sabato 30 ottobre 2010

Il cimitero di Praga


"Siamo avvertiti sin dall’epigrafe: ogni racconto storico che si rispetti inanella episodi realmente accaduti in una trama unitaria; poi la correda con una serie di divagazioni che, sviando dal tema principale, porta il lettore a considerar vero tutto ciò che sta seguendo con gli occhi della mente.
Il Cimitero di Praga, nuovo romanzo di Umberto Eco, è fatto così: mescola realtà storica e invenzione romanzesca, precisione documentaria e piacere dell'affabulazione, iperstrutturazione narrativa e continui effetti-nebbia. E lo fa per due ragioni.
Da una parte incanta e diletta il lettore, conducendolo lungo 500 densissime pagine dove con gran gusto autoriale si narra di tutto e di più: dal Risorgimento italiano al bonapartismo francese, dalle messe nere alle fogne di Parigi, dai manicaretti degli chef ai deliri gesuitici contro i frammassoni e viceversa.
Dall'altra spiega a questo stesso lettore, coi mezzi propri del testo letterario, come sono fatte le storie ben fatte, e come la perfezione formale del racconto, costellata di svarioni fabbricati ad arte, non abbia solo valenze estetiche ma anche effetti pratici, sociali, politici. «Quando tutti i fatti appaiono spiegabili, allora il racconto è falso»: non c'è niente di meglio del mistero sconclusionato per far nascere il desiderio di verità, la volontà di credere.
E aver fede nelle storie, sembra dire Eco, è la principale attività dell'uomo, sia che si tratti del piacere della letteratura sia che riguardi la nostra esperienza quotidiana e sociale, dove ogni cosa che accade ha senso se e solo se sta in un
intreccio narrativo, in un reticolo di vicende diverse. Di modo che anche la Storia, volente o nolente, finisce per seguire le stesse regole, mescolando realtà a finzione, crudeli azioni degli uomini a patenti menzogne, violenze di massa a invenzioni romanzesche. È quel che accaduto con un celebre testo tardo-
ottocentesco, scalcagnato nella confezione ma terribile nei risultati: quei Protocolli degli anziani di Sion che, sebbene più volte indicati come falso storico, sono stati scientemente usati per fomentare il più aspro antisemitismo, dando la stura al nazismo hitleriano, e ancor oggi additati come fonte attendibile per gesto o pensiero rivolto contro il popolo ebraico.
Il Cimitero di Praga ha la forma di un diario redatto dall'unico personaggio inventato di tutto il romanzo, tale Capitano Simonini, che chiamare losco figuro è fargli un complimento: falsario, truffaldino, pluriomicida, agente doppio, bombarolo e, manco a dirlo, antisemita sfegatato. Alla fine dell'800, in una Parigi sconvolta dal caso Dreyfus, costui ha parzialmente perduto la memoria. Incontra in una bettola un certo dottor Froïde (sic), che fra una birra e l'altra gli espone la sua nascente talking cure, consigliandogli di ricostruire l'intera sua esistenza alla ricerca del fatto traumatico che possa avergli provocato quel malessere psichico.
Da qui la stesura di una specie di giornale al tempo stesso intimo e storico, personale e collettivo, che finisce per assumere le caratteristiche caricaturali di un feuilleton ottocentesco, infarcito da una sequenza talmente ossessiva di
stereotipi razzisti da togliere a chiunque la voglia di riproporne degli altri. Usando e citando con divertita maestria i principali romanzi a puntate dell'epoca, il libro ripercorre le vicende che hanno portato all'Unità d'Italia (carbonari e mazziniani, guerre d'indipendenza, Cavour e Vittorio Emanuele, Pio IX e Garibaldi, i Mille con La Farina, Bixio, Nievo etc.), molto meno epiche di quando non affermino certi libri di storia, nonché le varie rivoluzioni che hanno segnato la storia francese del medesimo periodo: e dunque Luigi Filippo, il '48, Napoleone III, la guerra franco-prussiana, la Comune, la Seconda Repubblica e, appunto, l'affaire Dreyfus.
Ne viene fuori, dal punto di vista soggettivo del protagonista, un racconto di tutt'altro tono e con tutt'altro finale, che è sorta di rilettura in filigrana di queste stesse vicende. Simonini, per mestiere, falsifica documenti, al soldo
ora di questo ora di quel potere politico e religioso. Di modo che, entrando in contatto con gesuiti e massoni, repubblicani e anticlericali, bonapartisti e spie russe, getta le basi per quello che diverrà, grazie a lui, il testo dei Protocolli
(sua è per esempio l'idea che ogni cent'anni, nel cimitero di Praga, si son riuniti i capi delle dodici tribù ebraiche per tramare contro l'umanità intera).
E lo fa al modo in cui tutti i falsari producono i documenti che altri saranno portati a considerare autentici: copiando da testi già esistenti, con palesi plagi e riscritture pacchiane, mescolanze di genere e trasformazioni di personaggi.
Scopriamo così che il testo base dell'antisemitismo è un mélange grossolano che, partendo dai soliti templari, prende spunto ora da altri documenti inattendibili, ora da banali pamphlet dell'epoca, ora anche dai fogliettoni di Sue e di Dumas. L'obiettivo era quello di costruire un sistema di credenze che fungesse da arma spietata e invincibile contro un nemico giurato: il popolo israelita. Ahinoi, ha funzionato: e le leggi della narrazione stanno lì a dimostrarlo." (da Gianfranco Marrone, C'è un losco falsario che si aggira per l'Europa, "TuttoLibri", "La Stampa", 30/10/'10)

I falsi Protocolli secondo Umberto Eco ("La Repubblica")

Odio è il nome della Rosa. Vi racconto il nuovo libro di Umberto Eco ("Il Sole 24 ore")

Il falso si costruisce con ciò che tutti sanno ("La Stampa")

Menzogna. Come costruire un falso e diffonderlo nel mondo ("Corriere della Sera")

Storia di Inge, un film scritto in migliaia di libri



"'Il 14 marzo avevo un appuntamento con lui e con Carlo nella piazza principale di Lugano: avevamo programmato di ripartire alle tre del pomeriggio, ma Giangiacomo non arrivava. Ero sfinita, mi sembrava una cosa impossibile. Ripartimmo per Milano perché Carlo aveva una partita alle cinque ...'.
Il mattino dopo, sul Corriere della Sera, c'era la foto di un morto senza nome, ai piedi di un traliccio, 'ma io capii subito che era lui'.
Inge Feltrinelli rievoca, forse per la prima volta, la ferita di quella oscura tragedia, di cui lei rifiuta tutte le versioni ufficiali, uno die tanti misteri di quel 1972 funestato in Italia dallo stragismo, dla terrorismo e dalla paura di un colpo di Stato. Racconta la sua vita, di dolore, felicità, lotta, entusiasmo, amore, con sincerità, serenità e trattenuta commozione, in una lunga intervista a Simonetta Fiori: 14 ore di filmato girato in quattro giorni, destinato agli archivi della casa editrice come memoria degli anni in cui 'Milano era come New York', luogo di intelligenza e cultura internazionale, punto di riferimento europero per i grandi scrittori del mondo raccolti attorno alla casa editrice Feltrinelli.
Ridotto a 75 minuti, il racconto è diventato un film con la regia di Luca Scarzella, prodotto da Carlo Feltirnelli, distribuito dall'Istituto Luce, che verrà presentato al Festival di Roma il 3 novembre con il titolo Inge Film.
La giacca del suo colore preferito, l'arancione, la camicia gialla, gli orecchini vistosi e non preziosi, seduta a quella che fu la scrivania di Feltrinelli e che ora, carica di libri, è la sua, Inge dice: 'Avrei potuto avere lo stesso destino di Anna Frank'. Ma il padre, ebreo, chiese a sua madre di divorziare da lui per liberarla dal pericoloso cognome Schoental.
«Mia madre si risposò con un ufficiale della cavalleria tedesca che mi adottò, anche se non si poteva avere una moglie con una figlia mezza ebrea». La prima prova dura della vita di Inge non fu la guerra (perché con quel patrigno militare «non ne ho vissuto le crudeltà né le persecuzioni»), ma piuttosto quando chiese al suo vero padre, che in America si era risposato, se poteva aiutarla a uscire dalla troppo stretta Göttingen, e lui disse di no (perché la moglie «non mi voleva»).
Eppure la mia reazione fu vitale come sempre: «Ok, ho capito, in fondo oggi sono molto felice di non essere andata in America». A vent’anni Inge Schoental, è una ragazza slanciata, dalla vita sottile, dalle gambe perfette, un sorriso irresistibile e i capelli neri tagliati corti, una bellezza molto moderna, tra Audrey Hepburn e Leslie Caron.
Arriva ad Amburgo in bicicletta dove «l’impertinenza e l’arroganza» l’aiutano molto. Certo, anche la sua grazia, l’intraprendenza, la capacità di rischiare che, ma lei non lo dice, deve affascinare gli uomini. Il film splende di decine di immagini della sua giovinezza, carinissima, elegante, piccante, sempre con pettinatura diverse, già accanto a celebrità. Mentre lei racconta, appaiono le immagini del suo periodo di reporter, quando a New York, dove è arrivata gratis su un cargo, in strada vede Greta Garbo, sola, e scatta: «Vendetti la foto a Life per cinquanta dollari, i primi della mia vita!».
Gira il mondo senza un soldo, è avventurosa, ha sete di cultura. Lo scoop che la rende famosa è quando riesce a farsi ricevere, a Cuba, da Hemingway, che, incantato dalla sua irruenza, le consente anche di fotografarlo ubriaco disteso sul pavimento.
A una festa in casa dell’editore tedesco Rowohlt, c’è «un uomo con i baffi e gli occhiali, solo. Era Giangiacomo Feltrinelli». Foto e video raccontano di un colpo di fulmine, e li ritraggono abbracciati in barca, raggianti nella villa di Gragnano dove lei dorme nella camera che fu di Mussolini, sola, perché lui non incorra nel reato di bigamia.
«Lui era molto schivo, molto timido, molto sospettoso, non molto allegro, però aveva un senso dell'umorismo molto spiccato ... Il suo non era un romanticismo kitsch, ma molto sottile, e molto serio, alla tedesca, conteneva sempre un elemento di tragicità ...». Mentre ricorda, il film si immerge in quelle desolate giornate del 1972, con le condoglianze dei pochi amici rimasti, la folla dei funerali, il viso chiuso del piccolo Carlo, decenne, che da tempo si era forse sentito abbandonato dal padre in clandestinità: «Lui e Carlo si amavano pazzamente, lui soffriva di non poterlo vedere spesso. Per tutta la vita è stato un uomo molto tormentato, anche quegli incontri erano molto tormentati, era davvero doloroso».
Un giorno dopo il bambino tornò a scuola, il Parini, e il dolore venne dopo: «Non ricordo quando avvenne il crollo, ma divenne molto ribelle». La signora di cui si conoscono l’ironica frivolezza, le frequentazioni di mondana cultura internazionale, la passione per il ballo, rievoca la ferita nascosta, mai rimarginata di una passione spezzata: «Da un amore così non ci si può riprendere. È come una malattia seria ... Ma si deve avere la forza di superare la tragedia ... Tutte le tragedie danno una forza enorme, sono importanti».
Da quel momento per la casa editrice che aveva pubblicato Il dottor Zivago (e per questo a Feltrinelli non fu rinnovata la tessera del Pci), Il gattopardo, gli scrittori sudamericani, il Gruppo 63, (dice Inge: «Eravamo circondati da gente che voleva cambiare il mondo con i libri»), che aveva aperto le librerie più moderne, non c’era più un soldo, le banche non facevano più credito, grandi scrittori come Márquez se ne andarono.
«L’idea che io sia stata l’unica salvatrice della casa editrice è un’esagerazione, eravamo un gruppo con la volontà di andare avanti. Forse io fui brava con i tutori legali che volevano chiudere la casa editrice. Ai quali risposi: ce ne freghiamo, andiamo avanti».
Dopo la morte di Feltrinelli, nella vita di Inge entra Tomás Maldonado, una delle più grandi personalità della cultura internazionale: «È un uomo molto razionale, con tanti interessi, molto rigoroso. Per me è stato importantissimo e anche per Carlo. È una roccia nella nostra famiglia».
Suo figlio Carlo oggi è l’amministratore delegato della casa editrice, di cui lei è presidente: «Vorrei vivere ancora un po’ per vedere i miei nipoti diventare uomini ... Spero che mio figlio debba sopportare questa rompiscatole, magari su una sedia a rotelle, ancora per tanto tempo».
Il film si chiude con le fotografie delle centinaia di persone entrate in qualche modo nella vita straordinaria di Inge, da Picasso a Karen Blixen, da John Kennedy a Gorbaciov, da Brecht a Camilla Cederna, da Hitchcock a Wilder, da Indira Gandhi a Giorgio Napolitano, a tutti gli altri." (da Natalia Aspesi, Storia di Inge, un film scritto in migliaia di libri, "Il Venerdì di Repubblica", "La Repubblica", 29/10/'10)

