lunedì 31 maggio 2010

Questo detective ha fiuto


"Un esordiente da prima pagina. Si chiama Olle Lonnaeus, è svedese, di mestiere fa il cronista investigativo per cercare di 'spiegare e raccontare' il mondo che lo circonda. Il bambino della città ghiacciata (Newton Compton), affrontando i temi striscianti del razzismo e dell'intolleranza, della solitudine e della diffidenza. protaginista del romanzo, ci mancherebbe un gironalista affermato che ha quasi toccato il fondo per via di un amico ucciso, di genitori adottivi assassinati (della cui morte viene peraltro inciolpato), di fantasmi legati alla scomparsa della madre quand'era bambino. Avvenimenti a prima vista 'slegati', che finiranno tuttavia per confrontarsi con una sconcertante verità.
Passiamo ora a Elizabeth George, una regina della detective story che genera dipendenza. Da non perdere, quindi, Dicembre è un mese crudele (Longanesi), un lavoro che si nutre di amare sorprese, ruvidi sospetti e pizzichi di stregoneria. Con in scena un parroco avvelenato in uno sperduto villaggio. Una morte accidentale per la polizia, ma non per Simon St. James, il patologo che con la moglie era venuto a trovarlo. Il quale, per fare chiarezza, chiama a rapporto un caro amico, l'ispettore Thomas Linley. Che di dettaglio in dettaglio ...
Straordinariamente piacevole, da leggere tutto d'un fiato, è per contro Attenti a quel cane (Sperling & Kupfer), una raffinatezza a quattro zampe firmata Spencer Quinn: pseudonimo, a quel che si vocifera, di un noto scrittore americano. Il quale Quinn ha voluto proporre nel ruolo di protagonista, il detective che su piazza ha certamente il miglior fiuto: un bastardo, di nome e di fatto, che aiuterà il suo padrone a far luce sulla scomparsa di una ragazzina. Il tutto visto da una angolatura diametralmente opposta a quella degli umani.
A seguire il prima e il dopo del conflitto in Sierra Leone, un orfanotrofio per ex bambini soldato, un amore tormentato che si porterà dietro segreti inquietanti e un passato scomodo. Anche in questo caso un altro esordio vincente, quello dell'inglese Paul Harris, sugli scaffali con Il silenzio degli angeli (Piemme).
Voltiamo pagina. Thriller, azione, horror, fantascienza, spy story: di questo e altro ancora si nutre la collana Rizzoli HD, proposta a 16,00 euro a fronte di una veste elegante e di grande formato, riservata alle migliori opere dei numeri di settore. Così, dopo il debutto ad aprile con Clancy (Net Force), Ward (Il risveglio), Deaver (Notti senza sonno) e Chattam (Il sangue del tempo), è ora la volta di Gary Jennings (Apocalypse 2012), Jeff Abbott (Night Road), David Wellington (Frostbite) e John Matthews (Passato imperfetto). Altrettante chicche da leggere e collezionare.
A questo punto le segnalazioni. Partendo dall'eclettico Marco Lombardi che ambienta in un'azienda, a fronte di una gradevole trama, I nuovi amici (Iacobelli); proseguendo con il norvegese Kjell Ola Dahl e Il quarto complice (Marsilio), una storia poliziesca mozzafiato; approdando al collaudato Harlan Coben che riesce a catturare il lato oscuro che c'è in noi con l'intenso Fidati di me (Mondadori); concludendo con Nikolaj Frobenius, altro portavoce della nouvelle vague vichinga, che in Vi mostrerò la paura (Ponte alle Grazie) ossessivamente intriga con un inaspettato protgaonista: Edgar Allan Poe." (da Mauro Castelli, Questo detective ha fiuto, "Il Sole 24 ore Domenica", 30/05/'10)

Tutti gli uomini sono bugiardi


"'Alberto Manguel è un imbecille. Per lui nulla è certo; a meno che non lo veda scritto in un libro'. Così l'autore Alberto Manguel descrive il personaggio Alberto Manguel che appare in Tutti gli uomini sono bugiardi (Feltrinelli): un personaggio che porta il nome del suo creatore, condivide la sua nazionalità, la sua passione per la letteratura e altre caratteristiche importanti, ma che in definitiva non è lui. E in questo intricato e serissimo gioco di verità false e di menzogne vere, di paradossi filosofici come quello che dà il titolo al libro, consiste forse l'essenza del romanzo (il primo scritto in spagnolo) di uno scrittore, editore, saggista, traduttore e lettore quasi leggendario come Manguel.
Il punto di partenza è l'impossibilità di raccontare davvero una vita: non può farlo colui che la vive e nemmeno chi cerca, come il giornalista Jean-Luc Terradillos in questo libro, di ricostruirla a partire dalle testimonianze di coloro che l'hanno incrociata. Il motivo? Lo spiega bene Cortàzar in Il giro del giorno in ottanta mondi: 'La memoria ci tesse e al tempo stesso ci intrappola secondo uno schema cui non partecipiamo lucidamente; non dovremmo mai dire la nostra memoria, perché è tutto tranne che nostra; lavora per conto suo, ci aiuta ingannandoci o forse ci inganna per aiutarci'. [...] Con la sua scrittura impeccabile, con la sua ironia, raccontando con l'andamento di un noir e con la durezza di un saggio storico e politico sulle dittature e sugli anni Settanta, Manguel avvince il lettore e lo avvolge in una ragnatela di dubbi, di tessere di un rompicapo che non vanno mai a posto. E da quel caleidoscopio di morti accidentali che sono anche deliberate, di tradimenti che sono atti di lealtà, di manoscritti apocrifi con troppi autori, di uomini infami che si rivelano quasi eroici, il lettore finisce per ricostruire un'immagine di Alejandro Bevilacqua diversa da quella di ciascuno dei testimoni. Perché, nella vita come nella letteratura, vale sempre la famosa massima del Duque de Rivas: 'En este mundo traidor / no hay ni verdad ni mentira. / Todo es segundo el color / del cristal con que se mira ('In questo mondo traditore / non c'è né verità né menzogna. / Tutto dipende dal colore / del vetro attraverso cui si guarda')." (da Bruno Arpaia, Essere bugiardi è inevitabile, "Il Sole 24 Ore Domenica", 30/05/'10))

Leviathan di Scott Westerfeld


"Ventotto giugno 1914. L'arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia sono uccisi a Sarajevo. Il principe Aleksander, nuovo bersaglio dei cospiratori, scappa nottetempo da Praga attraversando boschi e campi a bordo di un robot gigante. Se la frase appena letta ha qualcosa che non vi torna, ma avete già proiettato nella mente un colosso di emtallo con stemma asburgico che corre a enormi e un po' goffe falcate nella notte, siete anche sensibili al fascino di quel vasto ramo della letteratura fantastica definito storia alternativa. Di cosa si tratta, all'osso? Di un universo narrativo dove i mondi dei romanzi non scaturiscono dal big bang, ma da una piccola domanda: 'What If?'. Ossia, pressappoco: 'Cosa sarebbe successo se ... ?'. Un esempio? 'Che ne sarebbe dell'umanità se non fossero avvenute le rivoluzioni tecnologiche del motore a scoppio, dell'elettricità e del digitale e l'unica tecnologia ad evolversi fosse stata la macchina a vapore?'.
La risposta è il vasto, affascinante e inconfondibile movimento steampunk (sovrapposizione di steam, ossia vapore, e cyberpunk), oggi assurto al rango di giocosa controcultura cha ha i suoi film (La leggenda degli uomini straordinari di Stephen Norrington, per esempio), ritrovi annuali in costume (come la California Steampunk e la SteamCon di Seattle), le sue mostre (la prima esibizione museale di arte steampunk si è conclusa a febbraio di quest'anno al Museo della storia e della scienza di Oxford, dove ha raccolto 70 mila visitatori) e migliaia di bizzarri oggetti artigianali che intasano eBay e i blog degli appassionati in un'orgia di bulloni, occhiali da pilota in ottone, ali leonardesche mosse da getti di vapore e fragore metallico che avrebbe fatto la gioia di Filippo Tommaso Marinetti. Quale è il segreto fascino del futuro retrospettivo? Ne parliamo con uno degli autori steampunk più letti e amati a livello internazionale: il texano Scott Westerfeld, autore di quel Leviathan (Einaudi) che segue le peripezie del (fittizio) principe asaburgico Aleksander in uno scacchiere europeo diviso tra Stati forti di una meccanica avanzatissima (Germania e Austria/Ungheria) e nazioni in possesso di formidabili armi biotecnologiche (Inghilterra, Francia, Russia).
'Lo steampunk è una letteratura fantastica fondata sul collage: puoi costruire un mondo da un insieme di elementi eterogenei presi dal vero passato storico o dal futuro immaginario del periodo vittoriano, da tecnologie alternative palusibili o da bizzarre pseudoscienze come la teoria della terra cava (il nostro pianeta celerebbe al suo interno una serie di superfici concentriche e abitate) o la fotografia degli spiriti. Puoi decidere cosa includere basandoti sulle necessità della trama, o sullo sforzo di realizzare scenari sorprendenti, di grande appeal visivo' spiega Westerfeld. [...]" (da Giuliano Aluffi, Nel nostro futuro remoto c'è un romanzo a vapore, "Il Venerdì di Repubblica", "La Repubblica", 28/05/'10)

Steampunk, viaggio con «Alice» e «Leviathan». Tra fantascienza e romanzo storico (da Il Sole 24 Ore)

