martedì 27 maggio 2008

India divided - India spezzata di Vandana Shiva


"Kipling diceva, spesso citato a sproposito, che Occidente e Oriente mai si incontreranno, a meno che ... Possiamo modificare la predizione osservando come il mancato incontro avvenga oggi all'interno delle due Indie stesse, un paese diviso, secondo il titolo originale, India Divided, del libro di Vandana Shiva India spezzata (Il Saggiatore). Non si tratta semplicemente di uno sviluppo a due velocità, ma di un processo selvaggio di globalizzazione che approfondisce le ineguaglianze, saccheggia l'ambiente, sfrutta le sacche crescenti di emarginazione per assicurarsi profitti e manodopera a buon mercato. Globalizzazione significa che l'incontro tra Occidente e Oriente si è compiuto sotto il segno egemone delle multinazionali che lacerano e modificano l'equilibrio di una nazione. Vandana Shiva ci dice come il fondamentalismo, induista e musulmano, abbia aperto la strada della globalizzazione economica, inserendo determinate aree geografiche come punti strategici da controllare, non solo militarmente, nella lotta al terrorismo. Possiamo elencare, tra le conseguenze in India, lo scardinamento dell'agricoltura e della riforma agraria, con la vendita di sementi transgeniche che hanno portato al fallimento e al suicidio dei contadini, l'esproprio delle terre per creare delle aree di sviluppo economico agevolato, il prevalere dell'istruzione privata, la cui pubblicità invade le pagine delle riviste, a scapito di un'istruzione pubblica aperta a tutti, l'aumento del feticidio infantile tra la borghesia emergente, lo sfruttamento egemonico delle risorse idriche: una forma di neocolonialismo globalizzato. Da tali contrasti trae spunto l'antologia India, curata con eccellenza da Gioia Guerzonia (Isbn Edizioni), che cerca con garbati racconti minimalisti di giovani autori e autrici di suggerire squarci di modesta vita quotidiana. Non le grandi tragedie della globalizzazione e le contraddizioni in cui si muove la media o piccola borghesia indiana, ma uno sguardo disincantato o ironico, colto dall'angolazione di un ceto intellettuale giovane, ovvero le schegge e le briciole del boom economico. Abbiamo così viaggi metaforici verso la morte, in treni che non arrivano mai a destinazione e in compagnia di compagni di viaggio ruttanti e scoreggianti, oppure un malconcio condominio e graziose vicine con le quali non si potrà avere un futuro. Ancora, cronache di giovani in cerca di una casa, o articoli che trattano dei vecchi studi fotografici di Calcutta, con persone che si fanno fotografare con pannelli che rappresentano il crollo delle Due Torri. Oppure la vita miserabile di una domestica a ore ricca solo di umiliazioni e fatiche: qui si può misurare il distacco ormai consumato nei confronti dell'iconografia tradizionale, se pensiamo a come un racconto analogo di Raja Rao ergeva l'umile domestica a simbolo della spiritualità dell'India. Il breve fumetto del bengalese Sarnath Banerjee, autore di due graphic novels acclamate in Francia, ci porta infine a una densa atmosfera sospesa tra l'onirico e l'assurdo, in un pastiche di immagini in bianco e nero che spesso rasentano la figura o il collage, in un delirio insieme iper realistico e assurdo, che rappresenta la mescolanza di culture su cui si è plasmata l'India contemporanea, non shining ma sfocata e caotica, multiculturale e tuttavia senza rimedio provinciale." (da Alessandro Monti, Che delirio, l'India global, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/05/'08)

lunedì 26 maggio 2008

How I write. The secrets Lives of Authors


"Troppa grazia sant'Antonio: troppe idee per un libro solo! Stiamo parlando di un bellissimo volume che al soggetto forse non proprio originale - domandare agli autori i loro segreti di scrittura - ha aggiunto una tale quantità di trovate grafiche che ne fanno, prima di tutto, un oggetto editoriale (e materiale) di qualità decisamente superiore. Lo ha pubblicato la divisione americana di Rizzoli e si intitola How I write. Non è una mera raccolta di 'trucchi d'autore' - come in Italia ha selezionato Mariano Sabatini per Nutrimenti (se non ha la parola 'trucchi' è sviante: si tratta di mestiere semmai, non di 'trucchi', che nascondono sempre qualcosa di non chiaro) - a di una collezione di oggetti reali che aiutano gli autori interpellati (quasi tutti americani) nella loro ispirazione. Alcuni hanno interprettao la richiesta in maniera estensiva o figurata; molti si soffermano su soggetti fisici (tutti fotografati), ben presenti nella loro scrivania o studio e che davvero, stando alle loro parole, li influenzano nella scrittura. C'è chi (Vendela Vida) tiene sempre accanto a sé una copia di Addio alle armi ('mi ha insegnato a essere una bugiarda e una scrittrice'), Jonathan Franzen ha una sedia da ufficio sgarrupata, J. T. Leroy sceglie una crema di Kiehl's, Antonia Byatt spiega che ha un intero gabinetto di curiosità, Hanif Kureishi si circonda di penne colorate, Joyce Carol Oates tiene davanti un suo ritratto espressionista che la inquieta eccetera. E poi, ancora, ci sono pietre trovate per caso, chiavi smarrite da sconosciuti, statuette orientali, elenchi di nomi, lavagne di sughero, pareti stracolme di post-it, quadri, dischi, frutti di cipresso, bustine di the, foto di parenti defunti e molto altro. Il punto è che queste memorabilia d'autore sono l'appiglio fisico di un'attività prettamente mentale: nessuno crede veramnete che abbiano un ruolo diretto nella genesi dell'opera di un autore, eppure svolgono una funzione non secondaria nella vita (e forse anche nell'opera, chi lo sa ...) degli intervistati. Per lo stesso motivo, i cacciatori di ricordi si accaniscono nel voler acquistare oggetti, libri, penne, appunti, appartenuti al proprio scrittore preferito. E le aste di memorabilia, dal rock alla letteratura, vanno benissimo. Prova ne sia che persino un noto scrittore (e non solo) italiano abbia appena acquistato i celebri occhiali che indossava uno dei suoi autori di culto: Fernando Pessoa. Non vuole che sia rivelata la sua identità: ma prossimamente pare che li indosserà egli stesso. Chi ha interesse, dunque, a scoprire chi sia, aguzzi la vista. Oppure aspetti un'ipotetica edizione italiana del libro. Magari los crittore sarà della lista. E dirà che per scrivere ha bisogno di un paio di occhiali. 'm anon un paio qualunque. Precisamente quelli di Pessoa, che comprai ...'." (da Stefano Salis, Memorabilia da scrivania, "Il Sole 24 Ore Domenica", 25/05/'08)

domenica 25 maggio 2008

Richistan di Robert Frank


"C'è un paese virtuale che ha per bandiera il dollaro, cresce al ritmo del Pil cinese e ospita dieci milioni di persone, le più ricche del pianeta. Un mondo dove le scuole insegnano ai ragazzi come gestire le loro fortune, la privacy in vacanza è garantita da agenti della Cia e le case sono gestite come aziende. Robert Frank, giornalista che dalle colonne del "Wall Street Journal" scandaglia la vita dei nuovi capitalisti americani, lo ha definito Richistan (Isbn edizioni) nel bestseller che esce oggi in Italia: 'i nuovi ricchi ' dice l'autore 'vivono con stress la loro condizione. Sono stakanovisti che lavorano sedici ore al giorno per accumulare sempre di più'. Dunque, anche i ricchi piangono? 'Si lamentano molto. Spesso frustrati dal divario economico all'interno della loro stessa casta, che li fa sentire poveri anche se guadagnano dieci milioni di dollari'. Il suo Richistan è molto americano. Ce ne sono altri? 'Richistan è globale. Il numero dei miliardari cresce e presto gli americani, che oggi sono la maggioranza, saranno scalzati dai nuovi ricchi indiani e cinesi. Fra cinque anni chi avrà dieci milioni di dollari si sentirà classe media'. Fra i ricchi americani e quelli italiani ci sono più differenze o somigliane? 'Differenze: gli americani si sono fatti da sé nell'80% dei casi, mentre l'Italia è un Paese di patrimoni familiari. Negli USA è più importante l'impegno filantropico, fa ottenere rispetto. Gli italiani poi sono più discreti: in America si esibiscono ville e gioielli kitsch'. Sembra che i super-ricchi si sentano al di sopra di governi e leggi ... 'C'è chi si sente al di sopra delle regole. Penso alla regina del bon ton Martha Stewart, finita in prigione per una volgare storia di insider trading; a manger arrestati per azioni spregiudicate. A chi non paga le tasse. Certo, mai quanto in Italia, ma solo perché siamo più bravi a eluderle in modo legale'. Quali sono i valori dei ricchi? 'A parole quelli della classe media, da cui molti provengono. Credono nel lavoro, non fanno soldi per poi oziare sorseggiando vino su uno yacht. Vogliono dimostrare ciò che valgono accrescendo la loro ricchezza. E vivono nell'incubo di quella degli altri, senza sentirsi in colpa per chi non ha nulla'. E' vero che il loro stile di vita è inquinante? 'Certo, pensiamo allo shadow, yacht di riserva dove mettere di tutto, dalle auto ai cavalli. Viaggiano con i loro giocattoli al seguito sperperando energia. Poi ci sono i jet privati, immense dimore da riscaldare e illuminare. Ma se gli dici: avveleni il Pianeta, restano sconcertati'. Perché? 'Vogliono essere ricordati e non lo saranno certo per le loro auto. Ma legano tutto al denaro: relazioni, amici, amore, politica, rispetto. Se dici loro che hai altri valori si sentono a disagio'. Come evolverà Richistan? 'I miliardari aumenteranno e con loro le ineguaglianze, non solo fra ricchi e poveri, ma anche fra ricchi e ricchi ...'." (da Anna Lombardi, Dagli USA un bestseller che racconta un mondo a parte, "Il Venerdì di Repubblica", 23/05/'08)
"How the other 1 per cent lives" (da GuardianUnlimitedBooks)
"Lifestyles of the Recently Rich and Famous" (da Npr.org)

