori di contenuti, Flickr, la contestualizzazione, l'ibridazione offrono forme inedite di informazione e di cultura. D'altronde, ciò a cui stiamo assistendo non è soltanto una trasformazione della cultura, ma una nuova civiltà. Quanto alla pertinenza della mobilitazioni politiche generate dai social network e dalla Rete, ci sono meno ragioni per essere ottimisti. In un recente articolo Malcolm Gladwell sosteneva che Twitter non sarà mai in grado di stimolare una mobilitazione reale e un cambiamento importante: secondo Gladwell, se Martin Luther King avesse usato Twitter, non ci sarebbe mai stato nessun movimento dei diritti civili! (Small Change, The New Yorker) Non sarei tanto drastico. Ho visto recentemente, all'Avana e a Teheran, gli effetti positivi dei blogger anticastristi e antimullah. Certo, per il momento servono più a galvanizzare i cubani di Miami o gli iraniani di Los Angeles che a far cadere le dittature. Ma nell'Italia di Berlusconi e nella Francia di Sarkozy è su Facebook, sui blog e su Twitter che si organizza la mobilitazione. Bisogna sempre cominciare a condurre le lotte at home, prima di sperare di poterle importare nel resto del nostro small world." (da Frédéric Martel, Se Wikileaks sbarcasse a Teheran, "La Repubblica", 18/12/'10; trad. di Fabio Galimberti)

W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno


"W. G. Sebald amava vagabondare, nella scrittura e nella vita. Lo spingeva la curiosità che nei suoi libri diventa non solo erudizione, ma anatomia del passato, strumento della memoria, che per lui, tedesco nato nel 1944, significava metabolizzare la tragica esperienza della generazione precedente alla ricerca di un’identità affrancata dalle colpe dei padri. Forse anche per questo se ne andò in Inghilterra come lettore e poi docente di letteratura.
E forse per lo stesso motivo non c'è opera di questo anomalo intellettuale, morto in un incidente stradale nel 2001, che non sia cronaca, diretta o indiretta, di sventure, amara riflessione sull’edificio del mondo investito da fitte ombre, come dice il medico e scrittore secentesco Thomas Browne, che Sebald cita a più riprese nel suo libro del 1995, Gli anelli di Saturno, già pubblicato anni fa da Bompiani e che ora Adelphi ripropone nella nuova e raffinata traduzione di Ada Vigliani.
Come un viandante romantico Sebald decide un’estate di andare in giro, per lo più a piedi, per il Suffolk, una regione in cui egli visse a lungo, framare e colline, attraversando piccoli centri, un tempo magari famosi e ora in completa decadenza.
Questo suo «pellegrinaggio in Inghilterra», come suona il sottotitolo del libro nato da tale esperienza, è in realtà un viaggio nel tempo, un turismo balzano fra ruderi, macerie, vecchi reperti, dimore abbandonate come la residenza di Somerleyton in cui molte epoche hanno lasciato il segno.
Con la lente dell’entomologo egli scopre tracce quasi invisibili e trasforma il proprio itinerario in una trama storica i cui fili si intrecciano in mille divagazioni: la pesca dell’aringa e le battaglie navali fra inglesi e olandesi, la figura di Conrad e il colonialismo belga, la sericoltura, vero leitmotiv del libro, e l'amore del visconte di Chateaubriand, esule in Inghilterra, per la figlia del reverendo Ives, la biblioteca fantastica di Thomas Browne e l’immagine
umbratile del poeta Swinburne dalla testa enorme su un corpo gracile e minuto.
Forse aveva ragione Goethe quando diceva che i viaggi più affascinanti sono quelli che si fanno col pensiero. Attraversando la regione del Suffolk in compagnia del dotto Sebald è come se il lettore si inoltrasse in una biblioteca seguendo i giochi della mente e dell’immaginazione, in una landa popolata di fantasmi letterari che lo trascinano in avventure infinite. Si può seguire Conrad fra le pianure gelide della Polonia o nel cuore del Congo su un battello fluviale oppure rivivere la battaglia di Waterloo o curiosare alla corte dell’imperatrice cinese Cixi pronta a sacrificare il proprio figlio pur di mantenere il potere.
