mercoledì 31 agosto 2011

Il successo della 'scienza lirica'. Così Gödel è diventato un bestseller


"Basta un titolo per capire: Gödel, Escher e Bach, volume favoloso e folle di 900 pagine scritto da Douglas Hofstadter che unisce la musica, l´arte e i teoremi della matematica. Lunghi cenni sulla conoscenza, insomma. Ebbene questo libro è diventato un bestseller da centomila copie. E non è il solo. Perché prima c´era stato Verso un´ecologia della mente di Gregory Bateson e poi le opere di Richard Feynman e i lavori su emozione e coscienza di Antonio Damasio: sono i libri sulla scienza di Adelphi che hanno portato i lettori italiani a scoprire testi sofisticati e geniali. Dietro di loro c´è un fisico, studioso di cibernetica, esperto di modellistica computazionale dei sistemi biologici: Giuseppe Trautteur che ha curato sin dall´inizio i temi scientifici per la casa editrice diretta da Roberto Calasso.
Come nasce l´idea della Biblioteca Scientifica Adelphi? «La mia amicizia con Calasso risale ai tempi in cui ero all´università e Calasso al liceo. Poi lui fu chiamato all´Adelphi da Bobi Bazlen e Luciano Foà. A un certo punto ci siamo chiesti: perché non apriamo una linea scientifica, che sia in sintonia con lo spirito della casa? Dopo varie conversazioni, sarà stato il 1974-1975, individuammo alcuni libri. Poi ci capitò il libro di Bateson, Verso un´ecologia della mente, che inizialmente non era previsto e ne restammo molto impressionati ... fu subito, e continua ad essere, un grandissimo successo».
Perché? «Oggi molti usano a vanvera un termine come "interdisciplinarietà", ma quello era un raro e autentico esempio di capacità di pensare in modo interdisciplinare e al tempo stesso in modo profondo. L´interdisciplinarietà deve essere nella testa di chi pensa, Bateson era un antropologo di formazione e anche uno psicologo. In questo senso, una fonte di ispirazione importante per le nostre pubblicazioni furono le conferenze della Fondazione Macy. Una decina di incontri, tra il 1946 e il 1953, a cui parteciparono alcuni tra i maggiori studiosi di discipline diverse, dalla matematica (John von Neumann) alla genetica (Max Delbrück), dall´antropologia (Margaret Mead) alla sociologia (Talcott Parsons). Io ebbi modo di entrare in contatto con molti di questi studiosi grazie al fisico Eduardo Caianiello, nel cui gruppo lavoravo, dove si univa una struttura di pensiero rigorosa alle idee più eterodosse».
Che tipo di lettori speravate di coinvolgere? «Cito un esergo che all´inizio riportavamo nel secondo risvolto: "Una serie di testi che segnano il movimento del pensiero scientifico verso nuovi territori e insieme riflettono sui suoi fondamenti". Benché siano inevitabilmente classificati come divulgativi, in realtà i nostri libri non sono poi tanto divulgativi. Si rivolgono "allo studioso della porta a fianco", dicendo quello che sta facendo un altro. Abbiamo sempre cercato una sorta di intermediazione: il libro doveva essere leggibile dal lettore colto, ma anche corretto e aggiornato per il lettore specialista. Doveva far vedere al chimico che cosa fa il fisico, all´informatico che cosa fa il biologo. Per i temi da un lato ci siamo concentrati sulla fisica e dall´altro (adesso si può dire, trent´anni fa era molto più difficile) sulla consapevolezza, la coscienza».
Un catalogo che ha anche aspetti dichiaratamente seduttivi. «In generale, c´è la speranza che questi testi portino alla contemplazione estetica della scienza, nonché a riflettere sui suoi fondamenti. Ai nostri autori si richiede di fare della scienza in prima persona, ma allo stesso tempo di avere la maturità per guardarla dal di fuori e di "contemplarla". La scienza va goduta, che poi sia applicativa è meraviglioso. Però questa visione moderna, tutta incentrata sulle applicazioni, che fa leva sulle aspettative dei pazienti ad esempio, a me sembra estremamente riduttiva ... ciò che è veramente straordinario è che noi riusciamo a capire come è fatto il mondo, anche solo un poco, e possiamo contemplare questo mondo e saperne un po´ di più. Questa è una gioia intellettuale, diversa ma non dissimile dalla fruizione estetica. I nostri libri presentano la scienza così com´è, però per così dire "guardata", e suggeriscono di impararla a fondo, in primo luogo. Una volta saputo qualcosa si può goderne».
La scienza come visione del mondo, quindi, più che la cultura scientifica di cui tanto si parla oggi ... «Da questo punto di vista il discorso sulle due culture di C.P. Snow è stato veramente deleterio. Tutti dicono che bisogna colmare il gap tra le due culture ... questa strana convinzione secondo cui la cultura umanistica guarderebbe con disappunto la cultura scientifica. Ma non ci sono due culture, non c´è una cultura scientifica intesa come Kultur, come movimento di pensiero. Ci fu un accenno di cultura scientifica in epoca illuministica, poi con l´Ottocento quest´accenno è scomparso. La cultura europea e occidentale è tout court una cultura umanistica. Noi facciamo questo piccolo lavoro di dire: attenzione, non diciamo più umanistica o scientifica, o due culture, ma parliamo della "cultura", che comprende la contemplazione sì dei nostri artefatti, ma anche della natura, della natura conosciuta scientificamente».
Inevitabile pensare al successo straordinario di Gödel, Escher e Bach di Hofstadter ... «Quando Kessler della Basic Books ci portò a mano il manoscritto, l´autore era un Ph. D. relativamente sconosciuto, anche se era figlio di un premio Nobel per la fisica. Hofstadter è riuscito a mettere insieme tre fili diversi della collana intrecciata: un´esposizione correttissima della teoria formale dell´aritmetica, con i risultati limitativi di Gödel; una visitazione colta del significato profondo, da un punto di vista formale e strutturale, dell´opera del grafico Escher e come condimento, Bach ... io lo consiglio ancora ai miei studenti come prospettiva, una tela di fondo dello studio più tecnico che devono fare».
Dopo trent´anni come è cresciuto il vostro pubblico? «Il pubblico ha buon gusto. Capisce quali sono i libri più importanti, il numero delle ristampe è un piccolo diagramma del buon gusto del pubblico. I lettori italiani hanno capito benissimo l´importanza dei libri di Damasio, di Hofstadter, di Barrow, anche di libri che noi stessi consideravamo un vero e proprio azzardo, come ad esempio il libro di Bell, Dicibile e indicibile in meccanica quantistica, una testimonianza della controintuitività della natura profonda della materia che è andata a ruba. Un libro che invece non ha avuto nessun riscontro, pur essendo piaciuto molto a noi, è La fine della scienza di Horgan, forse perché fu percepito come una visione pessimistica, cinica ... In realtà il tema non era la fine della scienza, ma una critica di molti metodi della fisica, della scienza del secondo Novecento».
C´è un libro che si sarebbe inserito bene nel vostro progetto, ma che non siete riusciti a pubblicare? «Mi viene in mente quello di Brian Greene, L´universo elegante, ottimo libro sulla teoria delle stringhe. Un esempio di quella che io chiamo la "fisica lirica", un filone che ha ripreso forza tra la fine degli anni Novanta e all´inizio del nostro secolo»." (da Massimiano Bucchi, Il successo della 'scienza lirica'. Così Gödel è diventato un bestseller, "La Repubblica", 31/08/'11)