sabato 24 maggio 2008

La solitudine della forza - The Solitude of Strength di Leonard Cohen


"Ho letto con interesse i testi de La solitudine della forza di Leonard Cohen. I temi più ricorrenti sono quelli legati alla cultura e tradizione ebraica dell'autore, ben noto anche in Italia, oltre che per la celebre produzione musicale, per due romanzi e numerose opere poetiche. Si coglie in questa sua opera un afflato verso una entità pura e mitigatrice dei mali della realtà ma anche un'ossessione della Storia sentita come inevitabile oscura immanenza. Se, come già osservato, si impongono precisi riferimenti a temi ancora attuali inerenti al mondo culturale e al destino ebraici (Hitler e Preghiera per il Messia), dalla Storia sentita come un oscuro motore della realtà si passa alla storia come codificazione culturale delle vicende umane, per la quale Cohen dimostra di nutrire altrettanta sfiducia, come ben si deduce da alcuni versi della poesia Udendo un nome a lungo non pronunciato: "La storia è un ago / per far addormentare gli uomini / consacrato con il veleno / di quel che vogliono conservare". In una tensione unica convergono una forma di impegno civile e un'apertura visionaria e ciò dà luogo a una frequente derivazione di immagini dalla contemplazione della natura, che si pongono ora in parallelismo ora in scontro con il 'furor' della storia. In alcune composizioni si coglie, quasi come un alleggerimento rispetto a una rappresentazione del mondo cupa e cogente, il senso dell'amore coma forza risolutiva, anche se tale sentimento tende ad aprirsi in una tensione cosmica, di natura anche religiosa. Non mancano connessioni con la vita professionale di Cohen, di notorietà mondiale, esplicite nel titolo Un cantante deve morire e nella riproposizione dei testi di alcune delle sue celebri canzoni. Resta comunque sempre aperto e incombente il problema del rapporto tra poesia e musica, i cui confini sono qualche cosa di estremamnete mobile e impreciso, per quanto non manchino esiti talora veramnete notevoli, come dimostra questa raccolta." (da Andrea Zanzotto, Sui confini tra musica e poesia, "La Repubblica", 24/05/'08)

venerdì 23 maggio 2008

Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss


"[...] Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell'esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi tropici, un'opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri senz aprecedenti veri. Nasceva con pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacché alla fine, quel libro che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo. [...] Non so se davvero Lévi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c'è che Tristi tropici è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito. In certe pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell'etnologo, condizionato da un'ambiguità che mina, almeno in parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall'altro è consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si intende indagare. E' la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara sin dall'inizio. Trisit tropici si apre con un'affermazione sconcertante: 'Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni'. L'odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera così esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques Rousseau. Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che è civilizzazione. Il peso di quell'oblio bilancia l'amore che nutre per l'innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù del Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévy-Strauss visita, fotografa, filma, racconta. E' uno sforzo immane quello a cui l'etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all'Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui miserie: di accelerarne la fine. Considera Tristi tropici un'opera di corruzione del lavoro dell'etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull'impressionismo e Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni. Non è che gli impressionisti non sapessero dipingere, ma cercavano l'illusione di un'arte spontanea. La stessa illusione è convinto si celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro colore di superficie? Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienze improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull'India e le caste, sul buddismo e l'Islam. Ma a uno sguardo più attento si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo. Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si imbatte nell'omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato. Rousseau è stato il modo in cui l'Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell'altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che l'Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà interamente trasparente. Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono. Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana. [...] "Il mondo", si legge alla fine di Tristi tropici, "è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui". Siamo i privilegiati del pianeta. Solo perché l'arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza. Abbiamo detronizzato la natura, le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più complesse, sorrette da equilibri precari. "Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso". Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientata visione che Lévi-Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti. Ed è la medesima frustrazione provata nell'assistere alla caduta di King Kong dall'Empire State Building. Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c'era più spazio per la natura e il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato umano." (da Antonio Gnoli, Tropici sempre più tristi, "La Repubblica", 23/05/'08)

mercoledì 21 maggio 2008

Tracce del Sacro - Traces du Sacré


"Tracce del Sacro - Traces du Sacré -, come suona il titolo della grande mostra al Centro Pompidou in corso fino all'11 agosto, è un richiamo ingannatore. Perché chi attraversa questo labirinto di trecentocinquanta opere e duecento autori in una profusione di forme, colori e suoni, il Sacro non lo troverà più. Al contrario uscirà con la chiara sensazione che il Novecento - nucleo dell'esposizione - è stato il secolo della defintiva frantumazione del sacro. Dio non è morto, come immaginavano i teologi trent'anni fa, ma l'eclissi del Sacro si è certamente consumata nel secolo trascorso. Perché non c'è più un concetto unitario, reale, definibile e descrivibile di ciò che dovrebbe essere sotteso alla parola. Rimangono le tracce di quanti cercano spiritualità, trascendenza, energia cosmica, se si vuole, ma è un'altra storia. Nietzsche troneggia all'ingresso, in un essenziale ritratto di Edward Munch, di cui si vede anche il quadro "Croce muta": una folla che si allontana in un campo desolato lasciandosi alle spalle un crocifisso senza Cristo e senza resurrezione. 'Perdona padre, perché ho peccato' proclamano tre quadrati neri di Damien Hirst (2006), fatti di materiale scabro, quasi lavico e al tempo stesso ripugnante, che sembra rispecchiarsi nell'ovale nero di Lucio Fontana, interrotto da sei, sette squarci a testimoniare la "Fine di Dio". Non è una mostra a tema, va chiarito subito, ma è la realtà stessa degli artisti e delle loro creazioni che rivela l'impossibilità di un percorso che riconduca al Paradiso perduto o propizi l'incontro con l'Ineffabile. Di ambiente in ambiente si trovano le tracce dell'inseguimento dell'Inafferrabile. In una babele di espressioni. "Il grande Metafisico" di de Chirico o il suo faro bianco e squadrato dedicato alla "Nostalgia dell'infinito" coesistono con un Prometeo in corsa e con la danza selvaggia della "Negra" di Ludwig Kirchner o delle danzatrici spettrali di Emil Nolde che a seno nudo saltellano nel buio intorno a candele accese. La danza è certamente stata nei primi decenni del Novecento un tramite agognato per afferrare lo 'spirito'. Danza ossessiva, spettrale, sciamanica come quella di Mary Wigman, di cui si mostra un video breve ed efficace in un martellare di suoni che rievocano l'officina più che i tamburi della steppa: la Wigman è straordinaria, uno scatto isterico di capelli serpenteschi, gambe secche che guizzano come estremità di ragni, braccia contorte come rami secchi, mani che bucano il cielo.
Dov'è il Sacro in questo secolo aggrovigliato? Nel Cristo di Paul Ranson, in cui un Buddha silenzioso verde-profondo oscura lentamente la croce? Nelle tre donne blu di Piet Mondrian che cercano il dissolvimento nell'assoluto? Nel cavallo solitario di Franz Marc che fissa la prateria gialla? Nel lago abbandonato di ninfee su cui si libra un feto racchiuso in una bolla opalescente (Frantisek Kupka)? O nella preghiera di Man Ray, curva di bianchissime natiche prostrate di fronte a non si sa chi? E' nella femmina bruna di Marcel Duchamp che in piedi posa una mano benedicente su una donna pallida in ginocchio o nell'Adamo azzurrognolo di Vladimir Baranoff-Rossiné, che porta un fiorellino ad Eva stesa su un prato, sotto un sole scontornato incerto se sorgere o tramontare? Certo è che, se qualche volta appaiono figure tratte dai libri di religione, sono appena pretesti, apparizioni, strumenti degli aneliti emotivi dell'artista. Wassily Kandinsky, nel suo groviglio di colori della "Composizione VI", è testimone della perdita dell'asse del mondo. Augusto Giacometti, nel suo "Werden-Divenire" del 1919, un fiore rosso che esplode in un caos di colori ambigui e medusacei, rimanda al palpito di un cuore nascosto e inconoscibile. Semmai è Chagall nel suo lineare "Omaggio ad Apolinnaire" - un tronco umano che si spacca geometricamente in due, un Adamo e una Eva racchiusi da un cerchio astrologico - a raccontarci che la separazione tra ieri e oggi è irreversibile. André Serrano, con "Piss Christi", un crocifisso lattiginoso su sfondo rosso onirico costellato di tanti schizzi dorati, ci racconta anche un'altra cosa. Che l'Occidente ha inscritto in sé, potente e non sradicabile, l'impulso alla beffa, al blasfemo. Tra le composizioni più belle - per ironia e vigore - è sicuramente la "Madonna arrabbiata" di Max Ernst. Nobilmente popolana, con tratti michelangioleschi, il mantello azzurro scivolato sulle gambe, inchioda con la mano sinistra un Gesù Bambino riverso sulle sue ginocchia e con la destra mena senza pietà. Il bambinello ha i capelli biondi da piccolo ragazzo per bene, il sedere arrossato e l'aureola caduta miserevolmente a terra. Sic transit gloria mundi. Sono le guerre che hanno lacerato l'Europa con la sua pretesa di perfezione e progresso, ad aver distrutto qualsiasi visione ottimista della provvidenza divina. Gli angeli della morte di Otto Dix hanno il volto del soldato con la maschera gas. E nel 2005 Gerard Garouste compone un "Passaggio", pellegrinaggio verso una montagna sacra, che è uno sghignazzo. Un asino con cappello a punta alla pinocchio avanza in salita recando sul dorso il Mein Kampf di Hitler, dietro di lui un essere umano - ma potrebbero essere due - che un po' sale e un po' scende impugnando tra le mani ritorte una copia dei Salmi commentati da sant'Agostino, mentre su tutto aleggia la Bibbia dei Settanta. Dov'era dio ad Auschwitz? Sull'VIII Colle di Roma, che si impenna in una rupe disperata, Hermann Finsterlin colloca una cupola a guscio di lumaca. Buchi cavernosi portano verso un ignoto interiore. E' lì che si rintraccerà il Sacro? Una mostra perturbante, affascinante - piena anche di suoni, di invocazioni cerimoniali, melodie e scoppi di risa disarticolate che gli altoparlanti riversano nelle sale - un susseguirsi di squarci che gettano luce su più di cento anni di ossessioni, esplosioni di creatività, paure e riflessioni. Un paesaggio artistico che dimostra l'inutilità dei fulmini ecclesiastici contro gli spettri del soggettivismo e del relativismo. Perché dal Novecento in poi nessun discorso religioso può più fare a meno di passare attraverso la fornace dell'Individualità più totale. Svanite le tracce del sacro restano le orme del Soggetto. Solo, con l'arco di bronzo del torso che si infrange nella testa schiacciata al suolo, il "Soldato morente" di Lehmbruck è simbolo unicamente della sua solitudine." (da Marco Politi, L'eclissi del Sacro, "La Repubblica", 21/05/'08)