Sebald è scrittore consumato capace di riscrivere pagine di storia con la verve e il gusto del cronista (come, a suo tempo, Stefan Zweig), ma anche un geniale osservatore della quotidianità sospinta su un orizzonte di senso più vasto.
Così un albergo del piccolo centro di Lowestoft, il punto più ad Est delle isole britanniche, sembra uscire da una pagina di Kafka, mentre strani pescatori che bivaccano in riva al mare, in silenzioso isolamento e forse in attesa del passaggio dimerluzzi, affiorano come figure quasi metafisiche in un «luogo dove hanno il mondo alle spalle e davanti a sé nient’altro che il vuoto».
Dietro ai molti flash si intravedono cesure drammatiche, squarci di violenza e barbarie come il ricordo di massacri fra croati e serbi, le atrocità del colonialismo o quelle del Celeste Impero. Così come nella decadenza dei luoghi
si nasconde la metafora di una storia che nell’ottica di Sebald è «fatta quasi soltanto di calamità».
La sua scrittura, qui come altrove, racchiude il destino degli sconfitti, la voce dei profughi come quella dell’amico Michael Hamburger, grande traduttore di Hölderlin, sfuggito bambino alla follia nazista che ha cancellato la sua infanzia. La geografia letteraria di Sebald sembra voler ricordare che la cultura è anche documento di barbarie, come diceva Benjamin. Anche se lui con la magia del suo linguaggio trasforma le rovine in frammenti di bellezza, in tenui ricami di speranza." (da Luigi Forte, L'occhio di Sebald in ogni rovina vede la bellezza, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/12/'10)

mercoledì 15 dicembre 2010

Severino Cesari, il rabdomante di storie


"La parola "editor" non piace a Severino Cesari che di mestiere appunto fa l' editor. Sono quindici anni che, insieme a Paolo Repetti, manda avanti quella lucrosa aziendina che è Stile Libero, costola dell'Einaudi con licenza di stupire e di fare soldi. Catalogo ricco: molta letteratura noir, non solo straniera (anche se è prevalente), molta narrativa che vede - caso forse unico in Italia - una pattuglia di giovani italiani molto bene agguerrita e spesso presente nelle classifiche dei romanzi più venduti. Qualche nome in ordine sparso: Aldo Nove, Tommaso Pincio, Niccolò Ammaniti, i Wu Ming, Giancarlo De Cataldo, Paolo Nori, Valerio Evangelisti fino alle acquisizioni più recenti: Giorgio Falco, Antonella Lattanzi e ora Giuseppe Genna che ha speso un peana su Stile Libero e i suoi due maghetti. I quali non sono come il gatto e la volpe. Nel senso che Repetti ricomprende in sé la velocità felina e l'astuzia commerciale, mentre Cesari è quello che riflette, medita, si apparta. Tanto uno è estroflesso, quanto l'altro è ripiegato sul lavoro interno. «Faccio un mestiere invisibile», dice Cesari. E in effetti gli si può credere. Tutto in lui è votato all'understatemant. A cominciare dal modo di parlare: sommesso, come se ogni volta che apre bocca ti debba chiedere scusa.
In che senso fa un mestiere invisibile? «Nel senso che non esiste davvero. Cos'è un editor? Per me è solo uno che legge e che ascolta ciò che legge. Non ci sono regole, discipline da seguire: c'è solo la tua mente che risuona di parole altrui. Naturalmente non vorrei che si scadesse in una specie di afflato mistico, perché è ovvio che esiste anche una parte tecnica. Ma non è il lato più importante».
E qual è il lato più importante? «È quello - per dirlo con una fiaba raccolta da Frobenius - che scoprono i sudditi del Re ascoltando le storie raccontate da Farlimas. Le persone che lo ascoltano sentono accadere qualcosa dentro di loro: tempeste di emozioni, paure, rabbia, gioia. Ecco, quando si è in grado di avvertire tutto questo, allora si è davanti alla nascita di un vero libro».
C'è differenza tra creare una storia e riviverla nell'ascolto? «È come chiedersi perché uno è scrittore e l'altro no. Un autore è una specie di rabdomante che sa trovare le storie. La mia funzione è mettermi al suo servizio. E questo presuppone una cosa: se tu, che svolgi quel compito, non ritieni importante che le storie nascano, non avrai mai l'atteggiamento giusto. La domanda che ti devi rivolgere - lo dico per coloro che un giorno magari vorranno intraprendere la professione - è: quanto risulta importante per te che una storia esista?».