martedì 30 agosto 2011

Rosellina Archinto


"«Con l'estate arriva sempre un gran magone, il rimpianto di una stagione in cui sono stata molto felice. E ora bastano un suono o un colore, una musica inattesa o un'improvvisa visione, per evocare le atmosfere di quel tempo, il ricordo di un legame che è stato parte fondamentale della mia vita e ora mi manca enormemente».
A Portofino Rosellina Archinto non è più tornata. Non è più entrata nella grande casa condivisa per diversi decenni con Leopoldo Pirelli, compagno discreto e generoso. Fino all'ultimo insieme, davanti alla finestra affacciata sul mare. «Ancora la sera prima di morire progettava un viaggio a Marrakech», racconta Rosellina con un accento insolito, il consueto piglio energico stemperato dall'emozione, lo sguardo azzurro perso chissà dove. Temperamento vigoroso lei, classe 1935, editrice di raffinati carteggi, zibaldoni e di libri per bambini che hanno segnato un'epoca; figura dell'imprenditoria liberale lui, simbolo di una borghesia illuminata di cui è rimasta rara traccia. Quasi quarant'anni insieme, mai raccontati per scelta di stile e di pudore. Ma con l'estate arriva sempre quel gran magone. E seduta nel grande prato del suo castello medievale, vicino ad Assisi, l'Archinto apre il suo diario intimo, un libro degli affetti e delle vacanze scritto con un personaggio speciale, «difficile, chiuso, riservato, esigente con se stesso e con gli altri, ma anche dolcissimo e capace di tenerezza, un sentimento a cui forse non ero stata abituata da un padre molto severo».
Fin dal principio il mare svolse un ruolo importante. «Sì, prima una casa arrampicata su una collina, dietro Paraggi. Poi la grande villa sul promontorio di Portofino. Poldo amava molto il mare, stava ore al timone della sua barca a vela, solitario e assorto nei pensieri, la sigaretta tra le labbra. Aveva inventato un modo per accenderla con il vento. Il mare rappresentava la libertà. La libertà dal suo ruolo pubblico, dal peso di una tradizione famigliare, dall'impegno che aveva deciso di assumersi con rigore ma forse non con piena felicità».
Il padre gli preferiva il fratello maggiore, Giovanni, che però scelse una strada diversa. E toccò a Leopoldo assumere la guida dell'azienda. «Si sottomise al volere di suo padre con grande serietà e un fortissimo sentimento etico, ma nel suo intimo voleva fare altro. Dedicava molto del suo tempo libero a organizzare gli spazi, definendoli con cura in ogni dettaglio, sia che si trattasse del guscio della barca a vela o di un rudere di campagna. Gli piaceva vedere nascere le cose, forse sarebbe stato un bravo architetto. Per tradizione famigliare intraprese un altro percorso, lo fece fino alla fine con spirito illuminato».
Non sempre fu compreso. «Nel Sessantotto andavano di moda slogan come "Agnelli e Pirelli, ladri gemelli". Lui non si arrabbiava ma era amareggiato. Lo mostrava alla sua maniera, sempre controllato, mai una parola sopra le righe. Fu lui in quegli anni a proporre la settimana lavorativa di cinque giorni e altre riforme molto avanzate. Il sindacato reagì male e Leopoldo si convinse di aver sbagliato per eccesso di disponibilità. Di recente alla Pirelli è comparso uno striscione: "Leopoldo, per favore, torna tra noi"».
A quell'epoca vi conoscevate già? «Sì, ci eravamo incontrati a Milano e lui mi faceva un po' di corte. Io ero una signora sposata con cinque figli, non mi mancava il senso di responsabilità. Leopoldo, che aveva dieci anni di più, mi dimostrò molto amore. Decise di separarsi per vivere con me. Io lasciai passare un paio di anni, poi decisi anche io di separarmi. Nel 1972 rendemmo pubblico il nostro legame, ma non abbiamo mai vissuto insieme. I figli sono rimasti la mia priorità e Leopoldo fu comprensivo. Così i week-end e l'estate divennero il tempo solo per noi. Il nostro era un legame fortissimo, nella reciproca autonomia».
La diversità cementò il rapporto? «Sì, fu importante. Per Leopoldo rappresentavo la scoperta di un altro mondo. Un'altra possibilità di vita, oltre la casa e l' azienda. La prima volta che lo vidi mi apparve come afflosciato in un sacchetto di vestiti, schiacciato dal peso di una storia più ampia. Credo di averlo travolto con la mia vitalità, il mio ottimismo: del bicchiere io vedevo sempre il mezzo pieno, lui il mezzo vuoto. E poi lo divertivano le serate con gli amici scrittori e musicisti, da Arbasino a Pollini ed Abbado».
Un incontro che la colpì? «All'epoca del '68 una sera venne a cena da me, a Milano, Herbert Marcuse. Personaggi più distanti non potevano essere. Da una parte il guru del movimento studentesco, il denunciatore della società industriale repressiva; dall'altra un principe del capitalismo. Fu una cena piacevolissima. Pirelli e Marcuse parlarono fitto fitto tutta la sera. In realtà Leopoldo era un solitario però non asociale. Era curioso, attento a quel che si muoveva nel mondo, sensibile alle discussioni intellettuali».
Che cosa le ha insegnato? «Il rigore, la serietà. La pazienza del giudizio ponderato. Io ero precipitosa e schematica, sparavo sentenze senza troppa cura. Lui mi invitava a riflettere, a liberarmi da pregiudizi e partigianerie. In trentacinque anni non l'ho mai sentito alzare la voce. Anche nei momenti più difficili».
Un momento difficile fu quando morì il fratello Giovanni. «Un terribile incidente stradale, nel 1973: Giovanni perse la vita, Leopoldo il suo bellissimo volto, che rimase deturpato. Io ero già al suo fianco e ricordo l'angoscia di quel periodo. Non voleva mostrarsi neppure agli amici più intimi. E poi Giovanni era per lui un riferimento saldo, il più importante. Partigiano, intellettuale, mente brillantissima: era il fratello maggiore a supportarlo nelle scelte più delicate. Dopo un periodo di lontananza, negli ultimi tempi si erano molto riavvicinati. La famiglia non aveva gradito le scelte eterodosse di Giovanni. Per Poldo fu una tragedia».
Anche in quel caso il mare rappresentò un rifugio. «La nostra prima casa fu quella di Paraggi, accessibile solo dopo una camminata di mezz'ora. Leopoldo era sereno perché finalmente riusciva a liberarsi della scorta. La sua era una vita sotto sorveglianza, le Brigate Rosse non lo perdevano di vista. Ma arrivato a Paraggi si sentiva fuori pericolo, forse non senza incoscienza».
Quali erano i vostri rituali? «Il nuoto, prima di tutto. Leopoldo era un animale acquatico, nuotava per ore e ore, sia in mare che in piscina. Poi la passione per la vela. All'inizio capitava che a condurlo fossi io, sulla deriva, una barchetta poco oltre i quattro metri. Di famiglia ligure, ero praticamente cresciuta in barca a vela e mi divertivo a fare lo slalom tra le imbarcazioni nel golfo. "Sei pazza, cosa fai?", Poldo mi guardava atterrito. La deriva fu presto accantonata, e mi adattai felicemente anche io alle sue barche di lusso».
E le letture? «Tante, ma diversissime. Lui si portava le carte del lavoro, prendeva appunti con una scrittura nitida e molto curata, senza fronzoli com'era lui. Se non leggeva saggi di politica ed economia, si buttava su Ken Follett. Una volta tentai di fargli leggere un critico letterario di gran fama, forse un tantinello pomposo. Dopo le prime pagine Poldo si accasciò, "Questo non puoi chiedermelo"».
In vacanza parlavate di lavoro? «No. Ci sostenevamo reciprocamente, ma non mi sono mai mischiata nelle sue cose. E lui aveva gran rispetto del mio lavoro di editore, anche se forse avrebbe voluto maggiore disponibilità da parte mia. Ricordo che incontrava in gran segreto Michelin, l'erede della famiglia francese dei pneumatici, ma nessuno doveva saperlo. Non fu facile la stagione del suo commiato dalla Pirelli. Avevamo già traslocato nella villa a Portofino e lo vidi soffrire moltissimo, ma sempre secondo il suo stile. Rinunciò a tutte le cariche con grande dignità, mai una parola polemica verso qualcuno. Così come si tenne dentro tutta l'amarezza per le scelte successive dell'azienda. Neppure con me si lasciò andare».
Al mare insieme, fino alla fine. «Avrebbe voluto avere una bella vecchiaia, con me al fianco. Io avevo più tempo da dedicargli, i figli ormai cresciuti. Quando mi capita di incrociare per la strada coppie di persone della nostra età, sono invasa dalla malinconia. Mi vengono in mente quei versi di Montale "Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino"»." (da Simonetta Fiori, Rosellina Archinto, "La Repubblica", 30/08/'11)

venerdì 26 agosto 2011

Non solo ebook per i nativi digitali. La magia intatta del Pinocchio di carta


"Nell'era dell'ebook a volte sono gli incontri occasionali con i grandi capolavori che possono far apprezzare il libro di carta. Anche ai nativi digitali. Così, entrare in una libreria durante le vacanze può trasformarsi in un' esperienza inaspettata e rivelatrice. È quello che ha raccontato sul Wall Street Journal il giornalista radiofonico Scott Simon, entrato con la moglie e due figlie di otto e quattro anni in un negozio di volumi usati a Santa Rosa, in California. Niente giochi, niente video, niente caffè nè intrattenimento di altro genere, accessori ormai abituali in tutti i bookstore di nuova generazione. Simon pensava di riuscire a fare soltanto una rapida ricognizione prima di essere trascinato via dalla prole annoiata e spaventata da quelle pile incombenti di libri ingialliti e sfogliati da altre mani. E invece, sorpresa: le bambine aprono con cura i volumi come se aprissero scrigni di segreti, oggetti mai visti prima (anche se in casa non mancano), sfogliano le pagine con una sorta di stupore e chiedono ai genitori se conoscono quelle storie. Se ne vanno con vari libri, tra cui un Pinocchio del 1978, illustrato da Fritz Kredel e, a casa, se lo gustano capitolo dopo capitolo, un giorno via l'altro finché non arrivano alla fine. Le dozzine di titoli scaricati con un clic sull'iPad prima di partire per le vacanze, con tutto l'apparato ludico che portano con sé, diventano improvvisamente meno appetibili. Certo, ci sono app straordinarie, sopratutto nel campo dei libri per bambini, che non possono non conquistare i piccoli lettori (una, proprio relativa a Pinocchio, l'ha fatta uno studio milanese, Elastico, ed è stata tra le più scaricate dei mesi scorsi), ma per uno strano fenomeno, soprattutto per generazioni nate con i lettori digitali a portata di mano, diventano più interattive quelle vecchie illustrazioni, quella storia, lunga e densa, raccontata dalla voce dei genitori, quei volumi sugli scaffali che sembrano parlare tra loro in una polifonia che non tiene conto dei generi. Insomma, c'è da scommettere che il libro di carta non scomparirà, anzi forse sarà proprio l'ebook a farcelo apprezzare di più." (da Cristina Taglietti, Non solo ebook per i nativi digitali. La magia intatta del Pinocchio di carta, "Corriere della Sera", 25/08/'11)

Travel Bookshop


"Chissà quanti uomini hanno sognato di cambiare mestiere, dopo aver visto Julia Roberts, diva di Hollywood nella realtà e sullo schermo, perdere la testa per un occhialuto, impacciato libraio, di cui si innamorava tra montagne di libri. Accadeva in un film, d'accordo, e il libraio era Hugh Grant, introverso quanto si vuole ma considerato irresistibile dalle donne. Però il luogo dell'improbabile love-story cinematografica esiste davvero: si chiama Travel Bookshop, ed è una piccola libreria indipendente, specializzata in libri di viaggio come suggerisce il nome, a Notting Hill, il quartiere londinese famoso per il suo carnevale etnico, per il mercatino delle pulci di Portobello road, per i ristorantini, i caffè, le botteghe alternative, e pure per la libreria in questione, che attira legioni di turisti da quando nel 1999 uscì il film (Notting Hill appunto, diretto da Richard Curtis, il maestro della commedia sentimentale inglese).
Solo che adesso la libreria rischia di chiudere. Tra due settimane, se non si trova un acquirente, l'attuale proprietaria, Saara Marchadour, metterà fine a un' esperienza durata più di trent'anni. La situazione di crisi non è sorprendente: stretta fra la crescita degli e-book e la concorrenza delle grandi catene di librerie (peraltro anch'esse in cattive acque), la Travel Bookshop non riesce più nemmeno a coprire le spese. Notting Hill, un tempo quartiere tosto di anglo-caraibici, è diventato un posticino di gran moda, gli affitti sono saliti alle stelle, e non basta svendere libri a metà del prezzo di copertina, come stanno facendo da un mese la libraia e i suoi affezionati commessi, per tirare avanti.
La sorpresa è stata la reazione popolare: lettori, turisti, gente del quartiere e ora perfino poeti, scrittori, attori e registi, si stanno coalizzando per salvare la libreria della romantica storia d'amore fra Julia e Hugh, fra la diva e il libraio. Olivia Cole, poetessa e giornalista locale, ha lanciato una campagna e una sottoscrizione, con una trovata orginale: "Mi offro di lavorare gratuitamente un giorno alla settimana al Travel Bookshop", racconta, "e invito altri scrittori a fare altrettanto. Forse l'idea che i clienti possano essere serviti dagli autori in carne ed ossa contribuirà ad attirare un investitore disposto a comprare la libreria e a mantenere in piedi questa piccola isola di carta". L'iniziativa ha riscosso più consensi di quanto la poetessa avrebbe immaginato. Scrittori e giornalisti si sono detti pronti a lavorare gratuitamente part-time al Travel Bookshop. L'attore Alec Baldwin, che nel film Notting Hill interpretava il fidanzato di Julia Roberts (poi abbandonato per il libraio Grant), ha unito la sua voce alla protesta, scrivendo su Twitter: "Salvate il Travel BookShop". E anche Curtis, il regista, ha offerto sostegno morale, affermando di essere venuto spesso a visitare la libreria, dopo averci girato la sua pellicola (che ha incassato 250 milioni di euro ed è stata un successo in mezzo mondo). In realtà, il film non è stato girato proprio nelle stesse stanze: per esigenze cinematografiche, avendo bisogno di un set sempre uguale per giorni e settimane, la produzione di Notting Hill aveva ricreato il Travel BookShop nel medesimo quartiere, a poca distanza dall'originale, che era comunque servito da modello, oltre che da ispirazione per l'intera vicenda. «Quando i turisti me lo chiedono, delle volte preferisco nascondergli la verità e lasciar credere che il film fu girato qui dentro», ammette la proprietaria, «altrimenti restano delusi. Del resto la sostanza non cambia».
La libreria, all'angolo di una stradina piena di ristoranti e pizzerie italiane (tutti ottimi), in effetti è diventata un'attrazione: c'è quasi più gente che la fotografa da fuori di quanta ce ne sia dentro a comprare libri. La fama del film, insomma, non basta. Forse per salvare il Travel BookShop, più che qualche scrittore più o meno noto nei panni del libraio, servirebbe avere tra i banchi di libri, una volta ogni tanto, Julia Roberts e Hugh Grant. I quali, con tutti i soldi che hanno, potrebbero comprarsela loro, se volessero, e dimostrare che una lovestory non solo può nascere in libreria, ma può perfino salvarne una dal fallimento. " (da Enrico Franceschini, Notting Hill: un amore di libreria ma rischia di chiudere, "La Repubblica", 25/08/'11)