Una vita da romanzo

Under 40


"Under 40 è una fotografia completa e puntuale del panorama della narrativa giovane degli ultimi quarant’anni, da Porci con le ali di Lombardo Radice-Ravera, a Boccalone (1979) di Palandri, a Tre metri sopra il cielo di Moccia.
Ognuno degli autori presi in esame (che poi sono tutti quelli che nel quarantennio hanno beneficiato dell’attenzione delle cronache letterarie oltre che dei lettori) viene considerato non solo per il suo libro di esordio ma anche per gli altri che ne rappresentano lo sviluppo dell’attività. In più, a ulteriore leggibilità della fotografia l’autore ha raggruppato gli scrittori per decenni (degli Anni 70, 80, 90, 2000), sforzandosi di dare a ogni gruppo una identità distinta e separata (e, in fondo, tracciare una linea di evoluzione).
Sono certo che se Carnero rileggesse il suo Under 40 scoprirebbe di avere scritto la stessa pagina per 132 pagine (quante il libro ne contiene).
Voglio dire che di ogni autore considerato (indipendentemente dal decennio di appartenenza) indica (e si intrattiene) su gli stessi tratti (caratteristiche) salienti e cioè: il fatto di essere giovani (diventati una categoria a sé, secondo
l’interpretazione di Spinazzola, con la contestazione sessantottesca); il fatto di caratterizzarsi come ribellione agli adulti in particolare ai genitori e alle regole borghesi; il fatto di disinteressarsi della politica; il fatto di scrivere per riconoscersi come novità sociologica e elaborare la loro diversità; il fatto che adoperavano una lingua sporca che premiava l’oralità mescolando parole alte e basse, termini dialettali e più spesso gergali, infrangendo sintassi e punteggiatura, assumendo tic e modi di dire dalla musica rock, dai fumetti, dalla cartellonistica e ogni altra espressione oppositiva e antitradizionale.
E non è che tutto questo non è più o meno vero ma potendo appartenere a tutti non appartiene a nessuno. Né basta dire, come Carnero fa, che, sì è vero le caratteristiche sono comuni ma abissale è la distanza, in termini di qualità, tra la Ballestra e Melissa P., o tra Pelandri e Moccia. La piccola enciclopedia sugli under 40, quale quella che Carnero ci propone, è una compilazione utile ma non un metodo di lettura e di comprensione.
Io partirei dal Gruppo ‘63, dalla sua fine quando nel ‘69 la contestazione dell’istituto linguistico (in termini marxiani della sovrastruttura) allora solo possibile cedette il posto alla contestazione delle istituzioni politico-sociali (della struttura) investendo e rovesciando scuola, giustizia, rapporti sociali, religione, politica. A questo punto si liberarono una quantità di energie fisiche, emozionali e intellettuali rappresentate dai giovani in rivolta (gli adulti si divertivano a guardare o più spesso a scimmiottare) che invasero disordinatamente e anche efficacemente il campo fungendo da irresistibile concime.
Erano energie libere e vive manon strutturate che, almeno per la narrativa, avevano prodotto esempi e campioni (Porci con le ali e lo stesso Boccalone) di sicura suggestione ma che si presentavano e non erano molto più che documenti certo felici di nuove esigenze espressive.
Finché arrivò Tondelli che dette un senso non effimero a quel flusso di energie riorganizzandole in nuove modalità di pensare e di sentire cioè dando loro finalmente uno stile. Con Tondelli torna il romanzo a trama (cui la neoavanguadia aveva dovuto rinunciare), torna la possibilità di raccontare (di scoprire) il mondo attraverso delle storie, tornano personaggi in cui il tema dell’interiorità riassume il senso di strumento di conoscenza (sottraendolo alla semplice testimonianza privata), torna il linguaggio che unisce all’assoluta spregiudicatezza lessicale e sintattica la capacità di dire quel che dice (riconquista la funzione immediatamente comunicativa).
Tondelli è la chiave di lettura della narrativa italiana degli ultimi due decenni del secolo scorso e di questi primi anni del secolo nostro. Intorno a lui e da lui crebbe una nuova generazione di scrittori da Piersanti, a Brizzi, alla Balestra, a Culicchia, a Romagnoli ecc. fino a Nove, Ammaniti e Scarpa. Invero per Ammaniti, pure lui un devoto tondelliano, io ho azzardato (e spero di continuare a farlo) che rappresentasse (accanto a Tondelli) il secondo picco, la seconda trave (quella più intensamente fiabesca e per così dire classica) a sostegno della giovane narrativa - che tale si deve intendere in quanto puntata a esplorare e alimentarsi della condizione giovanile.
Poi ci sono gli altri: i Busi, i Del Giudice fino alla Parrella, Scurati, Siti o Piperno che, contrariamente a Carnero, collocherei altrove, in quanto autori di romanzi certo scritti da giovani (o una volta giovani) ma con l’occhio verso problematiche e prospettive più generali cui è rivolta l’attenzione anche degli scrittori adulti." (da Angelo Guglielmi, Ma l'essere giovani non fa testo, "TuttoLibri", "La Stampa", 30/10/'10)

L'uomo inquieto


"Sono passati dieci anni da quando avevo promesso a me stesso di non scrivere più del commissario Wallander. E per un periodo sono riuscito a dimenticarlo. Ma poi ho pensato che rimaneva un'altra storia da raccontare, quella davvero conclusiva". Non è facile uccidere un personaggio letterario, soprattutto se ti ha fatto vendere 34 milioni di copie in 80 paesi, ispirando numerosi adattamenti cinematografici e un alter ego televisivo come Kenneth Branagh. Dopo una lunga pausa, Kurt Wallander, il celebre poliziotto di Ystad, profondo meridione della Svezia, torna per indagare su un intrigo di sottomarini nucleari ai tempi della Guerra Fredda. "Ma il vero caso, adesso, è Wallander, il suo rapporto con la vecchiaia. Come tutte le persone arrivatea una certa età, affronta il suo crepuscolo". L'uomo inquieto (Marsilio) è l'undicesimo episodio della serie, l'ultimo. Questa volta Mankell è sicuro. "Wallander non muore, ma accade una cosa che renderà impossibile continuarea farlo vivere in altri romanzi" anticipa lo scrittore che inventò nel 1991 questo investigatore, una sorta di anti-eroe, quando ancora il noir svedese non era quella gallina dalle uova d'oro che oggi conosciamo. Dopo di lei sono arrivati Larsson, Persson, Lindkvist, Lackberg e tanti altri. E' stato un precursore? "Sono fenomeni inspiegabili. Trent'anni fa apparse Bjorn Borg, dando inizio a una formidabile stagione di tennisti svedesi. Magari anche io sono stato una sorta locomotiva per altri autori, soprattutto per il traino commerciale all'estero".
Come spiega questo successo planetario del noir svedese? "E' una letteratura lontana dagli stereotipi. Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di non seguire mai il cliché del classico investigatore. Kurt Wallander è un uomo pieno di contraddizioni, rancoroso, misantropo, tremendamente pigro. A un certo punto della serie l'ho anche fatto diventare diabetico. Immaginiamo James Bond farsi un'iniezione di insulina: sarebbe ridicolo".
Lei ha incominciato, diciannovenne, come regista teatrale. Cosa l'ha spinta verso il noir? "Nel 1989 ero stato a lungo in Africa. Al mio ritorno, ho avuto forte la sensazione che la xenofobia stesse aumentando in Svezia. Per parlarne, mi sembrava adatta la trama poliziesca. Prima ho creato la storia, poi Wallander. E' nato così Assassino senza volto".
Il razzismo è tornato d'attualità con l'ingresso nel parlamento svedese del partito xenofobo. Se lo aspettava? "C'è un vento di estrema destra che soffia su tutta l'Europa. La Svezia non poteva essere risparmiata per sempre. L'errore più grave è stato sottovalutare questa marea montante. Ci piaccia o no, dobbiamo parlare e confrontarci con questi elettori".
Perché ha scelto uno scandalo geopolitico di mezzo secolo fa come trama di L'uomo inquieto? "Negli anni Cinquanta tutti erano convinti che ci fossero incursioni di sottomarini russi nelle acque svedesi, ma quasi sicuramente non era vero. Eranoi sottomarini americania navigare senza problemi nei nostri mari. Il vero scandalo è aver potuto mentire così spudoratamente. Lo hanno fatto politici ma anche militarie giornalisti. La famosa neutralità della Svezia è stata una fandonia".
Il romanzo comincia con Olof Palme, il primo ministro assassinato nel 1986. Quell'omicidio fu uno shock per tutto il paese. "In Europa c'è ancora l'illusione che la Svezia avrebbe potuto essere un paese completamente diverso se Palme non fosse stato ucciso. Non lo credo. Palme è diventato un'icona, un mito. A lui ho dedicato un testo teatrale che ha debuttato a Stoccolma qualche settimana fa. Ho cercato di rappresentarlo per quello che era: un politico come gli altri, abituato a fare compromessi".
La vecchiaia del commissario Wallander è anche quella che sta affrontando lei? "E' vero che abbiamo la stessa età, 62 anni. Siamo due grandi lavoratori e tutti e due appassionati di lirica italiana. Ma a parte questo, non mi specchio assolutamente in Wallander. Anzi, disapprovo il suo atteggiamento nei confronti delle donne, il rapporto distruttivo che ha con il suo corpo, la sua tendenzaa isolarsi".
Lei passa metà dell'anno in Mozambico. L'Africa è una fonte di ispirazione? "Il successo del commissario Wallander mi ha dato la possibilità di costruire scuole o ospedali in Africa. Lavoro a Maputo, con i ragazzi del Teatro Avenida. Ormai vivo con un piede nella sabbia e uno nella neve. L'esperienza più profonda per un occidentale è scoprire le molte cose in comune tra l'Africa e la nostra cultura. Ridiamo e piangiamo allo stesso modo. Gli africani mi hanno insegnato ad avere un rapporto migliore con il passato. Sognare al futuro senza perdere la memoria".
Con sua moglie, la figlia di Ingmar Bergman, state preparando un film biografico sul grande regista svedese. "Ho finito di correggere il testo prima dell'estate, mentre ero a bordo della nave Gaza Flotilla. Durante l'assalto, i soldati israeliani ci hanno portato via borse e oggetti personali, compresa quella sceneggiatura. Per fortuna, avevo una copia in Svezia. Comunque, ho provato a raccontare il prezzo che Bergman ha pagato per esprimere la sua creatività. E' un uomo che ha plasmato la sua vita sull'arte, morendo in estrema solitudine. Sarà un film biografico molto critico, come lo sono stato quando Bergman era vivo e ci incontravamo sull'isola di Farö. Sono convinto che non avrebbe voluto essere ricordato diversamente"." (da Anais Ginori, Henning Mankell, "La Repubblica", 30/10/'10)