Come decide che una storia è pubblicabile? «Si deve ascoltare quello che si legge e sentire che la storia abbia una voce. La voce è il timbro, la cifra di un autore. Quando Valeria Parrella spedì i suoi primi racconti alla Minimum Fax, Nicola Lagioia leggendoli ha sentito quella voce. Che è inconfondibile. È come un clic che scatta nella testa. Poi, è chiaro, bisogna vedere se ha potenza, respiro, tenuta».
Lei parla di voce e di ascolto, cioè di aspetti legati più all'oralità che alla scrittura. «È vero, ma l'essenza di una storia è nel suo essere prima di tutto racconto orale. Poi arrivano i dati più tecnici. Ricordo che quando ci arrivò il testo di Simona Vinci, capimmo subito che c'era una voce. La storia non era messa a fuoco perfettamente. Ma c'era quel timbro particolarissimo che, in termini analitici, sintattici, linguistici, significava che la storia era fatta di immagini nette, staccate per paratassi, molto fotografica e poco dinamica. E i lettori si affezionano alla voce di un autore. E se quella voce cambia o stecca se ne accorgono e spesso se ne allontanano».
C'è molta empatia in ciò che dice. Ma l'editing di un libro è anche qualcosa di più specifico. Ricordo il lavoro di Grazia Cherchi e di Cesare Garboli che a volte riscrivevano un testo. «C'è una mitologia dell'editing che non condivido. Parto dalla considerazione che se devi riscrivere un libro, tanto vale lasciar perdere. Hai fallito in partenza. Perché quello scrittore non diventerà un vero scrittore. Non so se Grazia Cherchi abbia mai riscritto un romanzo. L'ho conosciuta bene e so che ha sempre cercato e trovato scrittori veri. Stefano Benni e Massimo Carlotto, per esempio, li ha scoperti lei. E non li ha riscritti o manipolati, perché la loro cifra era autentica. Il compito dell'editor è di far sentire che quella voce c'è, correggerla nei particolari, renderla leggera se è appesantita, più profonda se è superficiale, più estesa se è contratta».
Ci fornisca un esempio. «Quando Giancarlo De Cataldo ci inviò Romanzo criminale, fu subito chiaro che era un libro forte e avvincente. Però, alla fine della lettura, mi resi conto che il romanzo non aveva un punto di ingresso. Mancava, ai miei occhi, una facilitazione per il lettore, qualcosa che lo portasse immediatamente nell' epica criminale di quella storia. Gli comunicai la mia perplessità e Giancarlo, bravissimo, qualche giorno dopo ci consegnò le due paginette iniziali che ruotano attorno alla frase chiave: "Io stavo con il libanese". In quel momento il romanzo ha preso il volo».
A proposito di voci e di editor viene in mente l'ultimo film di Woody Allen nel quale uno scrittore mediocre si appropria di un manoscritto di un amico che crede morto e lo spedisce al suo editor. Il romanzo è bellissimo e l'editor estasiato glielo pubblica. Ma poi l'amico si risveglia dal coma ... «È una storia che avrebbe potuto raccontare Frobenius».
La domanda è un'altra: l'editor, che ha respinto tutti i precedenti romanzi, non si accorge che quella è una storia rubata? «Probabilmente sì, o forse si convince di essere in presenza di un miracolo e così aggira ogni sospetto. Chi può dirlo? Occorre distinguere tra l'editore e l'editor. Il primo ha il dovere morale di proteggere la legalità dell'opera; il secondo ha la necessità di tirare fuori la storia nel modo migliore».
Lei lavora in una casa editrice che ha avuto straordinarie figure di editor: Vittorini, Pavese, Bollati, Calvino, Fruttero e Lucentini. Quel mondo sopravvive da qualche parte? «Sono figure oggi improponibili. Tra l'altro, non solo decidevano quali libri pubblicare, ma spesso erano essi stessi dotati di una voce narrativa straordinaria. E poi non credo che avessero un'attenzione, come c'è oggi, al mercato. La centralità dello scrittore era così forte da far passare in secondo piano ogni altra esigenza».