The Travel Bookshop: Notting Hill store that inspired Hollywood film to close (da The Telegraph)

mercoledì 24 agosto 2011

Bibliomania


"Nella fantasia degli scrittori qualche volta è successo di immaginare che si potesse uccidere per un libro. Nella storia, o nella cronaca, non pare siano rintracciabili episodi del genere. È però un’idea che piace molto ai giallisti, a quelli almeno che amano mettere biblioteche, librerie e librai nelle loro trame, fedeli al principio enunciato da Edgar Allan Poe quando, nel primo vero giallo della storia - correva l’anno 1841, e si trattava dei Delitti della rue Morgue - dovette presentare ai lettori il suo detective, Auguste Dupin, e non resistette alla tentazione di confessare subito che «l’unica sua debolezza erano i libri».
Ma c’è una vicenda di poco precedente, a lungo ritenuta vera, che già nel 1836 ispirò un delizioso e malnoto incunabolo della bibliomania criminale: un breve racconto del giovane Flaubert, scritto a quindici anni e pubblicato nel ’37, Bibliomania (MobyDick). Racconta di Giacomo, un libraio di Barcellona, ex monaco, che «sapeva a stento leggere». Infatti «non era il sapere che amava, era la sua forma e la sua espressione; amava un libro perché era un libro, amava il suo odore, la sua forma, il suo titolo». Giacomo è divorato dall’amore per i volumi di pregio: quelli preziosi, unici, rarissimi li vorrebbe tutti per sé. È antipatico soprattutto agli altri librai, che si coalizzano per sconfiggerlo alle aste, impedendogli anche solo per divertimento di conquistare i pezzi più bramati. Vinto dalla frustrazione, si risolve così a uccidere per ottenere ciò che desidera. Non esita a gettarsi nel fuoco (e cioè nella casa in fiamme del suo rivale, il libraio Baptisto) per strappare al rogo una Bibbia, la prima stampata in Spagna, che ritiene assolutamente unica.
La conquista, ma firmerà la propria condanna. Verrà accusato di essere lui l’incendiario, oltre che di aver ucciso altre due persone. Dalla prima imputazione potrebbe difendersi, ma quando l’avvocato, con un gesto teatrale, estrae dalla toga un oggetto che potrebbe rappresentare la salvezza dell’imputato, il libraio vede il mondo crollare per davvero, e rovinosamente, su di sé. Si tratta di una seconda Bibbia in tutto e per tutto eguale a quella scomparsa dall’edificio in fiamme e ritrovata poi a casa di Giacomo. Potrebbe essere una prova di innocenza, ma per lui è inaccettabile.
L’imputato non vuole ammettere che la grande vittoria della sua vita, conquistare un esemplare unico, è stata un inganno. «Condannatemi, ve ne prego!», dice ai giudici, «la vita mi pesa, il mio avvocato vi ha mentito, non credetegli. Oh! condannatemi. Ho ucciso don Bernardo, ho ucciso il curato, ho rubato il libro, il libro unico, perché non ce ne sono due in Spagna. Signori, uccidetemi, sono un miserabile». Molto meglio la forca che ammettere l’esistenza di due Bibbie. Infatti, dopo la sentenza capitale, chiama il suo avvocato e gli chiede di prestargli il libro. Lo accarezza, ci piange un po’ sopra, infine lo straccia in minuti pezzetti, che getta in faccia al legale.
Questa storia non è un’invenzione di Flaubert. Fu anzi creduta vera per oltre un secolo. Apparve nel ’36 sulla Gazette des Tribunaux, in forma anonima, riferendo di un episodio che si pretendeva realmente accaduto e riguardava appunto un libraio di Barcellona, di nome però Don Vincente. Le bibliomane, ou le nouveau Cardillac (il titolo fa riferimento a un racconto di Hoffmann, Mademoiselle de Scudéri, pubblicato nel 1818, dove René de Cardillac è un orafo che uccide i compratori dei suoi magnifici gioielli) è stato attribuito a Charles Nodier, elegante scrittore e bibliofilo che già nel 1831 aveva esordito con Le bibliomane, testo simile per argomenti e struttura alla cronaca anonima di Barcellona.
La beffa letteraria è stata però smascherata solo in tempi recenti. Nel 1870 un altro scrittore assai raffinato, Jules Janin, narra l’aneddoto del bibliofilo assassino in uno dei dialoghi che compongono Le livre, trattato di impronta platonica sull’amor dei libri. Per oltre un secolo la storia del libraio pazzo viene presa alla lettera e rilanciata anche da dizionari ed enciclopedie. Don Vincente diventa l’emblema di una moralità, oltre che un personaggio storico. L’Ottocento romantico crede fermamente che si possa arrivare al delitto per un libro unico. Il gioielliere di Hoffmann uccide i suoi clienti per non privarsi dei pezzi preziosi. Così fa Don Vincente (a differenza del Giacomo di Flaubert), ex monaco che, dopo lo scioglimento degli ordini e la confisca dei conventi voluta dal governo spagnolo nel 1835, ha lasciato il suo con un bel bottino di antichi manoscritti, e ha impiantato un commercio di libri.
Vende però solo quelli di poco valore: dagli altri si separa con una sofferenza inaudita, anche se ciò non gli impedisce di concludere ottimi affari. I concorrenti si coalizzano dunque contro di lui, e a un’asta uno di loro si aggiudica un volume preziosissimo. Non è una Bibbia, ma un tomo che al non specialista non avrebbe detto nulla: Furs e ordinacions fetes per los Gloriosos reys de Aragò als regnicols del regne de Valentia. È però il primo libro spagnolo, stampato nel 1482 da Lambert Palmar, il tipografo che portò nella penisola iberica l’invenzione di Gutenberg. Il giorno dopo, il fortunato acquirente muore nell’incendio che gli divora il negozio e la casa.
Le autorità indagano, e mettono in relazione l’episodio con il ritrovamento di due cadaveri, quello di un giovane letterato tedesco e quello di un parroco, entrambi assassinati ma non per rapina, perché hanno ancora addosso oro e gioielli. Si pensa a un complotto clericale, vengono perquisite molte abitazioni sospette tra cui quella del libraio ex monaco, ed ecco comparire il preziosissimo incunabolo del Palmar. Non solo, ma in casa di don Vincente ci sono altri volumi preziosi che riconducono ad altre vittime di agguati mortali.
Inchiodato dalle prove, il «libreter assassin» confessa: non solo non poteva sopportare che il suo concorrente gli avesse soffiato il libro «unico», ma neppure che gli altri ingenui clienti lo avessero in qualche modo costretto, offrendo cifre altissime, a disfarsi dei suoi tesori. Così li aveva recuperati a uno a uno, uccidendo i malcapitati. Anche lui, come il Giacomo di Flaubert, viene condannato al supplizio della garrota. Un folle come tanti? A differenza di Giacomo, pronuncia una magnifica frase, al momento della condanna: «Gli uomini sono mortali, ma i buoni libri bisogna conservarli». Un folle come a volte sono folli gli scrittori." (da Mario Baudino, La leggenda del bibliomane serial killer, "La Stampa", 24/08/'11)

