venerdì 30 settembre 2011

L'indice della paura


"Il protagonista di L'indice della paura, ultimo romanzo dello scrittore inglese Robert Harris, autore di bestseller come Fatherland e Il ghostwriter? Un algoritmo. Lo strumento che ha spinto Standard & Poor's a declassare il rating dell'Italia? Un algoritmo.
La chiave del successo di Google, il motore di ricerca più cliccato del pianeta? Un algoritmo. Dalle previsioni meteorologiche allo shopping, dai trasporti alla finanza, dal marketing alle comunicazioni, senza dimenticare ovviamente l'informatica, è ovunque: un'icona o forse una cura per questo nostro tempo di incertezze. Eppure molti neppure sanno che cosa sia esattamente, o se lo sono dimenticato dall'epoca in cui facevano algebra a scuola.
Una consultazione del dizionario fornisce questa sintetica definizione: algoritmo significa "qualunque schema o procedimento sistematico di calcolo".
Wikipedia, l'enciclopedia collettiva online, lo dice in termini più filosofici: è un metodo per ottenere un certo risultato, per risolvere un certo tipo di problema, attraverso un numero finito di passi. Come dire che è la base di tutto. Magari lo è sempre stato, ma una serie di coincidenze sembrano dirci che ora è venuto il suo momento.
In un recente discorso alla TedGlobal Conference, convegno di cervelloni impegnati a scrutare il presente per predire il futuro, lo scienziato informatico Kevin Slavin ha sostenuto che siamo di fronte a un profondo mutamento: «La matematica sta vivendo una transizione dall'essere qualcosa che estraiamo e deriviamo dal mondoa qualcosa che comincia a modellare e decidere la forma del mondo».
Suona un po' complicato? Allora leggete il nuovo romanzo di Harris, il cui eroe non è un detective o un agente segreto o un giudice, bensì un creatore di programmi per computer che un giorno disegna un algoritmo in grado di prevedere i movimenti dei mercati finanziari - e di migliorarsi continuamente da solo. Fantascienza? Pochi giorni fa il Sunday Times riportava la notizia che un hedge fund (fondo di investimento speculativo) britannico sta usando un nuovo algoritmo per analizzare il traffico su Twitter, il sito di social network, per predire l'andamento della Borsa. E non è certo fantapolitica la notizia che il rating economico e finanziario delle nazioni, stabilito da agenzie come Standard & Poor's, nasce da algoritmi che distillano i fattori-chiave, i fattori eccezionalie gli imprevisti: soltanto Silvio Berlusconi, a quanto pare, crede che sia solo colpa dei giornali. «Viviamo in un Algo-World», in un Algo-Mondo, taglia corto il suddetto programmatore di sofware Slavin, affermando che c'è un algoritmo dietro tutto (o quasi) ciò che facciamo, dalle cose che compriamo al valore del denaro che spendiamo. Beninteso, gli algoritmi esistono da un pezzo, e il professor Slavin ne è certamente consapevole. Erano già presenti di fatto nella matematica babilonese, cinese e del Kerala; uno dei primi autori a farvi espressamente riferimento, e a dargli il suo nome, fu nel IX secolo dopo Cristo il matematico persiano Mohammed ibn Musa I-Kwarizmi (dal quale prende le origini anche la parola "algebra"). Si sa che ha quattro proprietà fondamentali: la sequenza di istruzioni deve essere finita, deve portare a un risultato, deve essere eseguita materialmente, e deve essere espressa in modo non ambiguo. In senso ampio, perciò, anche una ricetta di cucina o il libretto di istruzioni di una lavatrice sono algoritmi. Ma è indubbio che ultimamente ne sentiamo parlare più spesso. I programmi per computer sono fatti di algoritmi: basterebbe questo a spiegare perché viviamo in un Algo-World.
Ma una volta acceso il nostro computer, quale è una delle prime operazioni che facciamo? Andiamo su Google in cerca di qualcosa - qualunque cosa. Ebbene, in poco più di un decennio Google è diventato una delle aziende più ricche del mondo per una sola ragione: ha algoritmi migliori della concorrenza. Ma non è solo Google a usare gli algoritmi per rendere tutto più semplice (e per fare una barca di soldi). Gli strateghi del marketing utilizzano algoritmi per guidare le loro campagne pubblicitarie. Gli speculatori di hedge fund e di Borsa usano algoritmi per decidere dove investire i propri capitali. Le linee aeree si servono di algoritmi per stabilire il costo più economico dei loro voli, ma non solo: il dottor Jason Steffen, uno studioso del Fermi National Accelerator Laboratory dell'Illinois, ha elaborato un algoritmo in grado di individuare la maniera più rapida ed efficiente per riempire di passeggeri un aereo (bisogna farli salire dalla porta posteriore, a file alternate, riempiendo prima i posti vicini ai finestrini su un lato dell'aereo e poi su un altro - facendo così l'intera procedura si conclude in 216 secondi anziché nei 414 del metodo convenzionale).
E ancora: iTunes usa algoritmi per costruire compilazioni di canzoni che stanno bene insieme. Più di metà di tutti gli acquisti di film fatti online sono determinati da raccomandazioni algoritmiche. Facebook usa algoritmi per capire chi ha più probabilità di diventare un "amico". I servizi segreti usano algoritmi per identificare possibili sospetti terroristi. Transport for London, la società che sovrintende i trasporti nella metropolitana (3 milioni di passeggeri al giorno) e sui bus (4 milioni) di Londra usa algoritmi per stabilire l'itinerario più veloce per andare da un punto all'altro della città. I semafori si accendono di verde, giallo e rosso al comando di algoritmi, per regolare il traffico nel modo più efficiente. Le grandi catene di supermercati sfruttano algoritmi per decidere come distribuire i propri alimentari su tutto il territorio nazionale. Ci sono algoritmi dietro i suggerimenti su dove andare a cena o a ballare o a fare shopping forniti dalle applicazioni del vostro iPhone.
Il problema è che il progresso tecnologico dell'ultimo decennio ha reso gli algoritmi sempre più complessi e dato loro un controllo sempre più grande sulla nostra vita di tutti i giorni, suscitando apprensioni su fino a che punto saremo in grado di seguire quello che fanno. Proprio colui che annuncia l'avvento dell'Algo-Mondo, l'informatico Kevin Slavin, ammette con l'Evening Standard: «Scriviamo calcoli che non siamo più capaci di leggere». Il campo in cui suscitano maggiore allarme è quello finanziario, dove tre quarti delle funzioni sono ormai operate da computer, non da umani: un trading che non a caso si chiama in gergo "blackbox" (scatola nera), perché vediamo cosa ci entra e cosa ne esce, ma il processo che si svolge durante la transazione resta invisibile. La velocità a cui avvengono questi calcoli è un'altra fonte di interrogativi: una compagnia privata ha steso fra le Borse di New York e Chicago un cavo a fibre ottiche che trasmette segnali 37 volte più rapidi del clic di un mouse del computer. E un'altra è la potenza: il servizio meteorologico britannico, anch'esso dipendente dagli algoritmi per le previsioni del tempo, adopera un supercomputer capace di un miliardo di calcoli al secondo. La consolazione è che talvolta sbaglia lo stesso, predicendo una "estate da barbecue" quando invece ne arriva una di pioggia a dirotto: forse nessuno è infallibile, neppure un algoritmo. E poi in Inghilterra conviene sempre portarsi dietro l'ombrello." (da Enrico Franceschini, La formula del mondo, "La Repubblica", 29/09/'11)

mercoledì 28 settembre 2011

School Rocks! La scuola 'spacca'


"Avete presente la scena di Apollo 13 in cui un team di cervelloni cerca, da terra, di risolvere un problema dell'astronave in volo, avendo a disposizione solo i materiali che ci sono a bordo? School Rocks! (San Paolo edizioni), il libro di Antonio Incorvaia (già autore di Generazione Mille Euro) e Stefano Moriggi, ricercatore, funziona così: parte da problemi reali, quotidiani, dei ragazzi, per trovare soluzioni usando gli strumenti dell'esperienza e del sapere. «È l'idea di una scuola fatta per problemi e non per materie. Già ci aveva pensato nell'Ottocento il pedagogista americano John Dowey, poi Maria Montessori. Lo stesso fanno oggi gli studenti del Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston», spiega il milanese Moriggi, 39 anni, filosofo della Scienza e divulgatore. Insegna teorie e modelli della razionalità e filosofia della tecnologia all'Università di Bergamo e alla Bicocca, cioè «i metodi di apprendimento e le forme di comunicazione dei nativi digitali». I giovani sono «multitasking, abituati a interagire con le tecnologie, immersi in una galassia logica che si tratti di giochi o virtuale».
Come dire, se non si fosse capito: del greco o dell'algebra in sé «non gliene può fregare di meno». «Se parti dalle materie è difficile vedere l' utilità pratica - spiega Moriggi - ma se il punto di partenza è il problema allora la prospettiva cambia. Si capisce meglio la fisica di Galileo provando a risolvere i problemi dello scienziato». Venti «scene-tipo» Il manuale propone una ventina di situazioni-tipo («20 ottimi motivi per capire che saperne di più conviene sempre», si legge nella quarta di copertina), scene dalla vita degli adolescenti: innamoramento, rivalità, cena con i parenti (tortura per ogni teenager) e grandi domande sul senso della vita. Per tutte il «metodo» School Rocks - pensato per un target allargato di lettori «adolescenti dalla terza media, professori e genitori» - vuole «restituire al sapere concretezza e pragmaticità» e creare un domani «cittadini più consapevoli». Il che significa, però, che i riferimenti devono essere quelli giusti. A misura di studenti che quando sentono «Amor, ch'a nullo amato amar perdona» pensano subito a Jovanotti e poi (forse) a Dante. Per capire la politica vale certo la pena conoscere il trattato del generale Karl von Clausewitz ma anche guardare un reality show, «la logica del consenso che sta dietro è la stessa». Solo così la scuola, invece di rompere e annoiare, «spacca», cioè colpisce nel segno. Per «Imparare a imparare» come scrive nella prefazione, e canta su YouTube, il rapper Frankie Hi-Nrg fanno comodo Eraclito, Darwin, Karl Popper ma pure Negramaro, Lady Gaga e Twilight. E chi non sa chi siano vada, secondo la propria ignoranza, alle voci «Perle ai ... prof» - dove gli adulti possono trovare il senso dei riferimenti alla cultura contemporanea - e «SOSms», che vengono in soccorso ai ragazzi spiegando rapidamente chi era quell'autore e perché la sua opera è importante. Cultura alta e bassa «La cultura è irriverenza - conclude Moriggi - senza distinzioni di alto e basso. Come fa Bollani con la musica passando da Mozart a Gigi D'Alessio». «Non vogliamo sostituirci agli insegnanti ma essere un stimolo per loro e per gli studenti» spiegano. Parafrasando il saggio sulla scuola di Paola Mastrocola: «Noi non togliamo il disturbo, anzi andiamo a rompere le scatole proprio dentro la scuola. Perché il rischio è di perdere una generazione di ragazzi». «Io ci ho provato». Chissà che tipo di studenti sono stati gli autori di School Rocks. Risponde Incorvaia: «Studiavo ma senza capire a cosa mi sarebbe servito. Questo libro è una vendetta verso me stesso, per come ero. Che ammette di aver testato su di sé l'approccio School Rocks. Come? «Curiosando tra la biografia dei Take That ho capito la rivoluzione industriale e la Pop Art. È una questione di corsi e ricorsi storici»." (da Colombo Severino, Da Aristotele a Twilight così la scuola «spacca», "Corriere della Sera", 27/09/'11)

Il mercante di libri maledetti


"In dieci giorni è già secondo nella classifica dei più venduti, senza che i grandi media se ne siano interessati, senza pubblicità, senza televisione. Il mercante di libri maledetti, thriller medievale di Marcello Simoni (Newton Compton), sembra arrivato in totale silenzio, quatto quatto come dal nulla. In realtà non è proprio così. Intanto è arrivato dalla Spagna, perché l’autore, bibliotecario a Comacchio, ha scelto un cammino abbastanza tortuoso verso la notorietà. L’inedita triangolazione, ci racconta, è nata dal caso. Lui, trentasei anni, medievista e archeologo, una solida reputazione per gli studi sull’abbazia di Pomposa, quando si trovò ad aver scritto un romanzo nato dalle sue frequentazioni storiche, come tutti gli esordienti si chiese che fare.