Intende dire che Stile Libero ha una cifra editoriale completamente diversa? «Con Paolo Repetti abbiamo costruito Stile Libero nell'idea di conservare una dimensione artigianale senza prescindere dal mercato e dalle sue ragioni industriali. Per noi un autore è uno scrittore che, fatte salve tutte le sue prerogative, va aiutato a stare sul mercato».
L'ideale da questo punto di vista è la fabbrica dei bestseller. «Non necessariamente. Anche se le classifiche sono importanti. Ma poi c'è il saper cogliere le novità e saper investire sui propri autori. Io so - tanto per fare degli esempi - che intercettare scrittori come Giorgio Falco o Antonella Lattanzi, significa seguirli nella loro crescita e non limitarsi al singolo libro».
Far parte della costellazione Mondadori le crea qualche problema? «Per niente. Lì ci sono fior di professionisti. Come da noi, del resto. Nessun impedimento o intrusione ci sono mai stati. Per il semplice motivo che la nostra autonomia è garantita prima di tutto dalla capacità di ottenere risultati»." (da Antonio Gnoli, Il rabdomante di storie, "La Repubblica", 15/12/'10)

Mapping the Republic of Letters


"Quando la cartina dell'Europa del XVIII secolo si illumina di traiettorie gialle e rosse restano pochi dubbi: Voltaire, che nella sua vita scrisse circa 18mila lettere, passò due anni in Inghilterra ma solo l'1% della sua corrispondenza fu in inglese; usò quasi sempre il francese per dialogare soprattutto con connazionali. Anche Jean Jacques Rousseau rimase a Londra un anno ma in quei mesi la sua rete di relazioni rimase ancorata a Parigi. Due secoli di studi avevano tramandato una certezza da manuale: i padri dell'Illuminismo francese furono affascinati dal clima culturale d'Oltremanica. Il database rivela invece la povertà di scambi epistolari, principale mezzo di trasmissione delle idee dell'epoca, e costringe a chiedersi: come è possibile trarre ispirazione senza usare la lingua e comunicare con chi ti influenza?
Visti dai laboratori di Stanford nel ventunesimo secolo, quei pensatori francesi sembrano molto meno cosmopoliti di quanto i libri di storia suggeriscono, sicuramente meno del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, il cui nome inserito nella casella sender rivela un network di conoscenze davvero radicato più al l'estero che in patria.
«Alla scoperta di un nuovo Illuminismo» potrebbe essere il titolo dell'ennesimo volume sul movimento-culla della modernità; è invece più adatto come sottotitolo di Republic of Letters, progetto della Università di Stanford che ha riletto il passato analizzando le lettere inviate e ricevute da filosofi, scrittori, poeti dal 1650 al 1824. «È quasi impossibile avere un quadro completo di come le idee circolarono nel passato – spiega Dan Edelstein, professore di francese e italiano a Stanford e capo del progetto –. La digitalizzazione della corrispondenza dell'epoca è stato il primo passo cruciale: abbiamo lavorato con l'Electronic Enlightenment Project di Oxford che ha a disposizione un importante archivio informatico del periodo». La repubblica delle lettere elettronica riguarda anche l'Italia del 700 e del 2010: «La mia collega Paula Findlen – continua Edelstein – sta studiando le lettere dello scrittore veneziano Francesco Algarotti e mappando la corrispondenza dello scienziato Antonio Vallisneri; assieme a Marta Cavazza dell'Università di Bologna lavora a un database che raccoglie le lettere della biologa bolognese Laura Bassi. Abbiamo inoltre una partnership con Density Design, laboratorio di ricerca del Politecnico di Milano».
Il progetto di Stanford, una sorta di social network pensato per il secolo dei Lumi, come le mappe digitali dei medievalisti della Drew University, sono esempi di come nelle università americane mette radici una nuova disciplina o meglio un nuovo modo di studiare letteratura, storia, filosofia, le digital humanities o humanities computing. Giovani professori di lettere e di programmazione lavorano insieme e danno diverso senso al passato. Un nuovo umanesimo che trova terreno fertile sul web, germoglia sui siti degli atenei, è teorizzato da pionieri come la professoressa dell'Università della California Johanna Drucker, dibattuto in un convegno-evento al Mit di Boston nel maggio scorso, consacrato dalla definizione su Wikipedia. Il «New York Times» ha lanciato un'inchiesta su come i nuovi mezzi digitali stanno cambiando il modo di studiare e insegnare le lettere; parla della fine degli "ismi" che hanno scandito i secoli e il nostro liceo, e di una sola idea nel futuro: i dati.