Coventry di Helen Humphreys


"Nella seconda fase della battaglia d'Inghilterra la città di Coventry venne investita da una serie di spaventosi attacchi aerei da parte della Luftwaffe tra cui quello devastante della notte del 14 novembre 1940, che causò la morte di oltre 1200 civili e l'annientamento totale della città, compresa gran parte della cattedrale, uno splendido edificio del XIV secolo.
Della cattedrale, come è noto, restano due settori, a distanza di sessant'anni, quello conservatosi dopo la devastazione e quello ricostruito in stile moderno, a testimoniare il tributo di sangue e di sofferenza pagato dalla comunità di Coventry. E chiunque si rechi a visitare la chiesa, o quel che ne resta, non può non restare colpito dalla concentrazione di simboli emotivi che contiene, con il gioco irreale tra le grandi monofore rimaste a filtrare il cielo senza più copertura e con la grandiosa Crocefissione di Graham Sutherland, un arazzo che spicca sul nuovo altare maggiore dal 1962.
A quella notte e alla sua emblematicità della ferocia umana Helen Humphreys, scrittrice canadese nata a Londra nel 1961, vincitrice di importanti premi come, nel 1997, il City of Toronto Book Award con Leaving Earth, ha dedicato Coventry (Playground), un bel romanzo che ha il dono di impastare fra loro orrore e speranza, narrando la storia di due donne, Harriet e Maeve, entrambe colpite nel fisico e negli affetti da quella tragedia memorabile. In tutto il romanzo è infatti la cattedrale a coagulare intorno a sé le storie narrate, come una presenza pulsante e salvifica. [...] La Coventry descritta da Humphreys è una sorta di girone dantesco in cui si muovono anime morte alla ricerca di un senso elementare di sopravvivenza: dall'uomo che, all'aria libera, continua a sbarbarsi ('devo curare il mio aspetto, forse dovrò andare al lavoro domattina'), a colui che, dopo il bombardamento, ha salvato sei uova integre ('l'ideale per mangiarle con il tè') o a chi, caparbiamente, si ostina a consultare i volumi bruciati di una biblioteca rasa al suolo. Per non parlare della vita nei rifugi, dove la gente si sente improvvisamente vicina, e coltiva curiose relazioni fatte di ricordi assurdi collocati in abitazioni, in superficie, che ormai non esistono più. [...]" (da Renzo S. Crivelli, La speranza dopo le bombe, "Il Sole 24 Ore Domenica", 30/05/'10)

sabato 29 maggio 2010

Chi aveva paura del dottor Zivago


"La lunga e complicata burrasca del caso Pasternak è ormai preistoria. Dopo mezzo secolo nessuno sembra ricordarla più. Eppure imperversò con inaudita virulenza come uno scandaloso giallo letterario e politico dall’autunno 1957, anno d'uscita in Italia in sensazionale prima mondiale del Dottor Živago, al 2 giugno 1960, data delle esequie semiclandestine del poeta e romanziere russo nel cimitero di Peredelkino. Il clima ostile, che aveva circondato quegli ultimi anni tempestosi della sua vita, lo si poteva dedurre da un verso della poesia Amleto che i pochi amici, intorno al feretro, recitavano a voce altissima: «Sono solo, tutto intorno a me sprofonda nella falsità».
Perseguitato e vilipeso a Mosca, pubblicato clamorosamente a Milano dall’editore comunista Feltrinelli, premiato fra perplessità e polemiche a Stoccolma dagli accademici del Nobel, esaltato dopo la morte da un film famoso dedicato al medico suo sosia letterario, Boris Leonidovic Pasternak è stato non solo uno dei più grandi poeti russi del Novecento. E’ stato anche il contrario, col suo timbro lirico sommesso e allusivo, dell’esacerbato Esenin, dell’aggressivo Majakovskij, del provocatorio Mandelštam, suicidi di fatto i due primi, suicida d’istinto il terzo. Si diceva, prendendo troppo sul serio certi iperbolici abbandoni autobiografici, che pure Pasternak da ragazzo fosse tentato dal desiderio di sopprimersi; ma, in realtà, l’adulto Pasternak appariva tutt’altro che animato da furori autodistruttivi. Egli era piuttosto un amante della vita piena, un cultore della perfezione estetica, un erratico seduttore di donne erudite e belle.
Il che lo induceva a cercare, cautamente, più il compromesso che lo scontro con l’insidiosa realtà sovietica. Sapeva, benissimo, che c’era poco da scherzare con l’occhiuto sistema poliziesco instaurato da Lenin e portato a suprema totalità satrapica da Stalin. Non a caso Vladimir Nabokov, spregiudicato precettore di letteratura russa negli atenei americani, diffidava del poeta protetto da Stalin e, alzando il tiro, disprezzava perfino il prosatore del Dottor Živago: nel romanzo, bestseller mondiale a cavallo degli Anni Cinquanta e Sessanta, il professor Nabokov vedeva una sorta di perverso connubio fra la buona tradizione tolstoiana e la pessima pratica del «realismo socialista».
Secondo lui, Pasternak evitava di affondare il bisturi nelle viscere di una guerra civile susseguente all’invisibile «rivoluzione d’ottobre». Infieriva contro i combattenti bianchi, facendo intravedere al tempo stesso nell’estremismo rivoluzionario del comandante rosso Strelnikov, che si spostava come Trockij in treno blindato da un fronte all’altro, l’ombra di un traditore latente. Trattava poi i protagonisti principali, Živago e Lara, come due monadi acomuniste (non anticomuniste, sottolineava Nabokov) sperdute tra i flutti di una storia violenta e imprevedibile. Infine, per la loro figlia Tanja, una ex besprizòrnaja divenuta lavandaia, «rozza materia» d’ultima generazione, si preannunciava dopo la seconda guerra un futuro migliore sotto la protezione d’uno zio inatteso - il generale Evgràf Živago - fratellastro «positivo» di Jurij Živago. Il libro si chiudeva in effetti in un’atmosfera da romanzo d’appendice dai riverberi accortamente krusceviani: «Benché il sereno e la libertà attesi non fossero venuti, insieme con la vittoria, questo non aveva importanza: la libertà era nell’aria, in quegli anni, e ne costituiva l’unico contenuto storico».
Nabokov, pur esagerando, aveva colto diversi punti esteticamente e ideologicamente deboli del manoscritto trafugato, col consenso dell’autore, dalla Russia e consegnato all’editore italiano Feltrinelli. Ma, nel frastuono e nell’eco travolgente suscitata in tutto il mondo dal romanzo, dal film di David Lean, dal contestato premio Nobel, gli era sfuggito il punto forse essenziale dell’intera faccenda: il rifiuto, in epoca krusceviana, opposto dalla censura alla pubblicazione russa di un libro che s’inseriva comunque, per tanti aspetti, nel canale dei disgeli krusceviani. A Nabokov, figlio di una dinastia liberale di San Pietroburgo, dove si parlava più inglese che russo, sfuggiva l’assurda banalità di fondo delle contraddizioni sovietiche. Qui, per spiegare a me stesso l’inesplicabile, devo ricorrere a qualche indimenticabile ricordo personale.
Ero giunto a Mosca, quale corrispondente della Stampa, nel 1961, un anno dopo la morte di Pasternak. Gli strascichi dello «scandalo Živago» erano nell’aria. Rammentavano ancora l’espulsione del poeta dall’Unione degli scrittori, il divieto di recarsi a Stoccolma per il Nobel, l’impossibilità di attingere ai cospicui diritti depositati in Svizzera; citavano, in particolare, la velenosissima ingiuria lanciatagli contro da Vladimir Semiasnij, futuro capo del Kgb: «Maiale che insozza la terra dove mangia».
Un sera, in casa di amici, mi presentarono Andrej Voznesenskij, neppure trentenne, seconda figura carismatica con Evtušenko della nuova ondata poetica detta «quarta generazione». Prese a parlarmi subito, scioltamente, senza peli sulla lingua. Allorché il discorso cadde sul culto russo della poesia e quindi, inevitabilmente, sul drammatico crepuscolo di Pasternak, il giovane letterato s’incupì e disse polemico e sarcastico: «Al più grande poeta del nostro Novecento Stalin non torse neppure un capello. E’ stato l'ignorante pseudo-liberale Kruscev a condurlo alla rovina e condannarlo ad una morte prematura da crepacuore. La gratitudine di Stalin per le traduzioni russe di Pasternak dei maggiori lirici georgiani fu, a dir poco, adamantina e profonda. Eh, Stalin! In gioventù amava poetare, era un geniaccio capriccioso e per niente incolto». Oggi c’è chi rievoca una strana e improvvisa telefonata che Pasternak avrebbe ricevuto la notte del 23 maggio 1934. All’altro capo del filo la voce di Stalin. Il despota avrebbe chiesto al poeta Pasternak un’opinione sul poeta Osip Mandelštam, appena arrestato a causa di un feroce epigramma sul «montanaro del Cremlino assassino di contadini». Non s’è mai saputo davvero cosa si fossero detti i due interlocutori di quella misteriosa telefonata notturna. Di sicuro si sa che Pasternak non ha mai preso in pubblico le difese dell’amico e collega Mandelštam, morto intorno al 1938 in un gulag siberiano.
Non mi pare tuttavia semplice e corretto alzare oggi un dito accusatore contro coloro che il più lungo, il più tenebroso sistema di terrore dello scorso secolo poteva trasformare di volta in volta, o una volta sola, da vittime in famuli del carnefice. Resta però aperta la domanda: il senso di una comprensione umana, misurata, non moralistica, può bastare a dissolvere o ad assolvere l’enigma delle banalità, delle casualità, delle assurdità di quelle macchine inutili ma criminali che furono i sistemi comunisti? Può bastare a farci comprendere perché mai Kruscev, che nel 1962 concederà l’imprimatur al primo Solženicyn, lasciava che nel 1958 i cerberi del regime facessero a pezzi l’inerme e assai meno pericoloso Pasternak? Il dottor Živago, che culminava e terminava in un florilegio di liriche, era una cavalcata mesta, cauta, riflessiva e poetica attraverso una sessantina d’anni di nota storia russa; non vi si rivelava in sostanza nulla che i russi già non conoscessero. Invece, con Una giornata di Ivan Denisovic, la giornata di un contadino deportato, per la prima volta la letteratura sovietica apriva le sue porte blindate alla verità sull’arcipelago di schiavitù e d’agonia dei gulag. Insomma: non sapremo mai perché uno stesso regime poliziesco, controllato da un medesimo dittatore, aveva sbarrato l’accesso alle librerie al malinconico Živago per lasciarlo libero, dopo un paio d'anni, all’esplosivo Denisovic. Probabilmente non lo sapeva neanche Kruscev." (da Enzo Bettiza, Chi aveva paura del dottor Zivago, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/05/'10)