«Dall’Italia non arrivavano risposte, così spedii una serie di email a case editrici spagnole. In fondo il mio protagonista si chiama Ignazio da Toledo», spiega. E non solo. Ignazio è anche un mercante di libri e reliquie, di origine mozaraba e dal passato oscuro, che si aggira nell’Europa del Trecento per ritrovare un antico tomo che consente di evocare gli angeli, rubato anni prima a un monaco in fuga precipitato in un burrone. Una buona storia per gli spagnoli, in attesa degli italiani? Pare proprio di sì: molti non gli rispondono, ma una editor lo invita a inviare il testo. Il libro piace, esce col titolo El secretos de los quatros angeles per Boveda, e vende benino. A questo punto Simoni si trova un agente, e il gioco è fatto.

Alla Newton Compton ci credono, anche perché sono reduci dal buon successo di un romanzo consimile, Il libro segreto di Dante , di Francesco Fioretti. Spiega l’editore, Raffaello Avanzini: «Abbiamo deciso di puntare sui librai, e soprattutto su quelli indipendenti. Già a luglio si è preparata un’edizione speciale per loro. Insieme a un piccolo sito Web, con i primi due capitoli. Abbiamo lavorato tanto». Una pioggia di gadget si è abbattuta su librerie piccole, medie, grandi e di catena. Il resto lo ha fatto l’ormai mitico «passaparola», formula magica per spiegare i successi inaspettati, ma è stato un passaparola assai elettronico.

Il mercante di libri maledetti è rimbalzato sui siti specializzati in romanzi storici, fantasy, thriller, gotico, horror. «Su uno dei più seguiti, Thriller Magazine, ho avuto una recensione che mi ha inserito in un discorso di genere di cui non conoscevo l’esistenza, gli “pseudobiblia”» racconta l’autore. E deve avergli giovato quanto un passaggio televisivo. Che si tratti di romanzo di genere non c’è dubbio.
Ma non verrebbe più immediato accostarla all’Umberto Eco di Il nome della rosa? «Non saprei. Intanto il mio è un thriller, non un giallo, e poi non ci sono digressioni saggistiche. In Eco le vittime sono già bell’e morte, a me invece piace ammazzarle in diretta» scherza Simoni. Se proprio deve pensare ad autori che lo hanno influenzato, parla di Salgari e Jack London. Gli piace l’avventura, senza preoccupazioni linguistiche. Progetto letterario? «Scrivere qualcosa che piaccia alla gente».

Il simpatico archeologo di Comacchio incarna in qualche modo un nuovo modello, che si sta imponendo con rapidità. Non è solo il successo del romanzo storico di ambiente medievale: è quello di libri che si affacciano al mercato in modo diverso da prima. In America è ormai frequente il caso di autori autopubblicati che ottengono un buon riscontro e vengono successivamente rilanciati dalla grande editoria: Figlia del silenzio, di Kim Edwards, ora tradotto da Garzanti, è uno di questi, storia un po’ strappalacrime di due gemelli separati dalla nascita, uno dei quali, una bambina, ha la sindrome di Down. E proprio in casa Garzanti quest’anno si sono raccolti frutti assai generosi da titoli che del passaparola hanno fatto la loro forza: da Il profumo delle foglie di limone di Clara Sánchez a Il linguaggio segreto dei fiori di Vanessa Diffenbaugh e infine Avevano spento anche la luna di Ruta Sepetys.

«Forse abbiamo aperto un filone» dice il direttore editoriale Oliviero Ponte di Pino. Come lo definirebbe? «Romanzi di formazione su tematiche importanti, storie interessanti ben raccontate». E almeno a prima vista, niente affatto consolatorie: la Sánchez parla di nazisti, la Sepetys di Gulag staliniani. Anche in questi casi, trattandosi di autori sconosciuti in Italia, ben prima dell’uscita sono state inviate le bozze ai librai, e si è lavorato sui blog molti dei quali ormai ricevono dagli editori un’attenzione pari a quella degli altri media. Il linguaggio segreto dei fiori è un caso a sé: venduto nel 2010 alla Fiera di Londra un po’ in tutto il mondo a cifre da bestseller, era fin dall’inizio un romanzo su cui si appuntavano grandi attese.

Il titolo suggestivo deve avere parecchio aiutato questa storia di una ragazza difficile che, come spiega il suo dossier nel sito a lei dedicato, «ha l’abitudine di preparare mazzi di fiori di cui solo lei conosce il significato». Ancora una volta, un sito piuttosto ricco e articolato torna al centro della macchina promozionale. Non è indispensabile: per esempio, non ci risulta che la Marsilio ne abbia uno dedicato a Roberto Costantini, ingegnere e dirigente della Luiss di Roma, romanziere esordiente a 58 anni, che appena uscito con un monumentale thriller, Tu sei il male, ha cominciato subito a scalare le classifiche. I suoi video e le segnalazioni in rete sono già numerosissime ed entusiaste.

Il romanzo, 669 pagine, mette in scena un commissario dal passato ingombrante nella destra extraparlamentare alle prese con un delitto romano (una ragazza il cui cadavere galleggia nel Tevere), in una vicenda che si snoda tra il 1982 e il 2006: due celebri partite ai Mondiali di calcio e tanti misteri italiani. È il primo tomo di una trilogia, il che fa pensar subito a Stieg Larsson, e come il giallista svedese non mostra la minima preoccupazione linguistica. È tutto trama, una storia senza linguaggio che sta conquistando lettori. Nessun bestseller viene dal nulla, ma non è detto che l’era del passaparola - elettronico o meno - sia davvero la terra promessa di una nuova «democrazia» della lettura." (da Mario Baudino, Il bestseller venuto dal passaparola, "La Stampa", 28/09/'11)