martedì 23 agosto 2011

Quasi il creatore di un mondo


"La prima scena del libro, vista con occhi da bambina, emana l'inquietudine sommessa di certi prologhi domestici alle imprese eroiche e tragiche: «Nostro padre entra fiero e con un guizzo negli occhi, il suo sguardo ci abbraccia, la minestra è servita in tavola. Ha un'aria troppo felice che rischiara il suo volto, la mano destra accarezza quella della mamma per rassicurarla che è stata fatta la scelta giusta. Siamo nel 1954. Mio padre ha deciso di demolire la casa di Camaiore che gli ha regalato il nonno, per costruirne un'altra. La minestra si è fatta fredda e la sua decisione è inderogabile». La figlia che scrive, in Quasi il creatore di un mondo (Giampiero Casagrande editore) è Nicoletta Mondadori, la casa il solido edificio colonico sul la collina che Arnoldo Mondadori aveva regalato al primogenito e che lui rase al suolo per farne la fastosa, modernamente visionaria villa "La medusa" (battezzata come la più prestigiosa collana letteraria Mondadori): piscine, prati, salonie vetri ispiratia Lloyd Wright, pavimenti preziosi con figure dei quadri di Chagall. Per anni vedrà incontri, feste, cene con scrittori famosi, pensatori di tutto il mondo, intellettuali amici. Arnoldo Mondadori non ci vorrà mai mettere piede. Non serve neppure annotare che l'indirizzo è via delle Silerchie (che sarà il nome della prima collana del Saggiatore) per cogliere che non solo di case di mattoni si tratta, ma in trasparente metafora di case editrici e dei loro fondatori, padre e figlio divisi dalle idee e imprigionati insieme, anche nello scontro più duro, dagli affetti.
E si tratta della vita di Alberto Mondadori, il destinatario della Lettera a mio padre (è il sottotitolo) che Nicoletta gli ha inviato trentacinque anni dopo la sua morte, l'uomo alla fine ferito dalle macerie crollate del proprio sogno: «A brandelli ti hanno fatto, aggredendoti alle spalle ti hanno strappato con rinnovata indifferenza tutto quello che avevi conquistato in un febbrile cammino. Hai seguito la liquidazione del Saggiatore come un deportato si avvia verso la fine, ma il calvario non ha avuto un limite, il male inferto ti ha gradualmente spinto verso il disfacimento interiore».
Mai finora la storia, pur nota, che dalla fondazione del Saggiatore nel '58 alla morte a Parigi di Alberto Mondadori, era stata raccontata in termini così crudi. Perché ora sì, Nicoletta Mondadori? «Ho sempre pensato che la versione un po' convenzionale e parziale che si conosce non rendesse piena giustizia né alla figura di mio padre né alla verità dell'impresa culturale che lo consumò. Ma naturalmente la spinta a fare questo piccolo libro è una cosa più complicata, ha a che fare con il mio desiderio di confrontarmi con la memoria di una figura centrale per la mia vita. Mi ci sono voluti anni per decidere di scriverle, queste 200 pagine, per molto tempo il dolore è stato troppo. Ho avuto un po' di aiuto anche dai miei figli».
In che modo? «Il titolo, che riecheggia Quasi una vicenda, con cui mio padre vinse il Viareggio per la poesia, lo ha scelto Giacomo, che fa lo sceneggiatore. Da Sebastiano, che scrive romanzi, è venuto il consiglio dell' incipit. Mi ha detto "non si comincia dalle reverie ma da un fatto preciso". Così mi sono ricordata che mio padre a Camaiore, mentre costruiva la casa, sembrava un bambino con il Lego. E sono tornata al giorno in cui decise quella rottura simbolica col padre».
Cosa aggiunge, questo? «Un aspetto poco detto di Alberto Mondadori, la molteplicità dei suoi interessi che non erano solo editoriali, ma per il cinema, il giornalismo, l'arte, la musica, la poesia. In Mondadori è stato per decenni dirigente editoriale, direttore di giornali, fondatore di collane. Era davvero il potenziale "creatore di un mondo". A Giancarlo Ferretti, che ha curato e introdotto il carteggio Lettere di una vita 1922-1975, lo studio più importante che ha finito per stabilire la vulgata sulla vicenda storica del Saggiatore, l'ho sempre detto: non mi convinceva fino in fondo perché lo rappresenta solo come sconfitto. Vorrei che si riconsiderassero non solo i sogni che non ha potuto realizzare, ma quello che è riuscito a fare. E cosa gli ha impedito il resto».
Lei riporta al centro lo scontro padre figlio. Giovanni Arpino parlò addirittura di "complesso di Don Carlos", la tragedia dell'infante ribelle e rivoluzionario di Filippo II ... «C'erano naturalmente anche aspetti ideologici, politici e culturali di quella contrapposizione tra caratteri che diventerà poi tra modi di concepire il mestiere dell'editore. Per tutta la vita c'è sempre il nonno che blocca le sue iniziative perché troppo di sinistra, elitarie, poco commerciali. Nel frattempo il Saggiatore è l'editore che rinnova più radicalmente il paesaggio culturale italiano, raccogliendo intorno a sé Banfi, Cantoni, Paci, Argan, D'Amico e introducendo da noi Sartre, Lévi-Strauss, Jung, De Martino, Starobinski. Ma io non ho voluto scrivere un libro di storia, neppure di storia dell'editoria».
È infatti soprattutto un mémoir intimo, intervallato da versi che Alberto Mondadori negli anni ha scritto per lei, ma squarciato da scene violente nella ricostruzione dei fatti. Come il fatidico '69 della rottura ... «Non potrei dirlo meglio di come l'ho scritto, meditatamente: "Quando la casa editrice rischiò una collisione con altri interessi, allora, come davanti a un inquietante irresponsabile, si materializzò una giuria compatta, allarmata non per pietà ma per paura di rimetterci denaro e per ipocrita decoro, non per pietà ma per un puro calcolo cinico e ottuso tutti, nemmeno un astenuto"».
Una specie di tribunale aziendale ... «Aggiungerei che in quel momento il Saggiatore era esposto con le banche, ma nessuno aveva chiesto il rientro. C'erano debiti ma anche grandi aperture di credito, tanto che mio padre poté liquidare tutto impegnando le sue azioni nell'azienda di famiglia, case, proprietà, ogni cosa».
Al prezzo dell'estromissione, e del crollo fisico e psichico: «Avevi spinto troppo le tue energie e il filo si stava spezzando».
Verrà poi un ricovero a Parigi dove sarà sottoposto alla pratica urtante alla sensibilità di oggi della "narcoanalisi" ... «Allora avevo sentito la parola, più avanti ho cercato di parlare anche con i medici che l'avevano praticata. Si trattava di colloqui con il paziente in stato ipnotico indotto da farmaci, per eliminare ogni inibizione dei suoi ricordi, e a riferirli. Allora come adesso, l'idea mi dà i brividi per la sua violenza. Tornò diverso, apparentemente ricostruito dentro una fragile corazza ...».
Qualche anno dopo, nel febbraio del 1976, la morte da solo, a Venezia. E appena prima dei funerali a San Michele, con le bandiere rosse al vento come aveva chiesto, nella sua ultima casa lei trova un dettaglio struggente. «Mi aggiravo in quelle stanze cercando la sua presenza. Mi sono imbattuta in uno scaffale carico di libri rilegati in brossura colorata, nuovi e intatti. Ho aperto le pagine ed erano bianche, non una parola o un appunto. Il lettore onnivoro, l'intellettuale autodidatta che aveva cercato nelle parole ogni risposta e pubblicato un catalogo che resta un pietra miliare, era morto circondato di libri vuoti». Oltre a un' immagine potente e disperata sembra un po' una profezia. Da quegli anni tutta l' editoria di cultura attraverserà crisi a ripetizione ... «Aveva il pregio e il difetto di essere in anticipo su tutti»." (da Maurizio Bono, I segreti di Mondadori, "La Repubblica", 23/08/'11)

Pierdomenico Baccalario: 'Mi è sempre piaciuto aver paura'


"Mi è sempre piaciuto aver paura. Da bambino ero terrorizzato dalle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, da Pinocchio e dalle favole dei Fratelli Grimm (nell'edizione Hoepli). Avevo il panico ogni volta che Alice incontrava un nuovo personaggio e non riuscivo a guardare le illustrazioni di Pinocchio mentre veniva impiccato. I Grimm, poi, avevano trasformatoi boschi di casa in un regno oscuro, popolato di creature affascinanti, che scomparvero solo quando mi fecero vedere i cartoni animati di Walt Disney.
Poi arrivarono i film spaventosi, che venivano trasmessi ad agosto, alla mezzanotte del venerdì. Ci si barricava in casa di questo o di quell'altro amico per guardarli insieme e farsi coraggio. L'horror era una categoria del fantastico, come la fantascienza e il fantasy, allora in netta minoranza. I libri si compravano per lo più in stazione e si sceglievano per colore: bianchi quelli della Fanucci (che pubblicava Tim Powers), oro e argento quelli della Nord (che aveva Fritz Leiber), grigi e azzurri quelli della Mondadori (che preferiva le antologie di racconti). Per poter leggere quella "robaccia" dovevamo far quadrato tra appassionati, infischiandocene delle critiche, della scuola e dei consigli dei parenti. Macinavamo paure immaginarie per crescere, o almeno sperando che funzionasse. Erano libri con regole di genere ben delineate. C'erano le oscure creature de I mostri all'angolo della strada di Lovecraft, la Praga mormorante de Il Golem di Gustav Meyrink, la New York ipocrita di Rosemary's Baby di Ira Levin. E l'amicizia era l'unica arma per rompere la ragnatela di It di Stephen King. I ragazzi non erano ancora diventati una categoria di marketing editoriale e, abbandonati nel limbo delle storie, avevano libero accesso a fantasmi, mostri e vampiri, angeli e demoni, alchimie e decadenze. Ce n'era per tutti i gusti, dagli zombi senza piedi di H. S. Whitehead (Storie indicibili), alla società dei cattivi bambini de Il Signore delle Mosche di William Golding. C'erano idee grandiose e abissi sconfinati, brividi sottili e persistenti. Sensazioni che oggi fatico a ritrovare con la stessa intensità, tanto da domandarmi dove siano finite, e di chi sia la colpa.
Non è certo una novità: già due secoli fa Dickens rimproverava a Poe di aver ridotto il gotico a una semplice atmosfera. Ma oggi l'orrore si è anestetizzato, riducendosi a semplice codice estetico, a scenografia per altre storie: il noir, il fantasy, il romanzo d'amore, persino la commedia (pensate a La Sposa Cadavere). Nella narrativa il fenomeno è iniziato probabilmente con il vampiro Lestat di Ann Rice che ambiva a diventare una rock-star, ed è continuato a impoverirsi fino ai giorni nostri. A ridefinire il genere è stata la speranza di conquistare le giovani lettrici, che consumano molti più libri dei maschietti, e l'idea, più generale, che nelle storie ci si debba identificare facilmente. Ecco allora le tante saghe pseudo-horror che popolano le nostre librerie da Fallen di Lauren Kate (Rizzoli) ai diari del Vampiro di Lisa J. Smith (Newton Compton). Tutte scritture capaci di trame senza intoppi che creano mode, look, segni distintivi, appartenenze. Che si chiamino Dark, Emo, Neo-Gothic, ai ragazzi è sempre piaciuto far parte di una cerchia ben definita. E definire i propri nemici. Angeli contro demoni. Vampiri contro mannari. Vivi contro morti. Noi contro voi. Ogni gruppo è minacciato, gli equilibri sono sempre fragili, le regole inviolabili, nessuno ci può capire. Fino a quando, ovviamente, i protagonisti ribelli non si innamorano e superano ogni difficoltà. Ripetitivo, ma in qualche modo iconico.
In The Enemy di Charlie Higson (De Agostini) i ragazzi sono gli unici sopravvissuti a una malattia che ha trasformato i Grandi in zombi: è una storia un po' videogioco e un po' reality show, ma è una buona metafora dell'incomunicabilità generazionale. "Per mio padre che io sia innamorata di un vampiro, di un angelo o di un ragazzo straniero è lo stesso problema" mi ha confidato una lettrice. E forse è di questo che sta leggendo, o che spera di leggere. Io avrei voluto fornirle alcuni consigli di lettura come Il bacio d'argento, di Annette Klause (Salani), Abarat di Clive Barker (RCS), Pan di Francesco Dimitri (Marsilio) o la graphic novel Swamp Thing di Alan Moore (Planeta). Persino un Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson (Adelphi), ma poi il suo ragazzo mi ha mostrato un libro che iniziava a pagina 625 e procedeva al contrario. Si intitola L'orda del vento, di Alain Damasio (Tea), un libro difficile, complicatissimo, che non risponde a nessuna logica di mercato. Lui mi ha detto che "è un capolavoro", convinto che io non lo stessi ascoltando. Si sbagliava. Ma non sul libro." (da Pierdomenico Baccalario, Vampiri o zombie, vince l'orrore soft, "La Repubblica", 23/08/'11)