mercoledì 26 maggio 2010

L'anno del diluvio


"Il diluvio al quale si riferisce il titolo dell'ultimo romanzo di Margaret Atwood non è quello biblico, voluto da Dio per spazzar via dalla faccia della Terra ogni malvagità e corruzione. È un diluvio senz'acqua: un'epidemia insolita che non può essere arginata da "biostrumenti e candeggina" e che dilaga «nell'aria come avesse le ali», infierendo «nelle città come fosse un incendio, facendo dilagare folle infette, terrore e stragi». Questo diluvio uccide milionie milioni di persone; le reti elettriche, i sistemi digitali, le industrie vengono meno e smettono di funzionare a mano a mano che gli esseri umani che se ne occupavano muoiono. In L'anno del diluvio (The Year of the Flood) siamo trasportati in un mondo che sembra in parte quello raffigurato da Hieronymus Bosch e in parte quello di Arancia meccanica. La "catastrofe totale" dilaga ovunque, e una società privata di sicurezza, la CorpsSeCorps, ha assunto il potere, detiene il controllo dove le forze della polizia locale sono venute meno per mancanza di soldi. Gli agenti della Corps non soltanto ricorrono a tecniche brutali quali la Resa Interna per far rispettare la loro volontà, ma oltretutto effettuano sinistri esperimenti, giocherellando pericolosamente con il genoma umano e quello animale e creando strane e nuove specie mutanti. Sorta di pendant del suo ponderoso romanzo del 2003 intitolato L'ultimo degli uomini, questo libro ci riporta nuovamente a quel futuro post-apocalittico, ma lo fa con un' energia ancora maggiore, con maggiore inventiva e destrezza narrativa. Come L'ultimo degli uomini e il romanzo del 1986 Il racconto dell'ancella, anche quest'ultima opera di Margaret Atwood è una fantasia distopica che intende proporsi come una sorta di racconto ammonitore per gli errori e gli eccessi del nostro mondo, che si tratti di antifemminismo, negazionismo del riscaldamento terrestre, o violenza e materialismo. Mentre però i libri precedenti procedevano a fatica a causa di digressioni didattiche e di un tono moralistico e incline alle prediche, in questo volume Margaret Atwood ha allentato i toni e lasciato briglia sciolta alla propria immaginazione. Toby è una donna che è riuscita a sopravvivere all'interno di un centro benessere di lusso, dove si ciba delle scorte di un magazzino e dei prodotti di un orto interno, dove in passato si facevano crescere le verdure per le insalate biologiche della clientela. A un certo punto Toby decide di avventurarsi fuori dal suo rifugio, e di andare a recuperare nel vecchio quartiere dove abitavano i suoi genitori un fucile seppellito sotto alcune pietre di un cortile interno. Suo padre aveva usato quell' arma per suicidarsi, all' indomani della morte della moglie, spentasi per una malattia misteriosa che aveva bruciato tutti i loro risparmi. In seguito Toby viene a sapere che con ogni probabilità sua madre è stata usata come una cavia per una società farmaceutica denominata HelthWyzer, intenta a «inoculare la malattia nella gente comune» tramite alcune pillole e integratori modificati, «utilizzandola come un animale da laboratorio in libertà, per poi incassare cospicue cifre di denaro per curare le malattie cagionate». Alla morte dei suoi genitori, Toby è costretta a cercarsi una sfilza di mestieri, uno più avvilente dell'altro, fino a essere assunta in una catena di fast-food ributtante, denominata SecretBurgers, della quale si dice che passi al tritacarne carne umana. Lì Toby diventa il trastullo sessuale di Blanco, un manager violento e lascivo, fino a quando non è inaspettatamente salvata da un gruppo di contestatori, i cosiddetti "Giardinieri di Dio", una setta in stile hippie dedita a proteggere ogni forma di vita animale e vegetale. Nel corso degli anni Toby cresce tra le fila dei Giardinieri di Dio fino a diventarne una dei massimi esponenti. Quando si rende conto di essere uno dei pochi esseri umani sopravvissuti al Diluvio Senz'Acqua, Toby si chiede perché proprio lei sia una delle prescelte: «Perché le è stata risparmiata la vita? Perché proprio lei tra incalcolabili milioni di morti? Perché non qualcuno di più giovane, o di più ottimista o con cellule più fresche? Deve confidare nel fatto che vi sia una ragione ben precisa: rendere testimonianza, trasmettere un messaggio, salvare almeno qualcosa dalla devastazione generale ... Deve avere questa fiducia, ma non ci riesce». Tra gli altri individui che vivono con i Giardinieri di Dio c'è una ragazza, Ren, che è stata portata nel gruppo da sua madre, Lucerne, l'ex moglie di un dirigente dell'HerlthWyzer, allontanatasi da casa con il suo amante. In seguito Ren sarà riportata all'interno dell'area recintata dell'HelthWyzer, dove si innamora di Jimmy - il protagonista di L'ultimo degli uomini, noto anche con il soprannome di Snowman, che le spezzerà il cuore mettendosi con la sua più cara amica Amanda. Raccontando le storie di Ren e Toby, Margaret Atwood riesce nell'abile compito di trasformarle in esseri umani credibili, e non soltanto in eroine da fumetto che si aggirano in territori apocalittici realizzati con ogni sorta di effetti speciali, nei quali letali siccità, uragani e nuove malattie inducono molti a predire "l'estinzione totale della razza umana". Benché alcuni capitoli del libro inizino con brani noiosi, nei quali si dettagliano i principi della fede ecologica dei Giardinieri, Atwood si astiene in buona misura da quella sorta di proselitismo che aveva appannato i suoi primi passi nella fantascienza. Concentrandosi invece sui suoi personaggi e sulle loro temerarie e rischiose scorribande in un mondo da incubo, riesce con successo a scrivere un libro che cattura, che prende allo stomaco e che mette in evidenza i suoi indubbi talenti di scrittrice pura, di cui aveva dato prova con tanto vigore nel suo romanzo del 2000 intitolato L'assassino cieco." (da Michiko Kakutani, Il romanzo ecologista, "La Repubblica", 26/05/'10; trad. di Anna Bissanti da A Familiar Cast of Fighters in a Final Battle for the Soul of the Earth)

martedì 25 maggio 2010

Come mi batte forte il tuo cuore



Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi)

"Un altro piccolo mistero l'ho chiarito. Niente carte della P2, né oscuri informatori dei Carabinieri, per una volta parliamo di calcio. Che per papà, da buon maschio italiano, era cosa alquanto seria. Amava ricordare d'aver esordito come cronista sportivo ("la mia prima palestra di realtà", disse, e al Corriere d' Informazione trovò un Gino Palumbo che esortava i redattori di politica interna a "fare gli spogliatoi di Montecitorio"), venerava il maestro Gianni Brera ("occhi da civetta, occhi buoni") e aveva un cuore rossonero (questa sarebbe una gran brutta annata, coi trionfi di Mou). Ma che fosse anche un buon calciatore, al punto da passare per i giovani del Milan, incrociando i leggendari Maldera I e II, proprio mi mancava. L'affettuosa rievocazione di un anziano collega è un graffio bruciante inferto al mio orgoglio di ricercatrice: come può essermi sfuggito un fatto così sostanziale? Possibile che il giovane, egocentrico Walter non si pavoneggiasse di un simile trofeo nelle corrispondenze amorose degli anni giovanili? Tiro un sospiro di sollievo quando, con una breve febbrile ricerca, ricostruisco la verità, che è assai più divertente. Come immaginavo - pur nel mio sconfinato affetto filiale - il giovane Walter fu un mediocre centrocampista: aveva il baricentro basso di Maradona e Messi, ma senza il loro scatto felino. Dotato però di un'ottima visione - di gioco, e non solo -, l'intelligenza unita all'intraprendenza del "cronistello ringhioso" (come si autodefinì a quindici anni) gli consentirono di ottenere, con sottile perfidia, una memorabile gratificazione sui campi da gioco. Giovane immigrato, residente nell'hinterland, organizzò una partita tra i compagni del prestigioso liceo Parini di Milano centro e la squadretta di Cusano Milanino. A sorpresa - racconta Stefano, l'amico di sempre Walter "con un sorriso sornione da gatto del Cheshire" si schierò con i cusanesi, alti, muscolosi e scattanti. Al terzo gol incassato senza nemmeno riuscire a toccar palla i compagni di scuola mangiano la foglia: sfruttando le conoscenze guadagnate scrivendo per il periodico Milaninter, Walter aveva schierato in campo il fiore dei semiprofessionisti di Milanello. A modo suo, giocò, effettivamente, coi giovani del Milan. Non ho foto di quell'impresa, ma mi figuro che avesse il sorriso soddisfatto di quando ritirò il "premiolino" nel 1975. Immagino che lo divertirebbe, rievocare questo piccolo trionfo.
Perché raccontarlo alla vigilia del trentesimo anniversario del suo assassinio? Il perimetro del campetto è spazio di vita fuor di retorica, rubato al silenzio della morte. Nei molti mesi dedicati alle ricerche per scoprire il padre che non ho conosciuto (cercando materiale per il mio libro su di lui), ho imparato come lo studio e l'assidua riflessione sul passato, sulla vita di chi non c'è più, possano sempre riservare sorprese, rivelare nuove sfumature. Anziché sentirmi schiacciata dall'abisso incolmabile della distanza, ho cominciato a percepire un varco simile a una porta socchiusa, che apre su spazi di cui non possiamo illuminare ogni angolo, ma svelano sempre nuove prospettive, man mano che ci spostiamo. Così continua un dialogo tra il presente e il passato, sul filo del rasoio. Mi infastidisce sentirmi chiedere sempre dove sarebbe e cosa farebbe mio padre oggi, cosa scriverebbe dell' una o dell'altra questione: una forma di pigrizia mentale anticamera di "mummificazioni" e appropriazioni indebite.
La vita di Walter Tobagi, brillante professionista trentatreenne, è stata fermata nel 1980. I terroristi hanno rubato a tutti i lettori la sua intelligenza e la coraggiosa limpidezza, ai colleghi e a tutto il paese il suo impegno civile appassionato. Ci è stata tolta la possibilità di sapere cosa avrebbe detto e scritto oggi, in una situazione di pericolo per la libertà di informazione e di profonda depressione e sfilacciamento della società. Ma abbiamo scritti e discorsi con cui ha analizzato e affrontato anni difficilissimi, molto diversi dai nostri, ma che sono la radice del presente. Ci tocca lo sforzo di tornare a quelle fonti, senza ridurlo a un santino, uno slogan, un poster da esibire. La memoria della vita di Walter Tobagi - come di tanti altri deve appartenere a tutto il paese, ma nel rispetto della sua (complessa) identità. [...]
Esattamente trent'anni fa, il 27 maggio del 1980, la sera prima di morire, Walter Tobagi partecipò, come sempre più spesso accadeva, a un dibattito sui problemi dell'informazione, "Fare cronaca tra libertà d'informazione e segreto istruttorio", organizzato per solidarietà col collega Fabio Isman, arrestato per aver pubblicato documenti secretati fornitigli da un ufficiale del Sismi. Ai tempi del terrorismo queste situazioni erano frequenti e creavano tensioni. E' uno choc (forse salutare) rendersi conto che trent'anni dopo, pur con tanti cambiamenti, certe tensioni permangono irrisolte, altre sono peggiorate e ora il Governo mette in discussione addirittura il diritto di cronaca e importanti strumenti d'indagine. E' stimolante rileggere le riflessioni che mio padre formulò quella sera. Aveva uno speciale talento nel riuscire a sviscerare le varie facce di un problema, sminuzzandolo in pensieri ordinati come la sua grafia minuta, asciutta e spigolosa: la netta difesa del diritto di cronaca si mescola ai richiami severi a colleghi, che sono tenuti al massimo rigore deontologico, alle riflessioni sul rapporto di strumentalizzazione reciproca che sempre rischia di avvelenare il rapporto tra il giornalista e le fonti, sulle responsabilità cui chiama la cronaca giudiziaria. Portava avanti con il magistrato Adolfo Beria d'Argentine il progetto dei comitati "giustizia e informazione": avrebbero dovuto parlarne la sera dopo, ma le pagine dell' agenda, dal 28 maggio, restano vuote. Walter Tobagi si è mosso in un periodo tormentato e complesso, con tanta passione civile e l'attitudine a cercare sempre la dimensione della profondità, in posizioni spesso minoritarie. Cattolico, socialista autonomista, sincero progressista ma critico intransigente dei conformismi di sinistra, da vivo è stato molto solo. Uno che a 31 anni, mentre la sua carriera prende il volo sul Corriere della Sera, si accolla l'onere di un grosso impegno nel sindacato, senza ridurre l'attività al giornale, per senso di solidarietà verso i colleghi: il suo prestigio personale poteva servire a tutti. Tenendo l'autonomia del giornalista e la libertà di stampa come riferimento per battaglie concrete. Uno che parte col movimento dei giornalisti democratici dopo piazza Fontana, e anni dopo, attirandosi molti odî, rompe la corrente sindacale che ne era scaturita, poiché a suo parere si era sclerotizzata e degenerava in lottizzazione. Ripensare a uomini come mio padre non è, né dev'essere, comodo o rassicurante. Spero che provochi sempre dubbi e nuove domande: una perpetua, vitale tensione tra passato e presente. Spero che anche voi vi lascerete pungolare dal suo sorriso, per pensare un po' più e un po' meglio, per leggere un libro in più, per capire cosa potete fare per contrastare le diverse ma gravi forme di "lacerazione sociale e disprezzo dei valori umani" (parole di Walter nel 1978) che affliggono la società di oggi." (da Benedetta Tobagi, Walter Tobagi: due o tre cose che non sapevo di mio padre, "La Repubblica", 24/05/'10)