sabato 24 settembre 2011

Diario di lettura: Cesare Segre


"Ottantatreenne di molte aperture, Cesare Segre è nato a Verzuolo, in provincia di Cuneo, dove il padre era impiegato presso le Cartiere Burgo (la famiglia dovette poi trasferirsi a Milano e a Milano Segre vive tuttora). Professore di Filologia romanza per poco meno di cinquant'anni a Pavia, la disciplina gli fu rivelata dallo zio Santorre Debenedetti, a cui fece da segretario.
Ma lui ama considerarsi il frutto di una formazione solitaria che - senza venir meno alla solidissima preparazione specialistica - ne ha da sempre alimentato l'infinita curiosità. Una curiosità attiva nelle numerose opere di romanistica e di italianistica (i lavori più importanti sono l'edizione critica della Chanson de Roland e dell'Orlando Furioso), ma poi tutto un fitto studio di autori, da Bono Giamboni a Petrarca, da Boccaccio ad Ariosto, da Dante a Montale). La stessa che muove l'esercizio dell'interpretazione e della riflessione teorica praticato
abbattendo steccati di genere (Teatro e romanzo), scavalcando recinti (La pelle di San Bartolomeo), cimentandosi con molti autori contemporanei (almeno la raccolta Tempo di bilanci). Per non dire della scrittura narrativa in libri come Per curiosità, «una specie di autobiografia», o come Dieci prove di fantasia (Einaudi), i racconti e i dialoghi (sempre un gusto di rimescolare e di contaminare) usciti l'anno scorso dalle pieghe di una materia ben nota ma diversamente scrutata.
Professore, in Per curiosità lei sostiene di non essere stato un lettore precoce. Ma fa i nomi dei russi della Slavia e di Einaudi, parla del dominio di Victor Hugo ... «Sono vissuto in un ambiente abbastanza colto ma senza uno speciale interesse per la letteratura. Anche se mia madre era una grande lettrice e in casa circolavano molti libri. L'unico criterio di valutazione esplicita era che un libro fosse o non fosse adattoa bambinio ragazzi».
Fumetti? «Sì, certo. Topolino e anche Il Corriere dei Piccoli. Ma mi divertiva di più Topolino, mi pareva più moderno».
Lei cita anche Salgari, Verne, Cooper, London, Stevenson. Tra Verne e Salgari?
«Salgari, Salgari. Lo leggevo da lettore appassionato, un titolo dopo l'altro, una lettura bulimica. Avevo dieci anni, avevo bisogno di avventura e l'avventura la trovavo lì. La parola letteratura non la conoscevo. Fruivo delle offerte dei libri ma al di là del piacere del leggere non pensavo potessero avere altre finalità».
Il tutto cominciò nell'anno e mezzo della vita di segregazione che lei visse
sotto falso nome alla Madonna dei Laghi di Avigliana, per evitare il peggio della stretta razziale dopo l'Armistizio? «Sì. Quel periodo lo considero come un ampliamento degli studi ginnasiali concentrati sul greco, sul latino, sul francese. Lì mi sono allargato agli altri paesi. Lì ho avuto il primo vero contatto con la letteratura. Traducevo testi che costituivano un piccolo canone: Shakespeare (Amleto), Goethe (la prima parte del Faust), il teatro spagnolo (La vida es sueño di Calderón). E facevo letture ancor più decisive: Sant'Agostino e Montaigne, i due estremi. Terzo filone, le letture di critica, molto meno numerose ma formative, perché ho incontrato allora, per puro caso, l'opera di De Sanctis e qualche numero della Critica di Croce».
De Sanctis con qualche diffidenza o sbaglio? «La mia maturazione è nata in polemica con De Sanctis. L'impressione (erronea) che ne avevo era un eccesso di sentimento sia da parte del critico sia da parte dell'oggetto della sua ricerca. Avevo coniato la categoria dei sentimental-romantici. Ma poi che esistesse altra critica lo ignoravo».
Anche la Treccani ha fatto la sua parte, no? «Per un motivo che non saprei precisare avevo preso una grande passione per la Storia dell'Arte e leggevo appunto la Treccani, ne riproducevo le tavole. Tutta la cultura per me era la Treccani. Ma questo già da prima del soggiorno di Avigliana».
Non abbiamo ancora parlato della Bibbia come libro della formazione. «La Bibbia è appartenenza, come negarlo? Ma in quegli anni ho affrontato per la prima volta il Nuovo Testamento, i Vangeli, che leggevo già con mentalità filologica, prediligendone ora l'una ora l'altra versione».
Lì si è allenato anche lo spirito del controversista. «Sì, ma si è allenato anche alla lezione di insegnamenti formidabili: le Osservazioni sulla morale cattolica
di Manzoni e soprattutto le Provinciales di Pascal per la forza con cui la religione viene vissuta e rappresentata in una specie di dramma dell'intelligenza. E alla lezione degli illuministi, come Voltaire o Diderot piuttosto che Rousseau, perché nella follia della guerra, della persecuzione, dell'odio sapevano dirmi cose ironiche e satiriche, che per me furono una vera medicina».
A lei che ha frequentato e frequenta tante letterature, posso chiedere di fare un gioco? Tra Spagna, Germania, Inghilterra, possiamo estrarre qualche nome imprescindibile? «Vuol farmi vergognare delle mie lacune? ma proviamo. Degli spagnoli mi sono occupato molto e da quel capolavoro che è la Celestina (fine Quattrocento inizio Cinquecento), fino al Novecento. Ma direi proprio la Celestina, e poi Cervantes, Góngora e Machado. Tra i tedeschi mi sono cari Thomas Mann, Musil, Broch (specialmente La morte di Virgilio) e naturalmente Kafka (tedesco solo di lingua). Tra gli inglesi Shakespeare, la Woolf e Beckett, una delle cime della letteratura universale. Ma mi accorgo che trascuriamo i russi e il portoghese Pessoa».
Come trascurare il filone di letture legate alla Shoah, dalla Picciotto Fargion a
Primo Levi? La consapevolezza del confine - come lei dice - «tra Avigliana e
Auschwitz». «Dal Libro della memoria della Picciotto Fargion ho appreso la data di gassificazione ad Auschwitz dei miei parenti più sventurati. Quanto a Primo Levi, secondo me è uno dei massimi scrittori non solo del Novecento, che dovrebbe avere posto in qualsiasi canone della letteratura».
Un'antologia di letture come quella che Levi fece, La ricerca delle radici, lei la farebbe? «Non mi è stato mai proposto, ma non la farei. Perché costruire
la propria biografia sulla base delle letture ha un significato soltanto a posteriori. La nostra vita è mescolata alle letture ma non la si può agganciare soltanto a una successione di titoli».
Senza contare che verrebbe da interrogarsi non solo sulle presenze, ma anche sul perché di certe lacune ... «Sì. A volte casuali, a volte più significative. Ad esempio, per quanto mi riguarda, mentre propugno entusiasticamente Gabriel García Márquez, dovrei spendermi per nomi altrettanto grandi come quello di Guimaraes Rosa. Purtroppo io conosco il portoghese ma non quello di Guimarães, che richiede ben altra competenza».
Che dire dei grandi incontri? García Márquez, giustappunto. Ma anche Schapiro, anche Montale? «Di García Márquez colpiva quello che chiamerei il suo nazionalismo
latino-americano, la speranza che i suoi libri, portando tutto su un livello iperbolico e fantastico aiutassero gli europei a portarsi al di sopra dei luoghi comuni. Di Montale mi sono sentito libero di scrivere solo dopo la sua morte perché, lui vivo, non volevo turbarne indiscretamente il modo di essere. Per Schapiro era la capacità di guardare ai problemi partendo da un'infinità di suggestioni. La sua casa finiva per trasformarsi in un insieme di cose, di oggetti, che in modo lieve e non didascalico erano collegabili con l'intero universo dei segni».
Se veniamo alla nostra letteratura più recente, quali i nomi su cui punterebbe? «Tra i contemporanei a parte Lalla Romano, di cui ho curato i due Meridiani Mondadori, e a parte Consolo, Tabucchi, Del Giudice, Di Stefano, mi sono parsi interessanti Nove, Scarpa, Ammaniti e più recentemente la Veladiano, che ho appoggiato per lo Strega. Però devo precisare che il mio tipo di collaborazione prima alla "Stampa" e poi al "Corriere della Sera" non mi dà la posizione di giudice, come poteva essere per Pancrazi, per Cecchi. Posizione impossibile per tante ragioni, ma soprattutto perché dovrei occuparmi soltanto di autori contemporanei».
C'è un livre de chevet sul suo tavolino da notte? «In questo momento sono i Racconti e prose brevi di Beckett recentemente pubblicati da Einaudi».
Pensando ai silenzi di Beckett, un'ultima domanda, professore. A che punto è la letteratura? «Se ben intendo ciò che lei vuole dire, ossia dove stia andando la letteratura, la risposta diventa tragica. Tutto sembra congiurare contro una posizione rilevante della letteratura. Ma possiamo sempre sperare che si affermino paradigmi migliori, e non solo in Italia»." (da Giovanni Tesio, E' L'ironia di Voltaire la medicina, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/09/'11)

sabato 10 settembre 2011

Ritratti di pittori


"Cranach e Brueghel, Tiziano e Rubens e poi Watteau e Fragonard e su fino a Manet, Cézanne e van Gogh: un viaggio nell'arte figurativa che si scioglie in fantasie, aneddoti, improbabili variazioni sotto gli stimoli delle immagini.
Nell'antologia di brevi testi di Robert Walser, Ritratti di pittori, curata per Adelphi da Bernhard Echte e ottimamente tradotta da Domenico Pinto, lo scrittore svizzero non sale in cattedra a disquisire su antichi e nuovi maestri, non si mostra impettito nella divisa del critico d'arte. Fantastica piuttosto con gli occhi e la mente e gioca con la letteratura, consapevole però che «il pennello farà sempre impallidire anche la più raffinata costruzione verbale». I quadri, a suo parere, sono sorprese, suggestioni a non finire; la parola invece solo un'entità astratta, un grumo di riflessione.
E' un omaggio - Ritratti di pittori - al fratello Karl che si era già affermato come artista e che egli ammira e segue a Berlino all'inizio del Novecento. Mentre per lui la strada della scrittura è piena di ostacoli e senza speranze. I suoi romanzi, apparsi fra il 1907 e il 1909, piacquero ad autori come Kafka, Musil, Canetti; eppure egli rimase uno scrittore pressoché sconosciuto, morto nel manicomio di Herisau in Svizzera nel 1956, a settantotto anni, di cui gli ultimi ventisette trascorsi in cliniche per malattie mentali.
Anche in quest'antologia, come già nei suoi articoli e feuilleton sugli scrittori (Ritratti di scrittori, da Goethe, a Schiller, da Hölderlin a Kleist, da Dickens e Dostoevskij, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi 2004), Walser affascina per il tono dimesso e stralunato, la finta ingenuità, il gioco ironico e talvolta surreale. Lo scrittore frequenta i musei di Berlino, visita mostre come quella di Manet nella primavera del 1910 o quella della Secessione e forse anche quella di Cézanne organizzata dal noto mercante d'arte Paul Cassirer, amico dei due fratelli. Più tardi a Berna, dove si trasferisce nel 1921, visita una grande esposizione di van Gogh e approfondisce l'arte belga.
A raccontare quelle immagini nei brevi articoli, nei dialoghi, nei sonetti dedicati alla Venere di Urbino di Tiziano o a due innamorati in un quadro di Boucher come nelle poesie su dipinti di Rembrandt, Delacroix, Renoir e van Gogh, c'è la voce di un fabulatore nascosto in segrete lontananze, in spazi inconsueti. Inutile cercarvi un giudizio estetico, un inquadramento storico. Walser scivola fra forme e colori, talvolta mescolando e confondendo particolari, per trovare ispirazione alla propria fantasia, inventando storie, evocando dettagli di una vita che pare fuori del tempo, ignara di ogni vicenda. Eppure proprio lui si fa paladino della materialità, si infervora per Cézanne che sa «abbracciare l'oggetto» ma anche cogliere nelle cose la sostanza dell'inesplicabile. Ama la carnalità dei suoi fiori e si inebria per una musicalità che nasce dalla ricchezza dello sguardo dell'artista.
In realtà è anche quella di Robert che in un dipinto di Hodler, «Il bosco di faggi», coglie l'aspetto acustico della pittura, il gelo e il vento che il colore trascina nel quadro, il tremolio delle foglie, mentre il suo sguardo si perde in remote lontananze.
Lo sconfitto, emarginato Walser non manca di fare l'elogio della felicità attardandosi su un dipinto del fratello Karl: «Nessuno dovrebbe essere infelice», chiosa colui che il mondo ha ampiamente ignorato. C'è anche qui come altrove un gioco di specchi, un malinconico risvolto autobiografico che di fronte alla splendida icona della libertà, «slanciata, perfetta di vita», nel famoso dipinto di Delacroix, predilige la figura della donna in ginocchio che invoca pietà ed è scossa dal dolore.
Anche la vittoria semina tragedie, e tuttavia, proprio di fronte a una tavola dello svizzero Albert Anker che mostra una fanciulla morta, egli è pronto a credere che la speranza infranta sappia riacquistare rosee sembianze.
Quelle che accarezza nei dipinti di Watteau e di Fragonard, nelle cui tele ascolta sussurrii, tremolii d'amore, e dove si adagia beato ritrovando la lievità di una vita sognata. Sono i pittori che sanno escogitare mille bellezze, lontano dai tormenti quotidiani. Quelli che risvegliano la memoria del suo fantasticare, la gioia della scrittura come libertà, come speranza e invenzione del futuro." (da Luigi Forte, Walser, passeggiate per tele e colori, "TuttoLibri", "La stampa", 10/09/'11)

