lunedì 3 maggio 2010

Scendo. Buon proseguimento


"La necessità di vivere nel bello, sì, la capisco e condivido. Ma il bello sta nella capacità di goderne, quindi nella sensibilità e nella cultura. Considero un grande privilegio essere nata a Venezia, essere vissuta a Roma, aver lavorato in uno stupendo palazzo del Cinquecento, aver camminato a occhi aperti nella bellezza, là dove i più vedono solo un noioso percorso.""

«La cosa più stupida da dire a un malato è che lo si trova molto bene ... La cosa più triste è quando non te lo dicono più», scriveva Cesarina Vighy iniziando L’ultima estate, il libro che l’hanno scorso ha fatto di lei un caso letterario, vincendo il Campiello opera prima e entrando nella cinquina dello Strega. Raccontava la sua malattia, giunta ormai a una fase molto avanzata, che l’aveva privata di ogni autonomia di movimento. Era un’autobiografia, lucida e ironica, una storia lunga settant’anni guardata con spirito indomitamente laico e come dall’esterno, da una sorta, come spiegò, di «Second life», da un luogo che non è più esattamente quello della vita, ma non certo quello di una morte che pure si sa prossima.
La fine è arrivata ieri, a pochi giorni dalla pubblicazione, sempre per Fazi, del secondo libro, dall’esplicito titolo Scendo. Buon proseguimento: una raccolta di poesie e di email agli amici, una sorta di presa diretta degli ultimi anni di vita, fino a quello cruciale dell’inaspettato successo letterario. La scrittrice, che aveva 74 anni, è mancata nella sua casa di Monteverde, quella che i lettori ormai ben conoscono, dal lungo e buio corridoio centrale al terrazzino dove, sporgendosi un po’, si vede il Vittoriano.
I temi di Scendo. Buon proseguimento incrociano ovviamente quelli di L’ultima estate, ne sono la premessa e la conseguenza. Le mail hanno forma spesso aforistica, come quella in cui si rivolge all’amico Alberto, datata 31 maggio 2008: «Io che mi vantavo di essere refrattaria all’influenza, di non avere mai la febbre. Di non aver fatto un giorno di malattia per dieci anni consecutivi (per lo Stato un record) sono privata delle pressoché uniche caratteristiche che ci distinguono dalle nostre sorelle (non cugine) scimmie: la postura e il linguaggio». Nel libro precedente era stata anche più esplicita: «Restano l’inutile pollice sovrapponibile e l’insopportabile coscienza di me».
Da sei anni era malata di Sla, la sindrome degenerativa che ha colpito vari sportivi ma anche personaggi dello spettacolo. Nata a Venezia da un celebre avvocato socialista e da una donna di campagna, semplice e religiosa, si era presto trasferita a Roma, la sua vera città d’adozione, oggetto di quell’«amore forsennato», aveva scritto, «che possono provare soltanto i romani in seconda battuta, i “cispadani” in particolare». A Roma era stata una figura importante nel mondo intellettuale. Aveva lavorato a lungo al Ministero dei Beni culturali e poi alla Biblioteca nazionale di Storia Moderna e Contemporanea, la stagione del primo femminismo l’aveva vista esponente di punta.
Si sentiva soprattutto una poetessa. Nei cenni biografici da lei dettati per la quarta di copertina di L’ultima estate, si definiva così: «Dedita alla scrittura da sempre, si sarebbe accontentata di diventare un dickinsoniano “poeta postumo”, fino a quando, colpita da una rara malattia neurologica, non si è decisa ad affrontare il giudizio altrui, libera ormai dall’ossessione del successo». E nell’ultimo libro aggiunge qualcosa di definitivo: «Anche oggi, mi stupisco per la stranezza del Caso, che sembra dare con una mano quel che toglie con l’altra. In una condizione di libertà, la malattia mi ha dato materiale, momenti di gioia creativa in cui dimenticavo la realtà che mi aspettava, sempre più difficile, sempre più buia. Mi ha dato soprattutto maggior sensibilità di capire cose e persone»." (da Mario Baudino, Cesarina Vighy la scrittrice venuta dalla malattia, "La Stampa", 03/05/'10)

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