Un matrimonio fra letterati e geeks, sempre meno distinguibili nell'aspetto, in cui l'interpretazione sembra lasciare il passo alla mera ricerca negli archivi su dischetto. Edelstein ridimensiona: «I mezzi digitali non cambiano quello che facciamo: ci fanno fare un passo avanti nella ricerca ma l'interpretazione è più importante che mai perché, ad esempio, è facile malinterpretare le mappe». È vero però che i dati non sono asettici: «I mezzi digitali permettono di farci nuove domande e ci fanno capire quanto poco abbiamo capito del passato». Più suggestiva la Drucker durante il convegno al Mit: «Con le rappresentazioni grafiche del sapere umanistico i data diventano "capta", nuovi significati». Così mentre il mondo dei media ripete al mondo e a se stesso che non è importante il mezzo quanto il contenuto, il mondo delle lettere usa il mezzo alla ricerca di nuovo contenuto.
Un'avanguardia certo in un'America che assiste a poco rassicuranti dibattiti tv sulla qualità delle scuole pubbliche – a dispetto delle ispirate pagine di Obama sull'educazione nel libro L'audacia della speranza – e si interroga su come saranno cervello e capacità di apprendimento delle prossime generazioni, modificati da iPhone e pc. Ma anche l'ennesima dichiarazione d'amore per la tecnologia sublimato in What technology wants nuovo libro dell'ottantenne Kevin Kelly, papà della rivista Wired che tratta la tecnologia come un essere vivente e conia la parola technium, un mondo completamente interconnesso che va oltre «il lucido hardware» e «include cultura, arte, istituzioni, creazioni intellettuali di ogni genere»." (da Angela Manganaro, Gli illuministi vanno in rete, "Il Sole 24 Ore", 15/12/'10)

martedì 14 dicembre 2010

Poesia che mi guardi


"È il 2 dicembre 1938, Milano. Una giovane donna esce di casa presto, come fa tutte le mattine, per andare a insegnare. Ma se ne va dalla scuola in anticipo, due ore prima del previsto. A casa tornerà soltanto il giorno dopo, nell'agonia dei barbiturici ingeriti, per morirvi. Ha solo ventisei anni e lascia in eredità un piccolo e nascosto patrimonio di fotografie, diari, lettere e soprattutto poesie. I genitori ne fanno stampare un'edizione privata, da distribuire agli amici in ricordo della figlia così atrocemente perduta. Qualcuno, però, di una cerchia meno ristretta, più professionale e colta, si accorge di quelle poesie orfane, persino Eugenio Montale ne scrive. Ma quando negli anni 80, dopo un'intensa archeologia femminile e femminista che fruga nei cassetti dimenticati e negli angoli in ombra della letteratura, il suo nome viene riproposto con forza, Antonia Pozzi smette di essere semplicemente una poetessa e diventa una leggenda, una santa del martirio femminile.
Nel 1965 una donna di 34 anni compie la prima di una serie di coatte emigrazioni verso un paese oscuro, l'ospedale psichiatrico Paolo Pini, in termini più schietti, il manicomio di Milano. Non è una sconosciuta: ha pubblicato dei versi che molti hanno apprezzato e lodato. Ma nella sua povera casa di Ripa di Porta Ticinese il marito non può tenerla quando, stremata dalle difficoltà e dalla miseria e dalla bizzarria del suo carattere, dà in escandescenze. Le sue figlie, due al momento, saranno affidate ad altri. Tra un ricovero e l'altro continuerà a fare figli – altre due bambine – e a scrivere, ma la sua poesia è come contagiata e costretta ai margini dalla sua stessa infelicità. Poi, d'improvviso, la riscoperta: mentre la lunga disattenzione culturale e sociale che l'ha colpita e umiliata si trasforma in una famelica attenzione, alla fine del secolo passato e all'inizio del nuovo Merini smette di essere semplicemente una poetessa per diventare un personaggio.