Vecchioni: Sartre mi serve per vivere non per pensare


"Qualche ruga di ridente nostalgia si allunga sul viso. E forse non solo «qualche». Ma non è stanco il bandolero, il nordico scugnizzo, Vecchioni. Bandolero, sì, sempre, irriducibilmente, insofferente di questa o di quella main street, calamitato da altre vie, le vie del cuore, dove sale il vento, dove non ristagnano i luoghi comuni, i logori copioni, i discorsi comme il faut.
Stanno riaprendo le scuole, ma il professor Vecchioni, non da oggi, va su e giù lungo altre predelle, inanellando un’Italia (una certa Italia, sempre più vasta) che si è scrollata di dosso gli evirati cantori o - come sferzava Faber - «voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio».
«Chiamami ancora amore / Chiamami sempre amore / Che questa maledetta notte / dovrà pur finire / perché la riempiremo noi da qui di musica e di parole ...»: di concerto in concerto, ininterrottamente, dopo il trionfo sanremese. Perché l’esperienza del verbum e del logos (latino e greco, le lingue insegnate da Roberto Vecchioni) sfarina lo slogan, lo strafalcione, il greve refuso, il turpiloquio. Perché il canto (Orfeo docet) è un antidoto contro le sirene, nei secoli dei secoli, fino alle vestali, così incartapecorite, di questo nostro Paese da bere, di ciò che vi resta.
Aosta è fra le stazioni del tour. I tecnici «accordano» il palco, in piazza Chanoux. La notte è vicina. Le luci risplenderanno. Le luci inesauribili. Luci a San Siro ... Rievocare il capo d’opera può, potrebbe, risultare uggioso a Vecchioni? Ma perché? Ogni artista - come rammentava Montale, scomparso giusto trent’anni fa nella capitale “morale” del letterato cantautore - non ha forse la sua Cavalleria rusticana, l’intramontabile leitmotiv? Piuttosto, si passi finalmente in cavalleria, con il professor Roberto Vecchioni, almeno, la logora questione canzone-poesia, se la canzone è poesia, riandando alle origini, alle radici, all’etimo, lyrikós ogni canto eseguito con l’accompagnamento della lira. Canzone-poesia, sottobraccio al premio Montale, assegnato, fra gli altri, a Conte e a Dylan. Trent’anni fa se ne andava il signore degli «Ossi». «Un grande artefice di parole momentanee. Componeva ovunque - vi ripensavo nelle visite ad Alda Merini, il mio Nobel -: sui fazzoletti, sui tovaglioli, sulle scatole di fiammiferi, una costruzione logica del pensiero immediata e istintiva. Era la sua terra, la Liguria dei calanchi, il mare che si vede attraverso i buchi, la verità che si afferra di là delle feritoie. Come non accostare Eusebio al Pascoli del Lampo, la casa che nella notte nera apparì sparì d’un tratto ...?».
Montale, un vertice, fra i vertici del Novecento. «Tra i miei primi libri, l’antologia Guanda di Giacinto Spagnoletti sulla poesia italiana del secolo scorso. Mi si rivelò la poesia come libertà, smentendo, o scalfendo, come dire?, la patina scientifica che la ipotecava, propria della lezione liceale».
Montale ... «E un ulteriore, straordinario ligure, Italo Calvino. Ne abbraccio
l’opera omnia, da Il sentiero dei nidi di ragno alle Lezioni americane, al Le città invisibili. Va - eccone la pregiata costante - oltre le invenzioni dell’uomo, crea, prefigura, scenari che non ci sono, dove, se non la felicità, si potrà gustare la serenità».
Le Lezioni americane sono un continuo vis-à-vis con i classici, a cominciare
dagli antichi, i suoi ferri del mestiere, dalla lontana università all’insegnamento nei licei. «Mi laureai in letteratura latina alla Cattolica nel 1968 con monsignor Benedetto Riposati. Discussi una tesi su Tibullo, in particolare approfondendo il quarto libro del corpus tibulliano, il più incerto circa la paternità. Lo attribuii a Properzio. Riposati, da parte sua, non voleva attribuire a me il lavoro che gli presentai. Di lì a un’ora tornai con tutte le carte autografe: “La calligrafia è la mia!”».
Romain Rolland, dei classici, diceva: «Sono la mia famiglia». Quale il suo albero genealogico, chi riconosce, per esempio, come padre? «In primis, i tragici greci. Eschilo: il padre della tradizione ancestrale, immensa, anche spaventosa. Sofocle: il padre del diritto di dubitare, suprema Antigone. Euripide: il padre delle donne, del sentimento, va oltre la tragedia, è una voce che si riverbererà nel romanticismo».
Il liceo, come luogo dove si leggono i classici ... «Come accostare i giovani ai
classici? Come fargliene sentire la necessità? Non mettendoli sotto vuoto, ma calandoli, radicandoli, innestandoli nella vita quotidiana. Conoscerli è salvifico, impedisce i passi falsi. Ci si soffermi, per esempio, sull’epistola in cui Orazio sollecita: “... torna indietro quando ti accorgi che le cose desiderate valgono meno di quelle perdute”».
Vecchioni, una «vita di parola». Come insegnante, come cantaprofessore, secondo la definizione di Michele Serra, come scrittore, Scacco a Dio l’ultimo, per ora, titolo. «Sto lavorando a un romanzo epistolare. Un genere che, come il diario, prediligo».
Einaudi è il suo editore, la casa di Pavese. A Pavese rende omaggio con una canzone: Verrà la notte e avrà i tuoi occhi. «I porti sicuri che sono i piemontesi. Da Fenoglio ad Arpino, a Pavese. Il Pavese di Dialoghi con Leucò. Ne apprezzo l’interpretazione del mito. Non separato dagli uomini, ma assiso, fermentante, in loro. Junghianamente. E, con i Dialoghi, Il mestiere di vivere, là dove, a risaltare, sono una grande disperazione e una grande sincerità. Un sicuro modello».
Non c’è compositore che, come lei, conversi con la letteratura. Il suo canzoniere è affollato di carissime ombre, da Saffo a Rimbaud, da Thomas Mann alla Merini, a Dante Alighieri, l’Alighieri che “troneggia”. «Sì, la Firenze di Cacciaguida e antecedente. Dove si potevano lasciare gli usci aperti, dove le donne non venivano importunate, dove si poteva girare con un saio, perché contava essere, non apparire. Una città sobria e pudica, finché non arrivò Sardanapalo, ossia l’immondo che di erede in erede si è sin qui, in questa Italia, perpetuato».
Risaltano nel suo salotto letterario Sartre, Baudelaire, Jarry, un trio che le detta il verso: “... è tempo di riaccendere le stelle consigliere”.
Anche Sartre, ancora Sartre? «For ever Sartre. Mi serve per vivere, non per pensare. La paura di vivere, in che modo superarla, o convivervi, non rifugiandosi in una divinità».
Ma forse l’apice è Fernando Pessoa, a cui «sfuggì che il senso delle stelle / non è quello di un uomo, / e si rivide nella pena di quel brillare inutile, / di quel brillare lontano ...». «Pessoa è il compendio del Novecento. Il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e che viene, l’egoespressionismo. Un pessimismo infinito, una sofferenza che si riteneva inimmaginabile dopo Leopardi. No, non credo al dolore infinito, ma alla buona fede del maggiore portoghese, sì».
I libri. Il suo libraio, Il libraio di Selinunte, non li vende,
ma li legge ad alta voce. Un elogio dell’oralità ... «L’oralità, la forma di comunicazione degli aedi. Chi ascolta deve essere fantasticamente dotato, capace di immaginare (di tradurre in visioni) ciò che sente».
Il concerto si avvicina. Roberto Vecchioni è un crogiuolo di eteronimi. Gli occhiali cerchiati di Fernando Pessoa («... chiese gli occhiali / e si addormentò / e quelli che scrivevano per lui / lo lasciarono solo / finalmente solo...»). Il sigaro, forse un montaliano sigaro di Brissago (il «volubile fumo dei miei sigari di Brissago ...»). Lo sguardo febbrile, febbrilmente vagabondo, sconfinato, dell’angelo di Charleville («... ricordo a malapena quale nome ho: / Arthur Rimbaud, Arthur Rimbaud, / Arthur Rimbaud ...»). L’antico ragazzo che è Vecchioni, il professore di «tutti i ragazzi e le ragazze / che difendono un libro, un libro vero».
Scoprendo, accudendo, inventando, sillabando parole che vogliano smisuratamente dire «vivere, vivere»." (da Bruno Quaranta, Sartre mi serve per vivere non per pensare, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/09/'11)

25 modi per piantare un chiodo


"Quali saranno mai i 25 modi per piantare un chiodo? Il lettore di questo libro (25 modi per piantare un chiodo, a cura di Barbara Casavecchia, Mondadori) non lo saprà mai. Viene solo a conoscenza del fatto che questo è il titolo di un lavoro giovanile di Enzo Mari redatto nel corso del suo discontinuo curriculum di studi. Mari è un uomo speciale, come si comprende leggendo il suo racconto autobiografico, discorso sul metodo mescolato al resoconto, breve e compendioso, della sua vita di uomo e di designer.
La sua particolarità è ben espressa dal viso. Quanti sono gli autori che possono
esporre la propria faccia sulla copertina di un libro? I grandi del passato, di sicuro; gli autori di bestseller contemporanei al massimo figurano con le loro fattezze in quarta.
Mari non è un autore di successo, non vende centinaia o migliaia di copie. Eppure è lì, ritratto in una fotografia di Alessandro Rizzi. Ha un viso che sembra scolpito, in cui le rughe della fronte possiedono la dolcezza scolpita di un tronco; la barba decora la faccia, ne estende il mento, ed emana saggezza; le mani intrecciate esprimono concentrazione.
Lo sguardo non è rivolto verso di noi, bensì di lato. Gli occhi manifestano attenzione, ma anche perplessità, e insieme una qualche stanchezza. Mari ha un bel viso scolpito nel legno. Un viso stagionato dal tempo. Tutto il contrario del tono delle sue parole nel libro: flusso effervescente di racconti. Mari è un ossimoro vivente: democratico e aristocratico, giovane e anziano, saggio e impulsivo, nervoso e riflessivo, scalpitante e paziente, e altro ancora.
In questo libro progettato da Marina Pezzotta, che nella quarta reca l’immagine del designer milanese con la nipotina sulle spalle (San Cristoforo, il gigante portainfanti), Mari racconta la sua vita e le sue idee sul progetto: un
intreccio inestricabile. Ciò che lega le due immagini della copertina, quella in prima e quella in ultima, è appunto l’infanzia. Sono due bambini. Uno grande e uno piccolo. Nella stessa persona. La qualità che fa di Mari un grande designer, un Maestro, è la sua incorreggibile curiosità e anche la sua incoercibile irrequietezza, degna di un bambino. Si diventa grandi anche restando piccoli." (da Marco Belpoliti, I chiodi di Mari si piantano con il genio, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/09/'11)

Mari su IBS

venerdì 9 settembre 2011

Mirador. Irène Némirovsky, mia madre


"È da un bel pezzo ormai che la scrittrice Irène Némirovsky ha assunto una posizione di primo piano nella nostra scena culturale. Lo testimonia l'affetto dei lettori di fronte all'uscita di ogni suo romanzo, e lo testimonia la pubblicazione in italiano di ben due biografie che ne ripercorrono l'esistenza. Prima è stata la volta di La vita di Irène Némirovsky, scritta da Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt ed edita da Adelphi. Ora di Mirador. Irène Némirovsky, mia madre, scritto dalla figlia Élisabeth Gille ed edita da Fazi.
Si tratta di due testi completamente diversi: nel primo caso, siamo in presenza di una biografia dall'impianto classico, nel secondo di un originalissimo autoritratto della madre "sognato" dalla figlia. Per chi, come Élisabeth, lavorava nel mondo dell'editoria vagheggiando la scrittura in proprio, non deve essere stato facile confrontarsi con il modello materno. Senza contare che il rapporto filiale si interrompe a soli cinque anni, quando la mamma viene arrestata, per essere deportata nel campo di concentramento di Auschwitz dal quale non tornerà mai più. Giunta all'età di quarantacinque anni, Gille decide finalmente di affrontare la sfida. E lo fa mettendo in scena tanto se stessa quanto la madre. Per il suo personaggio ritaglierà un ruolo di mero contrappunto: pochi, asciutti corsivi che inframmezzano con dolorosa tenerezza la tumultuosa vicenda di Irène, ripercorsa passo passo in tutte le tappe decisive. A cominciare dall'infanzia, prima a Kiev e poi a San Pietroburgo: segnata dai successi commerciali e finanziari del padre; dall'odiosa figura di una madre avida di soldi e avventure erotiche e arida di sentimenti, da un rapporto a dir poco problematico con la parte più povera della comunità ebraica d' appartenenza. Mentre si affaccia di continuo una terribile parola: pogrom. Irène cresce imbevuta di cultura francese e già da bambina si reca spesso in Francia, quindi le sembrerà di essere nuovamente a casa quando, dopo la tempesta rivoluzionaria del '17, l'intera famiglia vi andrà a abitare dopo essere scappata dalla Russia. Lussuosissima era stata la vita a San Pietroburgo, e non meno lussuosa sarà la vita parigina: dopo una breve stagione di balli e sfrenatezze, la giovane Irène debutta nel 1929 con David Golder. È un successo clamoroso: il romanzo arriva sulle scene teatrali, diventa un film. Lo sguardo corrosivo della Némirovsky, nuova star delle lettere francesi, si incentra immancabilmente sul suo mondo familiare: l'alta finanza ebraica, l'egoismo sfrenato del parvenu, di cui la madre è l'epitome ideale. La scrittura, per Irène, si trasforma in una formidabile arma di vendetta. Ma lo scenario circostante sta cambiando rapidamente: nella civilissima Francia monta un antisemitismo feroce. E alla Némirovsky non basterà la conversione al cattolicesimo, né la fama di scrittrice, per evitare l'orrore dei campi di sterminio. Dovranno passare cinquant'anni perché quella scrittura, e quella vita, vengano amorevolmente risarcite da una figlia che Irène non ha mai visto crescere." (da Franco Marcoaldi, La vita sognata della Nemirowsky, "La Repubblica", 06/09/'11)