La globalizzazione e la fine del sociale di Alain Touraine


"'Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefintie e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto sugli stranieri'. Alain Touraine non ha dubbi, la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. 'Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell'altro però sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nsotre angosce', spiega il sociologo francese che ha appena pubblicato La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore), un volume che viene ad aggiungersi ai molti altri già tradotti in italiano. 'Rifiutando l'altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l'umanità dell'altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell'altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia'. Significa che lo xenofobo irrigidisce e assolutizza la nozione di altro da sé? 'Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come essere impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni. In questo modo, nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia. Naturalmente, chi è xenofobo si muove sempre sul piano generale, stigmatizzando un'intera comunità, anche se poi, sul piano personale, avrà sempre un amico arabo, sengalese o rumeno da esibire per respingere ogni accusa di xenofonia'. Le sembra che oggi la xenofobia sia in crescita? 'Sì e naturalmente ciò mi preoccupa molto, perché si tratta di un segno inquietante per la nostra società. Certo, se ci si colloca in una prospettiva storica, dobbiamo riconoscere che la storia del mondo è spesso stata dominata dal rifiuto degli altri, dei barbari, dei diversi. In passato, abbiamo avuto situazioni molto più gravi di quelle odierne, come quelle nate dalla tratta degli schiavi e dal colonialismo. Oggi però, dopo un lungo periodo in cui la xenofobia sembrava progressivamente arretrare, mi sembra che si stia tornando indietro. Si ritorna alla barbarie. E la xenofobia è una delle sue manifestazioni'. Quali sono le cause di tale evoluzione? 'Viviamo in una società più aperta e mobile, nella quale i contatti fra popolazioni differenti sono più facili e cosantementein crescita. E' una situazione che produce conseguenze contraddittorie. Accanto all'apertura e alla disponibilità, si manifesta anche l'esasperazione dell'inquietudine che alimenta il rifiuto degli altri. Ma quando un'intera comunità viene osteggiata e respinta, finisce per ripiegarsi su se stessa, sprofondando nel risentimento. Il riflusso comunitario e la xenofobia sono strettamente intrecciati. Si alimentano vicendevolmente'. La xenofobia nasce anche da una crisi di identità? 'Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario, la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l'altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un'identità si sente fragilizzata da minacce non immediatamente riconoscibili. Oltretutto, la mondializzazione oltre a rimettere in discussione al nostra idnetità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo a un vero e proprio crollo dell'io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. E' la dinamica del capro espiatorio'. Di fronte a queste problematiche, la sinistra è spesso accusata d'ingenuità e d'eccessiva comprensione per gli stranieri. Che ne pensa? 'In passato, in nome dei valori dell'Illuminismo, la sinistra ha giustificato la colonizzazione. Quindi non è vero che essa sia sempre stata dalla parte degli altri. Detto ciò, è vero che oggi la sinistra viene spesso accusata di essere troppo accondiscendente nei confronti degli immigrati. Personalmente, non credo sia vero. Semplicemente cerca di resistere a un discorso dominante che utilizza il tema della sicurezza per giustificare un discorso xenofobo. Naturalmente, la sicurezza è un diritto di tutti che va garantito, specie alle popolazioni più deboli e precarie. Non bisogna però cadere nella demagogia, rendendo responsabile delle nostre difficoltà interi gruppi di popolazioni. Oggi tutte le statistiche ci dicono che la criminalità è opera soprattutto di giovani non immigrati. La minaccia criminale quindi viene dall'interno del Paese, non dall'esterno. Non sono gli immigrati che vivono nell'insicurezza a minacciare la nostra sicurezza. Bisogna continuare a ripeterlo e cercare di elaborare politiche in grado di tenere insieme accoglienza degli altri e diritto alla sicurezza. Anche se certo ciò non è sempre facile'. Cosa si può fare concretamnete per far arretrare la xenofobia? 'Al di là del discorso classico che tenta di intervenire sulle cause sociali ed economiche che alimentano la paura, mi sembra importante favorire il dibattito e le decisioni politiche a livello locale. E' importante che ci sia un dialogo diretto tra i cittadini e gli amministratori politici, perché solo così diventa possibile elaborare politiche efficaci che non siano xenofobe. La discussione è insostituibile, perché consente di smontare e decostruire il discorso della xenofobia, mostrando ai cittadini che gli immigrati non sono una minaccia. La riflessione e la discussione consentono di evitare le reazioni irrazionali. Solo così si sfugeg alla paura'." (da Fabio Gambaro, Perché ci sentiamo sempre più minacciati, "La Repubblica", 20/05/'08)

martedì 20 maggio 2008

Pietro Citati: l'università in guerra con Omero e Dante


"Come ogni anno, la produttività italiana è diminuita di qualche punto. Pochi anni fa, era lievemente inferiore a quella inglese, poi a quella francese e tedesca, poi a quella spagnola, poi a quella greca, poi a quella boema, poi a quella polacca, poi a quella bulgara, poi a quella moldava; e quest'anno si discute seriamente se sarà superiore o inferiore a quella del Ghana. Pare che abbiamo buone speranze. Tutti sanno qual è la ragione: la scuola e in primo luogo l'Università. E' il vero problema italiano: infinitamente più grave dell'inflazione, del tenore di vita, del bilancio dello stato, dell'Alitalia, dell'immigrazione clandestina, dell'immondezza che ha trasformato Napoli in una elegantissima pattumiera sotto il cielo. Nel dopoguerra, tutti i ministri della Pubblica Istruzione sono stati mediocri. Ma un tempo, i bigi e saggi ministri democristiani non osavano nemmeno sforare il vecchio edificio scolastico: sapevano che era pieno di crepe; e che un solo colpo di piccone avrebbe rischiato di distrugegre l'Università, il liceo, le medie, le elementari. Poi, non so come, presero coraggio: la parola 'riforma' li incantava: risvegliava in loro una specie di euforia e di ebbrezza, come se scrivere centinaia di leggi incomprensibili facesse conoscere loro la vera vita, - quella vita ardente che non avevano mai conosciuto. Così cominciarono le allegre catastrofi: quella della scuola elementare, a causa della moltiplicazione della maestra di base. Quella dell'esame di riparazione; e soprattutto (niente li affascina tanto) l'invenzione delle cattedre universitarie grottesche, come "Sociologia del gatto siamese" o il "Il computer applicato alla letteratura". Ma il vero, immane disastro, paragonabile a un terremoto del decimo grado della scala Mercalli, doveva ancora giungere. Otto anni fa, l'onorevole Luigi Berlinguer, circondato da una schiera di pedagogisti e seguito da Letizia Moratti, diede solennemente il primo colpo di piccone. Sono passati appena otto anni. E del vecchio edificio scolastico non resta più niente: tutte le tegole al suolo, muri maestri e pilastri divelti dal buldozer, mattoni in briciole, fango, poltiglia e, sopra l'immensa rovina, una fittissima nube di tenebra. Oggi, gli studenti universitari non leggono più: seguono piccoli corsi di poche settimane, che si susseguono vorticosamente; e alla fine, dopo aver saltabeccato da un piccolo corso ad un altro piccolo corso, giacciono a terra sfiniti, senza aver appreso assolutamente nulla. Come libri di testo, non adottano tutta la Divina Commedia, tutta l'Odissea, e Ernst Robert Curtius e Santo Mazzarino, come si faceva nel vecchio edificio scolastico: ma miserabili librettucci, che raccontano in cento pagine la Storia delle Crociate o i Moralisti classici. Testi, niente, perché leggere Dante o l'Odissea può riuscire pericoloso per le anime dei ragazzi innocenti. I pochi studenti dotati sono (giustamente) puniti: dopo aver studiato per otto anni, debbono affrontarne due di inutilissima pedagogia, prima di poter insegnare nelle medie o nei licei. Poi il ciclo si ripete all'infinito: pessimi professori universitari generano professori di liceo ancora peggiori, e questi allevano studenti per i quali scrivere una pagina in italiano è molto più arduo che ascendere l'Himalaya. Berlinguer e i suoi amici immaginavano che la socità moderna, o società di massa, o società globale, fosse il regno dell'immensa faciloneria, governata da un sovrano idiota. Leggere è inutile, studiare inutile, conoscere i classici antichi e moderni inutilissimo; basta ignorare l'italiano e blaterare sciocchezze. In realtà, la società moderna esige studi difficilissimi, molto più difficili di quelli di cinquant'anni fa: richiede un'assoluta precisione mentale, una cultura che abbraccia molte specializzazioni, il dono del pensiero analogico, e quello di scoprire il tutto nel minimo. L'università di Berlinguer e della Moratti prepara ingegneri incapaci di costruire ponti e case, storici medievali che ignorano il latino, fisici che confondono Einstein ed Euclide. In un disastro così totale, qualcosa di utile è naturalmente venuto alla luce. Come testimonia un'ottima inchiesta di Vladimiro Polchi pubblicata giorni fa su "Repubblica", gli studenti fuori corso sono diminuiti: cosa ovvia, se lo studio è stato ridotto a pochissimo. I laureati della laurea breve che appartengono alla facoltà di medicina (i sanitari, non i medici) trovano facilmente lavoro. Ma la colpa gravissima della Riforma Berlinguer è stata quella di trasformare l'Università in un cattivo liceo di provincia. L'Università non può accontentarsi di produrre infermieri e odontoiatri: persone utilissime; ma deve educare specialisti, studiosi di cose ardue e difficili, come quelli che l'Italia costringe ogni anno a emigrare in tutte le facoltà dell'universo. Così la Riforma Berlinguer va radicalmente riformata. Dobbiamo ripristinare i grandi corsi, lunghi sei o sette mesi, sugli argomenti fondamentali della conoscenza. Gli studenti devono tornare a leggere. Se qualcuno studia letteratura greca, o storia del pensiero economico, o storia della filosofia, tremila (non duecento) pagine di testi sono appena sufficienti. Qualche tempo fa ho letto che in Gran Bretagna il ministro dell'Istruzione progettava o progetta di abolire, nelle scuole medie e nei licei, lo studio delle lingue straniere che ormai sono perfettamente inutili (malgrado Dante, Racine, Cervantes e Goethe), visto che ormai tutti gli abitanti della terra parlano inglese. La settimana scorsa, ho appreso da "Repubblica" che il vento ardimentoso della demenza europea ha preso a soffiare anche in Germania, dove il governo ha deciso che le scuole costano troppo: quindi niente più bocciature, niente più voti, e se i voti sono bassi verranno rialzati dal preside. Consoliamoci. Ogni Paese ha il Berlinguer che si merita." (da Pietro Citati, L'università in guerra con Omero e Dante, "La Repubblica", 20/05/'08)