A cosa servono gli amori infelici


"Lo scrittore più sottovalutato d'Italia. Così Pier Vittorio Tondelli definì a suo tempo Gilberto Severini. Nato nelle Marche, dove tuttora abita svolgendo anche lavoro di artista visuale, Severini sembra in effetti un autore fantasma. Eppure la sua produzione appare nutrita. Ha esordito da Transeuropa con tre romanzi brevi ( Sentiamoci qualche volta, Consumazioni al tavolo e Feste perdute), che compongono la trilogia Partners. Nel 1996 Congedo ordinario, uscito da peQuod, diventa un piccolo caso letterario. Sempre peQuod, nel 1997 presenta la sua unica raccolta di poesie, Nelle aranciate amare e altri refrain. E poi ancora: è del 1998 la raccolta di racconti Quando Chicco si spoglia sorride sempre (Rizzoli, Premio Arturo Loria), del 1999 il racconto illustrato Capodanni (peQuod) e del 2001 il romanzo La sartoria (Rizzoli). Infine, tra il 2002 e il 2005, sempre con peQuod, escono Ospite in soffitta e Ragazzo prodigio, seguiti nel 2009 da Il praticante (Playground). Proprio quest'ultimo editore pubblica ora A cosa servono gli amori infelici. Il lungo elenco rivela una scrittura maturata negli anni, appartata, legata ad alcuni temi ricorrenti e soprattutto votata a un ideale letterario fatto di cura, introspezione, analisi. Insomma, come ha affermato René de Ceccatty, "Gilberto Severini non è uno che ci dica sono moderno". Non a caso, la sua predilezione per la provincia da un lato, quella per gli anni '60 dall'altro, ha fatto pensare a Giorgio Bassani. Tutti questi elementi vengono adesso confermati dall'ultima prova, segnata dalla figura della malattia e dal rimpianto per una giovinezza estranea alle lotte del '68. Nell' estate del 1999, un uomo di cinquantotto anni, impiegato presso una grande azienda, si appresta a subire un delicato intervento chirurgico. Ricoverato in attesa dell' operazione, respinge ogni visita, prende appunti per un libro progettato da tempo, e scrive tre lunghe lettere: la prima a un collega d'ufficio, la seconda a un sacerdote che lo aveva insidiato da ragazzo, la terza a un destinatario anonimo. Nel corso di queste pagine, trasparirà una sorta di astensione dalla vita, avvertita come un destino ineluttabile e doloroso. Tale condanna alla separazione viene sancita da una frase cruciale: «Sai capire i libri ma non sai leggere i sentimenti delle persone neppure quando ti riguardano». Proprio come un analfabeta della passione, l'eroe di questo racconto cercherà di ricostruire i fallimenti che si sono succeduti nella sua esistenza sotto forma di rifiuti alle richieste amorose, tanto maschili quanto femminili. L'anaffettività alla quale egli sembra condannato, può far pensare a un film di Claude Sautet del 1992, Un cuore in inverno. Anche in quel caso, infatti, l'offerta d'amore finiva per essere declinata, lasciando il campo a una sorta di invincibile letargia. A cosa servono gli amori infelici illustra bene questa condanna alla solitudine, cui corrisponde, nelle donne e negli uomini respinti, un profondo senso di gelo. D' altronde, il primo ad essere scontento è lo stesso protagonista, che ricorda la sua giovinezza così: «Trovai il mio lavoro e qualche mese dopo ebbi la certezza che la mia vita sarebbe stata infelice per sempre». Il risultato è una insoddisfazione profonda, che colora di sé tutti i suoi appunti: «Sono nato nel posto sbagliato, portatore di talenti imprecisi». Eppure c'è qualcosa che lo spinge a continuare, nonostante lo scacco di tante relazioni: «La mia non è una gara di sopravvivenza. È l'attesa indecente, data l'età, di una seconda chance». Il problema, sia chiaro, non è l' atto sessuale, neutralizzato, anzi, liquidato dal protagonista nel modo più anonimo: «Cose rapide, cose sordide. Per starmene lontano se non dall'umiliazione almeno dalla passione». Il vero nodo, piuttosto, è costituito da un inverno del cuore che l'amico sacerdote riconosce perfettamente, quando gli spiega: «Dici troppe parole d'aria, e poche di terra. È come se di un paesaggio descrivessi soltanto il vento». È tutto ciò a far sì che questo personaggio (lontano erede del Zeno sveviano) non riesca ad appropriarsi della vita, sostando in una perpetua "nostalgia del presente". Lo si vede bene dal rimprovero di uno spasimante respinto: «Alla fine l'innamorato guarisce, ma sa di aver perduto qualcosa. Un po' del suo slancio e della sua generosità. Anche chi è stato amato ha perduto tesori a sua disposizione di cui forse non ha mai saputo nulla, destinati a scomparire appena l'altro è disintossicato. Quella volta ci siamo impoveriti entrambi, amico mio». Tale meditazione, cruda è mesta, è però attraversata dai barbagli degli aforismi amati dal diarista. Ora è il caso di un paradosso («Anche se dite la verità finirete per essere scoperti»), ora di un'immagine presa da Einstein («La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre»), ora di una citazione da Santa Teresa, via Truman Capote («Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte»). Così Severini alterna con sapienza ricordo, confessione e reticenza in un libro al contempo complesso ed inconsueto." (da Valerio Magrelli, Scoprite Severini: così si fa battere un cuore in inverno, "La Repubblica", 30/10/'10)

mercoledì 27 ottobre 2010

L'amore in cento oggetti


"I secoli passano, eppure finiamo sempre lì. Montagne di poemi, romanzi, canzoni, film e una sola ossessione: La verità, vi prego, sull'amore. Come misteriosamente nasce, ma, ancor più, perché muore: quest'esperienza così unica eppure universale pone una sfida continua alla creatività artistica e letteraria, dall'esplosione dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes all' artista Sophie Calle, autrice di uno straordinario happening letterario multimediale in cui una sola, insopportabile lettera d'addio del suo amante si dilata nella lettura di decine di attrici e riverbera all'infinito nell'interpretazione di avvocati e criminologi, rabbini e latinisti, danzatrici e cartomanti. Poi, dopo che tutte le parole (e i sentimenti) sono state scomposte, sviscerate, scarnificate, non restano che gli oggetti. Allora, ultima erede delle indimenticabili stanze ingombre di La vita: istruzioni per l'uso di Perec, Leanne Shapton, scrittrice, editrice, illustratrice e graphic designer appassionata della pulizia di linee fine anni Cinquanta, lancia l'ultima, squisita provocazione: illustrare la parabola di un amore finito male nella forma asettica del catalogo. Un catalogo vero e proprio, dal design raffinato. In copertina, una coppia di leziosi barboncini in ceramica evoca amori gozzaniani, invece - prima sorpresa - la relazione si consuma tra il 2002 e il 2006. All'interno, 325 lotti, oggetti d'uso quotidiano - accuratamente descritti, fotografati in bianco e nero, e disposti in ordine diacronico - di una (immaginaria) coppia qualunque che alla fine della storia consegna tutti i resti di un amore consumato alla (immaginaria) casa d'aste Strachan & Quinn per metterli all'incanto a New York il giorno di San Valentino del 2009: ecco Importanti oggetti personali e memorabilia dalla collezione di Lenore Doolan e Harold Morris, compresi libri, abiti e gioielli, in uscita per Rizzoli (l'autrice sarà il 5 novembre a Torino ad Artissima). L'eterea Lenore, nemmeno trent'anni, meticolosa e abitudinaria curatrice di una rubrica di cucina per il New York Times, incontra a una festa (il primo sguardo complice nell'istantanea al lotto 1005) il quasi quarantenne Harold, fotoreporter giramondo e seducente Peter Pan, e rimane la sua "Buttertart" per quattro anni. Il gioco della seduzione in dieci cartoline. Le incompatibilità caratteriali nei libri: i classici di lui, i manuali di self help per la coppia di lei. Le stagioni trascorrono nelle scarpe consumate, nei capi di guardaroba, dalla pelliccia d'astrakan ai cappelli estivi. Dopo poche pagine precipiti in un giallo di Truffaut. Mi sorprendo a studiare morbosamente il contenuto del frigo e delle pochette da viaggio, ritorno sui pochi frammenti di lettere ed email che accendono di vita vissuta le fredde didascalie tecniche, cerco su YouTube le canzoni masterizzate in un cd, col sottile, eccitante senso di colpa di chi fruga di nascosto nei cassetti a casa di estranei. Si respira una sottile vena polemica verso la privacy in piazza dell'era di Facebook e la Shapton, maestra d'ironia, strizza l'occhio: lotto n. 1045, una copia del romanzo The Voyeur.
L'idea di narrare un amore attraverso gli oggetti che l'hanno accompagnato non è inedita. L'ha interpretata magistralmente lo sceneggiatore Charlie Kaufman nel film di Gondry Eternal sunshine of a spotless mind (orribilmente tradotto in Se mi lasci ti cancello): la ditta Lacuna inc, specializzata nella rimozione di memorie dolorose, si serve di sacchi pieni di ogni genere di cianfrusaglie per mappare nella mente dei propri clienti tutti i ricordi legati all'amato bene.
Se dovete elaborare il lutto di una storia finita male, oggi potete consegnare i vostri "importanti oggetti personali" al "Museum of Broken Relationships" di Zagabria, nato nel 2006 dall'intuizione di due artisti che si erano appena lasciati. Eppure, dentro l'opera della Shapton c'è qualcosa di più. Colto e raffinato nell' estetica, nella costruzione, nella foresta di sottotesti, questo bizzarro oggetto paraletterario smuove sentimenti contraddittori. Oscillo tra straniamento e commozione: è il fondo del cinismo o l'apice della poesia? L'idea dell'asta è in sé devastante. Tutto in piazza, tutto ha un prezzo, è la morte dell'amore liquido nell' epoca del feticismo delle merci. Nell'emozione di ritrovare le tue proprie idiosincrasie, come ti senti banale! Tutti presi a pensare di essere i nuovi Adamo ed Eva, ma è sempre la solita storia. Eppure, quanta poesia. E quanta filosofia: sulla scorta di Remo Bodei (La vita delle cose) torno a riflettere su come le cose siano cariche di affetti, intenzioni, siano portatrici di un mondo. Ogni oggetto è pensato, intimo, reale. Ogni amore trova gesti unici e si merita l' attenzione delle memorabilia di Bogey e Bacall o Liz Taylor e Richard Burton. Questo catalogo funge da benefico antidoto all'invasione dei lucchetti di Moccia. Dove sta, dunque, la verità? L'ambiguità: ecco cos'ha di tanto conturbante, questo innocuo, castigato catalogo di gusto retrò. È percorso da due anime irriducibili, gemelle e contrapposte - come lo sono le versioni dei fatti che racconterebbero le due metà di ogni coppia scoppiata, come le liste di pro e contro che Lenore dissemina su foglietti strappati, tracce di una navigazione tempestosa tra Scilla-Scettica e Cariddi-Romantica. Importanti oggetti personali contiene due visioni del mondo e dell'amore che ci portiamo dentro noi tutti che cerchiamo di vivere e amare nella giungla del XXI secolo, dove il bisogno di romanticismo lotta a coltello col cinismo precoce. Nell'orgia di messaggi contraddittori con cui sociologi, psicologi e narratori cercano di placare la nostra ansia, restano - granitiche, ottuse, involontariamente poetiche - solo le cose, a cui ancorare l'angosciosa fugacità e l'irriducibile ambiguità dei sentimenti. Le cose che con la loro silenziosa e ostinata presenza ci costringono a scandagliare quel gomitolo di sentimenti contraddittori che sempre accompagna l'inizio, il dipanarsi e la fine di ogni unica banale antica sempre nuova storia d'amore. L'ultimo lotto offre ironicamente una manciata di quadrifogli secchi mezzi sbriciolati. La rottura, s'intuisce da frammenti di note d'agenda ... no, non voglio rovinarvi la caccia al tesoro. Sfogliatelo, immergetevi, svolgete i vostri Esercizi di stile (le variazioni di Queneau fanno capolino al lotto n. 1010). Usatelo per monitorare la vostra temperatura emotiva. Lasciatelo casualmente sul tavolino del salotto per studiare la reazione dei vostri visitatori. "L'amore manda avanti il mondo o è un'assurdità?": a pochi oggetti dalla (inevitabile?) catastrofe, al lotto 1272, la prima edizione (1937) di Some poems di W. H. Auden rinnova l'interrogativo: «Assomiglia a una coppia di pigiami / o al salame dove non c' è da bere? / ... La verità, vi prego, sull' amore». " (da Benedetta Tobagi, L'amore in cento oggetti, "La Repubblica", 27/10/'10)