mercoledì 7 settembre 2011

Il festival d'Italia


"«Se pensavamo di arrivare all'edizione numero 15? Ma no, tentavamo a stento di capire se avrebbe funzionato la prima». Marzia Corraini ha i capelli candidi e un ciuffo le scende sulla fronte. Schiarisce la voce: «Poi, a un certo punto, è come se il Festivaletteratura ci fosse sempre stato e quasi non dipendeva più da noi se sarebbe continuato o no».
In che senso? «Quando la domenica sera il festival finisce - l'ultimo incontro è alle 6 e mezza, perché il giorno dopo i volontari vanno a scuola - un sacco di gente ci chiede le date del successivo».
Se anche avessero voluto chiuderlo, insomma, il festival di Mantova, il padre di tutti i festival che poi sono sorti in Italia, sarebbe andato per conto suo. Senza Marzia Corraini, Luca Nicolini e la moglie Carla, Laura Baccaglioni, Annarosa Buttarelli, Francesco Caprini, Paolo Polettini e Gianni Tonelli. Gli otto del comitato organizzatore, che a metà degli anni Novanta, sul modello del festival gallese di Hay-on-Wye e sulla base di uno studio commissionato dalla Regione Lombardia per capire come rilanciare l'immagine di una delle proprie città, misero in piedi il Festivaletteratura. Che dal 1997, quando esordì, ha accumulato consensi e primati, fino a dettare i tempi delle case editrici, che fanno uscire molti libri ai quali tengono in coincidenza col festival. Eppure il festival, che oggi apre i battenti della quindicesima edizione, cambiando molto, è restato lo stesso. Marzia Corraini ha una galleria e una casa editrice che pubblica arte, grafica e libri per bambini.
Fondamentale è stato il sodalizio con Bruno Munari. Numeri ridotti, qualità elevatissima. «La prima edizione del festival fu molto contenuta, cento incontri, nessuno il giovedì e il venerdì mattina, quindicimila presenze. Ora gli appuntamenti sono trecento, ai quali nel 2010 hanno preso parte centomila persone», racconta. «Però continuiamo a non avere un direttore artistico, i relatori non sono retribuiti, il budget è cresciuto - ora siamo a un milione e quattrocentomila -, ma la composizione è rimasta identica: le istituzioni pubbliche versano il 15%, e il resto viene dai biglietti, da centocinquanta sponsor e soprattutto dal lavoro dei volontari, noi otto compresi». I volontari, i ragazzi con la maglietta blu, sono il primo impatto arrivando a Mantova.
«Siamo alla seconda generazione. È il miglior investimento che facciamo da quindici anni. I più grandi istruiscono i più giovani. Ma molti suggerimenti li danno anche a noi. A una volontaria polacca dobbiamo la segnalazione di Herta Müller, che a settembre è venuta a Mantova e a ottobre, quando ha avuto il Nobel, molti chiedevano a noi le sue foto». Ha mai avuto la tentazione di trasformare questo impegno in una professione? «Mai. Né io né nessuno di noi otto. Luca e Carla fanno i librai, c'è un architetto, una insegnante di filosofia, una ex dirigente del Comune, un commercialista ...».
Siete stati i primi a portare gli scrittori in piazza. «Abbiamo colto un desiderio di molti lettori di incontrare gli autori senza formalità. Osservammo l'esperienza di Hay-on-Wye, nel Galles. Per conto mio frequentavo le fiere del libro, da Chicago a Francoforte. Il contatto con gli scrittori doveva avvenire non come in un convegno, ma nelle piazze e nei luoghi più frequentati della città».
Come è andata con le amministrazioni pubbliche? «Abbiamo dialogato con tutte, di qualunque colore. All'inizio la Provincia era governata dalla Lega. Ora al Comune governa il centrodestra, dopo anni di centrosinistra. Ma è soprattutto la città che abbiamo avuto al nostro fianco. Quando abbiamo cominciato molti ci erano vicini solo perché ci conoscevano. Poi la partecipazione è cresciuta».
Si è capito che era un'occasione per tutti. Le ricerche di Guido Guerzoni della Bocconi hanno dimostrato che per un euro investito se generano dieci in tutta la provincia. «Ho letto. All'inizio nessuno immaginava che un festival potesse produrre questi effetti. Ma poi la consapevolezza è cresciuta. Sono cambiati gli orari dei negozi. Si torna prima dalle vacanze per organizzarsi al meglio».
E con gli editori? Quanto contano nella stesura del programma? «Ci segnalano autori. Ma sono anche gli stessi autori che si segnalano. E molte indicazioni arrivano dal pubblico. Poi siamo noi a scegliere, insieme ad alcuni amici che ci fanno da consulenti».
Ma gli editori puntano soprattutto a presentare le loro novità. O no? «Questo è naturale. Ma, accanto alle novità, ogni anno ci sono proposte diverse, autori non tradotti o che non hanno libri in uscita. "Più di metà degli ospiti non li conosco", mi disse una volta un affezionato del festival. Anche a me capita, talvolta, di non sapere chi sia uno scrittore che viene a Mantova. Mi fido di chi propone il suo nome».
Quest'anno avete subito tagli? «Il Comune ha dimezzato il contributo. Ma da tempo stiamo molto attenti alle spese. Abbiamo ridotto gli incontri all'aperto, che richiedono tendoni o altre strutture». Non ci sono grandi nomi, premi Nobel. Perché? «Non ci siamo mai intestarditi sui personaggi di richiamo. Ci interessano un'offerta variegata e la presenza diffusa di temi nuovi. Non ci è mai piaciuto esibire una compagnia di giro».
Quella che transita da un festival all'altro - centinaia in tutta Italia? «Non volevo dir questo. Siamo tutti contenti che da Mantova siano partite tante idee. E che di festival se ne organizzino molti. Alcuni scrittori li abbiamo ospitati più volte. Altri si fermano anche dueo tre giorni. Chiediamo loro di impegnarsi in diversi incontri, concordiamo gli interventi. Suggeriamo argomenti, li stimoliamo. A volte mi sembra di essere una rompiscatole. Altri autori arrivano qui perché alcuni colleghi gli hanno raccontato di Mantova».
Se oggi dovesse pensare a un festival, lo farebbe come Mantova? «Non lo so. È come in cucina: si cercano gusti particolari. Mi incuriosiscono piccole iniziative, come alcune delle sezioni del nostro festival, che potrebbero anche avere una vita autonoma».
La letteratura in piazza è ancora una formula che la convince? «Quest'anno la piazza la sottolineiamo con forza. La piazza, i luoghi della socialità, l'intera città. Prima che i biglietti si comprassero in rete, anche le file ai botteghini erano occasione per creare comunità. Internet è un altro spazio per stringere rapporti. E ora che la piazza è tornata a essere un motore della vita politica, anche noi cerchiamo di contribuire allo scopo»." (da Francesco Erbani, Il festival d'Italia, "La Repubblica", 07/09/'11)

Il limite agli sconti uccide le biblioteche


"Fatta la legge trovato l'inganno. La "legge Levi", che fissa al 15% il tetto massimo degli sconti che i venditori possono applicare sul prezzo di copertina, è entrata in vigore, ma non a tutti piace. Protestano i consumatori sui blog, Amazon si inventa modi per arginarla mettendo in vendita libri usati al 50% di sconto e le biblioteche si lamentano. In Italia ci sono circa 6 mila biblioteche pubbliche e sono a corto di fondi. Per Stefano Parise, presidente dell'Associazione italiana biblioteche, gli sconti fissati per le biblioteche alla soglia leggermente più larga del 20%, non aiutano. Se prima infatti riuscivano ad acquistare a prezzi ben più vantaggiosi, ora si vedranno costrette a ridurre gli acquisti di libri. Per questo l'Aib ha anche scritto una lettera al presidente della Repubblica e al momento sta aspettando risposta. Ma intanto denuncia pubblicamente i problemi che crea: «La legge è stata fatta per proteggere le librerie indipendenti dalla concorrenza delle grandi catene e di Amazon. Ma le biblioteche che c'entrano? Noi non siamo concorrenti delle librerie indipendenti. Siamo anche noi mediatori della conoscenza. Per questo penso che dovremmo essere esentati dalle nuove normative». La legge infatti adesso prevede per le biblioteche un tetto di sconto al 20%. Prima invece era diverso: «Le biblioteche in genere acquistavano libri con sconti che andavano dal 25 fino a soglie del 35%. Di fatto le nuove regole ci penalizzano molto, facendoci pagare per i nostri acquisti dal 5 al 15% in più».
Eppure spesso si fa l'esempio della Francia, che ha una legge simile. Perché non provare anche in Italia? «Si omette però di far notare che in Francia, dove trent' anni fa è stata promulgata la prima legge di questo tipo, anzi con tetti di sconto molto più rigidi al 5%, il sistema delle biblioteche è stato poi rifinanziato dallo Stato».
Ed è proprio qui il problema, perché nel caso italiano invece mancano politiche analoghe di sostegno pubblico: «Appunto. Le nostre biblioteche subiscono chiaramente gli effetti delle manovre del governo. I tagli ci hanno fortemente penalizzato. E a questa situazione già pesante si aggiunge una legge che di fatto ha l'effetto di un' altra manovra finanziaria».
E che diminuisce un potere di acquisto, spiega il presidente dell'Aib, già fortemente ridotto. «Negli ultimi anni si è registrato un calo del 40% negli acquisti, se prima le biblioteche rappresentavano il 5% del fatturato adesso siamo scesi al 3%. Le faccio l'esempio della Fondazione per Leggere, la rete di biblioteche comunali del sud-ovest di Milano che io dirigo. Le nostre cinquantotto biblioteche nel 2010 hanno speso 477 mila euro all'anno (quasi un euro per abitante) e acquistato circa 42mila volumi, con uno sconto medio del 30%, ma abbiamo stimato che l'anno prossimo avremo una riduzione del potere d'acquisto di 45mila euro, il che vuol dire 3.500 volumi in meno. Analogamente, le biblioteche padovane associate dovranno rinunciare a 3.450 libri e i nostri cugini del nord ovest Milano a 3000».
A rimetterci secondo molte previsioni saranno proprio le biblioteche più importanti per il territorio. Quelle comunali. Ecco perché: «Perché acquistano soprattutto libri di lettura. Le biblioteche statali invece hanno molte pubblicazioni scientifiche e accademiche, le quali non hanno mai goduto di grossi sconti, dunque il passaggio sarà meno doloroso».
Ora si cercano strategie per il futuro. «Stiamo lavorando a una proposta di legge di iniziativa popolare sulla promozione della lettura. Le librerie indipendenti non sono schiacciate solo dagli sconti. Il problema vero è che gli italiani non leggono. Dovrebbero esserci biblioteche di base distribuite in modo omogeneo in tutta l' Italia. Di queste cose discuteremo a Matera il 21 ottobre, in occasione del Forum del Libro e della Lettura. Saper leggere significa essere cittadini del mondo»." (da Raffaella De Santis, Il limite agli sconti uccide le biblioteche, "La Repubblica", 07/09/'11)