Dialoghi d'amore di Leone Ebreo

"'Non potendo mandarvi frutto che di me stesso sia nato, ve lo mando nato negli altrui giardini: i libri d'amore di Maestro Leone'.

Così il curatore della prima edizione a stampa - e prima in assoluto - dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo a Madonna Aurelia Petrucci, nobile poetessa senese. Quando Mariano Lenzi, nel 1535, invia alla colta giovane l'opera di Giuda, o Jehudah, Abravanel, o Abrabanel, nato a Lisbona nel 1463, desidera solo omaggiare la signora con un esempio di casto amore: Filone e Sofia dialogano per comprendere insieme la forma più alta dell'amore, l'unione mistica al primo principio. Forse sorride qualcuno di noi, oggi: amore, principio, eros e virtù, termini contrastanti, lontani, appartenenti a mondi separati. Non secondo questa modalità venivano letti nell'Italia del XVI secolo, dove 'Leone' era vissuto almeno fino al 1523, e dove la sua opera ebbe, dopo la prima, venticinque edizioni in meno di un secolo. Ma chi era Leone e cosa scriveva di così appassionante per i colti italiani del Cinquecento? Jehuda (Giuda) è una tipica figura di sapiente, filosofo e insieme medico, nato da illustre famiglia ebraica tra il 1460 e il 1465: il padre, oltre che politico e finanziere, era un fine commentatore biblico, certamente attento all'educazione del figlio. [...] Si sa della presenza di Leone a Napoli, si suppone abbia soggiornato a Firenze e Venezia, le certezze sono poche ma sufficienti a definire la figura di un medico (come tale esercitava a Napoli), colto sia nel campo della cultura ebraica che in quella neoplatonica: i suoi testi citano Maimonide e la qabbalah, così come Aristotele, Cicerone, diversi autori islamici e, se pur non direttamente, Marsilio Ficino, Giovanni Pico e altri contemporanei. Concordismo, sincretismo? Ma la serenità di scrittura di Leone (il passaggio da 'Giuda' a 'Leone' è biblico, anche se mai dichiarato) è molto più disinvolto del nostro pur spregiudicato Giovanni Pico della Mirandola. Di lui possediamo una poesia intitolata Lamento del tempo o del destino e questi tre dialoghi sull'amore, ora in un'edizione curata da Delfina Giovannozzi (che rinnova quella di Santino Caramella del 1929), pubblicata nella nuova elegante Biblioteca Filosofica Laterza, preceduta da un'introduzione chiara e breve (mai abbastanza lodate, quando sono poche e sostanziali, le parole introduttive ai testi) di Eugenio Canone. Leone scrisse in ebraico, in latino, in italiano? Non è dato di saperlo, e forse per lui non costituiva nemmeno un problema il passaggio da una lingua all'altra. Nei dialoghi si ribadisce come la vera beatitudine consista ne 'l'atto copulativo de l'intima e unita cognizione divina'. L'amore è ciò che rende l'universo una cosa sola, 'uno individuo' (tema ripreso da Pico e da Giordano Bruno), mentre per l'uomo la suprema aspirazione, con l'amore intellettuale per Dio, è la 'morte di bacio', ovvero la liberazione dal corpo per unirsi in un mistico, erotico bacio dell'anima al suo principio: i sapienti 'metaforicamente declarano che Mosè e Aronne morirono baciando la divinità'. In questo 'metaforicamente' è tutta la sapienza di 'Leone', filosofo misteriosamente quasi mai citato nei manuali di Filosofia: non si confondano i delirii e i misticismi con le vere ascese dell'anima al principio, si dice baciare per farsi capire, ma chi può davvero capire, capisca." (da Maria Bettetini, Baci dalla 'qabbalah', "Il Sole 24 Ore Domenica", 18/05/'08)

lunedì 19 maggio 2008

Aristotele nel Novecento di Enrico Berti


"Come è noto, per la Scienza moderna il compito della Fisica è unicamente la descrizione dell'ordine naturale. Mentre la Fisica aristotelica, in quanto Teoria del movimento, era diretta allo studio delle cause di quest'ultimo, Newton ha negato, in polemica con la Scienza aristotelica, che la Fisica sia Scienza delle cause. Kant ha espresso con la consueta lucidità il concetto newtoniano in questo modo: 'Con esperienze sicure e nel caso anche con l'ausilio della geometria, si devono ricercare le regole secondo le quali si svolgono certi fenomeni della natura'. Eppure, come ha mostrato Enrico Berti nel suo bel libro Aristotele nel Novecento, pubblicato da Laterza nel 1992 e ora ristampato, Aristotele è ben presente nella 'nuova epistemologia' del Novecento, a opera soprattutto di pensatori come Gaston Bachelard e Karl Popper, i quali hanno mostrato come la Scienza operi secondo procedimenti che non sono riconducibili al metodo induttivo-sperimentale teorizzato da Newton, e faccia ricorso a una pluralità di metodi, fra i quali spicca quello per 'tentativi ed errori', o, nel linguaggio popperiano, per 'congetture e confutazioni', che ricorda molto da vicino la dialettica antica, socratico-platonica e aristotelica. In questa prospettiva anche le metodologie praticate da Aristotele nello studio scientifico della natura vengono, in qualche misura, rivalutate. Così Thomas Kuhn ha raccontato che la prima idea di 'rivoluzione scientifica' gli è venuta proprio riflettendo sulla Fisica di Aristotele. Il moto di cui parla il filosofo greco, ha osservato Kuhn, è ovviamente diverso da quello di cui parlano Galilei e Newton, ma la concezione dell'inerzia tipica della Fisica aristotelica, per cui ogni moto richiede una causa, conserva una sua validità anche dal punto di vista della Fisica moderna, poiché il moto a cui questa si riferisce non è uno stato, come il moto inerziale di Galilei e Newton, bensì un mutamento di stato. Inoltre la Fisica di Aristotele è stata rivalutata non solo come la più conforme alla percezione sensibile, cioè come una 'Fisica ingenua' (Fisica ingenua è appunto il titolo di un libro di Paolo Bozzi, Garzanti, 1990, il quale suppone che le idee di Aristotele sul moto 'abbiano la loro radice biologica nel funzionamento dei nostri processi cognitivi'), ma anche come espressione di una 'alleanza' tra Filosofia e Scienza. Secondo Ilya Prigogine, alla luce del secondo principio della termodinamica, tale alleanza è più che mai necessaria: una alleanza non più ispirata alla tendenza galileiano-newtoniana ad applicare ai fenomeni terrestri il modello di quelli celesti; bensì ispirata alla tendenza opposta, quella di applicare i modelli terrestri anche ai fenomeni celesti, che è appunto la tendenza propria della Filosofia aristotelica. René Thom, a sua volta, ha dichiarato di aver trovato nella Fisica aristotelica degli spunti fondamentali: 'Il programma filosofico che io mi ero proposto per la Teoria delle catastrofi, cioè geometrizzare il pensiero e l'attività linguistica, questo programma si trova più che abbozzato, già largamente realizzato in Aristotele. [...] Aristotele è stato per secoli (forse per millenni) il solo pensatore del continuo; è questo ai miei occhi il suo merito essenziale'." (da Giuseppe Bedeschi, Una fisica del quotidiano, "Il Sole 24 ore Domenica", 18/05/'08)