martedì 26 ottobre 2010

C'era una volta l'editoria


"C'era una volta la grande editoria libraria, pietra miliare della nostra cultura del Novecento. Un mondo complesso e variegato che comprendeva case editrici come Mondadori e Rizzoli, Feltrinelli ed Einaudi, gli Editori Riuniti, Bompiani e Vallecchi, Laterza e Longanesi, per citarne solo qualcuna. Ognuna era diversa dall' altra, aveva le proprie chiare fisionomie; eppure tutte puntavano a pubblicare libri che avrebbero fatto "catalogo" ed erano caratterizzate da linee precise, da un segno inconfondibile. Chi le animava, dai direttori ai redattori, ai venditori, spesso univa in sé la figura del letterato, del traduttore, del critico, con quella dell' esperto dell'industria editoriale. E gli editori principali, dai Mondadori ad Angelo Rizzoli, possedevano un'intuizione notevole, una lungimiranza. Arnoldo Mondadori, forse il più "mercante" di loro, come ricorda Gian Carlo Ferretti, il maggiore storico dell'editoria italiana, aveva «il libro come sua pupilla destra». Critico letterario, saggista, già responsabile delle pagine culturali di L'Unità e docente universitario, Ferretti compie ottant'anni. In suo onore la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano, nata nel 1979 e diretta con passionee competenza da Luisa Finocchi, ha voluto promuovere il seminario di ricerca "Protagonisti nell'ombra", dedicato ad alcuni personaggi di spicco di quell'editoria del secolo scorso che sono poco studiati oppure dimenticati: da Roberto Bonchio a Gian Paolo Brega, Giansiro Ferrata, Niccolò Gallo, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg, Luciano Mauri, Ervino Pocar e Domenico Porzio. Si terrà oggi nella sede della fondazione, che è uno straordinario giacimento di fondi (Angoletta, Bemporad, Linder, Gianna Manzini, Mazzuchetti, Testori, trai tanti) e di documenti, di prime edizioni e di biblioteche, di periodici, di fotografie (come l'archivio Bottai), e, insieme, un'istituzione culturale di prestigio che non si occupa soltanto della memoria, guardando al presente e al futuro. Il «c'era una volta», però, vale nel caso in questione. Soprattutto perché sembrano trascorsi anni luce da quando un germanista insigne come Pocar si occupava dell'opera omnia di Kafka; ed Elio Vittorini, magari sbagliando ma facendolo con coerenza e autonomia intellettuale, scriveva di essere incline a «scartare» l'edizione Mondadori di Il signore degli anelli di J. R. R. Tolkien. Lo bocciava dopo una lunga discussione interna, confortato infine dal giudizio di Vittorio Sereni: «Escluderei la possibilità di arrischiare un esperimento». Lo scrittore siciliano era lo stesso che di fronte a The Mansion di William Faulkner, nel gennaio del 1960, affermava a colpo sicuro: «Naturalmente sì». A testimoniare quel lavoro di selezione svolto per i lettori, restano i pareri editoriali (alcuni dei quali, finora inediti, pubblichiamo). Custoditi alla fondazione, costituiranno la materia degli studi dei relatori al convegno e daranno linfa al filone d'indagine, relativamente giovane, in questa disciplina. La giornata milanese è destinata a tradursi in un saggio su quegli editori e letterati-editori che furono le colonne degli Editori Riuniti, della Feltrinelli, della Mondadori, dell'Einaudi, delle Messaggerie. Protagonisti, irrimediabilmente, del mondo di ieri. Per Ferretti non ci sono dubbi: «Abbiamo di fronte un grande passato. Tutto è cambiato, soprattutto con la concentrazione editoriale a cominciare dagli anni Settanta, avviata dall'acquisizione da parte dell'Ifi-Fiat della Bompiani». Il libro, insomma, «non è più il frutto di un lavoro collettivo e creativo in un panorama felicemente conflittuale, dove il letterato-editore partecipava al processo della scelta con le sue idee e le case editrici avevano forte personalità e precise identità, verso cui gli autori mostravano una forte appartenenza: si pensi ad Italo Calvino con l'Einaudi, ad Alberto Moravia con Bompiani». Sia pure nel quadro di una crisi generale, dell'incrinarsi del ruolo dell'intellettuale, «nell'editoria odierna quelle identità non esistono più, così come è venuto meno il senso dell'appartenenza: si assiste a un nomadismo degli autori. Il lavoro è maggiormente centralizzato, prevale la parte commerciale e i libri sono fatti non più per diventare "catalogo", bensì con logiche sovente stagionali». Certo, continua lo studioso nato a Pisa, «i buoni libri si fanno ancora». E non mancano redattori eccellenti nelle case editrici, spesso usciti dai master della Fondazione Mondadori. Qualcuna, inoltre, «almeno in parte conserva una sua identità: tra queste Feltrinelli, Adelphi, Einaudi, Laterza, Sellerio, e/o, minimum fax». Ma il grande passato, per l'appunto, è consegnato alla storia. Nelle medesime case editrici principali, conclude Ferretti, «si voleva fare cultura vendendo libri. C'era quella consapevolezza, c'era amore per il libro, anche in chi badava di più al mercato». Adesso è quest'ultimo a essere il vero metro di giudizio. Al seminario della Fondazione Mondadori verrà citata una lettera che Gian Paolo Brega, nume tutelare della Feltrinelli, inviò nel '71 a Erich Linder, l'agente letterario di tanti scrittori. Gli diceva: «Oggi in Italia quasi tutti, editori in testa, mirano solo a un'universale contaminazione di ideee posizioni così da manipolare meglio il maggior numero di persone, indipendentemente dai loro reali interessi e dai valori che gruppi e classi portano in sé. A danno è ovvio dei subalterni». Parole da leggersi, è chiaro, nel contesto storico di quell'epoca; non per questo motivo, comunque, sono meno profetiche." (da Massimo Novelli, C'era una volta l'editoria, "La Repubblica", 26/10/'10)

Storia dell'informazione letteraria in Italia (Feltrinelli)