E Jane Austen restituì la scrittura alle donne


"Le prime pagine di Persuasione (Einaudi) sono, probabilmente, l’inizio più bello, frivolo e perfido, che Jane Austen abbia mai scritto. Sir Walter Elliott di Kellynch Hall, nel Somersetshire, «era un uomo che non prendeva mai in mano altro libro che il Baronetage»: noi diremmo il Libro oppure l'Annuario della nobiltà. Vi trovava scritto il suo nome, la sua data di nascita, la data del suo matrimonio, il nome della moglie, quello del padre della moglie, l’anno della morte della moglie; e infine la data di nascita delle tre figlie e del figlio nato morto.
Non gli bastava: sir Elliott aveva aggiunto con la massima precisione il giorno e il mese in cui aveva perduto la moglie (data che, purtroppo, noi ignoriamo); il giorno, il mese, l’anno in cui la sua ultima figlia, Mary, si era sposata, e quale era il nome del genero, e quale il nome del padre del genero e il paese e la contea in cui abitava. Non crediamo che il Baronetage fosse un semplice libro, come quelli dei romanzieri, che si leggono velocemente dal principio alla fine, e talvolta si dimenticano. Il Baronetage era indimenticabile come l’Iliade. Sir Walter Elliott lo apriva e lo chiudeva, lo leggeva e lo rileggeva: ritornava sempre di nuovo su quelle semplici sillabe, che riempivano la sua vita; il libro occupava le sue ore d’ozio, lo consolava di quelle di malinconia, e aboliva ogni sensazione sgradevole della sua esistenza.
Il secondo inizio è tanto tenero quanto il primo era perfido. Anne, seconda figlia di Sir Walter Elliott, capiva tutte le cose, intuiva tutte le sensazioni, percepiva i sentimenti, coglieva i caratteri con un dono più acuto e sottile, forse, di tutti gli altri personaggi della Austen. Adorava camminare. Conosceva il piacere dell’esercizio fisico, della bella giornata, degli ultimi bagliori dell’anno sulle foglie rossicce: mentre la sua intelligenza luminosa ripeteva qualche verso tra le migliaia che descrivono l’autunno: la stagione suprema.
Amava le cose quiete e nascoste: c’era, in lei, un angolo della mente che non poteva aprire a nessuno; ma proprio da questo segreto silenzioso irrompeva, a tratti, una rivelazione quasi sovrannaturale di luce. Verso la fine del romanzo, Jane Austen giunge a dire, sia pure attraverso la voce di un personaggio, che Anne era «la quintessenza della perfezione». Siamo giunti al sublime: parola che Jane Austen, la brunetta, non amava, visto che sosteneva di dipingere con pennelli finissimi e quasi invisibili «su pezzettini d’avorio, non più larghi di un pollice».
Quando Persuasione si apre, Anne Elliott ha ventisette anni. Nove anni prima si era innamorata del capitano di marina Frederick Wentworth, intelligente, vivace e brillante: oggi diremmo pieno di fascino. Era stato un amore profondo: un breve periodo di quasi ineffabile felicità. Ma quel periodo era stato «troppo breve»: il padre di Anne aveva giudicato «degradante» un’unione simile, e un’amica di casa «un evento infausto». Troppo giovane, troppo debole, Anne aveva rinunciato. E, come si trattasse di un fiore o di un frutto, era sfiorita, appassita: il suo splendore giovanile era svanito: pensava che il suo futuro fosse spezzato per sempre; e viveva soffocata, rassegnata, sacrificata. A partire da quel momento - visto che la società non perdona l’amore felice o infelice - era diventata un’esclusa. Non era nessuno, né per il padre né per le sorelle: la sua parola non aveva peso; e il suo destino era quello di cedere, in ogni occasione, alla volontà degli altri.
Come in tutti i romanzi della Austen, sullo sfondo di Anne Elliott sta una famiglia (anzi un intrico di famiglie imparentate). Ogni famiglia è una struttura, una istituzione, una legge, una ripetizione: sta ora più in alto ora più in basso sulla scala dei rapporti di classe: obbedisce a abitudini, psicologie, idee fisse, parole d’ordine; e possiamo essere certi che i veli delle finestre, le lettere di condoglianza, il colore dei tappeti, lo stile dei quadri e dei sofà rivelano, ogni volta, una musica e un profumo che non si possono confondere. La famiglia possiede soprattutto un timbro: il chiacchiericcio femminile. Quasi sempre a casa Elliott le donne parlano in un certo modo: a casa Russell, Musgrove, Harville, Benwick, Croft e in ogni appartamento della mondana città di Bath si ascolta un gorgheggio e un cinguettio incomparabili. Quella femminile è in realtà l’unica chiacchera del mondo, perché gli sfortunati o fortunatissimi uomini osano di rado avventurarsi nel regno della parola.
La Austen possedeva un fortissimo senso della società: non meno robusto, vasto e incisivo di quello che aveva Balzac. Il suo giudizio sulle persone e le situazioni è persino più duro e feroce. La società rappresentata in Persuasione è vanitosa, presuntuosa, egoista, tronfia e sciocca. Per fortuna, possiamo aggiungere che è comica: ma è comica soltanto perché irreparabilmente e impenetrabilmente sciocca. Dagli sguardi acutissimi della brunetta non si salva niente. Oppure si salva tutto, perché persino le più pesanti e rozze cretinerie diventano, appena giungono tra le sue mani, lievi, inverosimili, aeree, persino poetiche. È il miracolo che nessun lettore della Austen riuscirà mai a spiegare.
Persuasione è un libro assolutamente unico nell’opera della Austen - uno squillo incomparabile di dolore e felicità. Di solito, raccontava obbedendo ad una doppia ottica: orchestrava una doppia partitura: se il personaggio principale era romanzesco, quello minore era prosastico: se il personaggio principale era ardente e appassionato, quello minore amava la discrezione: se il personaggio principale era duro e brillante, quello minore era bonario e compassionevole. Con Persuasione, composto negli ultimi mesi di vita, quando cercò di eludere e giocare lievemente con la propria morte, la Austen rinunciò per sempre al gioco complicato del doppio. Malgrado gli indugi e le inquietudini, Anne Elliott e Frederick Wentworth rivelano alla fine di essere posseduti dalla medesima luce: la luce intensa e nitida della passione.
Anne Elliott e Frederick Wentworth si erano conosciuti nove anni prima l’inizio del romanzo; e quanto tempo passa, mesi, forse un anno, un tempo dilatato e prolungato, spossante e lentissimo, prima che il romanzo e l’amore trovino insieme il loro culmine. C’è un’attesa, che non dice il proprio nome. I due non sanno parlarsi: non osano parlarsi, o tentare di inseguire almeno vagamente l’ombra delle parole. Si sentono separati: separati per sempre, o immersi in una confusione quasi penosa.
A poco a poco, riaffiora la voce del cuore: che tenerezza e ricordi e dolore e silenzi e malinconie e improvvise incursioni di gioia e di luce, mentre i colori della giovinezza tornano a fiorire sulle guance una volta appassite di Anne. Tutto procede attraverso quei piccolissimi tocchi e quegli effetti indiretti, che la Austen amava: il capitano si accorge di riamare Anne guardando cogli occhi di un uomo che la ammira: il capitano rivela il suo amore per lei parlando dell’amore di un altro; Anne confessa i suoi sentimenti discorrendo, con un terzo personaggio, intorno alla tenerezza femminile. A poco a poco, la distanza dello spazio e nel cuore diminuisce. La parola amore non viene mai pronunciata, ma si avvicina silenziosamente agli sguardi dei lettori.
Nel penultimo capitolo di Persuasione, Anne Elliott discorre con un vecchio amico, il capitano Harville, intorno alla memoria, alla dimenticanza, all’amore maschile e femminile. Sorride. «Sì, noi certamente non vi dimentichiamo così presto quanto voi vi scordate di noi. Forse, più che un merito, è il nostro destino. Non possiamo farne a meno. Viviamo tranquille, confinate in casa, preda dei nostri sentimenti. Voi siete costretti all’azione. Avete sempre una professione, degli interessi, degli affari di uno o di un altro tipo, che vi riportano subito nel mondo; siete sempre occupati, e i cambiamenti di vita attenuano i vostri sentimenti». Sorridendo, Anne sa di parlare di sé stessa: suo è l’amore, sua la memoria, e intanto, seduto a un tavolo accanto a lei, il capitano Wentworth scrive in silenzio una lettera e ascolta in silenzio quelle parole che lo riguardano.
Con un sorriso simile a quello di Anne, il capitano Harville ribatte. «Permettete di dirvi che esempi storici o narrativi, sia in prosa sia in versi, sono contro di voi. Credo di non aver mai letto in vita mia un libro che non ricordasse qualche caso di inconstanza femminile. Voi potreste osservare che sono tutti libri scritti da uomini». «Credo di sì, dice Anne Elliott al capitano. Vi prego. Non parlate di esempi nei libri. Gli uomini hanno avuto, molto più di noi, la possibilità di narrare la loro storia. La penna è in mani maschili ... Apprezzo, aggiunge Anne, tutti i sentimenti provati da uomini come voi. Credo voi uomini pronti ad ogni azione grande e buona nelle vostre vite coniugali; pronti ad affrontare ogni ardua prova, ogni difficoltà domestica, fino a che - se mi permette l’espressione - fino a che vi resta uno scopo, cioè finché vive la donna che amate, e vive per voi. Tutto il privilegio che rivendico al mio sesso ... è quello di amare più a lungo, anche quando la vita e la speranza sono finite».
Dopo la piccola sonata di Anne Elliott, la penna non è più rimasta esclusivamente in mani maschili: l’ha presa in mano saldamente e per sempre, con segni sia maschili sia femminili, l’autrice di Persuasione. Tra qualche mese morirà. Lei lo ignora, sebbene sia pallidissima, e con la voce estremamente debole, quasi un sussurro. E intanto accompagna Anne Elliott e Frederick Wentworth, fianco a fianco, braccio sotto braccio, lungo Union Street, fino a Gay Street, e forse fino a Belmont, o dalle parti di Camden Place, dovunque un profumo d’«eternità» seguisse le loro parole e i tranquilli e appartati vialetti di ghiaia." (da Pietro Citati, E Jane Austen restituì la scrittura alle donne, "Corriere della Sera", 05/09/'11)

