giovedì 30 settembre 2010

Paleografia latina. L´avventura grafica del mondo occidentale


"Più di cinquecento anni fa, l´invenzione della stampa ad opera di Gutenberg inaugurò una fase nuova nella storia della cultura occidentale, sostituendo al libro manoscritto, di per sé unico, la possibilità di riprodurre un libro simultaneamente per un numero di copie potenzialmente illimitato. La stampa con caratteri mobili aveva così posto le premesse di una sempre maggiore democratizzazione del sapere. Nei secoli precedenti, il libro e la scrittura erano stati monopolio delle classi sociali elevate, religiose e aristocratiche, e persino le forme grafiche di scrittura erano il risultato di giochi di potere. È questa una delle linee di fondo dell´aggiornata e brillante storia delle scritture antiche e medievali a cura di Paolo Cherubini e di Alessandro Pratesi (Paleografia latina. L´avventura grafica del mondo occidentale, Scuola Vaticana di Paleografia, pagg. 785, euro 50).
Già il III secolo aveva conosciuto una rivoluzione grafica con la nascita di una scrittura latina vergata con lettere minuscole. La nascita del doppio binario grafico, maiuscolo e minuscolo, di cui ci serviamo ancora oggi aveva cause sociali e politiche. Nell´impero di Diocleziano, l´alfabetizzazione aveva raggiunto tassi elevatissimi, esigendo forme di scrittura capaci di assicurare una maggiore leggibilità.
L´alta cultura classica e la religione cristiana che si stava sempre più affermando volevano però disporre anche di libri di prestigio, un desiderio così profondo da far nascere una nuova scrittura, l´onciale, che per cinque secoli (dal quarto al nono) fu il principale vettore della nuova cristianità, da Costantinopoli alla Spagna, dall´Egitto all´Inghilterra. I codici che Gregorio Magno (590-604) affidò al monaco Agostino quando lo inviò in Inghilterra per convertire gli Angli erano stupendi codici scritti in onciale.
Gregorio Magno viveva in una nuova Europa, governata dai Visigoti in Spagna, dai Longobardi in Italia, dai Franchi in Gallia. In questa Europa, nata dalle spoglie dell´Impero romano, l´uniforme scrittura minuscola latina finì per lasciare il passo a scritture nazionali, insulari (Irlanda, Inghilterra), merovingiche, visogotiche e così via.
Intorno all´anno 800, l´affermazione dell´impero di Carlomagno produsse una nuova uniformizzazione della scrittura. Il rinnovamento degli studi voluto dal nuovo imperatore aveva bisogno di un supporto grafico chiaro, ordinato, elegante, per diffondere gli autori classici e le imponenti glosse dei loro commentatori oltre che la letteratura biblica e cristiana. Non a caso, a creare la scrittura carolina fu il consigliere culturale di Carlomagno, il monaco Alcuino, uno dei più alti intellettuali dell´epoca.
Anche le università di Bologna e di Parigi dominarono per almeno due secoli il panorama grafico europeo, imponendo una nuova scrittura, la minuscola gotica, capace di accelerare la lettura di testi sempre più numerosi (sono ben più di 13.000 gli autori medievali stando al recente repertorio – Bislam – pubblicato dalle Edizioni del Galluzzo), grazie anche alle numerose abbreviazioni, veri e propri ideogrammi indispensabili a una rapida assimilazione mnemonica. Insomma, anche le forme grafiche di scrittura hanno contribuito a costruire negli ultimi secoli del Medioevo un´Europa universitaria omogenea.
Verso la metà del Trecento, Petrarca, Boccaccio ed altri preumanisti si dissero però insoddisfatti delle litterae scholasticae, perché troppo ricercate e poco leggibili, e incominciarono a sognare una scrittura più adatta a sostenere la nuova cultura cui aspiravano. La realizzazione di questo sogno avverrà all´inizio del Quattrocento a Firenze, per opera di uno dei primi umanisti, Poggio Bracciolini, il quale, nel tentare di ritrovare la scrittura dell´antichità romana creò la scrittura umanistica che è di fatto un´imitazione geniale della carolina del dodicesimo secolo... Come già la riforma scolastica di Carlomagno o le nascenti università medievali, anche l´umanesimo ebbe dunque bisogno di un supporto grafico uniforme quale veicolo di comunicazione di profonde idealità culturali." (da Agostino Paravicini Bagliani, Un saggio sulle rivoluzioni grafiche da Diocleziano a Gutenberg. Come la scrittura cambiò il mondo. Il modo di confezionare i libri era spesso il risultato di giochi di potere, "La Repubblica", 30/09/'10)