lunedì 25 ottobre 2010

La vita non si può spiegare, allora la raccontiamo


"Le parole contengono spesso, anche inconsciamente, dei pregiudizi; se si chiama «villano» uno screanzato, è perché si è depositata in noi, nelle generazioni passate, l’idea che rozzezza e maleducazione siano legate al mondo contadino. Così «giornalista » e «giornalistico» indicavano sdegnosamente, per gli austeri cattedratici di un tempo, superficialità frettolosa e ricerca di effetto, mentre «professore», «professorale» o «accademico» evocano oggi per alcuni, altrettanto sdegnosamente, una vasta ma arida e libresca erudizione lontana dalla vita.
I pregiudizi sono diversi da Paese a Paese. Diversamente che in Inghilterra, in Francia o in Spagna, in Germania o in Italia un professore, magari di letteratura o di altra disciplina umanistica, che scriva racconti o poesie è visto con preconcetto scetticismo. Naturalmente essere un eccellente critico letterario non dà alcuna garanzia di essere un bravo narratore o poeta, ma nemmeno lo esclude a priori. Non si vede perché un secondino, un dirigente industriale, un sindacalista, un banchiere o un bagnino dovrebbero essere considerati, a priori, più capaci di venire ispirati dalle Muse. Ovviamente sarebbe altrettanto insensato considerarli, a priori, meno capaci di poesia.
Alberto Asor Rosa è da molti anni un protagonista della vita culturale italiana quale professore universitario, storico della letteratura, critico militante e intellettuale politicamente impegnato, figura di rilievo della sinistra culturale e politica italiana. Le sue numerose e celebri opere - particolarmente originale Scrittori e popolo - hanno destato, come accade ai libri di forte impatto scritti da autori che esercitano un ruolo culturale egemone, entusiasmi, dissensi e giudizi anche feroci.
Quando ha esordito nella narrativa con L’alba di un mondo nuovo (2002) ha avuto non solo, come era ovvio a priori, grande attenzione ma anche critiche calorose. Ma ciò non è bastato, credo, a farlo considerare semplicemente uno scrittore tout court, da citare - per lodarlo o criticarlo - insieme agli altri nomi d’obbligo che ricorrono quando si parla di letteratura italiana contemporanea. A ciò concorre forse pure la pigrizia latente in ciascuno di noi; una volta inquadrati un’opera o un autore in una certa casella, si rilutta a considerarli da un altro punto di vista.
Così, quando si parla della narrativa contemporanea, non vedo spesso ricordato quel notevolissimo racconto che è Storie di animali e altri viventi (2005), un racconto amabilmente lieve e inquietantemente ma serenamente profondo, che dice l’irriducibile unicità di ogni esistenza ma anche ciò che la lega al tutto della vita, storica e umana ma non solo storica e umana bensì universale unità dell’amare, invecchiare, desiderare, dormire, generare, essere concepiti, intrappolarsi nelle banalità di tutti i giorni, fondersi con gli altri e separarsi. Un libro che forse può aiutare a vivere un po’ meglio, permeato com’è dal sentimento classico che la felicità è impossibile ma che questo vivere, perdersi e amarsi insieme, uomini e donne ma anche cani e gatti e altri ancora, è quasi già essere felici.
Il libro - in cui quella polvere degli umili che forma la terra e la vita, presente negli aforismi del tuo L’ultimo paradosso, diventa racconto - è stato debitamente lodato, ma non salutato come una nuova pagina della narrativa italiana. Quando si fanno i nomi di quest’ultima, sono ben più presenti gli autori delle «molte fiction minimali», come le chiama Rossana Rossanda. Sospetto che anche il critico Asor Rosa, se gli fosse capitato fra le mani quello stesso libro scritto da un suo collega, ne avrebbe colto i pregi, ma lo avrebbe inconsciamente e banalmente considerato un’opera occasionale e laterale, come se non appartenesse alla categoria degli scrittori da lui stesso, a torto o a ragione, consacrati.
Ora è uscito un altro suo romanzo, Assunta e Alessandro, «romanzo familiare - ha scritto sul "Corriere" Pierluigi Battista, in un articolo straordinariamente acuto e partecipe - pieno di senso, ricchezza umana e pathos» che si confronta con lucida tenerezza con l’intensità degli affetti fondamentali, quali il rapporto fra i genitori e tra figli e genitori, con la solitudine di chi sopravvive, con l’assenza e insieme con la perenne presenza di chi ha oltrepassato l’ultima soglia.
MAGRIS - Come hai vissuto e vivi il rapporto tra la tua scrittura critica, quella politico-ideologica e quella narrativa? Ti ha creato imbarazzi, oggettivi e/o soggettivi? La familiarità con tanti inarrivabili grandi che hai studiato ti ha aiutato o scoraggiato?
ASOR ROSA - È verissimo che, almeno in Italia, è ampiamente diffuso il pregiudizio secondo cui, se uno è saggista, storico della letteratura, critico, passare all’invenzione narrativa, alla creazione di fantasmi, appare sempre un po’ strano, per non dire disdicevole. Mi pare che tu ne abbia già ragionato in un articolo apparso qualche mese fa sul medesimo "Corriere", a proposito, fra l’altro, del bel libro di Guido Davico Bonino, Figlia d’arte. Per me il passaggio dall’una all’altra scrittura è stato non programmatico, e al tempo stesso ordinato, riflessivo e senza traumi. Attingevo al serbatoio della memoria, che del resto, almeno da L’ultimo paradosso, mi sta sempre dietro le spalle. La scrittura narrativa, rispetto a quella saggistica o ideologico-politica è stata davvero «un’altra cosa», emersa quando non ha più potuto restar dentro. D’altra parte, tu sei uno dei primi e principali protagonisti di questo doppio registro della scrittura. I tuoi Microcosmi - per non parlar d’altro - che risalgono al 1997, rappresentano un modello del genere (forse anche le mie modeste Storie di formiche vi appartengono). E a te come è capitato? E perché?
MAGRIS - Ogni argomento impone la forma con cui affrontarlo; ci sono realtà che si possono e debbono analizzare e altre che si possono e devono raccontare; l’una forma non è di per sé più o meno creativa dell’altra. Forse la necessità di raccontare l’ho incontrata la prima volta quando, ripercorrendo la storia dei cosacchi alleati dei tedeschi che per qualche mese, alla fine della Seconda guerra mondiale, si erano installati in Friuli, ho scoperto che molti si ostinavano a credere a una falsa versione della morte di Krasnov, il capo cosacco, anche quando la verità storica era stata inequivocabilmente messa in chiaro, e che anch’io, inconsciamente, avrei voluto che Krasnov fosse morto come diceva la falsa versione. Quale verità umana, esistenziale, poetica - mi sono chiesto - c’è in quel desiderio di credere a una versione chiaramente falsa? Su quei fatti non c’è nulla da ricercare, perché sono assodati; ma per capire come gli uomini li hanno vissuti si può solo raccontare, immaginare, fare illazioni. E così è nato il mio primo romanzo breve. La tua vocazione a narrare è nata tardivamente o era sempre latente, magari frenata dalla timidezza? Ha a che fare con l’invecchiare, con un senso più acuto della complessità della vita che non si lascia spiegare, ma che si può comprendere solo raccontandola? Ha a che fare col senso che l’uomo è sì storia, ma inserito in una più grande natura non solo umana?
ASOR ROSA - Non so se questa «necessità di raccontare » fosse in me già latente in passato: certo era ben nascosta; nella mia storia culturale italiana dell’ultimo secolo, una mia allieva ha visto una sorta di racconto autobiografico. Da storico della letteratura (di nuovo!), non andrei però a cercare tanto lontano. L’alba di un mondo nuovo, che inaugura questo modo nuovo della scrittura, è del 2002: ci ho lavorato intensamente nei due-tre anni precedenti. Dunque, il narrativo mi si è presentato come una nuova (da allora imprescindibile) opportunità della scrittura quando avevo più di sessantacinque anni. Difficile non pensare che non abbia a che fare, come tu dici, con «l’invecchiare»; direi con il senso e il timore (l’angoscia, anche) della perdita, con il desiderio di trattenere la memoria, i ricordi, dunque quel che resta a un certo punto della vita; forse anche con il lungo e sofferto disinganno della milizia politica e politico-culturale, come ha già osservato Battista nella sua recensione (bella, sì, davvero bella). È per queste strade che si arriva ai miei genitori, ad Assunta e Alessandro, ma anche alla «polvere degli umili» de L’ultimo paradosso, persino al gatto e alla cana di Storie di animali e altri viventi, anche loro parti della mia memoria incorporate profondamente nella mia vita.
MAGRIS - Il disinganno c’è, ma non può avere l’ultima parola. La nostra vita, personale e collettiva, è fatta di vittorie e di sconfitte, entrambe transitorie. Guai credersi vincitori, ma nemmeno vinti, neanche in questo indecente momento del nostro Paese, che passerà. Il tuo, fra le altre cose, è un libro sulla malinconia, la resistenza e la dignità del vivere e del morire; sull’amore e sulla lontananza che si scava pure tra persone che si amano e continuano tacitamente ad aiutarsi anche quando sono reciprocamente lontane, con un senso semplice e sacro forse sempre più raro; un libro su ciò che significa l’oscura avvertenza di questa lontananza per un figlio. Un romanzo che narra cose e persone vere con i loro veri nomi, consapevole che la vita è originale, come scriveva Svevo, e che la verità, diceva Melville, è più bizzarra dell’invenzione. Libro di spirito classico, lucreziano, scritto in forma tradizionale ma che non ha nulla a che vedere con quelle «fiction minimali» ora imperanti che sembrano ignorare la grande narrativa sperimentale del Novecento. Come giudichi questa regressione?
ASOR ROSA - Anche qui condivido in pieno il tuo giudizio e la tua prospettiva. Forse dobbiamo rassegnarci, caro Claudio, ad essere fra gli ultimi rappresentanti di un mondo che sparisce: quello in cui la letteratura e la scrittura, anzi la parola, si ponevano il problema di «rappresentare» (e non solo dal punto di vista narrativo) il senso della vita, i suoi movimenti profondi, le sue dinamiche universali. Oggi la maggior parte dei narratori (meno i poeti) sembra ipnotizzata dalle increspature più superficiali del cosmo, dalle sue apparenze più seduttive e ingannevoli (quando faccio il critico letterario, mi sforzo sempre, nei testi giovani, di far emergere gli aspetti durevoli, le consonanze, magari involontarie, con la tradizione). Ci vorrà un lungo lavoro perché «la malinconia, la resistenza e la dignità del vivere e del morire», tornino a essere dominanti. E forse qualcosa noi due, e altri, possiamo ancora fare proprio in questo senso." (da Claudio Magris, La vita non si può spiegare, allora la raccontiamo, "Corriere della Sera", 24/10/'10)

