sabato 16 ottobre 2010

Peregrin d'amore


"Nel 1997, appena varcata la linea d’ombra dei quarant’anni, Eraldo Affinati raccontò in un libro memorabile, intitolato Campo del sangue, un pellegrinaggio da Venezia ad Auschwitz destinato a incidersi profondamente nella memoria dei lettori. Spirito inquieto e originale, ostinato nella ricerca di forme adatte all’ambizione e alla complessità dei suoi progetti, Affinati prendeva di petto una convenzione letteraria sempre a rischio di futilità, la «prosa di viaggio», per caricarla di responsabilità inaudite. L’esperienza dei luoghi transitava, per così dire, dalla sfera delle possibilità a quella della necessità assoluta. Le categorie morali, le storie di famiglia, la memoria letteraria, il mutevole gioco degli affetti e delle passioni: tutto ciò che, insomma, costituisce l’identità del narratore doveva passare per quella porta stretta, per quell’itinerario verso il cuore di tenebra dell’Europa.
Oberato da tali pesi, il viaggio può davvero aspirare a trasformarsi, da innocuo passatempo tardo-romantico, nel modo supremo della conoscenza. Perché ciò che effettivamente sappiamo di noi e del mondo, secondo Affinati, equivale a ciò che letteralmente siamo capaci di portarci sulle spalle. Quanto all’eventuale trasmissione di questo sapere, non è un caso che i libri di Affinati siano fitti di incontri e di dialoghi, come se, per questo lontano epigono ed ammiratore di Leskov e Conrad, le idee non fossero più separabili dalle contingenze e dalle occasioni in cui concretamente vengono formulate ed ascoltate. La pagina scritta dovrà conservare quanto più possibile di questo picaresco e labirintico processo di verifica.
Uomo di immensa cultura, Affinati ha intuito, a un certo punto del suo percorso, che nella bellezza e nella ricchezza del linguaggio letterario è annidato il serpente dell’astrazione, il rischio di un’esistenza mancata: ciò che Flannery O’Connor, con spietata esattezza, definì il peccato di vivere «in un mondo che Dio non ha mai creato». Di libro in libro, ha rinnovato la sua scommessa col possibile, inteso come concretezza umana e possibilità di scambio. E ha trasformato se stesso in un efficacissimo personaggio: un vagabondo inguaribilmente individualista, ma capace di ascoltare; tenace nel cercare, ma disposto a perdere la via maestra.
Lo avevamo lasciato per le strade di Berlino, a fiutare le tracce di poeti e artisti fondamentali nella sua formazione, e lo ritroviamo sulla Piana delle Murgie, diretto a Castel del Monte, il più famoso maniero (ed enigma architettonico) di Federico II.
E’ qui che inizia il viaggio di Peregrin d'amore (Mondadori), e questa volta la mèta è addirittura sbalorditiva.
Perché Affinati vuole sottoporre alla sua prova del nove addirittura un immenso edificio concettuale e ideologico, un’istituzione vetusta ma ancora influente, una secolare convenzione: nientemeno che la storia della letteratura italiana, dal Cantico di san Francesco a Gadda e Pasolini. Il proposito è talmente donchisciottesco che all’inizio è l’autore stesso che sembra prendersi in giro assieme ai suoi lettori.
Ma la battaglia all’astrazione, in questo caso, è così ricca di conseguenze morali, politiche, psicologiche che non si può guardare all’impresa con indifferenza. Che senso ha essere eredi di una certa tradizione letteraria su base nazionale?
E cosa significa crescere, come individui ancora prima che come scrittori e lettori, in una certa lingua madre? L’automatismo produce retorica e burocrazia, programmi ministeriali e corsi di laurea.
Nata nell’età del Romanticismo e del Risorgimento, la storia della letteratura italiana, così come l’abbiamo conosciuta per più di un secolo, possedeva finalità etiche e civili che oggi sarebbero difficili anche solo da formulare. Il semplice perpetuarsi di un’istituzione, d’altra parte, non garantisce la sua vitalità.
E’ un automatismo, privo di ogni tipo di conseguenza. Prima o poi, va a finire che chi dovrebbe insegnarla la capisce altrettanto poco di chi dovrebbe impararla.
Affinati ha bene in mente queste premesse, e la sua lunga esperienza di insegnante di liceo non può che averlo ulteriormente convinto della necessità di sottrarsi all’inerzia.
Per definizione,una tradizione è qualcosa che noi ereditiamo.
Ma solo noi possiamo riempire di senso ciò che abbiamo ricevuto, trattandolo alla stregua di una nostra invenzione. In Affinati, questo paradosso non produce una teoria, ma uno spazio narrativo, un’immagine poliedrica dell’Italia di oggi, e in fin dei conti un’avventura, intessuta di lontananze e ritorni a casa, illuminazioni e frustrazioni.
Basterà leggere le parti del libro destinate a Campana, o a Gadda, per arrendersi all’evidenza: ci sarà una buona dose di follia, nel metodo di Affinati, ma certe sue verifiche sul campo valgono intere biblioteche specialistiche.
Sarebbe bello, in conclusione, che qualcuno avesse il coraggio di pensare a un libro del genere come a uno strumento per insegnare, al posto di quegli orribili manuali che si smerciano nelle scuole e nelle università. Prima che sia troppo tardi per tutto." (da Emanuele Trevi, Un Don Chisciotte tra le Belle Lettere, "TuttoLibri", "La Stampa", 16/10/'10)

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