Baccalario su IBS

Il rosa per ragazzi (da "La Republica")

sabato 20 agosto 2011

L'occhio della Medusa


"Esistono due scuole di fotografia, afferma Véronique, la protagonista di un racconto di Michel Tournier: quella che va a caccia d’immagini sorprendenti, emotive, sconvolgenti, e per far questo percorre paesi e città, giunge sui campi di battaglia e approda nei punti caldi del Pianeta, cercando momenti lampeggianti che illustrino «la straziante insignificanza della condizione umana, sorta dal nulla e condannata a ritornarvi»; e quella che invece non mira all’istante, bensì ad una sorta di eternità, perciò predilige l’immagine deliberata, immobile, calcolata, e ha quattro soggetti specifici: il ritratto, il nudo, la natura morta e il paesaggio. La dicotomia enunciata da Tournier, scrittore, che si è occupato molte volte di fotografia, sino a dedicargli un intero romanzo, La goccia d’oro (1985), è forse schematica, eppure sostanzialmente vera, con pochissime eccezioni che finiscono per confermare la regola.
Il romanziere francese è al centro dell’ampio e articolato saggio che Remo Ceserani, studioso di letterature comparate, docente universitario, ha dedicato al rapporto tra fotografia e letteratura, L’occhio della Medusa (Bollati Boringhieri), per la sua attenzione al mondo visibile, ma anche, e soprattutto, alle tecniche attraverso cui dal 1838 a oggi registriamo il mondo, le cose e le persone che esso contiene.
La fotografia appare ben presto nell’immaginario degli scrittori, nei loro racconti e romanzi, come qualcosa di magico e insieme di seducente. Fissa ciò che altrimenti appare fluido, inafferrabile, che non può essere conservato se non nella memoria, o attraverso la traccia della scrittura, altra attività magica, secondo un antico pensiero, e tuttavia meno direttamente legata al reale. E proprio per questo la fotografia, come manifesta il titolo del volume di Ceserani, ha a che fare con Medusa, ovvero con colei che pietrifica chi la guarda. Fotografia e scultura sono, secondo molti autori, strettamente legate.
André Bazin, teorico del cinema, in uno degli scritti più citati sulla fotografia
(Ontologia dell’immagine fotografica) suggerisce l’analogia fra atto fotografico e atto d’imbalsamazione, omummificazione, del soggetto stesso, sia in pittura, con i ritratti, sia in scultura, con busti e sarcofagi. La stessa origine dell’arte, cui la fotografia del resto appartiene, è connessa con il «complesso della mummia», scrive il critico francese.
Ceserani percorre a tratti in modo deliberato, a tratti quasi inconsapevolmente, questa pista, mettendo a tema il rapporto tra la fotografia e il «è-stato», su cui si è soffermato Roland Barthes in La camera chiara (1980); e così questo onnivoro saggio attraversa il tema della morte, declinato sul versante della identità e insieme della maschera.
Tre sono gli autori cui Ceserani dedica i saggi più ampi e ponderati: Italo Calvino, autore di un racconto, L’avventura di un fotografo, che ha ispirato Barthes; Tournier stesso con La goccia d’oro, che dà forma all’antica superstizione per cui l’obiettivo fotografico sottrarrebbe l’anima di chi è ritratto; e Antonio Tabucchi che in Il filo dell’orizzonte insiste proprio sul tema postmoderno dell’identità multipla dell’Io.
La fotografia ha introdotto nel mondo un dubbio sottile che colpisce e appassiona tanti scrittori (l’elenco che Ceserani ha steso al termine del volume di tutti i racconti e romanzi di argomento fotografico è lunghissimo): e tu chi eri? E dunque: io chi sono? Cos’è esattamente il dagherrotipo o il riquadro di carta sensibile in cui sono fissato per sempre? La maschera può sempre pietrificarsi, come ci racconta un trascurato romanzo di Paolo Maurensig, L’ombra e la meridiana, apparso nel 1998. Fotografare come cacciare, dice Calvino, come del resto hanno ribadito prima di lui, e anche dopo, innumerevoli scrittori: l’obiettivo come un mirino. La morte è in agguato dietro l’oculare della macchina.
E alla morte allude, seppur in forma rovesciata, uno dei film cult della seconda metà del Novecento: Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, ispirato a un racconto di Cortázar, La bava del diavolo. Il fotografo protagonista della pellicola scopre attraverso l’ingrandimento la presenza di un cadavere sulla scena da lui fotografata inconsapevolmente.
La morte è lì, ma non si vede; solo ricorrendo al dettaglio - altro grande tema
del saggio di Ceserani - si può ottenere una visione più ampia della realtà. Un paradosso: andando sempre più nel particolare (de-taglio come tagliare via), il reale si rivela a noi come tale per quanto si perda la sua visione d’insieme, lo sguardo generale sulle cose.
Come ci ricorda Ceserani nelle prime pagine, la fotografia è proprio questo: una visione del reale tagliata-via, un suo particolare: parte del tutto.
Cortàzar in un saggio dedicato al racconto fa una considerazione interessante: il romanzo è come il cinema, un «ordine aperto», che si sviluppa in vari modi e direzioni; il racconto è invece simile alla fotografia: deve circoscrivere e dettagliare per far apparire significativo ciò che narra. La foto come parzialità: un tema davvero interessante nel momento in cui la moltiplicazione delle immagini, grazie alla fotografia digitale, fa sì che abbiamo sempre più immagini del mondo da guardare e da mostrare, e insieme sempre più racconti, storytelling, per consolarci del Tutto che abbiamo perduto." (da Marco Belpoliti, Nella camera oscura il romanzo si illumina, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/08/'11)

L'occhio di Calvino

Quando la fotografia incanta gli scrittori (da "La Repubblica")

La prima vera bugia


"Luca è un bambino di nove o dieci anni sappiamo che va ancora alle elementari dal sussidiario che, con 'La settimana enigmistica', è fonte prima delle sue nozioni del mondo - e vive solo con la madre, bionda e fragile, capace di tenerezza e fugaci allegrie, immensamente triste. Il padre non c'è mai stato: è morto, o li ha abbandonati, Luca non sa e non chiede, perché nessuno ne parla. Soffre la vergogna terribile di essere orfano, dunque diverso dagli altri bambini, come portare sempre "un cappotto senza una manica". Soffre le crudeltà inconsapevoli dei compagni (soprattutto Antonella, di cui è innamorato in segreto) e le superficiali cortesie, involontariamente crudeli, dei grandi. C'è una nonna coi capelli viola, un po' svanita, comunque lontana, l'amica-gallina della mamma, papà occasionali che mugolano un po' dietro la porta della camera in fondo al corridoio e poi spariscono, un gattino chiamato Blu e nessun altro.
La prima vera bugia (et al. edizioni) comincia come una storia di ordinaria infelicità, ma si trasforma ben presto nella cronaca dell'inimmaginabile. O di "un' enorme porca merda", direbbe Luca, puntiglioso esegeta delle parolacce e di tutti i bizzarri gerghi del linguaggio adulto da cui è investito. Una mattina la mamma, a cui i sonniferi hanno rubato i sogni, non si sveglia. "Se le persone sono felici, non muoiono così, a caso" - la rabbia soccombe subito al senso di colpa - "Forse non sono stato capace di farla restare nella mia vita, di farla vivere almeno per me". L'orrore è inaffrontabile. All'incubo di essere diverso subentra il pericolo reale di finire in uno di quegli istituti visti nei film. Allora Luca sceglie la prima vera bugia: fare come se non fosse successo niente. Essere forte, d'altronde, è l'unica reazione possibile per un bambino precocemente adultizzato come lui, cresciuto nell'abbraccio di una madre depressa in cui non ci si può rifugiare né abbandonare, perché - sente Luca - è piuttosto come sostenere un peso.
Nel mondo indifferente che lo circonda, tenere in vita un simulacro di normalità non è impossibile: basta evitare i dettagli sbagliati. Capelli in ordine, unghie pulite, compiti fatti, aggiungere al cestello della spesa assorbenti o lamette da barba: si applica ai dettagli con disciplina inflessibile. Sono proprio i dettagli - crudeli, struggenti, sorprendenti a rendere affilata e potente la prosa di Marina Mander. Non emula i virtuosismi linguistici e narrativi di Safran Foer col piccolo Oskar di Molto forte e incredibilmente vicino, né replica la morbosità rarefatta de Il giardino di cemento (ma pare un implicito tributo a McEwan la copia di L'amore fatale che cade dal comodino della mamma morta).
La trama è scarna. Attraverso la voce asciutta del piccolo protagonista, le sue osservazioni lucide e involontariamente surreali, strazianti e talvolta esilaranti, senza concessioni al consolatorio né scivoloni nel patetico, l'autrice costruisce la cronistoria documentaria di un trauma, dall'interno. Come la mente di Luca cerchi di avvolgerlo, contenerlo, normalizzarlo, mimetizzarlo, contro lo tsunami della realtà che torna a perseguitarlo ogni mattina, quando sente suonare dietro la porta chiusa la sveglia della mamma cadavere. Nella narrazione tesa ed essenziale prende corpo l' impotenza disperata dei bambini ("gli adulti, se vogliono, possono andarsene, io no") e la loro capacità di mobilitare risorse inimmaginabili, il panico dietro l' apparente libertà di bestemmiare o fumare una sigaretta, lo sfuggirea una realtà insopportabile con fantasie di onnipotenza, sotto il cui peso crolleranno, "appassiti da un lato e ancora acerbi dall'altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo del vento", come scrisse Irène Némirovsky di un' altra infanzia terribile.
Marina Mander, che si era già accostata con sensibilità originale al mondo dei bambini col racconto Anosmia della raccolta Manuale di ipocondria fantastica, riesce a raccontare con precisione e pudica tenerezza il dolore indicibile di Luca, i suoi cedimenti nella campagna militare contro i dettagli, il calvario di cui solo il gatto è muto testimone. Attraverso questa parabola estrema, dà voce ai troppi bambini a cui è negato il diritto di essere protetti e amati. Bambini a cui nessuno presta attenzione, perché chi c'è non è capace, perché ci sono problemi più grandi di loro. Perché non si lamentano? Perché non parlano? Perché non danno segni di disagio? spesso se lo chiedono anche loro, cresciuti prigionieri dell'incantesimo dell' autosufficienza, senza potersi concedere di piangere un dolore mai detto, un male mai denunciato, segretamente accusando se stessi per non aver saputo essere adulti quando erano solo bambini.
In questo romanzo breve c'è una chiave per intendere come paura e vergogna inchiavardino terribili segreti famigliari, perché un bambino possa tacere il dolore, lo sconcerto, l'orrore, nel disperato tentativo di mantenere una "normalità", l'unica che conosce. Questo libro toccherà con dita brucianti chi ha conosciuto, in qualunque forma, il dolore di Luca. La prima vera bugia si legge d'un fiato, in apnea, scossi da folate di freddo, come il protagonista che trattiene il respiro nella casa vuota con le finestre sempre aperte. Come fanno i buoni libri, da una di queste finestre vi mostrerà un mondo, e non riuscirete facilmente a chiuderla, né a dimenticarlo." (da Benedetta Tobagi, Il bimbo narratore alla Safran Foer racconta il mondo, "La Repubblica", 20/08/'11)