Magris nel catalogo Garzanti

Katherine Pancol: Ero infelice, per questo ho successo


"La scrittrice più letta di Francia abita a Neuilly, a due passi dal Bois de Boulogne. «Non potrei vivere in un posto senza alberi, ho bisogno del verde e del parco per camminare e sfogare l’energia». Katherine Pancol, 56 anni, è un’ospite rilassata e piacevole, il suo divano rosso è elegante e comodo, il suo cagnolino Chaussette una presenza discreta. Non si immaginerebbe che i suoi bestseller sono frutto di una continua e spossante attività di riparazione della realtà, cominciata da bambina tra le palme di Casablanca. «Inventavo continuamente delle storie per astrarmi da quel che vivevo, guardavo le altre persone e mi chiedevo "ma loro come fanno?". L’immaginazione e la curiosità sono le doti che mi hanno salvato allora, e che assieme a qualche altro evento fortunato mi hanno reso una scrittrice».
La Pancol fa parte, con Marc Lévy, Guillaume Musso e Anna Gavalda, del gruppo di autori che da qualche anno monopolizzano le classifiche in Francia. Nel mercato editoriale francese i libri che non sfondano vendono meno che in passato, spesso non arrivano a mille copie; i titoli di grande successo invece sono sempre più fenomeni di massa diffusi in milioni di esemplari, e tra questi spicca la trilogia della famiglia Cortès: Gli occhi gialli dei coccodrilli, Il valzer lento delle tartarughe (editi in Italia da B. C. Dalai) e Les écureuils de Central Park sont tristes le lundi, ancora in via di traduzione. Nel primo semestre del 2010 i romanzi corali della Pancol, pieni di intrecci e di protagonisti, hanno fruttato all’editore francese Albin Michel 10 milioni di euro.
Katherine parla del suo successo con la soddisfazione di chi viene da molto, molto lontano, e con la punta di inquietudine che le resta da quando, bambina, temeva che il mondo potesse crollarle addosso da un momento all’altro. I suoi romanzi sono lunghi, perché i personaggi sono tanti e per renderli vivi bisogna descriverli minuziosamente. Ma in tante pagine (848 nell’ultimo libro) non c’è mai un momento di vero scoramento, la vita è ribollio continuo di eventi, emozioni e sorprese. Basta saperle coglierle, e questa è una capacità che si affina in anni di sofferenza. «Lo ha detto Hemingway no? Il miglior sistema per diventare scrittori è avere avuto un’infanzia infelice», dice sorridendo la Pancol. Un padre molto volubile e instabile, la madre non particolarmente affettuosa, e una tremenda insicurezza economica. «È difficile parlarne perché mia madre è ancora viva ... Comunque da bambini io e mio fratello Dominique eravamo immersi in una realtà davvero poco sopportabile. A Casablanca e poi a Parigi raccontavo a lui e ai nostri cugini lunghissime storie nella quali la protagonista Sophie affrontava ogni genere di difficoltà e pericoli. Avevo anche dei luoghi preferiti dove ambientare questo mondo immaginario: l’Île Saint-Louis era perfetta per le vicende avventurose e romantiche. Tutto immaginato nei dettagli fino a essere più vero della realtà».
Forse Hemingway ha ragione ma ci sono importanti eccezioni, come Philip Roth che racconta di avere avuto un’infanzia e un’adolescenza serene, con due genitori responsabili che lavoravano e lo amavano molto. La nevrosi in Roth è scattata comunque, per la paura di una qualsiasi catastrofe che avrebbe potuto rompere in ogni momento quella solidità. «Alla fine non è un atteggiamento molto diverso: si sviluppano delle antenne, un’ipersensibilità che rende la vita di ogni giorno faticosissima, e anche molto, molto ricca. Per questo, qualche tempo fa, ho detto grazie a mia madre. A suo modo e senza volerlo mi ha fatto un dono importante».
Katherine comincia a scrivere come giornalista, prima a "Paris Match" poi a "Cosmopolitan". «Un’altra palestra fondamentale. Mi chiedevano articoli lunghissimi su temi piuttosto vaghi: 15 cartelle su «perché non mi ha richiamato». Oppure «non mi piace mia suocera». Lasciavo andare l’immaginazione e il mio stile è piaciuto molto a un editore, che mi ha chiesto di provare a scrivere un romanzo. L’idea non mi piaceva granché perché preferivo fare la giornalista e stare a contatto con le persone, adoravo fare le interviste e farmi gli affari degli altri. Comunque dopo molte insistenze ho accettato e nel 1980 è uscito Moi, d’abord, per Seuil. Un successo enorme, 300 mila copie e per la prima volta il benessere economico. Mi sono trasferita a New York, la città assieme a Roma dove avevo sempre sognato di andare, e ho fatto la festa. Amici, soldi, serate, il padre dei miei figli. Un periodo meraviglioso, e la prova che il destino non è immutabile».
"Paris Match" le offre poi un contratto di «giornalista-scrittrice»: «Ogni tanto mi chiamavano dicendo "hai voglia di andare a intervistare Ronald Reagan?", oppure Meryl Streep o Sydney Pollack. Lunghi incontri che duravano giorni, nei quali potevo studiare la persona che avevo davanti. Sono stata due settimane in un braccio della morte e poi un mese a seguire la nazionale francese di rugby in Sudafrica ... Una scorpacciata di vita e di emozioni che poi riverso nei miei romanzi». Katherine è anche una grande lettrice: «Credo che sia inevitabile per uno scrittore, Jean Genet è un’altra eccezione. Mi piacciono moltissimo "i morti", in particolare Balzac, e gli anglosassoni: ho trovato eccezionale Olive Kitteridge di Elizabeth Strout».
Per dare ordine al fiume di spunti, la Pancol si è data una disciplina ferrea. «I miei orari si sono formati su quelli dei miei due figli, e sono rimasti gli stessi anche da quando sono grandi: scrivo tutti i giorni e rispetto le vacanze scolastiche. Sono capace di restare anche un’ora a fissare lo schermo ma non mi alzo dalla scrivania, non voglio entrare nella lotta con sé stessi della ricerca dell’ispirazione: il mio è un mestiere metodico». Katherine Pancol ha un quaderno per ognuno dei suoi tanti personaggi: Josephine, cuore della saga, la sorella Iris, la figlia Hortense, eroina delle nuove generazioni e l’amato Gary. «Hortense, ribelle e aggressiva, ragazza determinata, è un modello per molte giovani che mi scrivono. Qualche giorno fa una lettrice mi ha raccontato che è riuscita a strappare un lavoro da Prada immaginando di essere Hortense: ha affrontato il colloquio piena di sicurezza in se stessa, dicendo "io, io, io ...". Certe volte funziona».
Le complicate vicende di Josephine e compagnia tra Parigi, Londra e New York potrebbero andare avanti all’infinito, «certe volte mi sembra che ormai vivano di vita propria, hanno una loro personalità e so già quale sarebbe il seguito della storia. Hortense per esempio, non resterà a lungo con Gary, questo è sicuro. Però avrei anche voglia di passare ad altro, di ricominciare da capo con un nuovo mondo». In ogni caso la trilogia sarà portata al cinema, «stiamo cercando un regista. Ferzan Ozpetek era interessato e a me piace molto, ho adorato il suo Mine vaganti. Ma credo che rispetteremo l’anima della storia e sceglieremo un francese».
Con il grande successo di pubblico si è fatalmente affievolito quello di critica. «Credo sia una condanna inevitabile, soprattutto in Europa dove il successo è visto con sospetto. Non leggo più le recensioni, non per superbia ma perché troppo spesso mi domando "ma chi è questa persona per sentenziare sul mio lavoro?"». Il primo manoscritto di Katherine Pancol è stato letto e approvato da Romain Gary. È stato lui a convincerla che era una scrittrice. «Questo mi ha dato una certa sicurezza che non voglio perdere. E poi, tutto ciò che è appassionante e coinvolgente viene stroncato. L’altra sera sono andata al cinema a vedere Les Petits Mouchoirs, la storia di un gruppo di amici, con Marion Cotillard che è fidanzata del regista Guillaume Canet. Una mia amica critica mi ha chiesto come l’ho trovato: "molto bello, commovente". "Ma no, terribile, banale, commerciale ...", mi ha risposto lei. Ho pensato "ci risiamo"»." (da Stefano Montefiori, Ero infelice, per questo ho successo, "Corriere della Sera", 24/10/'10)

sabato 23 ottobre 2010

L'Italia che legge



L'Italia che legge (Laterza)

"Una bussola preziosa per chi vuole conoscere l'Italia che legge (o, meglio, che non legge). Nelle pagine di Giovanni Solimine - già presidente della Associazione Italiana Biblioteche - le cifre della statistica si compongono in una nitida fotografia degli italiani che, alla vigilia del nostro centocinquantesimo compleanno, ha il solo difetto di restituirci per quello che siamo, senza ritocchi patriottici. In massima parte allergici al fruscio delle pagine più che al polline. Pronti a trovare cool mille attività ma non la lettura. Simili come gocce d'acqua a un establishment disposto al martirio pur di non prendere in mano un libro, lunarmente distante dalle classi dirigenti europee. Un Paese che si ostina a non investire nella cultura e nella ricerca, ignorandone il rapporto diretto con il PIL. E dove il 70% della popolazione ha difficoltà a orientarsi rispetto alla compilazione di un modulo o la lettura di un libretto ferroviario, secondo quell'analfabetismo di ritorno denunciato da Tullio De Mauro.
La nostra industria editoriale, nella meticolosa ricostruzione di Solimine, è un colosso dai piedi di argilla, provvisto di un equilibrio incerto. Per numero di libri pubblicati e per fatturato, il fenomeno editoriale italiano ha dimensioni ragguardevoli, collocandosi al settimo-ottavo posto al mondo e quarto-quinto in Europa. Il paradosso è che questa industria si regge su una base molto ristretta, con pochi editori e pochissimi lettori. E se la nostra élite di lettori forti in questi anni è cresciuta - e forse in Europa è tra quelle che legge di più - questo non deve costituire un vanto, piuttosto un motivo di sconforto: perché una vera vittoria culturale sarà solo quando si allargherà la fascia dei lettori deboli e dei lettori medi (che ora invece sta regredendo), ossia quando il libro diventerà consuetudine diffusa nelle famiglie italiane (ben oltre la metà possiede meno di cinquanta libri a casa).
I rimedi? Solimine passa in rassegna le politiche pubbliche per la lettura, plaude alla nascita del Centro per il libro e la lettura, ma non risparmia critiche al suo presidente Ferrari, sia per avere escluso il ruolo attivo delle biblioteche, sia per avere tagliato fuori il mondo dell'associazionismo attivo da tempo nel campo.
Il quadro si fa meno fosco quando Solimine rovescia il dizionario di luoghi comuni fioriti intorno alla lettura. Il libro rimane il primo tra i consumi culturali e, nonostante le ripetute geremiadi sulla sua morte, regge bene il confronto con altri mezzi di intrattenimento. Non c'è concorrenza tra old media e new media, beneficiando entrambi della contaminazione. Anche sull'e-book, l'autore contrasta cupi presagi, prospettando lo sviluppo di un mercato parallelo non esiziale per il suo fratello di carta. E soprattutto viene demolita la vulgata più diffusa: quella di 'ai miei tempi si legegva di più' e 'i nostri figli sono condannati all'analfabetismo perché prigionieri del nuovo mondo digitale'. Niente di più falso. La loro è una generazione multitasking, capace di mescolare con disinvoltura Internet e libri. Il computer non si sostituisce alle pagine scritte, il 40% dei più giovani trova in Rete lo stimolo per comprare un libro. Ma la sinergia funziona solo nelle case in cui si legge. Un'élite, sempre la stessa. Troppo poco per essere ottimisti." (da Simonetta Fiori, Perché bisogna far crescere il popolo dei lettori, "La Repubblica", 23/10/'10)

La carta non è ancora stanca ("La Stampa")