Inoltrandomi di seguito, per pura coincidenza di pubblicazione, nel volume di mille pagine che Mondadori ha dedicato all'opera di Alda Merini, Il suono dell'ombra, e nell'ampia raccolta che l'editore Luca Sossella ha dedicato ai versi, agli scritti e alle foto di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, mi sono sentita trasportare in una lì per lì indecifrabile, un po' urticante medesima atmosfera. Un'atmosfera nebbiosa o decisamente tenebrosa che passa da un libro all'altro, pur nelle evidenti differenze di stile e di ispirazione letteraria delle due autrici. Quasi che la beatificazione postuma dell'una e la devozione tardiva per l'altra pescassero in una stessa fonte, in uno stesso umore o in una stessa iconografia del Novecento femminile italiano. Come del resto fa un altro piccolo e mirabile libro, da poco pubblicato, di Anna Maria Ortese, Mistero doloroso (Adelphi). Incastrandosi in una uguale costellazione, in un cortocircuito che si stabilisce tra la vita e l'opera e s'incarna nella lingua, queste tre opere sembrano indicare una figura, o addirittura metterla a nudo: la donna di dolori. Una precisa icona femminile della sofferenza: nel rifiuto, nella marginalità, nell'incomprensione.
«Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita», scrive nel suo diario Antonia Pozzi, e più avanti: «Tortura è stata la mia maternità immaginaria». La sua poesia registra «i sogni sepolti / del mondo, l'oppressa / nostalgia della luce»; e in una lettera al grande amore proibito della sua breve vita, Antonio Maria Cervi, il professore conosciuto sui banchi del liceo, stringe precocemente i suoi nodi: «È terribile essere una donna, ed avere diciassette anni». Anche nell'onda diluviale di parole che costituisce il corpus poetico di Alda Merini, l'espressione del dolore di essere nati, o piuttosto nate, è costante: striscia sotto il trasporto amoroso, si annida nel piacere della carne, s'inerpica per la passione e lo stupore del mondo, sottende la relazione con Dio. In un bellissimo verso giovanile lo chiama così: «il linciaggio delle ore». A guardare nella loro vita, quella dalla quieta apparenza della benestante Antonia e quella di tumulti e pene materiali di Alda, ragioni di dolore ci sono e molto concrete. In casa Pozzi è la protettività perbenista e autoritaria che un padre dal dominio feudale, e del tutto affine alla protervia maschile del regime fascista in cui è perfettamente inserito, esercita su una ragazzina troppo sensibile, non solo con divieti ma con minacce e allusioni di ritorsioni verso l'uomo di cui è innamorata; ma anche una certa diffidenza verso il suo talento della cerchia di intellettuali colti di cui fa parte e del suo maestro, il filosofo Antonio Banfi. Il suo talento, le dicono, fa bene a tenerlo a freno, a non fidarsene. Era, come la ricordò Eugenio Montale, una «anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita» o piuttosto una donna, una delle tante, maltrattata dal suo tempo e dalle sue circostanze e poco disponibile alla rassegnazione?
Quanto alla vita di Alda Merini basta la tremenda sequenza dei suoi ricoveri coatti e quello che lei ne ha scritto in L'altra verità per levare al suo dolore qualsiasi profumo metafisico, e soprattutto qualsiasi legame con un'essenza femminile. Si trattava piuttosto di una condizione, la condizione molto concreta di tante, tantissime donne italiane non privilegiate e non sottomesse nel corso della prima metà del Novecento, una condizione che Anna Maria Ortese riassunse nella protagonista dell'Iguana, la misera creatura «mezzo bestia e mezzo umana» attorno alla quale costruisce la sua fiaba nera. Ma credo che se all'inizio fu una condizione poi tracimò nell'enfasi e, nel culto dei fedeli, divenne una retorica. E se si vuole trovarne un simbolo, c'è una terribile foto dell'album dei ricordi letterari italiani, una fotografia di Alda Merini in cui il suo corpo di vecchia e malata veniva offerto a torso nudo agli occhi di tutti, come se solo l'esibizionismo della sofferenza fosse un esercizio di libertà e di valore e non potesse esserlo, invece, il pudore.