lunedì 24 maggio 2010

Per andar bene a scuola basta possedere 500 libri



Family Scholarly Culture and Educational Success: Books and Schooling in 27 Nations (in Research in Social Stratification and Mobility from ScienceDirect)


"I vostri figli vanno male a scuola e non ne vogliono sapere di studiare? Per migliorare il loro livello di istruzione c'è un sistema abbastanza semplice: riempite la casa di libri, almneo 500. E' la conseguenza paradossale di uno studio condotto da una ricercatrice, Mariah Evans, dell'Università del Nevada, a Reno, insieme ad altre due università americane. Una ricerca che apparirebbe una semplice curiosità, se non fosse per le dimensioni: settantamila casi studiati in 27 Paesi diversi per vent'anni. I risultati variano da Paese a Paese, ma in ogni caso sono sempre significativi: vivere accanto a una biblioteca ben fornita in Cina, uno dei Paesi studiati, corrisponde all'avanzamento culturale che si ottiene con 6,6 anni di studi. Il vantaggio scende in proporzione allo sviluppo del Paese, fino ai 2,4 anni negli Stati Uniti, con una media di 3,2 anni. Il massimo dei risultati si ottiene - come si è detto - riempiendo gli scaffali con una dotazione di almeno 500 volumi.
L'ovvia obiezione che il 'vantaggio culturale' derivi semplicemente dal livello scolastico più alto dei genitori (più libri possiedono, più hanno studiato), che è notoriamente un fattore che favorisce l'avanzamento dei figli negli studi, è stato confutato andando, caso per caso, a controllare il grado di istruzione della famiglia: che i genitori abbiano la licenza elementare o siano laureati il vantaggio educativo è comunque proporzionale al numero di libri raccolti, sintomo evidentemente di un atteggiamento aperto alla cultura. 'Anche pochi libri fanno comunque compiere grossi passi avanti', ha commentato la ricercatrice. 'Possedere almeno 20 libri in casa ha già un impatto significativo e stimola nei figli un più alto livello di istruzione. E più sono i libri, maggiore è il beneficio'.
Anche un'altra obiezione, che cioè i libri siano 'roba da ricchi' e che quindi i vantaggi derivino più che altro dal livello economico, è stata respinta dai ricercatori con un'analisi mirata. Ricordando tra l'altro che funzionano benissimo anche le edizioni economiche." (da Per andar bene a scuola basta possedere 500 libri, "Corriere della Sera", 23/05/'10)

How 20 books at home can help your child to soar (DailyMail)

Books in the home as important as parents’ education level in determining level of education children will attain (EducationNews)

Books in Home as Important as Parents' Education in Determining Children's Education Level (ScienceDaily)

Report indicates that having books in the home is vital (Reading)

Books in the home 'boost children's education' (Telegraph)

'Altri libertini' trent'anni dopo



Centro di documentazione Pier Vittorio Tondelli

"Eroina sparata nelle parti basse. Bestemmie. Fughe di ventenni nel nord Europa. Vagare senza fine nella Bassa padana. Oppure: scene strazianti di amore e separazione. Elegie di amicizia vera e tanta solitudine da guarire. Alcuni dei momenti più belli della letteratura italiana degli ultimi tempi.
A trent'anni di distanza, cosa ci può ancora dire Altri libertini? In un certo senso, è il momento migliore per riprendere in mano questo libro e rileggerlo con sguardo critico. All'inizio, al momento della sua pubblicazione, fu soprattutto un caso extraletterario. Molti giovani si riconobbero in quelle storie senza compromessi, e l'uso aperto del parlato e del sesso esaltò la parte pruriginosa dei lettori. Inoltre, com'è noto, il libro fu condannato per oscenità e oltraggio alla morale pubblica dalla Procura dell'Aquila — fattore che contribuì ad aumentarne l'aura "maledettista".
Ma all'altezza del 2010, senza preoccupazioni moralistiche o ideologie facili cui ricorrere, Altri libertini si rivela innanzitutto per ciò che è: un meraviglioso canto di innocenza e dolore, di tenerezza e violenza insieme.
L'elemento più innovativo è innanzitutto il patchwork di linguaggi che l'autore mette in campo. Ogni sorta di riferimento, dal più alto al più popolare — passando per l'uso deliberato del gergo, l'idioletto della musica e del cinema — viene tritato in un insieme continuo e musicale, che imprigiona il lettore fin dall'inizio.
Persino il paesaggio (quello lineare e piatto della Bassa, ma anche quello multiforme del vagare europeo) diventa parte integrante del discorso linguistico. Tondelli privilegia un flusso continuo di fatti e sensazioni, con pochissimi dialoghi e un'estrema rapidità di esecuzione. Esemplare da questo punto di vista è il racconto Viaggio: due o tre anni di vita di un giovane studente compressi in pagine straordinariamente ricche di eventi e spostamenti, senza che la tensione emotiva del tutto si perda.
Più che una serie di racconti, Tondelli definiva Altri libertini un "libro a episodi", e in effetti l'unità non è solo paesaggistica (tutte le storie sono ambientate o partono in Emilia) o di personaggi (alcuni vengono citati trasversalmente in altri racconti). L'unità è anzitutto tematica, ed è qui che si consuma il vero problema concettuale del libro.
L'eroina, il sesso, l'alcool e il vagare senza fine non sono inni a un vivere fuori dalle regole, vagamente antiborghese, ma innanzitutto testimonianze di inquietudine. L'edonismo irrisolto che anima queste pagine è un'ipotesi e non una soluzione: gli "altri libertini" cercano semplicemente una via, senza pretese di delinearla.
Potremmo metterla così: il nodo cruciale di Altri libertini è il suo essere il contrario esatto di un manifesto giovanilista. Da tempo è giunto il momento di liberare questo libro dal suo valore extraletterario. Smettere di pensare che basti scrivere di sbronze e viaggi e amori adolescenziali per avere in mano qualcosa di buono.
L'idea stessa del giovanilismo deruba di ogni forza l'idea di giovinezza, e Tondelli non l'avrebbe mai accettato — non l'ha fatto. Il suo modo di scrivere di questo tema è stato illuminante, sensoriale, per nulla scontato. In una parola: l'ha fatto con la passione e il dolore di uno scrittore autentico: l'ha fatto in modo puro, per ridare un senso a questa parola.
Ora, in un momento in cui la giovinezza in letteratura è così attuale, è necessario ripensarlo proprio per evitare facili banalizzazioni. Rileggere con coscienza Altri libertini è un ottimo punto di partenza." (da Giorgio Fontana, 'Altri libertini' trent'anni dopo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 23/05/'10)

Biografia di un viaggiatore inquieto (Il Sole 24 Ore)

Oltre l'edonismo, tutti gli errori della generazione anni '80 (Il Sole 24 Ore)

Io e Tondelli, «due appartati e schivi» (Il Sole 24 Ore)