Andrea Bajani, Ogni promessa


"Ci sono scrittori che raccontano "dall'esterno". Altri "dall'interno", come se ciò che raccontano appartenesse alla loro vita: posseggono cioè un alambicco che riesce a trasformare l'io narrante in io autobiografico, la vita del loro personaggio diventa la loro stessa vita. Si tratta di una linea di demarcazione di due diversi modi di fare letteratura, indipendentemente dalla rispettiva qualità o dal fatto che il protagonista si esprima in prima o terza persona. Nel primo modo lo scrittore interpone fra sé stesso e la realtà il filtro di un personaggio, nel secondo caso lo scrittore tende a "diventare" il personaggio facendo passare la verità del reale attraverso la finzione narrativa. Stendhal fa assistere alla battaglia di Waterloo il suo Fabrizio del Dongo che pur non capendoci nulla la descrive con grande realismo; ma a Stendhal non sarebbe mai venuto in mente di dire "Fabrizio del Dongo c'est moi". Il magnifico saggio di Kundera sul romanzo moderno (I Testamenti traditi) si basa sostanzialmente sull'uso narrativo della finzione (la "fiction"). «Ho pianto tante lacrime sulla finzione», scrisse Puskin. E Pessoa ha chiosato in un apparente paradosso: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente /che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente». E in Italia (questo Kundera non lo dice) la modernità dell'uso della finzione passa in primo luogo attraverso Svevo (la coscienza di Zeno non è di Zeno, è di Svevo) e Pirandello con i Sei personaggi e Ciascuno a suo modo («Non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto gli altri dentro di te?»).
In Ogni promessa, l'ultimo romanzo di Andrea Bajani (Einaudi), il protagonista ha molti "altri dentro di sé". Un libro singolare che nello spazio di un romanzo produce una sorta di commedia umana concentrata che però alla lettura si gonfia e si dilata producendo un universo narrativo in espansione. Con l'aggiunta di una radice quadrata di finzione così riassumibile: l'autore del romanzo, nella propria coscienza di scrittore ospita la coscienza di un protagonista al quale viene affidato il compito di ospitare le coscienze altrui. Niente di meta-romanzesco, per chiarire subito, solo la consapevolezza di un narratore moderno di maneggiare con il romanzesco una faccenda che significa "rappresentazione del mondo" attraverso la coscienza di un personaggio di finzione. Una fiction restituita al significato originario di fictio: creazione.
Il protagonista, il vicario che si assume il compito di portare dentro di sé le emozioni, i sentimenti e le memorie altrui, si chiama Pietro. È un giovane con una precaria relazione con una donna e presumibilmente con una coscienza rivolta al proprio contesto. Un giorno la sua compagna lo lascia. L'autore non ci dice se questo evento sia l'elemento scatenante di un fatto assolutamente nuovo che si produce nella coscienza di Pietro: il fatto è che egli comincia ad assorbire le emozioni altrui, ad assimilarle fino a inzupparsene. C'è un precedente illustre, in questo tipo di operazione, in un bellissimo racconto di Kipling molto amato da Borges, La casa dei desideri. Ma si trattava di un racconto fantastico dove l'assunzione del dolore altrui avveniva grazie a un sortilegio, la fattura di uno spirito misterioso consegnata attraverso la finestrella di una casa diroccata di Londra.
Nel romanzo di Bajani l'assunzione delle coscienze altrui avviene in maniera quasi scientifica, come se l'autore mettesse in atto narrativamente le più moderne teorie delle neuroscienze sulla "costruzione" della coscienza (o del "Sentimento di Sé") secondo la definizione dei neurologi. Per realizzare il Sentimento di Sé, che secondo la neurologia nasce con un proto-io che produce un io-nucleare che a sua volta produce un io-autobiografico (una costruzione che procede per piani, con le stesse impalcature di quando si costruisce una casa), il cervello procede come un cartografo, con una serie di mappature che via via registrano tutto ciò che il cervello percepisce, le sue rappresentazioni e le emozioni che nello stesso cervello tutto ciò produce. È qui che la coscienza di Pietro comincia a "mappare" una penosa storia familiare nascosta negli armadi, laddove insieme alle lenzuola si trovano anche gli scheletri. Uno scheletro cosiffatto: la storia taciuta di un nonno materno tornato con disturbi mentali dalla campagna di Russia, la dolorosa infanzia della madre, il rifiuto familiare del nonno morto in un manicomio, il rimorso occultato che rode la madre per tutta la vita. Il rimorso e il rimosso, che stranamente torna come un boomerang su Pietro, perché se il ritorno del rimosso, secondo la psicoanalisi (ricordo il saggio di Francesco Orlando sulla Fedra) dovrebbe riguardare il soggetto della rimozione, qui riguarda invece un altro soggetto, l'osservatore, Pietro. Intanto, con lo scheletro, dall'armadio è prepotentemente spuntata la Russia, il fantasma di un passato. Pietro comincia a "mappare" con minuzia tutto ciò che ha formato la coscienza infelice di sua madre, comincia ad assorbirla. E intanto è spuntato un altro reduce di quella tragica e luttuosa campagna di Russia. Si chiama Olmo, è anch'egli una figura vicaria che porta con sé, con le stesse crepe e gli stessi omissis della vicenda del nonno, le memorie di un tempo rimosso. Pietro comincia a "mappare" anche lui.
Il lettore dovrà affrontare con una certa pazienza la parte della "cartografia" che il protagonista deve effettuare per prendere coscienza delle coscienze altrui. È composta di quotidianità, di oggetti disparati, spesso cianfrusaglia o cose che hanno perduto una funzione (mi torna di nuovo in mente Orlando e Gli oggetti desueti in letteratura), di ricordi infantili recuperati come relitti di un naufragio, di vecchie fotografie della campagna di Russia e in specie una che ha la funzione di Perturbante: tre soldati italiani in una piazza che ridono guardando un ragazzo russo impiccato. Ma il lettore, seguendo il "detective" Pietro, scopre a poco a poco altri volti, come nei giochi enigmistici emerge una figura insospettata unendo un tracciato. Un anticlimax come una suspense che gonfia, perché sentiamo che qualcosa deve accadere.
E che accade. Pietro parte per la Russia, per gli stessi luoghi dove si trovò Olmo come soldato fascista. Ma non parte solo perché Olmo gli ha chiesto di cercare e confermargli che quei luoghi esistono davvero ancora: parte anche per conto del nonno matto e della madre. Come definire questa sua missione? Una remissione delle colpe, una sanatoria, un condono? Un indulto che forse non riguarda solo i tre personaggi di questo romanzo ma il nostro passato, la nostra Storia? Mi piace leggere questo viaggio fino al placido Don come lo spontaneo tentativo di un atto riparatore, eseguito con il simbolico che appartiene alla letteratura. Perché non sono i risarcimenti o i trattati commerciali che compiono la catarsi ma è attraverso il gesto simbolico che la Storia si placa e i guasti della guerra si medicano; e la letteratura può farsene carico.
Ma ora Clio è neghittosa, ha appeso la cetra ai salici e non canta più per nessuno: così euforica solo sessant'anni prima è in piena disforia e più che tanto non può concedere a sua sorella Calliope. Nel suo viaggio (le pagine più belle del romanzo) ricco di intensi incontri, l'acchiappafantasmi raccoglierà nel suo sacco solo lacerti, brandelli di frasi di vecchi sopravvissuti, uno sbiadito disegno infantile con la stessa scena della tremenda fotografia: tre soldati italiani accanto a un impiccato. È l'altra faccia della medaglia che giace sepolta in quelle terre lontane: non solo le centomila gavette di ghiaccio dei poveri soldati italiani mandati a morire nelle steppe russe, ma anche la morte che inevitabilmente portavano con loro («Olga mi ha guardato e mi ha detto che lui non ce l'aveva con me, ma erano morti in milioni per liberarsi di noi. Quando lei ha smesso di parlare, suo nonno ha indicato fuori, oltre la finestra», p. 244). È primavera. E dai pioppi, dalle foreste di betulle di cui è ricca la Russia, comincia a cadere una nevicata di apici, i batuffoli volanti che in una memorabile scena di Amarcord sono chiamati "le manine": «Stava lì, imbiancato dal polline, la giacca e le medaglie già bianche, e la testa che incanutiva così, nonostante i capelli che non c'erano più. E quel polline veniva giù su tutta la Russia, scendeva sopra la nostra macchina, e sopra la strada, e scendeva sui campi con tutti i morti che ci stavano sotto, su tutta la steppa, e sugli animali, e le signore che pedalavano in bicicletta per la campagna, e sopra il traliccio, e il cielo era pieno di quei fiocchi bianchi, e però era azzurro, in mezzo a tutta quella nevicata d'estate, quella neve calda che si andava a posare su tutte le cose» (p. 245). Un finale che alludendo a Fellini è insieme un commosso omaggio a Joyce. Una metalessi, per usare il linguaggio della narratologia, di enorme suggestione. L'ultima pagina è il ritorno. Se alla "verità" della realtà o alla commedia della vita non lo sappiamo." (da Antonio Tabucchi, La fabbrica delle coscienze. Il romanzo di Bajani e la letteratura come memoria delgi altri, "La Repubblica", 19/10/'10)

venerdì 22 ottobre 2010

PulcinoElefante, piccolo grande ditore


"Alberto Casiraghy, tra maschere africane, la targa della casa natale di Garcia Lorca, animali di terracotta e naturalmente un'immagine del PulcinoElefante, come ha deciso di chiamarsi «il più piccolo e grande editore del mondo». Non serve suonare il campanello per entrare nella sua casa-laboratorio a Osnago perché la porta è sempre aperta: soprattutto ad artistie scrittori. La musica classica fa da sottofondo al suono metallico dell'Audax Nebiolo che troneggia nella sala di questo novello Gutenberg che compone ancora con caratteri di piombo e, mentre saluta, inchiostra un aforisma di Dorfles («In futuro non ci sarà più antichità») in poche copie che lì accanto Giovanni Tamburelli acquerella una ad una. I libri del Pulcinoelefante sono così: ogni esemplare è unico perché contiene un disegno originale o foto o scultura (una volta un martello ...). Le tirature sono limitate, circa 30 copie; piccole di formato, solo otto pagine in carta di cotone, prezzo sempre 10 euro: è l'anima minimalista del "pulcino" che si sposa bene con l'"elefante", il grande cuore dell'arte che batte da un trentennio dentro le 8000 opere realizzate, dalla prima lirica di Marco Carrà nell'82 alle formiche, appunto ottomila, disegnate in 44 copie da Emilio Isgrò, uno degli amici ai quali Casiraghy dedica le sue giornate. Li attende, impasta gli ingredienti di segni e parole che gli portano e fa «il panettiere degli editori: l'unico che stampi in giornata», come ha detto Vanni Scheiwiller passandogli il testimone di Alda Merini, conosciuta nel '92 al castello di Belgioioso. Sono più di mille le edizioni con lei, spesso illustrate dai colori su titanio di Pietro Pedeferri. Una fra tutte: «il poeta è un opportunista che riesce a convincere gli altri che vivrà in eterno». L'aforisma è una delle passioni di Casiraghy, «esploratore immobile e bohémien fermo» per dirla con Sebastiano Vassalli. Nel suo antro magico si ascolta l'eco di voci materializzate nelle parole di carta di poeti come Loi o Erba, artisti come Cattelan, stranieri come Ginsberg o Ferlinghetti, detenuti di San Vittore o due vecchi amici come Arturo Schwarz e l'einaudiano Roberto Cerati. I risotti con lui, dopo le visite alla Merini, sono tra i ricordi che Casiraghy custodisce nel suo cuore, come quello rosso di stoffa cucito sul suo cardigan dalla sua Angela: lo rammenta mentre cuoce la pasta accanto a dove stampa. Una porta si apre sul giardino dove razzolano le galline cui dedica l'ironico titolo Dü sciamp allusivo dell' artista ma riferito in dialetto alle due zampe dei pennuti preferiti. Sul tavolo, dopo pranzo, fa posto per rilegare i libretti controllando i caratteri («il Bodoni è il mio preferito»): ne tiene 50 casse, dono di Giorgo Lucini, in una delle altre stanze invase dai librini e da strumenti di quand'era liutaio, prima d'essere assorbito dalla stampa appresa nella tipografia del Palazzo dei giornali di piazza Cavour, quando Montanelli lo chiamava per i titoli della prima pagina. Quindici anni fa rilevò una macchina in liquidazione dovendo abbattere un muro per farla entrare in casa, dove le pareti sono collage della memoria, tra quadri e locandine di mostre dedicategli in giro per il mondo (da Tokyo a New York; ora in Casa Palladio a Vicenza fino al 21 novembre). «Ciò che gli editori sanno dei loro poeti sono solo le virgole» legge da un quadretto appeso. Ma è il tramonto e il piccolo grande editore congeda gli amici con un libretto firmato Munari: «Un bravo stampatore per fare una buona impressione deve avere un ottimo carattere». È il suo ritratto." (da Roberto Cicala, Piccolo grande editore, "La Repubblica", 21/10/'10)