lunedì 5 settembre 2011

La sfuriata di Bet


"Il dibattito più consistente dei nostri giorni vede opporsi un New Italian Realism a una New Italian epic, che poi altro non sarebbe se non il tentativo di rilanciare il romanzo storico. Non c’è dubbio che Christian Frascella, torinese, alla sua terza prova narrativa, con l’appena uscita Sfuriata di Bet (Einaudi), si pone nella prima casella.
Mi è già venuto altre volte di ricordare in proposito la lontana stagione di I Gettoni (Einaudi), al centro del nostro neorealismo, che così vedrebbe un’impensata resurrezione, portandosi dietro pure l’annesso carattere di rifiutare ogni addentellato ideologico. Quelle smilze prove patrocinate da Vittorini e Calvino ebbero il merito di non procedere oltre verso un realismo gravido di plumbee certezze, vedi il corollario tentato da Pratolini col Metello.
Così, la protagonista di questo fresco quasi-reportage di Frascella, Elisabetta Corvino, è un’adolescente che non vuole certezza, ma vive di proteste e rifiuti, istintivi, umorosi, quasi si ponesse come erede dei fermenti giovanili del ‘77 e del ‘90, collegandosi magari con gli indignados spagnoli.
C’è prima di tutto il rifiuto della triste realtà in cui le tocca vivere, in una Torino proletaria, certo non affetta da pauperismo, ma dai relitti di un benessere e di un consumismo sempre più appannati, a cominciare da quanto si respira nella sua e in altre famiglie, ovviamente divise, il padre se n’è andato a Roma, lasciando la coniuge alle prese con la difficoltà di tirar su una giovane scalpitante, che fiuta ovunque l’ipocrisia degli adulti, sempre pronti a predicar bene ma a razzolar male, e non fanno certo eccezione le insegnanti, su cui la nostra Elisabetta Corvino traccia degli identikit implacabili: l’una puzza, l’altra è perfida e maliziosa nei comportamenti, il preside è un sepolcro imbiancato. Non le resta allora che cercare solidarietà in casi analoghi, come quello di Viola, più avanzata negli anni, tanto che porta in grembo un nascituro, nei cui confronti non tenta nemmeno di accertare la paternità, orgogliosa di prendere in mano il proprio destino, ovvero di vivre sa vie, che può essere il grido di battaglia di sapore neo-esistenzialista in cui tutto questo mondo giovanile si riconosce.
Ma evidentemente non basta protestare con le parole, seppur imboccando tutte le soluzioni del turpiloquio, ovvero della parlata più dimessa e virulenta,
occorre che la «sfuriata» batta vie più impegnative, ecco allora che la nostra Bet, stanca delle ennesime ramanzine e minacce provenienti da ogni potere costituito, si fionda nella presidenza della sua scuola e si incatena a un termosifone, avendo avuto la prudenza di spegnerlo per non finire arrosto, e là, novello Prometeo in sedicesimo avvinghiato a una rupe tecnologica, resiste ai tentativi di snidarla messi in atto dal mondo degli adulti, e perfino dal loro braccio armato, la polizia. A questo modo Bet ricalca il gesto ben più temerario presente nel Sopravvissuto (Bompiani) di Antonio Scurati, di quel suo fratello in armi che entra nell’aula degli esami di maturità e fredda uno a uno i suoi docenti. Ideando quella protesta estrema, Scurati si era messo alla testa di un New Realism forte, aggressivo, che in fondo conteneva pure una buona dose di epica, ma poi, ahinoi, egli è passato a coltivare con esiti meno felici il versante del romanzo storico.
Ovviamente il gesto parossistico di Bet legata al termo rimbalza su tutti i media elettronici dei nostri giorni, l’eroina si vede invitata da Vespa e da ogni altro talk show, mentre fioccano su di lei le email di consenso.
Da ciò si deve cogliere una morale. La narrativa di oggi è consapevole che non può rifiutare la sfida, che deve farsi equipollente del potente fiume narrativo ormai esulante dalla carta scampata per dilagare nei mille rivoli o fiumi della comunicazione elettronica. È un mare tempestoso, o una limacciosa bonaccia, che bisogna navigare, tentando di mettersi alla pari, e magari di segnare qualche punto a proprio favore, come succede proprio alla nostra Bet, che sul limitare inscena un evento «in diretta», la compagna del cuore Viola è costretta a partorire addirittura in un ascensore, secondo l’eroismo in cui la condizione della donna batte quella lecita ai maschi." (da Renato Barilli, Frascella, la ballata della giovane indignada, "TuttoLibri", "La Stampa", 03/09/'11)

Frascella nel catalogo Fazi

Piccoli suicidi


"Probabilmente a nessuno sarebbe venuta voglia di ripescare un curioso manuale pubblicato dall'autore a proprie spese nel 1926, se nel frattempo, proprio quell' autore, con uno pseudonimo, non fosse diventato una celebrità a livello mondiale. L' inventore del manuale intitolato 21 ricette pratiche di morte violenta, una vera e propria istigazione al suicidio condotta con i tratti tipici dello humour nero, si chiamava Jean Bruller e faceva il disegnatore. Aveva quasi subito imparato ad accompagnare i suoi disegni con testi brevi come in questo caso. Accadde però che nel '42 Jean Bruller firmasse, con lo pseudonimo di Vercors, un racconto intitolato Il silenzio del mare. Lì per lì non trovò l'editore e, come ai suoi esordi, fece tutto da solo. Fondò Les Éditions de Minuit che, clandestinamente, fecero uscire il racconto, un libretto di novantasei pagine. La trama è celebre, ma la ricordo per chi non avesse avuto l'occasione di leggere quella storia. I tedeschi avevano invaso Parigi fin dal 1940. Vercors racconta la Resistenza di due francesi costrettia ospitare in casa l'ufficiale tedesco Werner von Ebreman, un compositore per altro persona molto gentile e amante della cultura. Bene: zio e nipote (una ragazza) oppongono all'ospite sgradito un assoluto silenzio. In altri termini, non gli parlano mai, mentre lui non fa che parlare della Francia, degli scrittori francesi e via seguitando. Lo stesso Vercors curò una riduzione teatrale dove nell' ultima scena si vedono zio e nipote che fanno colazione: l'ufficiale tedesco è andato via, ma loro non si scambiano neppure una parola. Bene, questo racconto tradotto in molte lingue, fece il giro del mondo e la fama di Vercors oscurò quella di Jean Bruller. Nella prima edizione della garzantina letteraria, che è del '72, non si fa alcun cenno a Jean Bruller, ma si dice che Vercors esordì con il racconto Il silenzio del mare, anch'esso un racconto paradossale (mesi di silenzio opposti a un conversatore affabile), così come era stato un suo racconto illustrato, Il matrimonio del signor Lakonik uscito nel '31 e mai tradotto in italiano (lo farà tra breve la casa editrice Portaparole, la stessa che ha proposto le ricette suicidarie). Lakonik lavora in un Ufficio Reclami e il suo compito è quello di rispondere «Perfettamente» a ogni rimostranza. A forza di non ascoltare ciò che gli dicono, Lakonik è diventato sordo e si mette in testa di sposare un'altra impiegata, che lavorando all'Ufficio Informazioni, era ovviamente muta. Ma è tempo di aprire il prezioso libretto con le ventuno ricette per morire presto e bene. Esso nacque perché Jean, che allora era poco più che ventenne, essendo del 1902, si trovò a corteggiare senza successo una ragazza, Yvonne Paraf, e per esprimerle il suo stato d'animo disegnò appunto un uomo che si suicida. La ragazza (che sarebbe in seguito diventata l'anima de Les Éditions de Minuit) non si intenerì, ma rispose con un altro disegno, che rappresentava un altro suicidio. Nacque così in Jean l'idea di perfezionare la cosa, arrivando alla compilazione molto semiseria del manualetto. Che, è opportuno dirlo, ebbe una seconda edizione nel '77 in Francia presso l' editore Tchou: un'edizione firmata Vercors con una serie di integrazioni scritte cinquant'anni dopo. Ed è questo il libro, a cura di Flavia Conti, che propone ora Portaparole, con le illustrazioni dell'autore. Si comincia con il suicidio per esplosione delle cervella. Viene considerato molto adatto a personaggi da romanzo, come il giovane Werther, «il cui suicidio, di uno stile veramente notevole, potrà essere di esempio a ogni suicida di buon gusto». Va detto, aggiunge l'autore, che di rado è messo in atto con eleganza. Cinquant'anni dopo però Vercors si rammarica per essere stato troppo severo. Nel frattempo molti grandi scrittori come Majakovskij o Hemingway, lo hanno messo in pratica, confermandone la nobiltà. Dunque siamo di fronte a una sorta di trattatello sul suicidio come opera d'arte, non privo di risvolti sfacciatamente culturali. È noto che chi sceglie il «suicidio per immersione prolungata totale» ama anche indirizzarsi a fiumi dal passato illustre, come l'Arno o il Tevere, evitando corsi d'acqua di dubbia frequentazione come la Senna o la Loira. Ed ecco il codicillo alla seconda edizione: «Si può considerare un progresso il fatto che, a causa del forte inquinamento di mari e fiumi, la morte è assicurata anche dall'intossicazione?» Nell'elenco figurano suicidi obsoleti come quello per asfissia carbonica, ormai sostituito dal suicidio a mezzo gas. Qui l' umorista rischia il cattivo gusto quando allude alle camere a gas del Terzo Reich, ma si sa che l'umorismo è un genere pericoloso. Dimenticavo di dire che Jean Bruller divide i suicidi in attivi e passivi. Essi assomigliano agli avventurieri che possono vivere l'avventura in prima persona o parteciparvi con la fantasia restando a casa propria. Così l'aspirante suicida se è timido, sensibile e buono, conviene che sia attivo e scelga presto il metodo che più gli si addice. Se invece è un uomo, seguita Bruller, dotato di energico egoismo, egli è nato per il suicidio passivo e vivrà dunque a lungo. Il sesto capitoletto è dedicato a un classico: il suicidio per impiccagione. Nel Medio Evo era un ottimo metodo di suicidio passivo e veniva celebrato in pompa magna. Oggi si preferisce l'intimità della propria casa. Tra i classici viene citato anche il suicidio per recisione delle vene, con inevitabile citazione di Petronio, e quello per impalamento: «Questo genere di morte si addice alle persone molto pigree ai filosofi. Il fatto che sia poco usato», conclude Bruller, «ci dice che al mondo non ci sono né veri pigri né veri filosofi. Ed è un pensiero consolante». Il capitoletto numero undici prende in considerazione il suicidio per ingestione da parte di animali. Una volta bastava farsi cristiani e si finiva in pasto ai leoni. Nell'edizione del '77, Vercors ricorda che il presidente ugandese Idi Amin Dada ha rimesso in auge l'uso del coccodrillo come strumento divoratore. Si possono organizzare charter per suicidi di gruppo. Come dice lo slogan di una agenzia di pompe funebri americane «Venite e noi faremo il resto». Jean Bruller, naturalmente, si guardò bene dal mettere in pratica qualcuna delle sue ventuno ricette, anche se scrisse nell'introduzione di essere scampato a un triplice tentativo di suicidio messo in atto per compiacere l'editore che cercava pubblicità. Ma l'editore era lui stesso e dunque il gioco è scopertissimo. D'altra parte corteggiare la morte in forma così smaccata è un modo per rendere la vita molto più accettabile. Bruller-Vercors morì nel 1991, quasi novantenne. Per un allegro aspirante al suicidio non è male: del resto ne aveva ipotizzato uno, l'ultimo del suo libretto, per eccesso di longevità. Enrique Vila-Matas ha dedicato un libro di racconti al tema del suicidio (Suicidi esemplari) ma andando all'indietro non mancano i cultori della necrofilia più o meno esilarante. Chi ha visto al cinema Harold e Maude non dimenticherà mai i tentativi di suicidio, tutti catastroficamente falliti, messi in atto dal giovane protagonista prima di incontrare la vecchia scultrice Maude con la quale divide la passione per i funerali. Ma se proprio bisogna cercare una conclusione, credo sia il caso di chiederla alla cinica e saggia Dorothy Parker, che così sintetizza, da intenditrice, il proprio pensiero sul suicidio: «I rasoi fanno male / i fiumi sono umidi / l' acido lascia tracce, / e le pillole danno i crampi. / Le pistole sono illegali,/ i cappi cedono, / il gas ha una puzza orrenda, / tanto vale vivere»." (da Paolo Mauri, Piccoli suicidi, "La Repubblica", 04/09/'11)