Lasciando sprezzantemente alla letteratura rosa la consolazione degli happy end e un filo di speranza, questa nomenclatura del dolore ha segnato buona parte del Novecento femminile, dalla Aleramo alla De Cespedes o alla grande Morante. Difficile trovarvi non solo l'arguzia della prosa di Dorothy Parker o le geometrie decantate della poesia di Marianne Moore o, più tardi, l'humour noir di Muriel Spark. Ma non è detto che dovesse andare proprio così, basta pensare a due piccoli capolavori della fine secolo ottocentesca, La virtù di Checchina di Matilde Serao e soprattutto Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi, cioè Maria Antonietta Torriani, prima maestra e poi giornalista, tutt'altro che insensibile ai problemi della dolente condizione delle donne italiane: due romanzi in cui una quieta ironia spodesta il lamento e smaschera con grazia inesorabile il complicato e contraddittorio chiaroscuro della realtà. L'ottimismo tardo-ottocentesco di queste due energiche emancipate affonderà invece nel ventesimo secolo in un nuovo mistero doloroso femminile e l'autorappresentazione prenderà soprattutto gli aspetti di una irrimediabile via crucis, complice la dura realtà della giovane modernità italiana quanto un'antica radicata italica tradizione donnesca del compianto." (da Elisabetta Rasy, Sofferenti muse della poesia, "Il Sole 24 Ore", 12/12/'10)

lunedì 13 dicembre 2010

La bellezza salverà il mondo


"Chi ha incontrato per la prima volta il nome di Tzvetan Todorov in tempi lontani, come editore e traduttore de I formalisti russi, avrà certo seguito con stupore e ammirazione il suo lungo percorso intellettuale. Dallo strutturalismo letterario alla storia delle idee, alla storia dell´arte, alla storia tout court, per approdare infine a una incessante discussione su quei temi semplicemente "umani" o civili che oggi tanto ci riguardano: la violenza, i diritti, l´identità, il totalitarismo, e così via.
Da pochi giorni è apparsa in Italia la tua autobiografia intellettuale, Una vita da passatore (Sellerio). Leggendola mi sono ricordato che durante il colloquio in tuo onore che si è tenuto poche settimane fa a Parigi, Lionel Naccache, sottolineando l´importanza dell´eclettismo nelle scienze umane, ha affermato che anche tu saresti un "eclettico". Ti riconosci in questa affermazione?
«Senza dubbio le circostanze della mia vita sono in parte responsabili della pluralità dei miei interessi. All´età di 24 anni ho lasciato il mio paese, la Bulgaria, per venire in Francia, e questo ha già seriamente trasformato le mie abitudini. Cinque anni dopo sono entrato a far parte del Centre National de la Recherche Scientifique, un´istituzione estremamente liberale. In definitiva, però, sento che le scienze umane si rivolgono tutte quante a un medesimo oggetto, anche se le materie che studiano sono diverse. Un certo enciclopedismo, una pluralità di punti di vista rivolti a questo oggetto mi sembra dunque auspicabile. Nel nostro campo vale questa regola della conoscenza: occorre andare sempre al di là del nostro punto di vista soggettivo e cercare di assumere quello degli altri, in un continuo va-e-vieni».
In questo stesso momento Garzanti pubblica un altro dei tuoi libri, con un titolo davvero programmatico: La bellezza salverà il mondo (Wilde, Rilke, Cvetaeva). Che posto occupa quest´opera nel tuo lavoro?
«Devo dire subito che questa formula, "la bellezza salverà il mondo", tratta da L´idiota di Dostoevskij, può avere molti significati. Mi soffermo sulla vita e il pensiero di tre grandi scrittori europei, che si possono sommariamente collocare nel periodo romantico. Secondo gli ideali romantici, la creazione del bello è il valore supremo dell´esistenza, e si è giustificati se si sottomette ad essa tutto il resto. Ciò detto, però, le modalità secondo cui questo ideale si realizza, divergono: Wilde ha voluto fare della sua vita un´opera d´arte, Rilke era pronto a sacrificare la sua esistenza sull´altare della creazione poetica, la Cvetaeva ha stabilito una cesura radicale fra alto e basso, fra poesia e vita quotidiana. Ebbene, questi tre artisti, le cui opere sono ammirevoli, hanno avuto una vita che si può definire tragica, pur se con gradazioni diverse. Il mio racconto svela la fragilità di questa visione romantica del mondo, e interroga direttamente il modo in cui ciascuno di noi costruisce la propria vita».