Un'altra vita di Per Olov Enquist


"Lungo e sottile come un fuso, con quella strana ritrosia nel sorriso tipica dei timidi, Per Olov Enquist scandisce e soppesa le parole lentamente, quasi parlando con se stesso, un retaggio forse di quando, in gioventù, è stato un atleta di salto in alto. L'oggetto dell'incontro è l'uscita della sua autobiografia, Un'altra vita (Iperborea), una storia «che parla di resurrezione» e che si legge come un romanzo di formazione in tre atti: dall'infanzia tra i boschi nel nord della Svezia allevato da una madre severa e devota, fino alla lunga dipendenza dall'alcol dalla quale uscirà scrivendo romanzi come Il medico di corte o Il libro di Blanche e Marie. Nel mezzo una vita molto intensa, segnata da rapporti d' amicizia mai banali (Bergman, Olof Palme), dal successo giunto prima dei trent'anni o dall'esperienza nella socialdemocrazia svedese. «Non ho parlato dei miei figli né dei miei fallimenti matrimoniali - avverte Enquist -. Avevo la sensazione che qualcosa fosse finito il 6 febbraio del '90, quando smisi di bere e ripresi a scrivere. Passati diciassette anni dalla mia resurrezione, mi accorsi che potevo guardare indietro anche con un po' di curiosità e non più solo con vergogna».
Come mai ha raccontato di sé in terza persona? «Le prime quaranta pagine le ho scritte partendo dalla parola "Io". Mi sono accorto che era molto scivolosa. Mi sentivo un codardo, non arrivavo alla verità. Allora ho ricominciato, frapponendo una distanza formale con cui riuscivo a guardare l'uomo Enquist con più acutezza, a trasformarlo, quasi, nel personaggio di un romanzo. Se andavo contro di lui era più facile essere onesti».
Ha utilizzato lo stesso metodo con cui costruisce i romanzi? «Sì. Dovevo cambiare casa e luogo di lavoro. Tornavo a Copenhagen, dopo aver trascorso un periodo a Parigi - ho avuto tre matrimoni e i traslochi sono stati frequenti nella mia vita. Trovai in un angolo della casa una serie di appunti su alcuni diari e diversi pacchi di lettere che mi erano state indirizzate fino al '78. Rileggere questo materialeè stato come aprire delle porte».
Racconta di essersi trovato nei crocevia della storia. Ha la sensazione di aver avuto una esistenza privilegiata? «Venendo dal piccolo villaggio di Hjoggböle ho trascorso la giovinezza pensando che gli altri avessero avuto delle esperienze più interessanti delle mie. Sentivo di essere partito da una posizione di svantaggio. Ormai ho settantacinque anni e mi sono reso conto d'essere stato al centro della storia quando cambiava direzione: a Berlino, durante il processo alla banda Baader-Meinhof; come giornalistaa Monaco nel '72, che fu l'inizio di una nuova forma di guerra; nel novembre dell'89 a Praga, anche se ero preda dell'alcol. È come con le finestrelle del calendario dell'avvento, vedi tante immagini e solo a poco a poco sai metterle assieme».
Sua madre voleva che diventasse un prete. «Ho passato l'infanzia in un contesto fortemente religioso, con l'ossessione del peccato e del perdono. Sono cresciuto solo con mia madre e la sua fede. In un ambiente così oppressivo le domande erano meravigliose ma le risposte rivoltanti. Forse è per questo che non sono finito nel fondamentalismo degli anni Sessanta, quella impostazione l'avevo già conosciuta e rifiutata. Comunque, il mio senso di colpa è oggi orientato verso gli uomini più che verso Dio».
Per alcuni la scrittura ha un potere salvifico. Per lei è così? «Il mio inferno nell'alcol è durato tredici anni e in questo arco di tempo ho composto solo un romanzo breve, L'angelo caduto. Se fosse stato grazie alla scrittura avrei dovuto salvarmi molto prima. Per farlo ho dovuto invece risolvere il significato dell'assenza di mio padre, che morì quando avevo sei mesi. Finii per inventarmelo, portandolo con me e parlandoci continuamente, una sorta di benefattore presente ma invisibile. La chiave è stata Il capitano Nemo».
Parla di resurrezione: che valore dà a questa parola? «Per la prima volta mi accade di essere fermato da lettori che confessano di avere provato sensazioni molto profonde con Un'altra vita. C'è stato un tempo in cui sono stato molto vicino a suicidarmi e non ho ancora ben capito come mai non l'ho fatto. Chi passa attraverso questa dipendenza ha però una propria storia e soluzioni differenti. L' unica cosa che mi sento di dire è di rialzarsi con le proprie gambe perché nessuno vi salverà».
Cercare di capire il momento in cui è iniziata la modernità appare come un punto cruciale del suo lavoro di scrittore. Da dove nasce questa ricerca? «La modernità è interessante, ma mette anche paura. Si dice che la Svezia abbia i suoi due millenni di storia. In realtà è nata un centinaio di anni fa, a cavallo fra il XIX e il XX secolo: da che era uno dei paesi più poveri al mondo è diventato uno dei più ricchi. Per quanti come me provengono dagli sperduti villaggi del nord, e che adesso vivono in una società opulenta e moderna, la domanda che poniamo a noi stessi è se non siamo per caso nel posto sbagliato. Forse è là che dovremmo ritornare»." (da Sebastiano Triulzi, Per Olov Enquist, "La Repubblica", 22/05/'10)

I dilemmi di Internet: giornali al bivio


"'Internet', ha detto Harold Evans, ex-direttore del Times di Londra e uno dei più noti giornalisti britannici, 'offre una grande opportunità ai media. Sono certo che l'informazione sta per entrare in un'età dell'oro migliore di ogni precedente'. Rupert Murdoch, il più grande editore del mondo, proprietario di giornali e tivù in quattro continenti, è dello stesso parere. I pessimisti temono che il web faccia scomparire i giornali, offrendo ai lettori notizie gratis e permettendo a ogni internauta di diventare giornalista, se lo vuole, con un blog, una e-mail, una battuta su Twitter. Gli ottimisti, alla cui schiera appartengono Evans e Murdoch, ritengono invece che forse anzi probabilmente Internet farà scomparire i giornali fatti di carta, ma non il giornalismo e i giornalisti, i quali troveranno una nuova vita non appena sarà stato escogitato il mezzo per rendere economicamente sostenibile un giornale digitale che distribuisca notizie, commenti, reportage attraverso la rete. Il mezzo, a quanto pare, è stato appena trovato: l'iPad potrebbe fare per l'informazione quello che l'iPod ha fatto per la musica, dando alle news una nuova piattaforma di distribuzione e un modo di ricavarci un utile. Ma anche condividendo la visione più ottimistica, un futuro in cui il giornalismo esisterà prevalentemente o completamente su Internet pone alcuni problemi che non sono stati ancora risolti. Il primo è di ordine economico. "I giornali non più solo di carta ma anche o soltanto sul web, letti sull'iPad o su un telefonino o su un personal computer o su un nuovo gadget che sarà inventato tra due, cinque o dieci anni, potranno indubbiamente guadagnare, ma quanto? Pubblicità, abbonamenti, micropagamenti, quale che sia la formula che sarà studiata, riusciranno a generare il tipo di enorme fatturato che è stato fino a oggi necessario per finanziare una grande azienda giornalistica? È vero, il web riduce anzi azzera le spese di stampa e distribuzione, un considerevole risparmio. È anche verosimile che le aziende giornalistiche, alla luce dei nuovi mezzi per raccogliere notizie, riducano i propri organici, rendendoli più efficienti e facendo più attenzione agli sprechi che in passato: questo sta già succedendo, ovunque. Ma anche così, il giornalismo via web potrà generare risorse sufficienti a finanziare una rete di redattori esperti, di reporter investigativi, di commentatori autorevoli, di corrispondenti e inviati in ogni parte del mondo, di critici prestigiosi, insomma tutto quello che serve a un giornale per svolgere al meglio il suo ruolo? Un secondo problema è legato al mezzo tecnologico. I siti internet dei media odierni contengono di tutto: dal gossip agli approfondimenti, dalle fotografie ai video, dalle piccole alle grandi notizie. Fino ad ora, tuttavia, studi e sondaggi sembrano indicare che, per riscuotere il maggiore interesse sul web, servano due elementi: la brevità e la stravaganza. Notizie o foto o filmati che siano di rapida consultazione e che contengano qualcosa di curioso, straordinario, eclatante. In minore misura, lo stesso avviene con la televisione, dove gli approfondimenti di informazione sono possibili, ma meno che sulla carta stampata. Il giornalismo su internet sarà sospinto inevitabilmente verso la strada della brevità e dell'eclatante, oppure si presterà anche a ospitare editoriali, inchieste, reportage? In altre parole, un articolo che occupa una pagina intera su un giornale verrà letto dallo stesso numero di lettori anche sul web? Di questo e altro parleremo insieme a John Kampfner e Alexander Stille in "Il futuro dei media e la libertà di stampa", uno dei dialoghi in programma al Festival dell'Economia di Trento (venerdì 4 giugno, ore 19). Kampfner è inglese, è stato corrispondente dall'estero e columnist, ha diretto il settimanale laburista New Statesman, ha appena pubblicato un libro intitolato Libertà in vendita (pubblicato in Italia da Laterza) sui rischi per la libertà d'informazione nell'era del nuovo populismo e dei nuovi media. Stille è americano, scrive sul New Yorker, sul New York Times e su Repubblica, è autore di libri importanti sulla mafia e sul fenomeno Berlusconi, insegna giornalismo alla Columbia University (è figlio di Ugo Stille, leggendario corrispondente dagli Stati Uniti e poi direttore del Corriere della Sera). I cambiamenti tecnologici che stanno cambiando l'informazione sono una minaccia per la libertà di stampa? Possono cambiare il ruolo che il "quarto potere" ha avuto, come controllore della democrazia, per tutto il ventesimo secolo? Sono le domande a cui due interlocutori di grande rilievo cercheranno di rispondere." (da Enrico Franceschini, I dilemmi di Internet: giornali al bivio, "La Repubblica", 23/05/'10)

sabato 22 maggio 2010

Long walk to Freedom


"Detto popolare: se vuoi nascondere qualcosa a un nero, mettilo dentro a un libro (perché, è sottinteso, non legge). O, ancora più esplicitamente, per dirla con il titolo di un articolo di Sihle Khumalo sul Times sudafricano: è un fatto, i neri non leggono. «In questo paese, che ha circa 50 milioni di abitanti, un libro basta che venda 5000 per essere considerato un bestseller. Questo può significare una sola cosa: i sudafricani - che per il 90% sono neri - non leggono». Reazioni pepatissime.
Qualcuno si offende dicendo che lui è un darkie, scuretto, ma legge tantissimo, qualcun altro spiega che il detto popolare non è sudafricano e risale invece alle piantagioni schiaviste americane, quando leggere e scrivere per i neri era un reato. Fioccano le spiegazioni. Scuole scadenti, solo l'8% delle quali con una biblioteca. Altre priorità: il lavoro, la casa, il cibo. «Il fatto che i bambini neri dovrebbero leggere cose senza alcun rapporto culturale con la loro vita, tipo Shakespeare, Macbeth, Poe».
Mancanza di case editrici nere. Mancanza di librerie - l'unica a Soweto, un milione di abitanti, ha chiuso in agosto. Mancanza di libri in nove delle undici lingue sudafricane, escluse cioè le «bianche» inglese e afrikaans. Ma l'autobiografia di Nelson Mandela Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli), che pure era stata tradotta dall'inglese in xhosa, e che ai sudafricani neri dovrebbe pur interessare, non è mai entrata in classifica. Vedremo cosa accadrà al suo nuovo libro Conversations with Myself, in ottobre.
Khumalo, scrittore, fornisce motivazioni anche politiche: «L'ultima cosa che il National Party voleva era tanti neri con qualche cultura e conoscenza» mentre oggi, sedici anni dopo la fine dell'apartheid, «il governo dell'Anc vorrebbe improvvisamente tanti sudafricani neri dalla mente aperta e dal forte bagaglio culturale?». Però cd e dvd sono diffusissimi, «la cultura pop nera è troppo occupata con l'hip-hop per aprire un libro», dice un altro editorialista sconfortato: un insegnante di Soweto, racconta, per verificare il detto popolare dal quale la polemica si è innescata, in gennaio ha nascosto una banconota da 100 rand in un volume della sua striminzita biblioteca, e ad aprile l'ha ritrovata intatta: significa che gli studenti sono asini oppure onesti?" (da Giovanna Zucconi, Mandela non fa bestseller, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/05/'10)