I poeti morti non scrivono gialli


"«Uno dei migliori poeti del Paese». «Uno che scrive buoni libri che nessuno, a parte pochi intenditori, vuole leggere. E che quasi nessuno vuole pubblicare». Un editore però, Jan Y. Nilsson - l’encomiabile lirico scandinavo deciso a puntare tutto su vocazione e integrità estetica, domiciliato su un peschereccio ancorato nell’Øresund - l’aveva trovato. Era un tipo integro, incorruttibile e idealista quanto lui: refrattario a compromessi sulla qualità delle sue pubblicazioni, alle regole della divulgazione di massa, alle leggi spietate del mercato.
«Dobbiamo imitare i produttori di vini e investire sulla qualità, è una scelta che paga», dichiarava Karl Petersen, direttore di una delle case editrici più prestigiose di Svezia, in riunione coi suoi redattori più fidati.
Stava appunto affrontando il caso del poeta marinaro: troppo talentuoso per non meritare il successo, troppo giovane per rassegnarsi a un’incerta fama postuma. In vita avrebbe dovuto raccogliere i frutti del suo lavoro.
E ci sarebbe riuscito, purché accettasse di mettere la propria penna al servizio della scrittura di genere e la propria scrittura alla prova con l’invenzione di un giallo.
Però I poeti morti non scrivono gialli (Iperborea), sa fin troppo bene Björn Larsson lo rileva nel titolo del suo ultimo romanzo. Il guaio è che il romanziere svedese vedrà morire il suo protagonista entro le prime cinquanta pagine: quando stava per scrivere il finale del noir che avrebbe rovesciato le sue sorti. È così che in «una specie di giallo» (avverte il sottotitolo) si trasforma la storia avviata come un’avventura metaletteraria. L’enigma poliziesco - chi ha ucciso il poeta che ha tradito la sua arte? - è tanto intrigante da catturare tra i fili della trama ardue questioni di poetica e di etica editoriale. Tenendo il lettore sulla corda, Larsson si permette di disquisire del disdicevole «snobismo sui generi», del disimpegno del poeta che «non deve propagandare messaggi», dei trucchi ricorrenti tra i giallisti di Svezia e delle nefandezze del demone della velocità che, come ogni altro settore, ha investito l’industria culturale. Il suo giallo invece (una specie di ...) procede con ritmi da poesia.
Scansando accortamente l’ostacolo che avrebbe rischiato di fare inciampare il suo eroe: «la tendenza a esporre idee più che a rappresentarle»." (da Alessandra Iadicicco, Il poeta di Larsson vuole la fama col giallo ma ci lascia le penne, "TuttoLibri", "La Stampa", 03/09/'11)

Larsson contro Larsson (da "La Repubblica")

sabato 3 settembre 2011

Fantascienza, leggete il futuro diventerete più ottimisti


"Quando gli organizzatori di Festivaletteratura 2011 mi hanno proposto di curare una biblioteca di fantascienza, mi hanno in realtà regalato due biglietti per altrettante fantastiche avventure: un viaggio nel tempo e un cambio di residenza - anche se temporaneo - in un universo parallelo. Un universo in cui i libri che ho amato da ragazzo si ritrovano insieme, come se facessero parte di una «normale biblioteca», e un viaggio a ritroso nella memoria, per capire quanto di quel futuro che abbiamo sognato sia rimasto, ai nostri giorni. Chi verrà a visitare la nostra biblioteca, durante il festival, nei sotterranei di Palazzo San Carlo, potrà ritrovare, o incontrare per la prima volta, più di mille volumi che rappresentano il meglio della fantascienza uscita nel nostro paese: libri spesso introvabili, e comunque preziosi perché raccontano altrettante visioni del futuro.

Perché c'è stato un tempo in cui il futuro esisteva ancora, ed era un luogo di meraviglie e di infinite possibilità. A chi (e ce ne sono sempre ...) obietta che «la fantascienza è un genere lontano dai nostri tempi, roba del passato», rispondo chiedendogli se si rende conto di quanto sia fantascientifico il mondo in cui viviamo. Basta sfogliare un quotidiano e leggerlo con gli occhi di un lettore anche solo di vent'anni fa. Nel 1991 chi avrebbe immaginato di poter avere, vent'anni dopo, un telefono cellulare in grado di connettersi ad Internet, o un televisore in 3D? Ma soprattutto, chi avrebbe potuto immaginare la Caduta delle Torri, il crack finanziario dell'Islanda, o un presidente degli Stati Uniti «abbronzato» e che di nome fa Barack Obama? Un altro esempio di quanto fantastico sia il nostro oggi? Alla presentazione di un mio romanzo, l'estate scorsa, un giovane lettore mi ha sorpreso dicendomi che all'università di Firenze stava seguendo un corso di crittografia quantistica: in pratica, un corso su un metodo di cifratura dei messaggi basato sul principio di indeterminazione di Heisenberg.

Un corso così, qualche anno fa avreste potuto trovarlo solo in un libro di fantascienza ... Se sfogliate l'ultimo numero di Le Scienze troverete un articolo su come «coltivare» carne partendo da cellule staminali di un animale, fatte crescere in un brodo di coltura: in pratica, per poter mangiare un animale senza torcergli un pelo. Bene, un'idea del genere c'era già nel romanzo I mercanti dello spazio pubblicato da Pohl e Kornbluth nel 1953.

Il cinema e i videogiochi hanno ormai abituato le generazioni più giovani ad accettare come «normali» cose come gli universi paralleli, i contatti con culture aliene, o concezioni neognostiche alla Matrix: tematiche tutte trattate già dalla fantascienza degli anni '60. Un videogioco come Fallout 3 contiene tante e tali citazioni dell'opera di Philip K. Dick e di altri classici della Science Fiction americana del passato da essere una continua fonte di piacere per gli appassionati del genere. E' un peccato, quindi, che i giovani non abbiano più accesso a quelle fonti primarie. La biblioteca di Mantova può essere un'utile occasione di scoperta, oltre che un messaggio non troppo subliminale agli editori italiani: «Per favore, ripubblicate autori come Pangborn, o Wolfe. Fateci leggere di nuovo Il paradosso del passato di Silverberg, o Io, Nomikos, l'immortale di Zelazny».

E' vero, la fantascienza come genere letterario è in crisi, e da molto tempo. Ma è una crisi temporanea. Il genere si sta risvegliando, quantomeno nel mondo anglosassone. Leggere le antologie che raccolgono (o vorrebbero raccogliere) The Best SF of 2010 è come cogliere su un monitor i primi segni di risveglio di un paziente in coma. Talenti nuovi e mostri sacri come il grandissimo Gene Wolfe hanno pubblicato lo scorso anno alcuni racconti assolutamente originali, del tutto inaspettati alla luce di anni di torpore e di stucchevole manierismo. Anche grandi autori mainstream (è così che gli scrittori di fantascienza definiscono gli autori non di genere) si sono recentemente cimentati con tematiche fantascientifiche. Mi limito a citare Philip Roth e il suo Il complotto contro l'America (Einaudi), l'intrigante Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (Einaudi), La strada, Einaudi, (The Road) di Cormac McCarthy.

Anche in Italia la fantascienza potrebbe rinascere, come genere. Il momento è sin troppo buono. La grande Science Fiction americana nacque dalle ceneri della Grande Depressione. A ispirare la crescita della più grande generazione di scrittori del genere (Asimov, Pohl, Heinlein, Leiber, Anderson, Sturgeon, Bester, per citarne solo alcuni) fu la Fiera Mondiale di New York del 1939, il cui nucleo «The World of Tomorrow», coi suoi sogni ottimistici di un futuro di auto volanti, robot intelligenti e viaggi nello spazio, avrebbe dovuto costituire il momento di trionfo dell'Era delle Macchine, e invece ne rappresentò il canto del cigno. Quella visione del futuro mise radici e germinò nel cuore e nel cervello di ragazzi usciti dalla Grande Depressione, che presto avrebbero dovuto affrontare la Seconda Guerra Mondiale e l'incubo dell'Era Nucleare. Quella visione fornì la cosa di cui quella generazione aveva più bisogno: la fiducia nel futuro.

Il futuro, di questi tempi, è rimasto solo nelle bugie dei politici e nelle proiezioni economiche sempre più pessimistiche. Sembra che siamo incolonnati in una lunga fila a senso unico. Non è così. E' quello che qualcuno vorrebbe farci credere, ma non è così. E' tempo che una nuova generazione di lettori e di scrittori si riappropri del futuro e ne liberi il potenziale immaginativo, creativo e (perché no?) eversivo. Pensare al futuro fa guardare con occhi più aperti e critici al presente. Che non è, non è mai stato, l'unico mondo possibile. Se passate per Mantova, fate un salto a trovarmi, e venite a scoprire quanto futuro c'era nel nostro passato, e cosa abbiamo perduto. Potrebbe essere un buon posto per ricominciare a sognare." (da Tullio Avoledo, Fantascienza, leggete il futuro diventerete più ottimisti, "TuttoLibri", "La Stampa", 03/09/'11)