sabato 22 maggio 2010

Album fotografico di Giorgio Manganelli


"«Negli scontri letterari [...] si divertiva. Erano gli altri che se la prendevano». Disamava per esempio Pasolini («non posso neanche dirgli che scrive male, perché non sarebbe vero»); lo provocava; una volta riuscì a «smontarlo» (e se la prendeva eccome, PPP; stizzito gli dava del «teppista»).
Così ricorda suo padre (scomparso vent’anni fa, il 28 maggio) Lietta Manganelli, fra risatine ereditariamente mefistofeliche, nelle didascalie - dettate a Ermanno Cavazzoni complice soave - delle immagini splendidamente riprodotte nell’Album fotografico Quodlibet. Il quale fissa una volta per tutte (dopo la versione uscita anni fa sul Caffè illustrato) la prodigiosa «mitobiografia» che risponde al nome di Giorgio Manganelli. «Il Manga», anzi, come lo chiamavano gli amici.
Fra questi Luciano Anceschi - «il Magister» - ebbe in sorte di fargli da mèntore. Lo intercetta all'inizio degli Anni Cinquanta, quando il non ancora Manga brancola nelle caligini d'una giovanile disperazione. Lo stimola, lo pungola, letteralmente gli strappa di mano articoli e recensioni per il neonato verri («la rivista è piena di roba» suona goloso, nel ’56, il commento del Manga al primo numero).
Il carteggio fra i due è esile ed esilarante. Il loro rapporto è fatto di prensile cultura e celie «manganesche» (teppisti, certo!): «un gioco iperletterario tra
due attori che recitano una commedia barocca», ha scritto Silvano Nigro. Ed è in seguito alle staffilate dell’Anceschi che al «Mangagnifico» (così lo definisce
il Magister) si scioglie il nodo alla lingua. All'ennesima profferta di collaborazione il Manga, «il dappoco» (così si definisce lui), si schermisce promette tossicchia rinvia (la lettera l'aveva già resa nota Mariarosa Bricchi): «Forse io ti ucciderò, mio buono e colto: e davanti al tuo insanguinato catafalco scriverò il FAMOSO SAGGIO, la INCREDIBILE RECENSIONE, la DOTTA PROLUSIONE [...] io scriverò TUTTO: [...] volumi, saggi, articoli e articolesse, note e commenti, chiose, postille e asterischi, appunti e svagatezze».
Quanto vuole scrivere, il Manga!, letteralmente trabocca di parole. E già a quest’altezza sa esattamente come scriverà: quella bella prosa che io mi sogno, tutta ricchissime secondarie, barocca ma freddina, neoclassica ma drammatica, solenne ma oscena». Furioso delira: «ecco una visione di “Verri” fitti di Manga, cataloghi folti di Manga, e saggi sul Manga, dibattiti sul Manga, donne suicide pel Manga, interrogazioni al Parlamento sul Manga». Chissà se da lassù (anzi, da laggiù) constata la realizzazione - fatti salvi, a quanto consti, morti per amore e baruffe in emiciclo - di siffatto programma.
Il fatto è che ha paura, il Manga: «la paura di essere letto da voi, di uscire dal castello di una stima [...] generosa». Lo terrorizza l'idea di sortire dalla tana (si raffigura come laido animale, losco abitatore di bassifondi): di «uscire» a stampa, i baffi allungati a vibrare fiutando invisibili minacce. Paura, terrore, angoscia.
Quando alle sferzate del Magister si aggiungeranno i miti maliosi d'uno psicoanalista-sciamano ebreo, Ernst Bernhard, a quarant’anni passati romperà gli indugi: e sarà finalmente, nel 1964, Hilarotragoedia. Cioè il racconto - oscuro, terribile, comicissimo - di quell’angoscia, s'è visto, atrocemente vera: ma dai fasti del linguaggio trascinata in una regione drogata, fantastica ed
eccitante, che Manganelli chiama Menzogna.
È misterioso - per non dire misterico - come quest’angoscia si traducesse nel linguaggio cruento dell’alimentazione. Superato il trauma della nascita (letteraria), delle zuffe coi colleghi non si curava; ma - prosegue Lietta - «si offendeva per altre cose, per un ritardo a cena, ad esempio». Dopo un solo giorno di lezione, al DAMS di Bologna dove l'aveva chiamato il Magister, si dimette in seguito, pare, a un pessimo pranzo (non senza raccomandare un altro prof. sui generis, Gianni Celati); un'altra volta Anna e Luigi Malerba lo invitano a cena con Italo e Chiquita Calvino: ma Manganelli arriva prima di tutti, pretende di mangiare subito, fugge prima che gli altri si siedano a tavola.
Una foto lo riprende all’alpeggio degli einaudiani, a Rhêmes, mentre impaurito come sempre alla chetichella esce da un droghiere: soppesando un involto che il divo Giulio e i suoi, magri sani sofisticati, avrebbero disapprovato senz’altro.
Quella che preferisco, fra le Leggende del Manga, lo ritrae nel momento in cui quella paura gli suscita un coraggio insospettato.
Come si sa era costume di Giulio Einaudi girare con la forchetta in mano, e piluccare dai piatti dei suoi prestigiosi clientes.
Manganelli non può credere ai propri occhi. Solleva il piatto, si alza e se ne va: considerando concluso, da quel momento, ogni rapporto con Via Biancamano. Ogni pasto, ricorda Lietta, «è un rito religioso, è sacro; lui diceva: noi mangiamo i nostri morti». Sarà per questo che il suo ristorante preferito, il Romagnolo di Roma, un certo giorno decise di chiudere senza preavviso. Era il giorno del suo funerale. Così Manganelli faceva ritorno nel luminoso regno delle tenebre - quello da cui proveniva." (da Andrea Cortellessa, Quel teppista di Manganelli, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/05/'10)

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