Sospesi tra Faust e il Mostro


"Il dottor Faust è vecchio; il dottor Faust è nostalgico. La nostalgia è privilegio della vecchiaia: le speranze della giovinezza sono per il domani, mai per ieri. Perché dottor Faust è alla ricerca di quel che ha perso, o di quel che crede di aver perso, nella sua lontana giovinezza, proprio come Christopher Marlowe immaginò nel 1604 e Goethe quasi due secoli dopo. Faust vuole assicurarsi la possibilità della conoscenza e la possibilità dell'amore, quel che il suo assistente Wagner chiama 'illuminazione' e a cui Faust si afferra: 'Ecco la mia più bella fortuna che sfuma!', esclama con parole che Goethe gli presta. Per tale illuminazione, la scienza umana gli apre poca cosa e chiede aiuto alla magia. Allora compare, come sappiamo, Mefistofele. Mefistofele (nella versione di Goethe) si definisce un fallito: uno che vuole fare del male e che suo malgrado, fa del bene. Vuole essere assolutamente malvagio ma Qualcosa si interpone, e le sue malefiche arguzie e stratagemmi non raggiungono il risultato previsto. Questo è uno dei tratti più singolari del demonio: a noi, come a Faust, sembra che il male vinca quasi sempre, e a riprova di ciò citiamo le grandi e piccole miserie della nostra vita, gli orrori e le infamie della nostra storia. Per il demonio invece (che dovrebbe saperne di queste cose) non è così. Nonostante tutta la sofferenza umana, sembra che il bene, alla lunga, trionfi. Mefistofele crede, come Corìn Tellado, che ci sia sempre un lieto fine e, curiosamente, spesso ha ragione.

Se è vero che nel Faust di Marlowe le fiamme dell'inferno inghiottono l'ambizioso dottore (il quale come un vigliacco promette alla fine di bruciare i suoi libri nel caso riesca a salvarsi, coem se quei poveretti avessero la colpa della sua ambizione), nel primo Faust di Goethe a salvarsi è Margherita, la donna che Faust ha corrotto, e nel secondo si salva il dottore. Saranno forse questi tentativi falliti che hanno contribuito alla cattiva reputazione di Mefistofele nei nostri giorni. 'Da eroe a generale, da generale a uomo politico, da politico ad agente del servizio segreto, e da lì qualcuno che spia dalla finestra della camera da letto o del bagno, e da lì a rospo, per finire poi in serpente: 'Questa è la carriera del demonio', scrisse C. S. Lewis. Ma il dottor Faust insiste. E così volle intenderlo Thomas Mann, il quale con lo pseudonimo di Adrian Leverkhun fece sì che Faust tornasse ad accettare il terribile e inefficace patto. Tramite il poeta fallito Enoch Soames, Max Beerbohm propose una versione britannica della tragedia; tramite l'opera di Gounod, Estanislao del Campo ne scrisse una versione gaucha; in pieno orrore staliniano, Mikail Bulghakov sognò una versione russa. La storia del dottor Faust venne stampata per la prima volta in Germania nel 1587; seguirono poi numerose versioni, compresa un'opera per marionette a cui Goethe assistette da bambino e che sicuramente alimentò i suoi incubi da adulto. Nei secoli scorsi, quando lo scambio di un'anima era considerato un atto spaventoso, per Mefistofele le cose erano relativamente semplici, che riuscissero o meno nel suo intento. Oggi, che l'anima ha infinitamente meno prestigio, e che quotidianamente si offrono anime in cambio di stupidaggini come una villa a Marbella o un posto di lavoro in un ministero, il compito di Mefistofele è, paradossalmente, più difficile. Perdere l'anima scambiandola per una miseria conferisce all'anima il valore di un nonnulla, e Mefistofele (che è anche un banchiere) aspira alla ricchezza. Per questo il Faust di oggi non aspira né alla conoscenza né all'amore, ma alla fama, al successo popolare, a farsi un nome. E qui Mefistofele si trova nel suo elemento. Vuoi essere uno scrittore popolare? chiede a Faust. Vuoi vendere milioni di copie del tuo libro? Affare fatto: ci saranno pile di tuoi libri nelle Fnac e nei centri commerciali; sarai in vetta alle classifiche del bestseller internazionali; compreranno i diritti dei tuoi libri per fare un film con Tom Cruise come protagonista; viaggerai in business class e ti trasferirai in Irlanda per non pagare le tasse. E per avere tutto questo non dovrai perdere quasi nulla, salvo la qualità artistica, lo stile, la grammatica, l'invenzione narrativa, la responsabilità morale, la posizione etica, la gratitudine dei futuri lettori, il rispetto dei tuoi contmeporanei. L'anima. [...]." (da Alberto Manguel, Sospesi tra Faust e il Mostro, "La Repubblica", 18/05/'08)

domenica 18 maggio 2008

Gomorra - La normalità del male


"'L'importante è che sia clean, come dicono in America', pretende un manager (Massimo Emilio Gobbi) prima di concludere il suo affare con Franco (Toni Servillo). E intende che Franco può fare quel che vuole con le scorie industriali che gli ha appena affidato. Può portarle dove gli pare, inquinare come gli pare, uccidere chi gli pare. L'importante è che i documenti ci siano, che i permessi non anachino. Non c'è violenza materiale nelle sue parole. Ma nella sua richiesta di 'pulizia' sta il senso terribile del grande film di Matteo Garrone. Tratto dal libro di Roberto Saviano, e scritto appunto da Saviano e Garrone insieme a Maurizio Bracci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio e Massimo Gaudioso, Gomorra racconta una catastrofe. Lo fa con un dolore freddo, con una disperazione oggettiva, e però anche con una passione che pretende di restare viva, nonostante tutto. Il film si apre su un violentissimo regolamento di conti dalle parti delle 'Vele' di Scampia. Da lì, dalle case popolari degradate che stanno nella periferia nord di Napoli, poi quasi non esce più. In quell'universo separato, in quell'addensarsi di vita e di sangue, di miseria e di paura, di carne e di morte, si consuma una vicenda che però rimanda anche ad altro, a un 'fuori' che lo alimenta e se ne serve. Senza preoccuparsi di raccontare in modo lineare un intrico di storie che lineari non sono e non possono essere, Gomorra segue le tracce del 'ragioniere' don Ciro (Gianfelice Imparato), del sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo), del piccolo Totò (Salvatore Abruzzese), dei balordi e sanguinari Marco (Marco Macor) e Ciro (Ciro Petrone), del laureato e disoccupato Roberto (Carmine Paternoster), e dei molti altri che si perdono e si confondono nell'abisso. Chi è Marco, che a 13 anni entra nella guerra che si è scatenata fra gruppi rivali? E chi sono le decine, le centinaia di adolescenti e bambini, che al pari di lui sono pronti a morire e a uccidere, come se niente altro avesse valore? Certo, non sono mostri. Anzi, vivono nella più netta, nella più stabile delle normalità: una normalità di giorni tutti consumati dall'abbandono e dall'avidità, e di relazioni e sentimenti consegnati al circolo vizioso della prepotenza e della corruzione. Non c'è via d'uscita per le loro vite. Non ce n'è prima di tutto nei loro occhi. Soldi, droga, armi, obbedienza, e poi di nuovo e sempre soldi, droga, armi, obbedienza: di questo è fatto il loro mondo, e attorno a questo si riconoscono amici o nemici, vincenti o perdenti. [...] A parte qualche cenno di speranza che si perde sullo sfondo, il grande film di Matteo Garrone e Roberto Saviano racconta una catastrofe, appunto. E si tratta di una catastrofe clean, come dicono in America." (da Roberto Escobar, La normalità del male, "Il Sole 24 Ore Domenica", 18/05/'08)

Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma di Saverio Ricci


"Abbiamo tutti un'idea, più o meno generalizzata, della Controriforma e connesse figure monumentali (Galileo, Bruno, Campanella), che hanno spinto le gerarchie ecclesiastiche a operosi ravvedimenti. Ma è solo a partire dal 1998 - quando si apre agli addetti l'Archivio dell'ex Santo Uffizio - che fonti e tesi tradizionali
s'indeboliscono o si solidificano nel misurarsi con la più ampia ricerca storica. Un tema 'sensibile' che si riaffaccia in un ponderoso saggio di Saverio Ricci (già autore di plurimi contributi sulle vicende inquisitoriali cinquecentesche) e incrocia le turbolenze mediatiche dei nostri giorni tra fede e ateismo, assoluto e relativo, anima mortale o immortale e, figurarsi, laico e laicista. Il titolo del libro non è certo avaro di annunci solleticanti: Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma (Salerno editrice). Ricci li analizza uno per uno con vasta e severa documentazione, sottolineando l'apporto degli studiosi pre e postbellici, a partire da Luigi Firpo. Unico, non trascurabile rilievo circa la fruizione del testo, lo scarso uso del linguaggio comunicativo, specie in una materia così ibridata di cielo e terra. Quali gli aspetti presumibilmente vicini alla percezione del lettore odierno? Direi non tanto gli acquisiti 'processi' d'epoca, né il secolare conflitto dell'aristotelismo e del platonismo, quanto la fisionomia dei singoli censori e inquisitori, spesso di alta caratura, il loro lavorio interno, le visioni controverse di chi esamina i libri da emendare o da bruciare, gli Indici attivissimi nelle regioni italiane e oltralpe; i 'protettori' che non riescono a salvaguardare chi vorrebbero, l'incubo dei filosofi sottoposti alla frusta dei teologi, la perenne tribolazione degli editori, le censure 'espurgatorie' talora rinviate dai padri conciliari alle università di Parigi e di Lovanio; la particolare durezza degli Indici romani (1557-1564) nei riguardi delle umane lettere; i divieti spagnoli che insieme ai divieti portoghesi si allargano e investono, per citarne alcuni, Erasmo, Raimondo Lullo, Guglielmo Ockham, il 'mago' Giovambattista Della Porta; e poi gli affanni di Bernardino Telesio che teme un complotto e rivolge una pietosa lettera al cardinale Orsini ('... la mia mente sarà sempre sogettissima et inchinatissima alla vera et cattolica religione') mentre è in corso di stampa un'ulteriore revisione del De Rerum Natura; e ancora, il destino infausto di matematici, esoteristi, botanici, maestri di mineralogia e metallurgia, con Girolamo Cardano che funge da capofila. Cardano accusato di eresia, processato e condannato dall'Inquisizione di Bologna. Nella dovizia delle offerte è però Montaigne che si merita il primato di massima attenzione, con più di cento pagine ottimamente spese sul personaggio in sé, sugli Essais corretti, storpiati, preclusi; sugli attacchi velenosi di Bossuet e Pascal che enfatizzano l'immagine di Montaigne cattolico-eretico, devoto-libertino; sui censori del 1581 che gli rimproverano l'elogio di Rabelais e del Boccaccio, i Discorsi di Machiavelli, la teologia 'quale scienza inutile al ben pensare', l'apologia del suicidio, i sentimenti pagani della morte e i termini ostici di provenienza epicurea: 'fortuna' e 'fato'. Essenziale l'evocazione del Viaggio in Italia di Montaigne (1580-1581), là dove il precursore del Grand tour rivela, nel diario-brogliaccio, il segreto del suo stare al mondo. Ovvero, curiosità insaziabile, scettica contemplazione di uomini e cose, armonia degli opposti, amor di sapienza, libertà di coscienza. I proibiti Essais dovranno aspettare circa due secoli per risorgere, grazie all'attenuato decreto dell'Indice. Ci prova l'abate Giulio Perini a tirarli fuori, seppur con estrema cautela. Il 'progressista' abate li pubblica in due volumi a Firenze, ma - non si sa mai! - falsifica la sede tipografica (Firenze diventa infatti Amsterdam), e si obbliga a passare una mano di bianco sul titolo originario, ribattezzando i gioielli del filosofo francese come: I saggi di Michele della Montagna." (da Giuseppe Cassieri, Quando il Papa proibiva i saggi di Montaigne, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/05/'08)

De Luna: "Quanti rischi corre la storia in tv"

"C'è stata molta storia in televisione in questa primavera. Proprio il 25 aprile History Channel ha proposto un film di Enrico Verra, Scemi di guerra (Vivo film editore, prossima uscita in dvd), che affrontava il tema dei soldati della Prima guerra mondiale colpiti dallo shock da combattimento e precipitati in una malattia mentale fino ad allora sconosciuta. Fu il primo impatto dei fanticontadini con la modernità della guerra tecnologica. 'Noi sappiamo - scriveva allora un medico militare - come durante la vita di guerra, particolarmente di questa guerra di luci e scoppi terribili, gli organi di senso, vista e udito soprattutto dei combattenti vengano sottoposti a stimoli di intensità e durata di gran lunga superiori all'ordinaria loro capacità e potenzialità di ricezione e di assimilazione': una 'tormenta allucinatoria', determinata da stimoli sensoriali potenti, violenti, incessanti, fu scaraventata sul popolo delle trincee causando, in chi sopravviveva, annichilimento totale, sordità, mutismo, perdita di coscienza per periodi più o meno lunghi. Ne risultarono scardinati i tratti essenziali del paesaggio mentale al cui interno si era sviluppata l'esistenza collettiva di milioni di uomini. Nell'esperienza della trincea si palesò il trionfo dell'elemento artificiale su quello naturale (l'elettricità trasformò le notti in giorni, la chimica degli esplosivi polverizzò le montagne modificando il paesaggio); la fungibilità di biologia e tecnologia (le protesi sostituirono gli arti distrutti); il senso del tempo come discontinuità e il suo disancorarsi dalle matrici biologiche, naturali o più semplicemente tradizionali. Per la realizzazione del suo film Verra si è servito delle immagini straordinarie conservate negli archivi dei manicomi francesi, inglesi e italiani (membra agitate da un tremito incontrollato, espressioni smarrite da «scemi di guerra », terapie crudeli come l'elettroshock), finora mai viste in Italia, e della consulenza di storici bravissimi (Quinto Antonelli, Lucio Fabi, Bruna Bianchi, Antonio Gibelli). Ricerca delle fonti, scrupolo filologico, robusto aggancio alla storiografia, grande efficacia narrativa. Ma la storia in televisione non è sempre questa. Negli stessi giorni della messa in onda di Scemi di guerra, ripreso dalle telecamere di una televisione locale, VCO sat Videonovara, Marcello Dell'Utri ha letto e commentato alcuni brani del diario di Mussolini da lui incautamente acquistato e unanimemente giudicato falso dagli storici che hanno potuto esaminarlo. Tra i passi scelti, alcuni si riferivano a giudizi sprezzanti di Mussolini contro Hitler, al rimpianto del Duce per la sua mancata uccisione in un attentato, al disagio con cui il fascismo aveva deciso l'entrata in guerra dell'Italia, definita come inevitabile. In qualsiasi altro caso (che si fosse optato per la neutralità o, a maggior ragione, per l'alleanza con Francia e Inghilterra) i tedeschi 'spietati e armati di vendetta', secondo Mussolini, avrebbero invaso il nostro Paese. Leggendo compiaciuto questi passi, Dell'Utri alzava gli occhi dal testo e, guardando lo spettatore, commentava: 'Pensate, se fosse vero questo documento costringerebbe gli storici a riscrivere integralmente la storia del fascismo'. Se fosse vero ... Ma accidenti, quel diario è falso e Dell'Utri lo sa. Ma allora perché esercitarsi in supposizioni di quel tipo? Ma proprio perché, oltre a quella proposta da Scemi di guerra, c'è anche un'altra storia televisiva: il suo obiettivo è il semplice rispecchiamento del senso comune, proponendo una conoscenza appiattita sulla semplificazione immediata, sul rifiuto della complessità, su una sorta di approccio usa e getta alla cultura che produce una visione affollata di stereotipi, per un sapere senza spessore, facile da consumare e dimenticare. L'ipotesi di un Mussolini trascinato da Hitler suo malgrado è funzionale a stroncare l'indissolubilità del nesso tra fascismo e nazismo, a rendere accettabili e presentabili il Duce e il suo regime, consentendo alla destra 'di governo' di inserire nel proprio albero genealogico l'eredità un fascismo buono e rassicurante. Dire questo davanti alle telecamere è diverso che scriverlo nelle pagine di un libro. In televisione tutto viene trascinato via dal flusso continuo di parole e di immagini, nessuno si ferma veramente sulle parole, né quelli che parlano, né quelli che ascoltano; rimane un rumore di fondo, in cui riecheggiano le affermazioni su Mussolini che odiava Hitler, sull'umanità italiana contrapposta alla crudeltà tedesca ecc. Tutto questo partendo da un falso; tutto questo non sarebbe possibile se non scaturisse dalle profondità dello spirito del nostro tempo." (da Giovanni De Luna, Quanti rischi corre la storia in tv, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/05/'08)

sabato 17 maggio 2008

Un'educazione alla felicità. La lezione di Hesse e Tagore di Flavia Arzeni


"Il segreto della felicità sta in un giardino. Non in quello incantato dell'eden, ma nel comune giardino di casa, quello in cui ognuno di noi può coltivare le proprie piante e i propri fiori. Un giardino che solo in parte è nostro, perché appartiene in realtà all'ambiente e quindi a tutti gli esseri umani. La metafora del lavoro come esercizio di meditazione a contatto diretto con la natura, con i suoi tempi e i suoi ritmi immutabili, ispira un originale volume di Flavia Arzeni, docente di Letteratura tedesca all'Università La Sapienza di Roma, Un'educazione alla felicità. E' un'indagine introspettiva sulla vita e sul suo significato più profondo, attraverso gli scritti di due maestri della parola e del pensiero, entrambi premi Nobel; l'uno, lo scrittore tedesco, naturalizzato svizzero, Herman Hesse; l'altro, il poeta indiano Rabindranath Tagore. Due figure assai diverse fra loro, accomunati però da un'ammirazione collettiva e da un culto popolare che ne tramandano la memoria fino ai giorni nostri. 'Hesse e Tagore - avverte alla fine del suo libro la stessa autrice - non hanno scritto un breviario per divenire felici, hanno solo indicato la via che ogni essere umano può percorrere'. E si tratta, evidentemente, di un lascito prezioso. La lezione dei due scrittori, ripresa e riproposta con trasporto in questo lavoro da Flavia Arzeni, parte dall'intuizione che la felicità - almeno quella terrena - si fonda su piccole e semplici cose: il legame inscindibile con la natura, da una parte; l'amore per il prossimo e per il diverso, dall'altra. La coscienza ambientalista e la tolleranza, si potrebbe dire in termini più attuali, in nome di una convivenza pacifica. E in questa visione il giardino, che forse per altri può essere anche il balcone, il terrazzo, il parco pubblico o magari il campo da golf, diventa il simbolo di uno spazio verde disegnato dall'uomo, come un'oasi di ordine e stabilità." (da Giovanni Valentini, La segreta armonia della felicità, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 17/05/'08)

venerdì 16 maggio 2008

Non servon più le stelle

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l'amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla di buono può accadere."
W. H. Auden