mercoledì 29 settembre 2010

Libri. Da Furore a Harry Potter, la classifica dei più censurati


"L'ultima avventura sta per invadere il grande schermo e il trailer di Harry Potter e i doni della morte è già il più cliccato del web. In Florida quest'estate gli hanno dedicato un parco alla Disneyland e la sua mamma, J. K. Rowling, è stata appena incoronata da Forbes tra le 14 donne più ricche del mondo - un miliardo di dollari. Ma nell'anno magico 2010 la saga più amata dai ragazzi non è riuscita a sciogliere un incantesimo che assomiglia a una maledizione: Harry Potter è da dieci anni il libro più bandito d'America. Non è uno scherzo. Le avventure del maghetto guidano la classifica 2000-2009 dei libri più odiati, temuti, minacciati, banditi: quelli insomma da mettere al rogo. Un'ossessione che sessant'anni dopo Fahrenheit 451 - l'incubo di Ray Bradbury che François Truffaut portò al cinema - rivive nell'America in cui la stella di Barack Obama sembra già offuscata dai nuvoloni dei fondamentalisti dei Tea Party. Per carità: la censura è in agguato in tutto il mondo e la classifica dei libri da bandire in fondo è anche l'altra faccia di questo paese straordinario dove le biblioteche pubbliche contano davvero. Al punto che non c'è giorno in cui non si svegli l'intollerante di turno per chiedere che quel libro venga immediatamente ritirato. La "Settimana dei libri banditi" è stata lanciata dall'American Library Association proprio per questo: difendere i libri dai censori perennemente in agguato. C'è da dire che Harry Potter è in ottima compagnia: nella top 20 compaiono titoli al di sopra di ogni sospetto. Prendete Il giovane Holden: il capolavoro di J. D. Salinger negli Usa fa addirittura parte dei programmi scolastici eppure c' è chi ha chiesto di metterlo al bando per quel "linguaggio esplicito" che ha fatto la storia della letteratura. E che dire del Buio oltre la siepe? Proprio quest'anno ha festeggiato mezzo secolo e Obama l'ha acquistato per farlo leggere alle figlie durante le vacanze a Martha's Vineyard. Ma in tante biblioteche continua a essere bandito: l'argomento "razzismo" è troppo scabroso. Assurdo? La voglia di censura ha colpito perfino Le avventure di Huckleberry Finn di quel Mark Twain di cui pure oggi riemergono proprio le ombre razziste: il suo piccolo eroe sarebbe comunque troppo intraprendente da elevare a modello per i ragazzini d'America. E gli Uomini e topi di John Steinbeck? Troppo dura quella denuncia dello sfruttamento: meglio non esporlo in biblioteca. Lo scrittore ha pure l'onore di comparire al terzo posto della specialissima classifica dei "classici banditi" con un altro pericolosissimo libro: Furore. Qui il primo della categoria è invece il lussurioso Francis Scott Fitzgerald del Grande Gatsby. E poi via di censura in censura: dal 1984 di George Orwell - i bigotti non conoscono l'autoironia - fino all'immancabile Lolita di Vladimir Nabokov. C' è poco da scherzare. Anche il New York Times è sceso in campo evidenziando «i rischi per la libertà di espressione». E la Settimana dei libri banditi" - finisce il 2 ottobre - ha trovato un testimonial d'eccezione nel popolarissimo "Muppet Show". Che già l'anno scorso realizzò uno sketch in cui il vecchio Kernit invitava gli stessi bambini a non lasciarsi manipolare dai censori. Bravissimi, si sa, ad argomentare con parole di miele: e poi colpire col bastone. «Dopo aver letto il primo libro della serie, dopo aver letto le critiche, dopo aver discusso la questione con educatori interni ed esterni, sono giunto a queste conclusioni: il libro non dovrà essere esposto nelle librerie delle scuole, il libro non potrà essere usato per letture in classe, ogni altro ulteriore volume della serie non potrà essere acquistato ...». Così sentenziava Gary L. Feenstra, direttore delle scuole pubbliche di Zeeland, Michigan, nel lontano 1999. Innescando quell'avventura che avrebbe stregato il maghetto per più di dieci anni: Harry Potter e i Cavalieri della Censura." (da Angelo Aquaro, Libri. Da Furore a Harry Potter, la classifica dei più censurati, "La Repubblica", 28/09/'10)