Un regalo da Tiffany


"Brillano le vetrine addobbate, la neve cade in soffici fiocchi sulla 5th Avenue, Vanessa, Ethan e Daisy si rifugiano in un posto caldo a bere vino speziato e cioccolata bollente.
Nella fantasmagoria delle luci di Manhattan un solo negozio non ha bisogno di ulteriori arredi natalizi perché è già scintillante tutto l’anno con i suoi gioielli che confeziona in una sontuosa scatolina blu.
Noi però non siamo né a New York né a Natale, ma incollati alla sdraio per capire cosa diavolo succede a quel pacchettino con dentro un diamante montato secondo
il «classico stile di Tiffany». Se ci guardiamo intorno, sorpresa: la spiaggia è punteggiata di copertine color turchese.
Non siamo i soli che non si staccano da Un regalo da Tiffany (Newton Compton) che racconta come, a seguito di uno scambio di sacchettini del prestigioso punto vendita di ori e affini, si intreccino le vite di Ethan, prof di inglese vedovo e un po’ distratto, della sua simpatica figlia, della promessa sposa Vanessa e di due giovani donne di Dublino.
Uscito il 1° luglio in Italia, il libro della scrittrice irlandese sta correndo come un fulmine. La Hill, esclusivamente grazie al passaparola, è diventata la regina delle classifiche.
E questo racconto, che qualcuno, erroneamente, potrebbe interpretare come la versione zuccherina di un Natale in stile Vanzina, è il caso editoriale di queste settimane.
Sarà dunque il caldo, saranno le tensioni conflittuali dell’estate all’insegna della
crisi e delle polemiche, ma è un fatto che del tutto inaspettatamente una commedia romantica si posiziona in vetta alle preferenze (con 220mila copie stampate). A mettere in moto la vicenda, con ironia e inattese soluzioni, è un costoso
anello di fidanzamento acquistato in uno dei più sofisticati negozi del mondo. Il libro rimanda all’esile e magica figuretta di Audrey Hepburn che, nel film Colazione da Tiffany, di quei meravigliosi ambienti con teche di brillanti dice: «Non ci
può capitare nulla di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo».
Audrey, così sottile e intrigante, è oggi la vera icona minimalista ed elegante delle adolescenti che si appassionano a Un regalo da Tiffany. Che leggono, guarda caso, indossando tracolle e t-shirt con sopra stampigliato il bel volto
di Audrey, la imitano portando fuseaux e ballerine, mentre i pubblicitari
fanno della famosa attrice la loro testimonial preferita.
Il plot della Hill - tradotto in 18 lingue - ha sbaragliato nell’indice delle vendite autori ben più decorati, come il premio Strega Edoardo Nesi, Andrea Camilleri o Fred Vargas. Ma in Un regalo da Tiffany i personaggi non sono solo in lizza per conquistare l’amato bene e convolare a nozze. Il londinese Ethan
e l’irlandese Rachel vengono definiti «romantici e sognatori» perché, mentre la storia si dipana, si evidenzia l’insolita propensione a non lottare con le armi dei cinici e degli arrampicatori, a non voler superare le proprie difficoltà danneggiando gli altri, a essere sempre «pronti non a ferire ma a vedere il meglio delle persone».
Anche Terri, compagna di avventura di Rachel nella gestione di un localino dove si consumano spuntini succulenti, è nel drappello dei generosi altruisti.
La favola che si svolge tra Tiffany e il Plaza, tra New York, Londra e Dublino, non invita mai a un eccesso di consumismo, bensì a farsi paladini del benessere altrui, persino a discapito del proprio. Alla fine, come in tutte le fiabe, tutti i nodi verranno al pettine e trionferanno i migliori." (da Mirella Serri, Vado da Tiffany e vi regalo un po' di bonta', "TuttoLibri", "La Stampa", 20/08/'11)

Manuale sentimentale per costruire un vero bestseller (da "La Repubblica")

venerdì 19 agosto 2011

Amazon edizioni


"Quando riscriveranno la storia dei libri, e gli dovranno trovare un posto tra i papiri egiziani e Giovanni Gutenberg, Jeff Bezos da Albuquerque, New Mexico, dovrà pure spiegare com'è che si è presentato con quel titolo non proprio da grandi occasioni: Cuoco in quattro ore. Eppure proprio così, The 4 Hour Chef, si chiama il libro che rivoluzionerà il mercato editoriale. E con cui Bezos, il patron di Amazon, l'uomo che ha inventato Kindle, il lettore elettronico che ha lanciato il fenomeno ebook, trasformerà adesso la libreria più grande del mondo - la sua - in veroe proprio editore di libri: anche di carta.
Il Cuoco apparirà solo nella primavera dell'anno prossimo. Ma già fa mettere le mani nei capelli a Victoria Barnsley, l'amministratrice delegata di Harper Collins, il colosso dell'editoria, che alla Bbc confessa che la discesa in campo «è ovviamente un motivo di preoccupazione». Perché, come insegnava Marshall McLuhan, è sempre il mezzo che fa il messaggio. E il messaggio chiaro e forte è che tra autore e lettore non c'è più bisogno dell'intermediazione secolare di quel terzo incomodo chiamato editore. Passeremo direttamente dal manoscritto - si fa per dire: ormai anche gli eremiti scrivono al computer o sull'iPad - al libro - o meglio, anche qui, all'ebook. Capite perché la Victoria trema per la sconfitta? L'arrivo di Amazon Publishing era temuto da tempo. E il colosso di Seattle aveva annunciato la mossa nel maggio scorso. Reclutando a capo di un pugno di intraprendenti e tecnologissimi editor quel Laurence Kirshbaum che s'è fatto invece un fior di nome lavorando per quarant'anni tra libri ancora polverosi - ma autori sempre un passo avanti. Bestseller come David Baldacci, Nicholas Sparks, Scott Turow. E outsider del pensiero come Malcom Gladwell: il reporter-filosofo del New Yorker che ha coniato il concetto di Punto critico, I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, è il sottotitolo del libro più famoso di Gladwell (Rizzoli). E il piccolo Cuoco che l'editor Kirshbaum ha scelto per lanciare le edizioni Amazon è già pronto a fare il gran botto del cambiamento. Il libro è il terzo nella serie delle "quattro ore" che hanno trasformato in idolo il suo autore: Timothy Ferriss. Un vero e proprio big di quella categoria che negli Usa è catalogata come "self help". Il suo più grande successo è stato tradotto anche in Italia (Cairo): 4 ore alla settimana: ricchi e felici lavorando dieci volte meno. Che dire? Ferriss sa benissimo di non essere Dostoevskij ma non si sente certo né umiliato né offeso per essere stato scelto per il lancio di Amazon. Al New York Times ha confessato di «non sentire nessun tipo di perdita, tantomeno finanziaria» nell'aver abbandonato l'editore tradizionale, Crown, una divisione del gigante Random House. Anzi.
«Non è solo questione di scegliere con chi editore stare» spiega questo 34enne campione anche delle nuove tecnologie, con 270mila seguiti su Twitter e più di 100mila su Facebook. «La questione è: verso che tipo di editoria mi voglio orientare? I mie lettori stanno migrando irresistibilmente verso il digitale. E per me è perfettamente logico lavorare con Amazon per cercare di ridefinire il campo».
Proprio questa è la scommessa: ma c'è da giurare che stavolta, per ridefinirlo, non basteranno le fatidiche "quattro ore" dei suoi manuali di successo. Sono anni che Amazon studia il mestiere di editore. E gli esperti sono divisi sul significato che la sua svolta potrà dare. L'agente Richard Curtis rigetta le paure: «Non sono così convinto che sia la fine del mondo» dice ancora al New York Times. «Editori convenzionali continuano a fare affari in maniera convenzionale. Ecco perché prevedo per un lungo periodo un mix tra i due approcci: digitale e tradizionale».
Già: ma dopo? Amazon editore vuole dire che Jeff Bezos pubblicherà i suoi libri anche su carta. Ma c'è di più. «Trasformandosi in editore, Amazon si trasforma da venditore e distributore di contenuti in produttore» ci spiega Ken Auletta, l'autore di Effetto Google. «In fondo è proprio quello che ora Google ha fatto acquistando Motorola: così come il gigante di Mountain View entrerà in competizione con i produttori di telefonini che utilizzano il suo software, così Amazon entrerà ora in competizione con gli editori di cui vende i libri». Non è un caso che i vecchi librai, in testa Barnes & Noble, la più grande catena americana che con il lettore Nook ha lanciato la sfida a Kindle, abbiano già annunciato il boicottaggio di Amazon editore. Ma ovviamente del Cuoco usciranno anche la versione ebook e audiobook. E potrà rinunciare a venderlo la libreria virtuale di Nook? Potrà rinunciare a vederlo l'iBook store in cui Apple vende i libri per i suoi iPad? Bezos, che lanciò Amazon nel '94 come una grande libreria web, vendendo online i libri di carta, giura che è solo questione di tempo: il libro fisico scomparirà. «Se fosse vivo oggi» ha detto «anche Gutenberg riconoscerebbe che ha fatto il suo tempo: e ci lavorerebbe su». Sarà. Ma tutta la strategia di Amazon è un castello di carte e tecnologia, vecchio e nuovo. E gli ebook saranno anche il futuro: ma per adesso siamo a meno di un quarto del mercato globale. Insomma c'è ancora tempo, e spazio, per fare soldi su soldi su soldi vendendo e spedendo in tutto il mondo i vecchi libri di carta: tanto più se fatti in casa. E quando saranno tutti virtuali, chi si ricorderà più che una volta c'erano gli editori?" (da Angelo Aquaro, Amazon edizioni, "La Republica", 18/08/'11)

Amazon Set to Publish Pop Author (New York Times)