Venerdì 16 maggio alle ore 21.15, presso la Biblioteca di Garlasco incontro con Clemente Ferrario, storico e scrittore, e autore del libro Non servon più le stelle(Guardamagna); introdurrà Anna Modena, docente di Storia della stampa e dell’editoria presso l’Università di Pavia; letture a cura di Franca Graziano, regista, attrice e direttore artistico di Motoperpetuo

Piccoli racconti straordinari


Domenica 18 maggio alle ore 15 presso la Biblioteca civica di Garlasco "Piccoli racconti straordinari" letture animate tratte da Gianni Rodari, Pinin Carpi, Roberto Piumini e altri, curate dalla Compagnia teatrale ErbaMil.

giovedì 15 maggio 2008

Savage: "A un topo, per vivere, non resta che diventare intellettuale"


"Per vivere bisogna saper sognare, immaginare, illudersi. Altrimenti la vita è uno sputo di birra, un pop corn impolverato, un hot-dog caduto in terra. Ma per saper sognare, illudersi, immaginare bisogna aver fortuna e un po' di destino: nascere per esempio dentro una fornitissima libreria di una piazza che ospita cinema e teatri dove si proiettano film in bianco e nero con scene di danza e baci o, dopo mezzanotte, film porno con ammalianti bellezze senza veli. Ma anche nascere tredicesimo figlio di una madre indipendente, bohémienne, intraprendente che però di capezzoli alla prole può offrirne solo dodici. Ecco la fortuna di Firmino, il personaggio del narratore americano Sam Savage, che va ad iscriversi, insieme al proustiano, cinematografico Ratatouille, nell'universo topesco e mattesco di quell'animale indistruttibile e, pare, destinato a sopravviverci. Nell'assalto ai capezzoli materni Firmino è un perdente, i suoi fratelli lo respingono, gli lasciano sempre le ultime gocce. A Firmino non rimane che diventare un intellettuale, nutrirsi più di cultura che di realtà. La vecchia libreria Pembroke Books in Scollay Square, diventa lo spazio della sua crescita intellettuale, dalla culla fatta con pezzi di pagine del Finnegans Wake di Joyce alle poesie di Keats, o a La nidiata di E.J. Magoon. Ma prima di imparare a leggerli i libri vanno 'gustati'. E Firmino si nutre di tascabili, vocabolari, libri di geografia, manuali tecnici, gialli, rilegature in cartonato e in pelle, pagine in carta da stracci e riciclata. Poi, quando dalla degustazione fisica arriva alla vera lettura, a dargli aiuto saranno le sezioni in cui è divisa la libreria con i suoi cartelli che indicano dove sia la "Narrativa" e dove la "Saggistica", i libri per l'infanzia e quelli dello Spirito. Ma essenzialmente Firmino rimane un lettore autodidatta che va a naso. E' un lettore onnivoro, forse è la letteratura stessa che si nutre di tutto e tutto fagocita e ridiscende in parola e stile. Ciò che di buono ha questa passione per Firmino è di spingerlo fuori dalla libreria, verso la piazza, dove misurare il sapore reale delle emozioni e delle parole lette. Ed è lì che scopre, fra noccioline, pop corn e chiazze di birra, quella che sarà l'altra sua grande passione: la bellezza femminile dello striptease o dei film porno, le ragazze che si agitano sul palcoscenico di uno scalcinato teatro o le dive sullo schermo del cinema Rialto. Bellezze, soprattutto quella di Ginger, gran ballerina, che si possono guardare e immaginare, che in sogno tornino a soddisfare i suoi desideri. Come la parola scritta, l'immagine, se ti ha emozionato, sta dentro di te, non andrà mai perduta. Omaggio all'universo del libro, alla letteratura, ai lettori, l'insolito e un po' calviniano romanzo di Savage scava negli infiniti sapori e gusti che il Narratore da sempre propone come sfida con il Lettore." (da Nico Orengo, Firmino nella cuna di Joyce, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/05/'08)

mercoledì 14 maggio 2008

Durante di Andrea de Carlo


"Per essere bello è bello. Riccioluto pure. E poi la bellezza la insegue da sempre, a modo suo, s'intende: da snob che mette in pratica il bon ton morettiano: 'Mi si nota di più se vengo e mi metto in un angolo oppure se non vengo per niente?'. Lo scrittore Andrea De Carlo, di cui è appena uscita la quindicesima fatica letteraria, Durante (Bompiani), a vernissage e salottiere abbuffate mondane preferisce la minestra d'orzo e il buen retiro in pietra a dieci chilometri da Urbino, in aperta campagna, tra dirupi e colline. Pedigree intellettuale di tutto rispetto - dal padre, il noto architetto Giancarlo, agli amici di famiglia gran letterati, Italo Calvino ed Elio Vittorini -, lo scrittore giramondo sente molto anche l'appeal del viaggio e della trasferta. Sulle orme di Calvino, suo mentore in letteratura all'esordio con Treno di panna, il narratore tra i più seguiti dal gran pubblico da sempre è un viandante très chic, alla ricerca, tra tante Città invisibili, della sua città 'visibile', la più seduttiva e vivibile. Prima di trasferirsi dall'ombra della Madonnina a quella del Palazzo Ducale di Urbino, De Carlo ha inseguito la bellezza di una città come un amore sempre lontano e il suo diario di lettura ne porta la traccia: 'L'incentivo al vagabondaggio nasce dal fatto di essere nato e vissuto a Milano. L'ho detestata. Avevo un appartamento sulla Dàrsena, uno dei pochi angoli caratterizzati da un'identità estetica, ma questo non serviva a liberarmi dalla sensazione di vivere in un luogo brutto, in mezzo a canali di scorrimento del traffico. Ho gettato alle ortiche il provincialismo divorando libri, musica, cinema che mi suggerivano che dovevo andarmene'. Al vertice dellesue passioni? 'Il manifesto della beat generation, On the Road di Jack Kerouac. Seguiva Bob Dylan. Poi il rock con Let's spend the night together dei Rolling Stones, un flash di vita libera e selvaggia, con le favolose grupies al seguito delle band. Nel mix si inseriva America di Franz Kafka che oltreoceano non c'era mai stato ma che ne aveva colto l'essenza. E, poi, a spingermi via dall'Italia, c'era la passione, mai giunta a compimento, tra l'enigmatico Gatsby e l'inavvicinabile Daisy nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald ambientato a Long Island. Si aggiungeva Taxi Driver di Martin Scorsese che trionfava al cinema con Robert De Niro nei panni di Travis Bickle, ex marine, alienato, isolato, depresso e sessualmente frustrato, sofferente di insonnia cronica per le vie di New York'. La Grande Mela si è rivelata la città ideale? 'Lavoravo come lavapiatti in un ristorante. La metropoli era dura ma anche vecchia, datata rispetto all'Ovest. Dopo un breve soggiorno a Boston, dove vendo polli surgelati, ottengo un ingaggio da autista. Devo portare una macchina a Los Angeles. Mi attirano i grandi spazi, la sera dormo in motel fatiscenti e leggo le pagine di Vladimir Nabokov dedicate al prof Humbert Humbert in transito nei piccoli hotel d'America con la sua Lolita'. Con Los Angeles - nuova frontiera come va? 'Violenta, inquinata, senza centro, senza periferie ma sconvolgente, rappresenta la novità. Insegno in una scuola di lingue e poi riparto, torno in Europa. Parigi, Londra che guardo con gli occhi di Dickens e di Stevenson, una città che si trasforma continuamente. La mia nuova, vera meta è Sydney'. Cosa la spinge? 'Il desiderio di terre sconfinate, di colori, azzurro, verde intenso, di aria trasparente e di mistero. Me lo aveva ispirato una pellicola, Picnic ad Hanging Rock. Tratta dal romanzo della scrittrice australiana Joan Lindsay, coglie la natura enigmatica del paese degli Aborigeni con il racconto di un gruppo di ragazze dell'aristocratico collegio Appleyard che fanno un picnic ai piedi dell'immenso gruppo roccioso che dà il titolo al film. Quattro di loro si allontanano, spariscono e il giallo rimane irrisolto. E poi mi portava in Australia l'idea dell'amore romantico'. Come mai? 'Niente letteratura, stavolta. A Sydney mi aspettava una ragazza bellissima e destinata a divenire la mia compagna. Ma l'immagine dell'amore era tutta letteraria. Me l’ero costruita attraverso tante pagine giovanili, dal Visconte di Bragelonne di Dumas padre - con il Visconte pazzamente innamorato di Françoise Louise de La Vallière - a Il rosso e il nero di Stendhal'. E come scopre la campagna urbinate? 'Mi ci porta, stranamente, Jane Austen. Qui, nella mia casa battuta dal vento, mi sembra di ritrovare, quando rientro, frammenti della vecchia Inghilterra simili a quelli raffigurati in Ragione e sentimento o in L'abbazia di Northanger. Questo romanzo della Austen è segnato da una sottile vena d'ironia, mai eccessiva ma graffiante in un contesto naturale feroce, sferzante. La bellezza per me è piuttosto nella zuppa dell'orto che nei salotti del Chiantishire'." (da Mirella Serri, E' bello stare nel motel con Lolita, "TuttoLibri", "La Stampa",03/05/'08)