Album fotografico di Giorgio Manganelli


"«Negli scontri letterari [...] si divertiva. Erano gli altri che se la prendevano». Disamava per esempio Pasolini («non posso neanche dirgli che scrive male, perché non sarebbe vero»); lo provocava; una volta riuscì a «smontarlo» (e se la prendeva eccome, PPP; stizzito gli dava del «teppista»).
Così ricorda suo padre (scomparso vent’anni fa, il 28 maggio) Lietta Manganelli, fra risatine ereditariamente mefistofeliche, nelle didascalie - dettate a Ermanno Cavazzoni complice soave - delle immagini splendidamente riprodotte nell’Album fotografico Quodlibet. Il quale fissa una volta per tutte (dopo la versione uscita anni fa sul Caffè illustrato) la prodigiosa «mitobiografia» che risponde al nome di Giorgio Manganelli. «Il Manga», anzi, come lo chiamavano gli amici.
Fra questi Luciano Anceschi - «il Magister» - ebbe in sorte di fargli da mèntore. Lo intercetta all'inizio degli Anni Cinquanta, quando il non ancora Manga brancola nelle caligini d'una giovanile disperazione. Lo stimola, lo pungola, letteralmente gli strappa di mano articoli e recensioni per il neonato verri («la rivista è piena di roba» suona goloso, nel ’56, il commento del Manga al primo numero).
Il carteggio fra i due è esile ed esilarante. Il loro rapporto è fatto di prensile cultura e celie «manganesche» (teppisti, certo!): «un gioco iperletterario tra
due attori che recitano una commedia barocca», ha scritto Silvano Nigro. Ed è in seguito alle staffilate dell’Anceschi che al «Mangagnifico» (così lo definisce
il Magister) si scioglie il nodo alla lingua. All'ennesima profferta di collaborazione il Manga, «il dappoco» (così si definisce lui), si schermisce promette tossicchia rinvia (la lettera l'aveva già resa nota Mariarosa Bricchi): «Forse io ti ucciderò, mio buono e colto: e davanti al tuo insanguinato catafalco scriverò il FAMOSO SAGGIO, la INCREDIBILE RECENSIONE, la DOTTA PROLUSIONE [...] io scriverò TUTTO: [...] volumi, saggi, articoli e articolesse, note e commenti, chiose, postille e asterischi, appunti e svagatezze».
Quanto vuole scrivere, il Manga!, letteralmente trabocca di parole. E già a quest’altezza sa esattamente come scriverà: quella bella prosa che io mi sogno, tutta ricchissime secondarie, barocca ma freddina, neoclassica ma drammatica, solenne ma oscena». Furioso delira: «ecco una visione di “Verri” fitti di Manga, cataloghi folti di Manga, e saggi sul Manga, dibattiti sul Manga, donne suicide pel Manga, interrogazioni al Parlamento sul Manga». Chissà se da lassù (anzi, da laggiù) constata la realizzazione - fatti salvi, a quanto consti, morti per amore e baruffe in emiciclo - di siffatto programma.
Il fatto è che ha paura, il Manga: «la paura di essere letto da voi, di uscire dal castello di una stima [...] generosa». Lo terrorizza l'idea di sortire dalla tana (si raffigura come laido animale, losco abitatore di bassifondi): di «uscire» a stampa, i baffi allungati a vibrare fiutando invisibili minacce. Paura, terrore, angoscia.
Quando alle sferzate del Magister si aggiungeranno i miti maliosi d'uno psicoanalista-sciamano ebreo, Ernst Bernhard, a quarant’anni passati romperà gli indugi: e sarà finalmente, nel 1964, Hilarotragoedia. Cioè il racconto - oscuro, terribile, comicissimo - di quell’angoscia, s'è visto, atrocemente vera: ma dai fasti del linguaggio trascinata in una regione drogata, fantastica ed
eccitante, che Manganelli chiama Menzogna.
È misterioso - per non dire misterico - come quest’angoscia si traducesse nel linguaggio cruento dell’alimentazione. Superato il trauma della nascita (letteraria), delle zuffe coi colleghi non si curava; ma - prosegue Lietta - «si offendeva per altre cose, per un ritardo a cena, ad esempio». Dopo un solo giorno di lezione, al DAMS di Bologna dove l'aveva chiamato il Magister, si dimette in seguito, pare, a un pessimo pranzo (non senza raccomandare un altro prof. sui generis, Gianni Celati); un'altra volta Anna e Luigi Malerba lo invitano a cena con Italo e Chiquita Calvino: ma Manganelli arriva prima di tutti, pretende di mangiare subito, fugge prima che gli altri si siedano a tavola.
Una foto lo riprende all’alpeggio degli einaudiani, a Rhêmes, mentre impaurito come sempre alla chetichella esce da un droghiere: soppesando un involto che il divo Giulio e i suoi, magri sani sofisticati, avrebbero disapprovato senz’altro.
Quella che preferisco, fra le Leggende del Manga, lo ritrae nel momento in cui quella paura gli suscita un coraggio insospettato.
Come si sa era costume di Giulio Einaudi girare con la forchetta in mano, e piluccare dai piatti dei suoi prestigiosi clientes.
Manganelli non può credere ai propri occhi. Solleva il piatto, si alza e se ne va: considerando concluso, da quel momento, ogni rapporto con Via Biancamano. Ogni pasto, ricorda Lietta, «è un rito religioso, è sacro; lui diceva: noi mangiamo i nostri morti». Sarà per questo che il suo ristorante preferito, il Romagnolo di Roma, un certo giorno decise di chiudere senza preavviso. Era il giorno del suo funerale. Così Manganelli faceva ritorno nel luminoso regno delle tenebre - quello da cui proveniva." (da Andrea Cortellessa, Quel teppista di Manganelli, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/05/'10)

Diario di lettura: Bernardo Bertolucci


"L'azzurro del cielo oggi fatica ad affacciarsi dalle ampie vetrate del salotto romano con pareti arancione di Bernardo Bertolucci. In questo maggio piovoso si addensa una nuvolaglia scura. Ma anche in un'altra stanza di circa quarant'anni fa (era il 1972) il cielo non appariva: «Lui le chiede di non aprire le finestre, di tenere sbarrate le porte, di stare chiusi, senza un filo d'aria: non voleva si disperdesse l'odore dei loro corpi post coito, voleva conservare come in una teca il sentore del loro amplesso. Giro questa scena, con frasi come queste, poi ci ripenso e la taglio - ricorda il cineasta -. Mi capita di assistere alla prima di L'impero dei sensi, di quattro anni successivo al film con Marlon Brando, e di scoprire che i protagonisti usano espressioni identiche a quelle eliminate da L'ultimo tango».
Come mai? Una delle pellicole italiane di maggior successo di tutti i tempi, L'ultimo tango a Parigi, e il parto del giapponese Nagisa Oshima,
sono separate da continenti e da storie diverse. Eppure, all'origine di entrambe, come poi si sono reciprocamente chiariti Oshima e Bertolucci, c'è l'attrazione per un piccolo libro-cult dell'erotismo, per un monumento al sesso più hard e violento: L'azzurro del cielo di Georges Bataille, surrealista amato da Roland Barthes. Una pellicola, un libro, un destino: non è questa l'unica tappa dello stretto intreccio tra cinema e letteratura per il regista italiano più riverito e osannato (però nei suoi scaffali non fanno bella mostra gli Oscar conquistati da L'ultimo imperatore). Dalla cellulosa alla celluloide senza soluzione di continuità, per Bertolucci lo spettacolo si nutre di storie e racconti («cercando di non essere mai letterario, anche perché quasi tutto il cinema italiano, compresi i miei primi film, ha il punto debole nei dialoghi spesso improbabili e avulsi dalla realtà»).
Ora il cineasta di Parma, impegnato nella durissima battaglia per la riabilitazione, dopo ben quattro interventi alla colonna vertebrale, ricostruisce in La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi interventi (1962-2010), appena uscito da Garzanti, la sua autobiografia intellettuale che si legge anche come il romanzo di una vita dietro la cinepresa. Gli esordi prendono avvio, però, con una voce dissonante rispetto alle successive e ben più clamorose imprese: con una raccolta di versi (che otterrà il premio Viareggio) sulle orme di papà Attilio, gran poeta «laureato».
«In casa si ripeteva spesso questa strana parola “poeta”. La poesia per me non era legata alla scuola. Ma alla mia famiglia, al podere, il cui ricordo è stato fondamentale per la ricostruzione di Novecento, nella frazione di Baccanelli. La prima cosa che ho divorato sono state le strofe di mio padre, come queste per mia madre: “Tu sei come la rosa bianca in fondo al giardino ...". La domenica mattina si andava a Parma dove mio padre aveva fondato il cineclub e mi dilettavo con Eisenstein o con John Ford o con le battaglie tra americani e musi gialli, come si diceva allora».
Bertolucci con i compagni di scuola, che capitanava nelle scorribande nei campi, condivideva Salgari ma non certamente Emily Dickinson, Eliot e Dylan Thomas. «E nemmeno Il neo malthusianesimo pratico che avevo ripescato nel solaio della casa di campagna, pieno di fotografie scientifiche sull'accoppiamento e sul corpo umano e che, proprio per il fatto che mi era stato nascosto, trasformai in una lettura porno».
La sua università? «Sono state le cene nelle trattorie romane. Non scherzo. Pasolini, Moravia e la Morante e, dopo la sua separazione da Alberto, Dacia Maraini, con le loro chiacchiere serali. Si discuteva di tutto, anche a rischio di rimetterci la solidarietà. Pasolini, per esempio, in un suo articolo, espresse mille dubbi su La Storia di Elsa. Lei per questo troncò ogni legame con lui.
Quando la incontrai al funerale di Pier Paolo mi disse: “Sono disperata. Ma, anche Adesso, se lo rincontrassi, non potrei rivolgergli la parola”».
Fascinoso, ambiguo, arruffato secondo i dettami della moda del tempo, tormentato dall'ipoteca paterna che lo rende viaggiatore instancabile nel perimetro della psicoanalisi alla Woody Allen, Bertolucci si trasferisce a Parigi. Qui i suoi primi film ottengono notevoli riconoscimenti. «Per un periodo mi sono sentito più francese che italiano. A Parigi ho traslocato con sottobraccio lo “scandaloso” Henry Miller e pure con Jean Cocteau, autore di Les enfants terribles, da cui molti anni dopo trarrò The Dreamers. Ma ecco i nomi dei protagonisti di Prima della rivoluzione, che mette in scena il disagio di un ventenne borghese, Fabrizio, Gina interpretata da Adriana Asti e Clelia. Chi le ricordano?».
Sono gli stessi nomi dei personaggi di La Certosa di Parma. «Non potevo fare a meno di rendere omaggio a uno dei miei autori preferiti, Stendhal. Come non potevo rinunciare negli anni Sessanta-Settanta a rivolgere nei miei film un hommage a un altro idolo, Godard. Con Romolo Valli che, spiritoso, mi prendeva in giro: “Contieniti. Un hommage va bene ma due hommages sono un plage”. Ero così influenzato da Godard che, quando a Londra lo incontro per la prima volta, accade l'impensabile: per l'emozione gli vomito addosso. Così ci siamo ritrovati insieme alla toilette a liberarci entrambi dei miei residui organici e siamo diventati molto amici. Non senza frizioni. Nel '68 a tavola con lui commento alcuni slogan studenteschi: “la cultura è serva del sistema”, “gli scrittori sono al soldo del padrone”. Il mio giudizio è netto: “sono dei fascisti”. Lui si alza e mi abbandona indignato. Quando esco dal locale lo scorgo seminascosto dietro un taxi: “Avresti potuto corrermi dietro prima”, mi dice conciliante».
Altri rapporti con gli scrittori? «Splendidi con Moravia dal cui romanzo ho tratto l'omonimo film il Conformista. Quando gli confesso contrito “Ti ho tradito” lui commenta “Dovevi farlo”. Ho passato invece circa un mese a Sabaudia d'inverno con Ian McEwan per scrivere un soggetto da 1934 di Moravia. Pensavamo a un film sulla dittatura con un intellettuale che si innamora di due gemelle. Ma la sinergia non darà buoni frutti. Capita. Però non perdo il gusto per la letteratura trasposta sullo schermo: da L'Assedio, tratto da un racconto di James Lasdun, a Il tè nel deserto che mi ha dato la possibilità di incontrare non solo Paul Bowles che nemmeno a Tangeri dimenticava di essere un vero dandy ma anche tutta la band dei beatnik, da Ginsberg a Kerouac a Orlowsky».
Insomma dei libri lei parla in termini di attrazioni spesso fatali: sedotto e ammaliato proprio come dai suoi stessi attori. Tra questi ultimi, a chi la palma del maggiore appeal? «A Marlon Brando, fin dalla prima volta che l'ho incontrato nel 1971, al Raphael a Parigi. Mentre gli propongo il film e gli racconto la trama lui è distratto, non mi fissa e gira altrove lo sguardo. “Perché non mi guardi negli occhi?”, lo sollecito. “Volevo vedere quando smetti di battere nervosamente con il piede”, mi risponde. Era imprevedibile. Per evitare la sensazione di artificio nella sua recitazione era pronto a qualsiasi cosa: non imparava mai a memoria i dialoghi ma se li faceva trascrivere su un gobbo. Memorizzava una parola e da quella ricostruiva le battute».
Ultimi film e ultimi libri? Baarìa di Tornatore, così di frequente avvicinato al suo Novecento? «Non l'ho ancora visto. Lo farò. Ho apprezzato Il divo di Sorrentino e Gomorra di Garrone e anche L'uomo che verrà di Giorgio Diritti, dedicato alla strage di Marzabotto. In generale oggi ho molte riserve sul nostro cinema, penso che stia perdendo colpi in termini di ambizioni, di desiderio di essere il luogo delle proiezioni più impossibili. Quanto alle letture sono tornato, di recente, al primo amore. Oggi sul comodino ci sono le poesie di Patrizia Cavalli»." (da Mirella Serri, 'La mia laurea? In trattoria con Moravia, "TuttoLibri", "la Stampa", 22/05/'10))