Amazon's publishing arm signs up Timothy Ferriss (The Guardian)

mercoledì 10 agosto 2011

Ritrovati a Cambridge i libri perduti della Duse


"Per gli storici di Eleonora Duse, quei libri che lei considerava il suo «unico vero guardaroba artistico», più degli abiti di scena e dei gioielli che facevano impazzire il pubblico d’Europa, si erano perduti per sempre. Scomparsi nello smantellamento della Libreria delle attrici che la divina aveva aperto a Roma nel 1914 e che era stata precipitosamente chiusa in piena guerra mondiale. Ora quella biblioteca, duemila volumi con annotazioni della Duse e petali di fiori tra le pagine, è stata ritrovata a Cambridge da una critica del teatro, Anna Sica, proprio dove nessuno aveva pensato che fosse, come quei tesori che sono davanti agli occhi e che nessuno vede finché non aguzza l’ingegno. Fu proprio la Duse a spedire i libri in Inghilterra, tra il 1918 al 1919, alla figlia Enrichetta, utili a costruire la carriera accademica di italianista del marito Edward Bullough. Una scoperta che è solo il punto di partenza di una ricerca appassionante che intreccia misteri familiari, conversioni religiose, spionaggio britannico, segreti accademici degni di un romanzo.
«Ero a Cambridge per tutt’altro lavoro sul verismo - racconta la ricercatrice palermitana - quando fui invitata al convegno mondiale sulla Duse alla Fondazione Cini di Venezia, che conserva i più importanti documenti sull’attrice. Mi chiesi che cosa mai potessi raccontare di nuovo su quest’icona del teatro. La folgorazione mi venne passeggiando: ma vuoi vedere che qui è rimasto qualcosa?». In pochi minuti si trovò davanti al numero 6 di Huntington Road, dove vissero Enrichetta e il marito Edward Bullough con i due figli Sebastian e Mary Mark, destinati a diventare entrambi religiosi.
Nel college di fronte, il Murray Edwards, c’era il tesoro, donato nel 1962 dai due giovani alla morte della madre come dono di Edward Bullough e per questo rimasto nascosto nonostante la prima bibliotecaria del Murray, Miss Sarah Newman, si fosse accorta che in quella collezione c’erano libri dell’attrice e nonostante l’attuale, Alison Wilson (che adesso collabora alla ricerca) avesse intuito che dietro quella donazione si nascondeva molto di più. «Sono entrata al college - racconta Anna Sica ho chiesto a miss Wilson se avessero qualche documento relativo all’attrice italiana Eleonora Duse, lei è sbiancata e mi ha aperto la porta dei depositi». Da lì l’avvio dello studio, che ha l’appoggio di Patrick Boyde, dantista di fama internazionale e accademico dei Lincei.
L’intero patrimonio di libri sarà svelato entro la fine dell’anno nel catalogo Murray Edward Duse collection in Cambridge, conteso attualmente da due case editrici britanniche. Una pubblicazione che, oltre a descrivere analiticamente il patrimonio (volumi autografati da Marinetti, Pirandello, Carducci, Arthur Symons, preziose cinquecentine e seicentine di Petrarca e Boccaccio, i libri della scapigliatura, quelli che le servirono a interpretare la Cleopatra di Boito, ma anche le poche dediche dell’amante D’Annunzio sopravvissute alla damnatio memoriae di Enrichetta) fa luce sui numerosi misteri che aleggiano sulla collezione. Già. Perché fu nascosta sotto il nome del genero della Duse, Edward Bullough? E perché la figlia della Duse strappò gran parte dei frontespizi con l’ex libris che testimoniava l’appartenenza dei volumi alla madre? Niente a che fare con contrasti tra la pia Enrichetta e la scandalosa attrice: «Le due si sono sempre adorate, donne indipendenti, consapevoli, emancipate», dice la studiosa. [...]." (da Laura Anello, Ritrovati a Cambridge i libri perduti della Duse, "La Stampa", 09/08/'11)

Ma pupa, Henriette (Marsilio)

Eleonora Duse, viaggio intorno al mondo (Skira)

Quando tutto tace


"Quando tutto tace di Alessandro De Roma (Bompiani) è un ben strano romanzo. Un ex cantante divenuto agente di spettacolo e poi mediocre imbonitore televisivo si trova oggetto dell'interesse di una donna storpia che sembra voler sapere tutto di lui, soprattutto il suo più doloroso segreto. La relazione tra Nello Bruni e Teresa de Carolis è l'elemento seducente della vicenda e sarebbe sufficiente da solo a farne un buon romanzo; ma sin dalla prima pagina De Roma decide di spiazzare il lettore mettendolo davanti a una storia dove i due personaggi e il loro autore agiscono su piani paralleli e comunicanti, varcando i confini con una naturalezza che è allo stesso tempo surreale e giocosa.
La meta narrazione è una tecnica letteraria così frequentata che gli autori che ancora hanno il coraggio di servirsene rischiano di essere accusati di uno dei peggiori peccati che uno scrittore possa commettere: la tentata performance, scrivere così per dimostrare di essere capaci di farlo. È un gioco pericoloso, uno di quelli che facilmente possono scadere nella stucchevolezza in mano a uno scrittore meno dotato e scaltro di De Roma. La regola è sempre identica: non sono i personaggi a spostare la loro condizione, ma è l'autore a farsi personaggio con loro, infilandosi nella trama che sta scrivendo. In questo gioco di specchi De Roma padroneggia il ruolo creativo generando un alter ego che inserisce nella vicenda in forma di elemento cogente; ma non è che un altro personaggio, una mise en abyme che sovrappone inganno a inganno, perché tanto più quella maschera sembrerà somigliare allo scrittore, quanto meno intenderà davvero essergli fedele.
Alla tecnica del meta romanzo De Roma è affezionato, l'ha già messa in atto nel suo romanzo d'esordio, e per quanto possa sembrare divertente in prima lettura, in realtà è un percorso inquietante. Destabilizza anzitutto lo scrittore che lo compie, perché lo costringe a chiedersi quanto occorra compromettersi con la propria narrazione per poterne preservare l'autenticità. Lo scrittore sa che non si può raccontare una storia fino in fondo senza accettare di divenirne parte, ma per divenirne parte occorre rinunciare a pretendere di raccontarla veramente. Sin dalla prima pagina chi scrive deve scegliere da che parte stare, accettando la contaminazione con la verità dei suoi personaggi in cambio della perdita di un po' di autorevolezza narrativa.
Scrivere in questo modo è camminare su un filo teso sull'abisso, ma se persino Truman Capote ha finito per guardare in basso troppo a lungo, De Roma non può certo illudersi di esorcizzare il baratro accontentandosi di metterne in scena la pantomima. Neppure il lettore può farlo. Il grado di contaminazione (e dunque di autenticità) a cui deve essere disposto a scendere lo scrittore misura la sua legittimità sul patto tacito che il lettore faccia altrettanto, perché non è possibile mettersi davvero a nudo davanti a qualcuno che pretenda di fissarti conservando i suoi abiti addosso. Il lettore in Quando tutto tace non ha infatti una vita facile: è costretto di continuo a cambiare soggettiva, ad accettare l'ingaggio con ogni sobbalzo della storia, sentendosi sempre in bilico tra la tentazione di volersi gustare il gioco narrativo senza preconcetti e il forte sospetto che l'autore abbia perso l'orientamento, facendogli rischiare la fine del delfino spiaggiato. L'affermazione disperata di Nello Bruni, dolente protagonista di una storia fatta di sconfitte da poco, risuona a fine romanzo come un'eco consapevole del pericolo: "Il lettore ci ha abbandonati". Non significa che ha smesso di leggere, ma che quella lettura ha cessato di rappresentare un contagio, una sovversione, il luogo di transito tra sé e la storia letta. Significa che chi legge si è distaccato, è tornato in sé e ha chiuso la sbarra del confine. De Roma di questo rischio non si cura, anzi riporta continuamente il lettore alla sua condizione di spione sulla soglia. Il miracolo di non mandarlo via del tutto è affidato alla sola forza emotiva dei due personaggi principali del romanzo, Nello Bruni e Teresa de Carolis, un uomo sconfitto dalla mediocrità di sé e un angelo storpio dalla curiosità taumaturgica, che finiranno amici, amanti, sbadato e badante, principio e termine di questa strana storia. Alessandro De Roma ha già dato ampia prova di sé con romanzi come Vita e morte di Ludovico Lauter, La fine dei giorni e Il primo passo nel bosco (Maestrale). Sa scrivere e lo sa. Se proprio bisogna trovare un difetto al giocattolo perfetto di Quando tutto tace è che di quando in quando si intuisce il meccanismo con cui è costruito; non assorda, però se ne ode lo scatto. Sono lampi brevi in cui il sipario sembra farsi più labile sfiorando la trasparenza, ma è una sensazione abbastanza sfuggente da lasciarti il dubbio di essere tu ad aver capito male." (da Michela Murgia, Quel gioco con il lettore. Viaggio nel metaromanzo, "La Repubblica", 09/08/'11)