La vita fa rima con la morte di Amos Oz


"Breve la storia di una serata e di una notte estiva, in una Tel Aviv calda e limacciosa, in cui uno scrittore incontra, in un club letterario, i suoi lettori a
cui 'ruba' fisionomie attorno alle quali costruire un potenziale romanzo. Il gioco sembra semplice, ed è semplice nelle mani di un bravo narratore quale Amos Oz, abituato a porsi dentro le sue opere, che nascono spesso da esperienze dirette o comunque a lui molto prossime, valga per tutte Una storia di amore e di tenebra. Con La vita fa rima con la morte (trad. di Elena Loewenthal, Feltrinelli), Oz ci avvicina, verrebbe da dire con la telecamera a spalla, al processo di invenzione di un narratore, ci fa intravedere quali sono i suggerimenti e le suggestioni che il mondo attorno gli offre perché un'idea di romanzo si delinei nelle sfumature di un volto, in una smorfia, in un segno sul vestito. Basta all'autore il colpo d'occhio per comporre un quadro: dalla persona colta a volo prende vita nella mente dello scrittore il personaggio con una fisicità e un realismo che lo consolidano ben più della persona reale che lo ha suggerito. In questo modo lo scrittore, finita la serata di lettura, può fare l'amore con il personaggio della giovane donna che gli è stata a fianco e ha letto per il pubblico i suoi testi. Con il personaggio! Non con la persona. Troviamo qui, nella lunga sequenza del rapporto tra Rachel e lo scrittore, lo scarto interessante, l'anima di uno struttura narrativa solo in apparenza sommaria. Del resto l'autore, che confondiamo proustianamente con il protagonista, ci annuncia il suo intento, meglio, la sua attitudine fin dalle prime battute, mentre in un caffè attende l'ora dell'incontro letterario e sogguarda con interesse duplice, di uomoe di scrittore, la cameriera che serve al tavolo, e gli basta il segno delle mutande sotto la gonna ad accendere non tanto una fantasia erotica, quanto un ipotetico tragitto della vita affettiva di lei con un atleta, la rapida evoluzione, la fine della storia, le domande del dopo quasi sempre senza risposta. Come la cameriera, si animano poi uomini e donne convenuti alla serata per ascoltare e fare domande, ignari di essere 'borseggiati' dall'avidità narrativa dell'autore. Dal presentatore, descritto attraverso il suo chiacchiericcio cecoviano, al sedicenne poeta che sogna un incontro privilegiato con lo scrittore famoso, al poeta Zofonia Beich Halachmi, dalla cui opera è tratto il titolo di questo romanzo breve, tutti si fanno personaggio sotto lo sguardo dell'io narrante che esce e entra nella rete dell'invenzionecon agilità. Amos Oz usa di sé come personaggio per dare una lettura ironica delle serate letterarie, piccolo ma inevitabile morbo della cultura contemporanea, qui analizzato e vissuto come il momento in cui si consuma un rito scontato. Da tutto questo nasce un 'meta romanzo' che documenta la scrittura della scrittura e la inquadra in un gioco di specchi messi ad arte a che il lettore confonda i piani dell'invenzione con quelli della realtà: un bell'esercizio di equilibrio e una non minore abilità di impianto, certo, ma anche un territorio dalle molte domande sul retroscena dello scrivere. Domande a cui, dice Oz autore e personaggio, si possono dare risposte pregnanti, risposte evasive, mai risposte semplici e dirette. Si è così, senza parere, delineata la zona riservata che l'autore tiene per sé e dentro cui il pubblico non ha diritto di accesso, una sorta di cerchio d'ombra nel quale affonda e sfuma la sala della conferenza: quello che il pubblico non può capire e carpire all'autore in quel momento è il senso e l'origine del suo inventare e costruire storie. Sono statue di sale i personaggi e l'autore che si è voltato a guardarli, dice Oz in una riflessione amara sull'inutilità dello scrivere. Ma anche sulla sua ineludibilità." (da Marta Morazzoni, A Tel Aviv furti d'autore, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/05/'08)

martedì 13 maggio 2008

Forum del libro


Forum del libro

Manifesto per la lettura

Nei luoghi perduti della follia di Eugenio Borgna


"Dimenticare la legge Basaglia? Un punto di vista sconcertante, almeno a dare ascolto a Eugenio Borgna, psichiatra di grande esperienza clinica, ma anche uomo di idee, raffinato conoscitore di filosofia e di letteratura, di poesia in particolare, per non dire della passione che da sempre coltiva per l'arte e per la musica. La questione andrebbe vista forse da un'altra angolazione: più culturale che medica, ma non proprio irrilevante. Approvata il 13 maggio 1978, oggi compie trent'anni la legge nota anche col numero 180: cancellando la barbarie dei manicomi, ha tentato innanzitutto di restituire il sentimento della dignità ai malati, di considerare le loro vite 'degne di essere vissute', non proprio un accidenti della natur apiù matrigna. Un tentativo nobile, sorretto da una forte idealità, segno - tra l'altro - che quegli anni non potranno restare nella memoria soltanto come la stagione plumbea del terrorismo o della collusione di massa con la 'violenza giusta'. Quel tentativo - bisogna riconoscerlo - è comunque almeno in parte fallito: ma non 'per colpa' della legge, voluta da un gruppo di psichiatri eccellenti prima che 'rivoluzionari', aggettivo retorico di cui ormai si può fare a meno - sempre che sulle questioni di civiltà non ci siano tentazioni di sapore regressivo. Non c'è infatti un bilancio negativo di quello che è stato fatto rispetto a quello che resta da fare: sarebbe impossibile dimostrare il contrario, se non alterando i dati ufficiali. Il punto è un altro e riguarda piuttosto le discutibili scelte nelle modalità delle cure, il 'come' viene ancora oggi affrontato il dolroe mentale, prima ancora dei 'luoghi' più o meno adeguati all'assistenza di chi sta male e a volte malissimo. Il problema riguarda una certa miserrima cultura psichiatrica, priva di qualsiasi orizzonte etico, che continua con ostinazione a oggettivare gli esseri più sofferenti, a racchiuderli in gabbie diagnostiche senza senso prima ancora che senza anima, a utilizzare sempre e solo lo strumento dei farmaci: magari per sedarli se sono maniacali o eccitarli se sono depressi. Il ricorso alla chimica, molto spesso utile, a volte indispensabile, diventa sempre una scorciatoia brutale in assenza di una disponibilità all'ascolto e quindi alla comprensione, alla capacità di cogliere un senso in quell'affondare tragico nella notte nera della follia, in quella condizione fatale che si traduce in esperienze segnate dall'ossessione e dall'enigma. Già molto tempo fa questo genere di riflessioni coinvolgevano Eugenio Borgna, che oggi ha 78 anni, è primario emerito dell'ospedale maggiore di Novara - per suo merito non più manicomio, ormai da tanto - e autore di innumerevoli saggi, uno più brillante dell'altro: psichiatra da sempre in trincea ('dove si spara da tutte le parti'), uomo dalla sensibilità e dall'emotività molto accese, del tutto privo delle varianti intellettuali dell'algore. Il tragitto del suo pensiero teorico è ora tracciato in un'antologia intitolata Nei luoghi perduti della follia (Feltrinelli): il volume raccoglie scritti pubblicati tra il 1964 e il 1984 e in qualche modo somiglia al 'laboratorio di un autore', come scrive Federico Leoni nell'introduzione molto ben curata. 'E' una definizione più o meno accettabile - fa invece notare Borgna - trattandosi di scritti autonomi, completi, molto ramificati. Di sicuro non li sento datati e tanto meno estranei, non sono 'schegge' sucessivamente ricomposte, ma lavori complessi che rimandano alla colpa, la morte, la nostalgia, il dolore, il concetto dell'io, il tema della schizofrenia ...'. Sono scritti piuttosto tecnici, seppure di grande intensità, sottratti agli scaffali di biblioteche e archivi, che percorrono brillantemente i contenuti dei libri successivi pensati pe run pubblico più ampio, meno specialistico. In questo libro ad apparire credibile, agguerrita del suo antiriduzionismo, è comunque la psichiatria di area fenomenologica (Borgna ne è un esponente di punta insieme con Bruno Callieri): decisamente estranea all'utopia farmacologica e alle pure classificazioni diagnostiche, ma anche a certe derive 'antipsichiatriche' di un tempo, all'idea tutta ideologica che fosse la società cattiva a produre malattia. Oggi è facile sorridere di queste sciocchezze dovute ai furori anticapitalistici dell'epoca, ma allora a sinistra un po' tutti ... Non nel caso di Borgna. Basta dare un'occhiata a un suo testo datato 1978 che ha per titolo La parabola agonica della psichiatria, messo in chiusura alla raccolta antologica - uno scritto davvero sorprendente per chiarezza e lucidità. In un passaggio si legge: 'La contestazione radicale delle ideologie psichiatriche (di quelle ancorate al positivismo scientifico-naturalistico in particolare) e la drastica riaffermazione della problematicità di ogni definizione articolativa di 'malattia' mentale (e di 'ab-normalità') sono state condotte avanti con estremo rigore dai movimenti antipsichiatrici; e sono in sé del tutto accettabili nella misura nondimeno in cui esse non ripropongano una diversa ideologia: l'assolutizzzione ideologica (cioè) delel categorie (conoscitive) sociologiche e sociogenetiche'. E ancora, più direttamente: 'In ogni epoca storica e in ogni forma di società ci sono stati (e ci sono) i 'malati' mentali. Le moderne indagini epidemiologiche non sono riuscite a dimostrare differenze qualitative nella frequenza d'insorgenza della schizofrenia nei diversi strati sociali'. [...]" (da Luciana Sica, E Basaglia liberò tutti, "La Repubblica", 13/05/'08)