venerdì 21 maggio 2010

Se mi vuoi bene, regalami un libro


"Lo slogan è efficace, anche se vagamente, nobilmente ricattatorio, come suggerisce Gian Arturo Ferrari, il presidente del Centro per il Libro e la lettura, che lo ha selezionato e fortemente voluto: «Se mi vuoi bene il 23 maggio regalami un libro». Con queste parole parte la campagna di comunicazione, presentata oggi al Salone internazionale del libro di Torino, e promossa da Centro per il Libro e dall'Associazione italiana editori, in collaborazione con l'Associazione librai italiani e il supporto di Anci e Upi, per presentare la giornata nazionale per la promozione della lettura.
La sfida è quella di rendere il libro più familiare e vicino, un oggetto da regalare a chi si vuole bene, come testimonianza di affetto e vicinanza. «Vorremmo che la lettura diventasse un piacere quotidiano – ha spiegato Marco Polillo, presidente dell'Aie -. Per questo ci siamo rivolti a tre autori molto noti e amati dal pubblico e li abbiamo invitati a dire in pochissime parole qual è secondo loro il senso e il gusto del leggere».
Saranno infatti tre autori di bestseller come Gianrico Carofiglio, Benedetta Parodi e Roberto Saviano, a raccontare in uno spot tv (ciascuno a modo loro: molto efficaci quello della Parodi che sorride e avvicina, più impegnati quelli di Saviano e Carofiglio) che sarà trasmesso dal prossimo 16 maggio su tv e radio.
Alla campagna di comunicazione hanno aderito oltre 1.300 librerie in tutta Italia, tutte le testate quotidiane principali, le maggiori emittenti radiofoniche, 13 mensili e 12 settimanali. I cartelloni con lo slogan e l'immagine (un cuore formato da due pagine ripiegate su un libro) saranno poi visibili sul retro di molti autobus a Milano, Roma e Napoli.
I fondi per la campagna pubblicitaria, firmata dall'agenzia Zampe diverse, sono stati messi dall'associazione degli editori e provengono dal fondo dei diritti di prestito bibliotecario.
«L'iniziativa – ha detto Polillo – che sposiamo con entusiasmo e con convinzione sarà ripetuta nei prossimi anni. Dobbiamo far diventare pian piano un'abitudine un giorno in cui si regala un libro». Il modello è il giorno di san Jordi a Barcellona, quando, ogni 23 aprile, le coppie si scambiano una rosa e un libro. «Sì ma la differenza – dice Ferrari – è che funziona solo a Barcellona. Noi vogliamo che sia una campagna di sensibilizzazione nazionale. Per questo abbiamo scelto anche dei testimonial che sappiano parlare non solo al pubblico dei già lettori, ma anche alla vasta platea di chi non ha familiarità con i libri». Dalla prima impressione degli spot, la scelta sembra proprio azzeccata." (da Stefano Salis, Uno spot «per» il libro contro la crisi della lettura, "Il Sole 24 Ore", 14/05/'10)

martedì 18 maggio 2010

Addio a Edoardo Sanguineti, il poeta dell'avanguardia


""Io sono il poeta più patetico del Novecento, nel senso che il mio è un pathos del corpo". Non mancava certo di ironia Edoardo Sanguineti, scomparso oggi a 79 anni in ospedale dopo un malore che lo ha colpito nella sua casa di Genova, né di culto della parola fra gioco e radice etimologica. Con lui se ne va uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia italiana del '900, che ha contribuito al tempo stesso a demolire e innovare, e del confronto culturale italiano. Poeta tra i fondatori del Gruppo '63 e dell'avanguardia letteraria italiana, docente di letteratura italiana in varie università italiane, saggista (innovativi i suoi saggi su Dante e Gozzano), mattatore e drammaturgo. Un'attività poliedrica che sconfinava spesso in battaglie e polemiche politiche, poi l'impegno in prima persona fino a ricoprire diversi ruoli tra cui quello di parlamentare indipendente per il Pci tra il 1978 e il 1983.
Nato a Genova nel 1930 ma formatosi a Torino, Sanguineti inizia giovanissimo a interessarsi alla letteratura e all'arte e durante l'università, frequentando i corsi di Giovanni Getto nei primi anni '50 inizia anche la stesura del suo poema più famoso, Laborintus. L'esperienza sperimentale e lo studio accademico saranno sempre due attività parallele di Sanguineti - un'attività che lui stesso definì negli ultimi anni come di "chierico organico", nella necessità di sgretolare dall'interno il sistema - che proprio con la tesi di laurea getta le basi per alcuni dei suoi lavori critici più importanti e controversi, quelli sul Realismo di Dante e sul Dante Reazionario come recitano i titoli di due suoi studi che sarebbero poi seguiti a quegli anni.
Sotto il segno di Dante è la sua ricerca formale come poeta per il Laborintus, che pubblicherà nell'anno della laurea grazie all'interessamento di un altro nume tutelare della letteratura italiana, Luciano Anceschi. Quando quest'ultimo fondò, proprio quell'anno, la rivista Il Verri, invitò Sanguineti a unirsi alla redazione dove conobbe Elio Pagliarani e Antonio Porta, gettando le basi di un rapporto che porterà alla pubblicazione dell'antologia di I novissimi. E' con gli autori dell'antologia, che uscì nel 1961 - fra questi c'erano anche Alfredo Giuliani e Nanni Balestrini - che Sanguineti si inserisce nel novero di coloro che gettano le basi per un ampio movimento di ridiscussione, critica e destrutturazione dei linguaggi della letteratura e dell'arte e che vide nel Gruppo '63 (l'anno in cui il gruppo si riunì, a Palermo) e più in generale nel movimento della Neoavanguardia gli elementi che hanno segnato e orientato, tra entusiasmi e contestazioni, un intero decennio della vita culturale italiana.
Con la sua vasta produzione poetica - che dopo l'esordio continuò con molti volumi tra cui Triperuno (1964), Wirrwar (1972), Postkarten (1978) - Sanguineti cercò sempre di sviluppare forme letterarie coerenti con gli assunti di una letteratura che si faceva ideologia sistematica e visione complessa della realtà, un disegno di rappresentazione del mondo contemporaneo che sapesse seguirne il caos, il disordine e al tempo stesso, dantescamente, restituirne la struttura attraverso una rappresentazione linguistica della "palus putredinis", la palude del mondo contemporaneo.
Ai richiami psicoanalitici che lo portavano a mettere in scena anche un disagio psichico individuale (evidente anche nella sua opera di narratore a partire dal suo romanzo più famoso, Capriccio italiano, del 1963) corrispondeva la volontà di inserire questa crisi individuale in un esaurimento storico della società capitalista. Da qui la necessità di tenere ferma la barra ideologica, l'analisi del reale secondo la lezione di Marx, principalmente, e la incessante militanza intellettuale che ne ha fatto una delle figure di riferimento della seconda metà del '900.
Se l'attività poetica è andata avanti per cinquant'anni (del 2004 è l'opera antologica Mikrokosmos), con lo scioglimento del Gruppo 63, nel 1969, inizierà un periodo più intenso di impegni sia accademici che politici. Dopo viaggi e trasferimenti sarà Genova, la sua città natale, il luogo che lo vedrà protagonista, durante gli anni Settanta, sia con la cattedra di Letteratura Italiana, sia con l'impegno al consiglio comunale che con l'attività di pubblicista per molti quotidiani, primo fra tutti L'Unità. Crescerà la volontà di coinvolgimento nelle questioni sociali fino all'elezione come parlamentare indipendente nelle liste del Pci tra il 1979 e il 1983. L'attività politica va avanti fino agli ultimi anni (nel 2006 e 2007 l'impegno durante le primarie per il candidato sindaco di Genova), l'esperienza universitaria finisce nel 2000 ma Sanguineti continua la sua intensa attività di studioso, critico militante, di poeta e narratore a cui non mancano anche le collaborazioni con musicisti importanti (suoi i libretti per le opere di Luciano Berio), scritture per il teatro - del quale predilige l'aspetto clowneristico, satirico.
Forse proprio il teatro è una delle chiavi per rileggere per intero la sua figura istrionica, acuta, dotta ma capace di graffio e spiazzamenti intellettuali. Sanguineti è stato una personalità eclettica e pirotecnica. Pacato, rassicurante, legatissimo alla moglie, sempre elegante, quasi "borghese" - Inge Feltrinelli raccontò del contrasto, a una festa in villa, tra il poeta genovese in cravatta con figli e signora e l'autore beat Ginsberg che usciva nudo dalla piscina. Era anche un'intelligenza fervida, inquieta, capace di ironie taglienti e provocatorie come quando, nel 2003, polemizzò contro Silvio Berlusconi al Campiello o, nel 2006, contestò gli studenti di Tien an Men accusandoli di essere dei "ragazzetti innamorati del mito della Coca Cola". Persona estremamente affabile e gentile, era capace di confrontarsi con i molti linguaggi della contemporaneità, anche con autoironia: superò i confini degli addetti ai lavori quando accettò di posare per una nota marca di jeans sotto lo slogan "Poeta in Carrera", spiazzando in questo caso i suoi compagni di militanza con uno sberleffo, cosa che forse amava di più.
Oltre quella intellettuale, sembrava animato da una passione comica, dietro gli occhi a fessura luminosi e a cui prestava quella sua faccia un po' così, quasi da maschera teatrale spigolosa e cubista. Passione e ideologia, per rubare le parole a Pasolini, che a Sanguineti non sono mai mancate, fino all'ultimo giorno della sua vita." (da Mario De Santis, Addio a Edoardo Sanguineti, il poeta dell'avanguardia, "La Repubblica", 18/05/'10)