Jeffrey Eugenides


"Jeffrey Eugenides è nato in una città industriale come Detroit e per anni è andato in vacanza solo nella zona nord dello stato del Michigan. Era un mondo completamente diverso, che iniziava negli immediati margini della città: praterie sconfinate che circondavano un lago grande quanto un mare, e boschi abitati da cervi e orsi. Quando parla della sua città racconta di avere "un amore perverso per Detroit" e di "essere ossessionato dal suo declino: a Detroit sono esemplificati alcuni dei principali elementi della storia americana, dal trionfo dell'automobile alle fabbriche con catene di montaggio, dalla piaga del razzismo alla grande musica: la Motown, Eminem, la house, la techno, gli MC5".
Lo scrittore, che ha appena completato il suo terzo romanzo in uscita ad ottobre (in Italia per Mondadori con il titolo La trama del matrimonio), è greco da parte di padre, mentre la madre discende da una famiglia scozzese e irlandese, ma si considera completamente americano, come dimostra la complicata epopea di Middlesex.
Ha un rapporto ambivalente con il concetto di vacanza, e tende a non separarlo dall'esperienza quotidiana, se non nel ricordo infantile. "C'è una differenza fondamentale, credo condivisa da tutti - racconta nel suo ufficio della Princeton University, dove insegna scrittura creativa - le estati della nostra gioventù erano segnate dalla fine della scuola, e davano l'impressione di essere infinite. Per questo se parlo di vacanza non penso solo a un luogo e a uno spazio ma soprattutto a un tempo. Al tempo".
Quali sono i ricordi delle sue vacanze giovanili? "Non ne ho uno specifico, tutto tende a fondersi in una sensazione di ebbrezza, che nasceva da questo rapporto con spazi e tempi "infiniti". Emozioni che hanno avuto un'influenza nel mio lavoro di scrittore: d'altra parte Flannery O'Connor diceva che tutto quello che si deve imparare per scrivere lo si impara prima dei quattordici anni".
Dove passava le sue vacanze? "Quando eravamo molto piccoli rimanevamo in città, ed è uno dei motivi per cui sento un legame così forte con Detroit. Anche allora, provavo l'idea che l'estate non finisse mai, che la scuola appartenesse alla pena quotidiana alla quale eravamo ingiustamente costretti. Poi, quando sono cresciuto, i miei hanno cominciato a mandarmi da solo in un piccolo villaggio del Nord Michigan chiamato Ponshewaing. E lì, in quel luogo lontano da tutto, con spazi aperti ed immensi, mi sono confrontato con l'idea di solitudine. Una grande esperienza di crescita".
Pensa ancora che la vita quotidiana sia una condanna rispetto alla vacanza? "Chi non ama le vacanze? Tuttavia sono cambiato e con me è cambiata la mia prospettiva sulla vita. Oggi le mie vacanze sono più brevi, e non sono quasi mai "isolate". La vera vita è quella che viviamo durante il resto dell'anno, e ho imparato ad apprezzarne i ritmi e i codici. Non riesco a divertirmi nel puro relax: mi spaventa l'idea di passare ore a non fare niente su una spiaggia".
Dove passa le sue vacanze da adulto? "In Europa. Vado spesso a Berlino: ci ho vissuto a lungo quando vinsi una borsa di studio con cui ho scritto il mio secondo romanzo, Middlesex. Ho imparato ad amarla, per i suoi ritmi così diversi dall'America, e anche dal resto dell'Europa. Durante l'anno vivo in un luogo delizioso ma puramente accademico come Princeton, ed è a Berlino che si svolge quasi tutta la mia vita sociale: lì i miei amici hanno un altro sguardo sulla vita".
Qual è lo scrittore che ha scritto in maniera più memorabile sull'idea di ricordo? "Ovviamente Proust. Ma mi piace citare Nabokov: nei suoi libri si legge sempre il ricordo di quanto aveva perso in Russia, la sua patria. Le sue pagine sono "beatitudini estetiche". E tengo sempre a mente quello che ha detto sulla letteratura: i grandi romanzi sono in realtà delle favole ".
È d'accordo? "È un'idea che mi è servita quando scrivevo Middlesex: in alcune parti ho cercato di avere un approccio da saga epica, cosa che ha molto in comune con i miti e le favole. In generale penso che il grande obiettivo della letteratura sia quello di fare una mappa della coscienza umana in una certa epoca. I romanzi sono un'immagine mentale di un periodo. Per questo danno piacere: mettono ordine al caos, diventano dei testimoni".
Tra i registi chi indicherebbe? "Fellini, che ha intitolato un film Amarcord, che nel dialetto della sua terra significa "mi ricordo". Nel mio nuovo romanzo due personaggi si innamorano andando a vedere insieme proprio quel film. Penso che un vero artista deve essere in grado di rendere universale un elemento intimo come un ricordo, proprio come fa Fellini con la sua città".
Cosa provava di fronte alle immagini di Rimini? "Era una Rimini passata, reinventata a Cinecittà. Ma quegli uomini e quelle donne appartenevano alla storia di tutti. Potevano essere amici o parenti dei miei antenati greci".
Che valore ha avuto il ricordo in Middlesex? "Dico solo che nella stesura finale ho tolto dettagli che potevano offendere alcuni parenti...".
Nelle Vergini suicide la voce narrante ricorda al plurale, mentre in Middlesex il ricordo è affidato ad un ermafrodito, cresciuto come donna, che comincia a vivere da uomo. "Mi piace scegliere voci difficili, forse anche impossibili. E credo che proprio partendo da queste voci si possa arrivare a svelare la realtà di quello che si vive e si è vissuto. Ogni narratore racconta una propria esperienza, e la difficoltà del raccontarsi a volte può trasformarsi in una chiave di lettura della propria intimità. Faccio un esempio che chiama in causa l'idea di vacanze: il mio approccio al tempo libero, infatti, è cambiato totalmente. Ma questo porta ad una domanda: avevo ragione da piccolo o ho ragione adesso?".
Si è dato una risposta? "Non credo sia possibile ma nello stesso tempo affiora la forza struggente di dettagli che dimentico nella quotidianità: la prima volta che sono arrivato in quel luogo nel Nord Michigan, il lago che aveva lo strano nome di Crooked Lake, i colori del tramonto, della notte, gli odori della prateria e del bosco".
Il ricordo delle vacanze è sempre bello? "Dipende da quale è per noi la vera vita. E questa, nonostante gli obblighi quotidiani, è una scelta che facciamo solo noi, nella nostra intimità"." (da Antonio Monda, Jeffrey Eugenides, "La Repubblica", 09/08/'11)

Generosity


"«Per buona parte della storia umana, quando l'esistenza era troppo breve e tetra per significare qualcosa ci servivano delle storie per compensare. Ma ora che siamo sul punto di vivere la vita, soddisfacente e quasi indolore che la nostra intelligenza merita, è ora che l'arte ci conduca oltre un nobile stoicismo». Che affermazione è quella che, proprio a metà libro, Richard Powers piazza in bocca a Thomas Kurton, il morbido "cattivo" del suo ultimo romanzo, Generosity, in una scena in cui questo personaggio – ingegnere genetico, scienziato senza più una morale a noi riconoscibile – viene invitato a dibattere in una conferenza sul futuro dell'umanità proprio insieme a un romanziere? Con una specie di mise en abyme, Powers ci svela proprio qui, a pagina 174, quella che è l'ennesima sfida che secondo lui la letteratura, in particolare il romanzo, può portare alle altre narrazioni della surmodernità che sembrano scalzarlo.
Forse l'intera carriera artistica di questo scrittore americano potrebbe essere rivisitata con questo schema: la letteratura contro tutti. Dove tutti sono le altre visioni che rischiano di ridurre l'infinita complessità dell'uomo a una visione parziale, salvifica o apocalittica che sia. Dal suo primo romanzo del 1985, Tre contadini vanno a ballare, in cui l'antagonista è la fotografia e la sua capacità di immortalare icasticamente; al capolavoro stilistico Il dilemma del prigioniero del 1988, in cui è la propaganda politica a essere sfidata; al suo romanzo classicamente post-moderno The Goldbug Variation (1991), in cui abbiamo a che fare con la sequenzialità sottesa a informatica e musica; alla capacità taumaturgica che alle volte attribuiamo alla medicina pediatrica – in Operation Wandering Soul (1993); al titanismo della cibernetica di Galatea 2.2; all'economia del mondo globale di Gain (Sporco denaro, secondo il brutto titolo italiano) del 2001; alla realtà virtuale di Plowing the dark; fino ai suoi ultimi tre romanzi acclamati dal pubblico oltre che dalla critica: l'opera-monstre Il tempo di una canzone (2003) in cui è direttamente la Storia con la S maiuscola a dover fare i conti con la pluralità romanzesca; Il fabbricante di eco (2006, vincitore del National Book Award) in cui il nostro bisogno di storie se la vede direttamente con le scienze della memoria (neurologia, psichiatria...); per finire con il libro uscito nel 2009 negli Stati Uniti e quattro mesi fa in Italia per Mondadori, Generosity. Qui: la narrativa ce la farà contro l'ingegneria genetica?
Scrittore per scrittori, considerato da molti un narratore freddo, cerebrale – tanto dotato di mezzi linguistici formidabili quanto poco coinvolgente da un punto di vista emotivo – Richard Powers ha portato avanti, libro dopo libro, con una caparbietà commovente – questa sì –, l'idea che il romanzo non possa esimersi dal compito che gli hanno attribuito i grandi scrittori del passato: aiutarci a conoscere il mondo, continuare a interrogarci con sempre maggiore intelligenza sulla questione umana. E se le visioni d'insieme diventano ogni giorno più complesse (prismatiche, multifratte), uno scrittore non può pensare di ritrovare in una sorta di ingenuità sentimentale il suo ruolo. Invece di liquidarlo come cerebrale, proviamo a usare l'attributo cognitivo. E se ancora questo lo definiamo massimalismo, pare sottintendere insieme a noi Powers anche in questo Generosity (un romanzo colto, ambizioso, intellettuale, ipermoderno...), sia.
Ma pensate cosa sarebbero uno Svevo, un Joyce o una Woolf che non avessero letto Freud? Pensate a cosa avremmo perduto se Kafka avesse ritenuto poco plausibile quel l'incipit con un uomo che si ritrova a essere uno scarafaggio? O se Günter Grass non avesse provato a rendere nel protagonista del Tamburo di latta tutto il dramma dell'Europa postbellica? O se Goncarov non si fosse concesso l'ardire di raccontare un pezzo di storia sentimentale del Novecento tutta in un quell'unico personaggio, Oblomov? O o o.
E anche qui, Powers, parte da un incredibile paradosso incarnato. C'è una ragazza algerina, Thassa, immigrata in America dopo aver visto il suo paese d'origine dilaniato da un'atroce guerra civile, una ragazza che sembra essere sempre felice. Ipertimica, come si dice in gergo psichiatrico. Com'è possibile? Che segno è per i nostri tempi di cinismo e malinconia? Se lo chiedono tutti quelli che la conoscono. L'insegnante di scrittura creativa che se la ritrova tra gli studenti del suo corso. La psicologa del college alla quale questo insegnante va a chiedere lumi e finisce per innamorarsi. L'ingegnere genetico di cui sopra. Una giornalista di un format tv sulla scienza che ne vuole fare un'eroina da teleschermo. E poi, piano piano, tutto quel mondo occidentale acculturato e a rischio depressione, che somiglia molto a noi lettori e che oggi si chiede se le pene dell'anima non siano altro che imperfezioni del Dna. Così, la questione attorno alla quale riesce a ruotare la narrazione di Generosity diventa ineludibile: se ci fosse data la possibilità di crescere un'umanità geneticamente più felice, l'accetteremmo? Tutti saremmo forse disposti a riscrivere un pezzo del nostro codice genetico per evitare ai nostri figli la possibilità di ammalarsi di fibrosi cistica, ma: se ci venisse concesso di modificare gli equilibratori dell'umore?
La risposta che nella conferenza il romanziere restituisce a Kurton, lo scienziato, sembra in parte quella che Powers allestisce nel resto delle pagine del libro: «Quando la narrativa diventerà reale, alla realtà servirà un ceppo narrativo più resistente». Sì, la risposta è semplicemente un ampliamento della domanda. È questo il nostro mondo, ci mostra Generosity: un'umanità in overload. Un sovraccarico cognitivo, emotivo, psichico... Un universo popolato da bambini iperconsapevoli che si sanno perfettamente destreggiare in città virtuali sulle loro playstation, storie d'amore che somigliano a terapie psicanalitiche, una politica governativa che pare improntata a guarire la popolazione da una forma diffusa di stress post-traumatico, eccetera eccetera. Cosa vorrà dire felicità per questi uomini?" (da Christian Raimo, Un'ingiustificabile felicità, "Il Sole 24 ore", 07/08/'11)

Generosity by Richard Powers ("The Guardian")