Atlante della letteratura italiana


"La letteratura italiana non è mai stata raccontata così. È inevitabile pensarlo, mentre si sfoglia il primo volume (ne sono previsti tre) dell'Atlante della letteratura italiana («Dalle origini al Rinascimento», Einaudi). Cosa intendere per così, dove stia cioè la novità, ce lo si può far raccontare dall'Atlante stesso. Apriamolo a pagina 650. Nel 1531, ad Augusta, il tipografo Heinrich Steyner si concesse due azioni assai arbitrarie. Da qualche anno circolavano gli Emblemata, un manoscritto del celebre giurista Andrea Alciato che raccoglieva un centinaio di epigrammi in cui ogni argomento era collegato per analogia a un oggetto concreto (l' armonia politica e il liuto ben accordato, per esempio). Una copia del manoscritto doveva essere finita in qualche modo nelle mani dello svelto Steyner perché costui prese due decisioni, entrambe all'insaputa dell'autore: diede alle stampe gli Emblemata e aggiunse un'illustrazione a ogni epigramma. La novità dell'Atlante non è certo l'aneddoto in sé, che era già molto noto (solo l'anno scorso gli Emblemata hanno avuto un'ottima edizione da Adelphi). Casomai è inusuale, in opere del genere, la propensione aneddotica per cui di regola si espone un caso particolare per arrivare a un tema generale. L'Atlante parla di Alciato, per esempio, in un saggio, breve e appassionante, dedicato da Floriana Calitti alle «stampe di rapina», ovvero alle edizioni pirata di un'epoca in cui il concetto di «edizione» era molto meno assestato che quello di «pirata». Da Jacopo Sannazaro con l'Arcadia a Baldassar Castiglione con il Cortegiano a Torquato Tasso con la Gerusalemme liberata furono molti gli autori a cui l'invenzione e diffusione della stampa (con i suoi ovvi addentellati commerciali) non consentirono più gli indugi, i ripensamenti, le correzioni usuali ai tempi dei manoscritti.
Una prima novità dell'Atlante è quindi quella di raccontare un'intera letteratura organicamente e per frammenti; tutta, e a pezzi. Le due cose possono, infatti, stare assieme e anzi, lo fanno in continuazione. I titolari dell'impresa sono lo storico Sergio Luzzatto e il critico e storico letterario Gabriele Pedullà, a cui si associa un curatore diverso per ognuno dei tre volumi previsti. Il primo volume, curato da Amedeo De Vincentiis, propone più di cento brevi saggi, raggruppati in quattro periodi storici. Per ogni periodo, una capitale culturale: Padova, Avignone, Firenze, Venezia. Si procede per indizi, si coglie il tutto mirando una sua parte: episodi stranoti vengono visti da angolazioni inedite ed episodi anche poco noti prendono una nuova centralità. Non chei capisaldi di ogni programma liceale vengano a meno: ma c'è modo e modo di raccontarli. Vediamo Dante esordire con un sonetto che si offre come materia di tenzone agli altri poeti; vediamo Giovanni Boccaccio andare a Padova per incontrare Francesco Petrarca e inaugurare un rapporto altalenante di magistero e amicizia; quindi entriamo nella biblioteca di Petrarca, di cui ci viene fornito un regesto completo, e illuminante. A un certo punto, è il 28 maggio del 1459, arriviamo a Mantova. Ippolita Sforza, a quattordici anni, sbigottisce Papa Pio II recitando un'orazione da lei stessa composta, in latino: dell'educazione e dei ruoli femminili dell'epoca si parla a partire da qui. Fra l'aneddoto e la generalizzazione astratta si sceglie rigorosamente l'aneddoto, pur di mantenere il discorso su binari ben ancorati al suolo: ma non è poi neppure questa la più importante caratteristica dell'Atlante. Così come lo stampatore Steyner aveva aggiunto le illustrazioni agli epigrammi di Alciato, così i direttori hanno affiancato ai saggi sugli eventi, mappe e reti in funzione di veri e propri «saggi grafici». Si può certo parlare dell'esilio dantesco, con il sale, le altrui scale e via dicendo. L' Atlante lo fa, ma aggiunge la possibilità di ragionare su un diagramma che affianca i periodi di esilio di più di sessanta letterati, nel Due e Trecento; su una mappa di Italia che contiene tutti i luoghi di partenza degli esuli, su un'altra con quelli di arrivo, su un'altra ancora in cui sono segnati tutti gli spostamenti di Dante. Abbiamo mappe delle città principali, che evidenziano i luoghi di produzione e scambio culturale: scuole, biblioteche, palazzi, chiese di Milano, Venezia, Avignone ... Un grafico confronta il funzionamento della corte papale e quella della corte di Urbino, e seguono le piante dei rispettivi palazzi.
Le storie della letteratura parlano dei «poeti laureati»: ma chi erano, quanti, dove? Ecco la mappa delle istituzioni dispensatrici di incoronazioni poetiche sul territorio italiano, il diagramma della loro distribuzione nel tempo, un confronto fra incoronazioni italiane e tedesche tra il 1300 e il 1800. Un tale accumulo di dati, in parte visivi in parte verbali, intende rappresentare innanzitutto le condizioni materiali, l'effettivo andamento, la vita della letteratura: scuole, luoghi di incontro, metodi di raccoltae di distribuzione del sapere, leggi, tabù, usanze, rapporti tra letterati. In questo, l'uso della figura, della mappa, dell'istogramma, di tutte le possibilità date dall'infografica non è esornativo: le immagini non si limitano a illustrare ma costituiscono campo e assieme metodo di ricerca, facendo scaturire argomentazioni, nessi, ragionamenti a cui altrimenti non si potrebbe pensare. Il vero precursore dell'Atlante è stato certamente l'italianista Carlo Dionisotti, che per primo legò gli studi letterari alla geografia; la sua lezione fu applicata, a modo proprio, dall'appartato e sulfureo Giampaolo Dossena, che per primo esplorò con genialità da bricoleur ed erudito furore antiaccademico i Luoghi letterari e approdò a una altrettanto geografica Storia confidenziale della letteratura italiana; in modo in parte diverso, ha lavorato sulle mappe anche Franco Moretti. A intuizioni già formulate, ma non ancora verificate ed esperite in ogni loro conseguenza, l'Atlante fornisce ora lo strumento espositivo e assieme euristico della continua interrelazione di linguaggio verbale e grafico. Dopo le novità, una conferma. Un'opera del genere, con l'impegno di studio e l'investimento di soldi e sapienza editoriale che richiede, esce da Einaudi, editore di cui ormai si usa parlare per motivi più politici che editoriali, come se la sua vocazione esclusiva fosse quella di produrre (o censurare) pamphlet. Domanda. Quale altro editore avrebbe potuto fare l'Atlante? La risposta esatta non è: «nessun altro». Al contrario: il fatto, risaputo ma oggi confermato, è che opere del genere in teoria potrebbe produrle chiunque, eppure, di fatto, le produce solo Einaudi. Qualcosa vorrà pur dire." (da Stefano Bartezzaghi, Scrittori del mio stivale, 21/10/'10)

La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell' era digitale


"Ci vuole dell'impegno, di questi tempi, per finire in un pessimo ristorante. Con tutte le recensioni che si trovano su Internet, ignorarle è masochismo deliberato e toglie diritto a ogni recriminazione. Lo stesso vale per libri, film, dischi e qualsiasi altro manufatto culturale. Il rischio vero, piuttosto, è finire tutti nelle stesse trattorie, leggere gli stessi romanzi e ascoltare musica identica perché lì convergono le raccomandazioni digitali. Che siano scritte da un essere umano e poi evidenziate in apertura di classifica dall'algoritmo di Google o invece assemblate da un software che deduce dai comportamenti web di una massa di persone che "se vi piace A allora vi piacerà anche B", non cambia granché. Il risultato è che ci vuole ormai una gran fortuna per trovare un ottimo ristorante dove non ci siano file chilometriche di avventori portati lì da uguali parole chiave. O, per dirla con l'allarme lanciato da Adbuster, rivista canadese di culto, che stiamo assistendo alla «scomparsa dell'infodiversità». Scrivono Kalle Lasn e Micah White: «L'informazione che consumiamo è sempre più piatta e omogeneizzata. Pensata per raggiungere milioni, spesso difetta di sfumature, complessità e contesto. Nel leggere gli stessi fattoidi su Wikipedia e guardare gli stessi video virali su YouTube facciamo esperienza del livellamento della cultura». Una standardizzazione nefasta perché «l'infodiversità è tanto cruciale per la nostra sopravvivenza di lungo periodo quanto la biodiversità». E va protetta, come specie in via di estinzione, reclamando un'«ecologia della mente» contro l'inquinamento del conformismo elettronico. Magari boicottando Google, il Leviatano telematico, come propongono in un'altra parte del giornale. Liquidarla come preoccupazione da babbioni, inguaribili nostalgici della «fatica del concetto», sarebbe stupido.
Qualche tempo fa Repubblica ha pubblicato l'appello di Jaron Lanier, tra i padri della realtà virtuale, a non scambiare i computer per oracoli. Contro la loro invasività crescente il tecnologo semi-pentito invitava alla resistenza: «La nostra esposizione all'arte non dovrebbe essere manovrata da un algoritmo che riteniamo in grado di anticipare con grande accuratezza i nostri gusti personali».
Su un filone analogo, a fine settembre uscirà per Codice Edizioni La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell'era digitale di Frank Schirrmacher, direttore del supplemento culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitunge intellettuale pienamente contemporaneo che dopo dosi massicce di e-mail, web, social network e Twitter ha alzato bandiera bianca e proposto una tregua collettiva. Perché, sostiene, affidandosi sempre più al software e delegandogli il controllo di pensieri e azioni, non è più l'uomo a usare il computer ma piuttosto il contrario. Dunque, se non è pensabile uscire dalle autostrade dell'informazione, dobbiamo almeno rimetterci alla guida dell'auto prima che sia un motore di ricercaa dirci per quale concerto comprare i biglietti o quale donna sposare.
Se vi sembra uno scenario distopico, buono per l'immaginazione di emuli di Philip K. Dick, è perché non siete stati di recente in California. Lì la transizione dall'analogico al digitale, quanto ai suggerimenti nei settori più disparati, è già compiuta. Una volta per scegliere dove cenare si compulsava la guida Zagat, ora si digita Yelp, un sito di consigli dagli utenti. Per scegliere l'albergo ci si portava dietro mezzo chilo di Lonely Planet mentre oggi la si consulta sull'iPhone fermandosi generalmente ai «preferiti» dell'autore. Oppure, con un outsourcing decisionale ancora più spinto e indiscriminato, si recepiscono le indicazioni del navigatore satellitare dell'auto. Arrivati in un posto di cui non si sa niente basta premere «punti di interesse» sullo schermo tattile per ottenere una lista di destinazioni, turistiche e mercantili, spesso insieme appassionatamente. Non c'è più bisogno di «studiare» prima. Si può improvvisare, con la macchina che in teoria suggerisce e in pratica detta. In una relazione sempre più fiduciaria, quando non affettiva come quella di Maxwell Sim con la voce femminile del gps nell'ultimo romanzo di Jonathan Coe. E se pure la lista di opzioni è lunga, state sicuri che solo una minima quota di ardimentosi si spingerà oltre la prima schermata. I primi piazzati vincono tutto, per questo è tanto importante stare in cima. Lo stesso vale per le critiche letterarie o cinematografiche squadernate da Google. O per le raccomandazioni di acquisti simili che ci cuciono addosso i recommendation engines di Amazon (libri), Pandora (musica), Netflix (film). L'ultimo arrivato è anche il più ambizioso. Hunch, «sensazione», si chiama e punta a mappare i gusti di ogni utente di Internet per sussurrargli cosa gli potrà piacere prima ancora che quello apra bocca. A più domande rispondi, più il sistema potrà incrociare i tuoi dati con quelli degli altri, azzardando analogie e ricorrenze. Se finirete nel ristorante sbagliato è perché a quelli simili a voi era piaciuto molto. Prima si sbagliava per conto proprio, artigianalmente. Ora more geometrico, da professionisti." (da Riccardo Staglianò, Così il Web ci obbliga agli stessi gusti, "La Repubblica", 21/10/'10)