Prendiamo un altro dei tuoi temi (e dei tuoi libri), la paura dei barbari. Il termine "barbaro" ha un potenziale semantico enorme. Chiamando "barbaro" qualcun altro, infatti, ci si identifica automaticamente con i (presunti) maestri di ogni civiltà, i Greci, che appunto definivano bárbaroi tutti coloro che Greci non erano; ma anche con i Romani, che impararono rapidamente dai Greci a definire barbari i non Romani, ovvero con Ebrei e Cristiani, che a loro volta definirono "barbari" i gentili ovvero i pagani.
«Fino dalle sue origini la parola "barbaro" possiede due accezioni diverse. Da una lato ha un senso relativo, reversibile: si chiamano barbari quelli che non sono come noi, che non parlano la nostra lingua o che la parlano male; dall´altro invece ha un senso assoluto, indipendente dal punto di vista di colui che parla: in tal caso si definisce barbaro colui che trasgredisce le regole della vita comune, che si comporta in modo particolarmente crudele, che non ha alcun rispetto per la vita degli altri. Confondere questi due sensi è sbagliato, ed è il secondo che conserva ancora tutta la sua pertinenza. Nel XX secolo abbiamo sperimentato atti di barbarie che non hanno più niente a che vedere col fatto di essere stranieri, di parlar male la lingua e così via: pensiamo, in particolare, ai regimi totalitari in Europa. Il barbaro è colui che non riconosce la piena umanità degli altri. Ma bisogna anche ricordarsi che nessun popolo, nessun individuo è "barbaro" una volta per tutte: lo sono solo i suoi atti e i suoi atteggiamenti».
Credo che un individuo abbia il diritto di scegliere la propria identità culturale, proprio come Voltaire sosteneva che ciascuno ha il diritto di scegliere la propria "patria". Purtroppo, però, molti oggi non la pensano così.
«Qualsiasi gruppo umano possiede una cultura, ossia un insieme di regole di comportamento e di rappresentazioni mentali. All´inizio riceviamo la nostra cultura senza averlo deciso: è quella dei nostri genitori. Crescendo però possiamo fare scelte volontarie, conoscere culture diverse da quella in cui siamo nati, oppure decidere di continuare a viverci. D´altra parte, la cultura di ogni gruppo umano si trasforma col tempo. Prova ne sia il fatto che, pur se abitiamo sempre nel medesimo luogo, non parliamo certo la stessa lingua dei nostri antenati! Tuttavia, giorno per giorno nessuno è cosciente di questi cambiamenti. È in questo senso che qualsiasi cultura viva è simile alla mitica nave Argo. Il suo viaggio era durato così a lungo che tutte le sue parti erano state cambiate, assi, funi, vele - eppure era sempre la stessa nave. Una cultura che non cambia è una cultura morta, e non c´è nulla di cui essere fieri».
Eppure in Italia si sostiene spesso che il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche perché simbolo della "nostra" identità culturale: dunque non solo quella di chi sceglie di sentirsi cristiano, ma quella di tutti gli italiani, indipendentemente dalle decisioni individuali.
«In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica, accorda gli stessi diritti a tutti i cittadini, credenti o atei, cristiani, buddisti, ebrei o musulmani. Esigere oggi che tutti abbiano la stessa fede significherebbe rinunziare al carattere secolare dello Stato, confondere la sfera delle convinzioni personali con quella delle norme collettive, come facevano gli stati totalitari. L´unità della legge non ha lo scopo di imporre l´uniformità dei costumi, si può amare la propria chiesa senza dover chiedere nello stesso tempo di chiudere le moschee. È anche per questo che il crocifisso, nella scuola pubblica, non è al suo posto»". (da Maurizio Bettini, Tzvetan Todorov: 'È barbaro chi non riconosce l'essere umano', "La Repubblica", 13/12/'10)