lunedì 17 maggio 2010

Per l'alto mare aperto


"«La modernità è un'epoca, quella che mette in discussione gli assoluti. E come epoca, è finita». Oggi arrivano i «barbari», che si definiscono così non in modo spregiativo o limitativo, bensì nel senso che gli davano i greci antichi: gente, dunque, che parla una lingua a noi estranea, incomprensibile. Sono «il nuovo che arriva, sono la nuova epoca». Non «amano leggere libri, non amano la parola scritta. Non contestano, come facevamo noi, i valori dei nostri nonni e dei nostri padri per cambiarli: non lo fanno semplicemente perché non vogliono nuovi valori. Vogliono ricominciare da zero, il che è pure importante. Se li faranno da soli, i valori». I barbari, comunque, sono pur sempre «un fattore vitale», mentre ben altra cosa sono gli «imbarbariti». Oggi ce n'è una molteplicità di «imbarbariti», che imbarbariscono i nostri valori. Per questo «li dobbiamo combattere». Gli «imbarbariti» non sono presenti in Per l'alto mare aperto (Einaudi), il nuovo libro di Eugenio Scalfari, che è un viaggio, un'esperienza, dalla nascita alla decadenza della modernità, intrapresi tra Cartesio e Montaigne, Spinoza, Kant e Hegel, Diderot e Nietzsche, Ulisse e Don Chisciotte. Il fondatore di Repubblica, tuttavia, fa emergere l'imbarbarimento in virtù di una domanda partita dalla platea affollatissima del Salone del Libro di Torino, dove ieri ha dialogato con Ernesto Franco e Antonio Gnoli. È un pomeriggio intenso, di riflessioni e di interrogativi, quello che nella Sala Gialla del Lingotto, davanti a una folla silenziosa e attenta, prende l'avvio dall'avvento della modernità che Scalfari identifica piuttosto che con la scoperta dell'America con Montaigne e i suoi Saggi, sul finire del secolo XVI, in quanto rappresentano «il pensiero che pensa la modernità». La ricognizione si chiude con Nietzsche. La "bomba" innescata da Montaigne nell' universo dell'assoluto e della metafisica, in ogni caso, scoppia quando il filosofo tedesco annuncia che «Dio è morto e noi l'abbiamo ucciso». Rifacendosi a un recente commento del direttore di L'Osservatore Romano, che interpretava da cattolico quell'affermazione sulla morte di Dio, e sul fatto che siano stati gli uomini a ucciderlo, l'autore di Per l'alto mare aperto avverte, pur senza volere intaccare l' autorevolezza del giornalista vaticano: «Nietzsche dice che abbiamo ucciso ciò che abbiamo creato. Siccome noi abbiamo creato Dio, siamo in grado di ucciderlo». C'è molto Nietzsche nel ragionamento di Scalfari, nel colloquio con Franco e con Gnoli. Quel Nietzsche che è «una malattia», che spezza «il centro», l'io irrigidito,e sostiene che è ovunque. Come tutte le malattie, del resto, ha vari stadi, diversi gradi di lettura. Cambia il nostro modo di leggere, come dice Montaigne «siamo noi che cambiamo. Io l'ho letto tre volte, lo leggerò ancora». Racconta che in gioventù lo lesse in una maniera assai differente da quelle che sarebbero seguite: «Ero allora uno studente fascista, scrivevo sui giornali del Guf, portavo una stupenda divisa che piaceva alle ragazze. Un giorno fui convocato dal segretario del partito. Quando fui davanti a lui mi strappò le spalline, me le gettò in faccia e mi espulse. Restai sbalordito, credevo di essere fascista. Così mi domandai se era lui a essere diventato antifascista, oppure se lo ero diventato io. Dico questo perché, a quell'epoca, avevo letto Nietzsche da fascista: il superuomo che prende il potere e schiaccia i deboli». Il pomeriggio con Scalfari si conclude tra domande e applausi. Con quei «barbari» che «non si possono distruggere perché sono il nuovo che arriva», quelle ««isole» dell'epoca della modernità che «resistono, circondate». E con quegli «imbarbariti» che frantumano i valori che sopravvivono, ma che sono un buon motivo per combattere un'estrema battaglia di civiltà". (da Massimo Novelli, Scalfari: 'Più dei Barbari temo gli imbarbariti', "La Repubblica", 17/05/'10)

Eugenio Scalfari viaggio nella modernità di Alberto Asor Rosa

sabato 15 maggio 2010

Consumati. Da cittadini a clienti


"Provate a immaginare quali enormi profitti potrete realizzare se riuscirete «a condizionare un milione o dieci milioni di bambini, i quali diventeranno adulti addestrati a comprare il vostro prodotto, così come i soldati sono addestrati a mettersi in marcia non appena sentono l’ordine avanti march!». Lo scriveva - cinquant’anni fa! - un americano esperto di marketing di nome Clyde Miller,
citato da Vance Packard nel suo famoso I persuasori occulti.
Da allora, un crescendo di strategie (pedagogie?) per portare i bambini nel mondo del consumismo: affinché l'effetto di consenso/addestramento sia intenso e soprattutto duraturo.
Per farci restare però piccoli anche da adulti. Infantilizzandoci, ovvero inducendo «comportamenti puerili in soggetti adulti», scrive Benjamin Barber
(americano, docente di Civil society) in un saggio tra psicologia e sociologia, Peter Pan e Wendy, lovemarks e desiderio di comunità, apparenza di libertà e web come nuovo mercato, infotainment, edutainment, co-branding e narcisismo degli interessi.
Titolo: Consumati. Da cittadini a clienti (Einaudi). Analisi di come il mercato «corrompe i bambini, infantilizza gli adulti e mortifica il cittadino». Adulti, ma infantili («rimbambiniti»). Questo siamo diventati, e sarebbe da rileggere il Kant di Cos’è l’illuminismo dove è scritto: «Minorità è l’incapacità dell’uomo di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro», restando per sempre nel «girello da bambini». Infantili nel consumo, ma non solo - e l'Italia di oggi, viene da dire, sembra la triste dimostrazione di come l’infantilizzazione sia passata dalla televisione di consumo alla politica, dando un consenso empatico agli stessi produttori di infantilismo. Sì, perché l'idea di infantilizzazione si basa su opposizioni forti ma facili, che fanno prevalere, ad esempio, il dogmatismo al dubbio, le immagini alle idee, l'egoismo all'altruismo, l'ignoranza alla conoscenza.
Molti dualismi che Barber riassume tra «facile-difficile, semplice-complesso e veloce-lento». E le nostre società oggi premiano appunto il facile, il semplice e il veloce (profitti facili, sesso veloce, copia e incolla, divertimento volgare). Ne viene fuori un totalitario «totalismo consumistico» fatto di «puerilità indotta» ma necessaria al capitalismo per riprodursi. Anche se «il problema non è il capitalismo di per sé». Però, se una religione pretende di dettare legge, è una teocrazia; se è la politica a colonizzare la vita, è tirannia; perché invece «quando è il mercato a colonizzare ogni ambito della vita» lo chiamiamo «libertà»?
Già, perché? Il capitalismo «dovrà moderare il proprio trionfo e i cittadini dovranno rinnovare la loro vocazione», sostituendo «all’ethos infantilistico un ethos democratico». Basterà, o abbiamo perso la voglia di diventare «maggiorenni»? Basterà, se il liberismo ha conquistato l'egemonia anche a sinistra e se sembra continuare ad avere consenso?
Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti provano a smascherare - in Liberista sarà lei! (Codice), tra saggio e pamphlet - l'imbroglio del liberismo (anche) di sinistra.
In tanti, in troppi hanno creduto (di nuovo!) a questa favola del mercato autoregolato, tendente all'economia-casinò. Ecco allora una rilettura del liberismo, partendo da Adam Smith, passando per Friedman e Hayek e arrivando a polemizzare con chi - come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi o i «riformisti» da sinistra che invocano un «ossimoro chiamato flexsecurity» - ha preteso di realizzare il paradosso del liberismo di sinistra. Che fare? «Noi auspichiamo un ritorno del Politico (dal suo lato sinistro), come indispensabile antemurale contro i nuovi domini dell’interesse economico svincolato da ogni controllo in questa fase di turbocapitalismo (forse calante) e di endemiche insorgenze razziste e/o fondamentaliste».
Cambiamento è anche l'auspicio dell’economista Raj Patel ne Il valore delle cose (Feltrinelli). Partendo da Oscar Wilde - «Al giorno d'oggi la gente sa il “prezzo” di tutto, ma non conosce il “valore” di niente» - inizia la critica a un mercato guidato non dai bisogni ma dal profitto, dove le regole, quando ci sono, «sono stabilite dai potenti». La «cura» non può però venire solo dai governi, «bisogna cambiare la società di mercato dall’interno», con più uguaglianza, responsabilità e politica dal basso - bilancio partecipativo, rimozione dello «squallido fardello del consumismo» e difesa dei beni comuni.
Ma come siamo giunti a questo punto? Utilissimo, ecco Il lauto scambio, dello storico William Bernstein (Tropea). Per capire come il commercio, lo scambio, hanno rivoluzionato il mondo conquistando appunto l'egemonia: dalla Mesopotamia all'economia finanziaria di oggi, tra mercanti e spirito di avventura.
Un libro liberista? «I dilemmi del liberismo - scrive Bernstein - richiamano alla memoria il famoso giudizio di Churchill sulla democrazia: la peggiore forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme di governo che si sono sperimentate finora». E però, visti gli effetti negativi prodotti - disuguaglianze,
crisi ambientale, infantilizzazione - che superano di molto quelli positivi, è forse arrivato il momento di pensare davvero a qualcosa di meglio." (da Lelio Demichelis, Rimbambiniti, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/05/'10)