La crisi di Belgioioso


"Chiude il festival dei piccoli editori e forse chiude anche la favola del re del castello di Belgioioso e del reame Parole nel tempo. La ventesima edizione che ha appena compiuto 20 anni rischia di essere ultima. Senza scomodare Nizan, essere giovani e crescere è dura. Pure per i libri e per chi se ne ne occupa, soprattutto nella campagna pavese. Guido Spaini nel '90 chiamò Elvira Sellerio e le propose un festival per editori ancora artigianali, che seguissero tutte le fasi della creazione del libro. In questo senso piccoli, non per creatività e interesse. «La signora Sellerio disse sì, mi interessa. Mio figlio Tommaso era appena nato, Camilleri era sconosciuto, mi buttai nell'avventura. Siamo partiti con 50 editori ora siamo saliti a un centinaio, con titoli che in libreria non si trovano, autori come Alda Merini, Paolo Volponi, Maria Corti, venivano a trovarci, si discuteva qui in giardino, la nostra era ed è una formula affettuosa: vediamoci, parliamoci, scambiamoci passioni. Ora anche se facciamo pagare un biglietto di 8 euro, perché da noi viene chi è veramente interessato, senza aiuti pubblici è difficile far sopravvivere questa manifestazione. L'autofinanziamento non basta più, mio figlio ora è all'università, forse è tempo di fare altre scelte. Ho vinto la scommessa, ma non credo che convenga più giocare». Vent'anni fa non c'erano i festival che ci sono oggi, internet era in sala parto, nei centri commerciali si comprava il sugo, ma non letteratura, e nessuno pensava di ordinare i libri online. Oggi il panorama attorno è cambiato, il castello di Belgioioso con il suo festival resta bello, ma c'è meno gente e un filo di stanchezza. I meriti restano, perché ormai nelle librerie si trova solo l'appena uscito e il grande successo. Dice Spaini: «Qui approdò Gesualdo Bufalino, pubblicato da un piccolo editore di Catania, qui quest'anno abbiamo ospitato Hacca, realtà marchigiana, la nuova 66th 2nd, che mischia ad alto livello sport e sociale, Ibis, con i suoi libri di viaggio, dalle ricette di cucina di Dumas a quelle di Tolouse Lautrec, Moretti e Vitali che pubblicano Hillman». Le bancarelle al posto della grande libreria dove se chiedi Shakespeare ti domandano: come fa di nome? Manni è un editore pugliese che è cresciuto con Belgioioso, sempre presente nei 20 anni di mostra, molto legato ad Alda Merini. Agnese, figlia di Piero e Anna Grazia, insegnanti, dai quali ha ereditato la passione, spiega come l'azienda sia passata da 1 a 16 dipendenti e di come non sia vero che nelle librerie trovi di tutto: «Lì i volumi hanno vita breve, vanno subito fuori catalogo e bisogna ordinarli. Chi ama il libro vuole il contatto fisico, sfogliare, parlare. Ma questo è un momento difficile, dove le grandi case si mangiano le piccole, anche perché hanno librerie, tv, catene di distribuzione, e una legge schifosa che permette sconti tutti l'anno». Massimo Spagnoli, Book Editore, di Ferrara, arte, poesia e saggistica, dice: «C'è flessione di pubblico, disattenzione generale, il piccolo editore che propone percorsi alternativi era una nicchia, ora è un angolo della nicchia, in poco tempo la sproporzione è cresciuta, in Italia ogni giorno escono 200 titoli, ma a leggere sono pochi. Lo scambio del libro attraverso la posta non funziona perché ad aprile hanno tolto le tariffe ridotte editoriali, il libraio non ordina perché non ha più guadagno. E poi oggi c'è l'ebook, e molta meno resistenza a leggere non sul cartaceo». Gabriele Dadati, 28 anni, di Piacenza, Laurana Editore, che ha curato anche «Antologia privata», la mostra di quadri dedicata a Davide Corona, però non si rassegna: «Pubblico Tomassini, Bosonetto, Cassani, narrativa italiana, perché credo nel rapporto umano, con gli autori, e perché mi dà soddisfazione eseguire un progetto, proprio come chi gioca a calcio. Sì c'è crisi e depressione, ma i piccoli editori continuano a mandare i loro segnali sotterranei. Sono cerchi nell'acqua, anche se il lago ormai si è prosciugato». Isabella Ferretti, di Roma, della casa editrice 66thand2nd, alla sua prima esperienza a Belgioioso: «Il bilancio è positivo, ci siamo allargati sul territorio, molto più che a Torino, che ha un pubblico più compatto. Questo festival ha un passo tranquillo e maturo, la gente si ferma e chiede». Una piccola grande visibilità: parole nel tempo e nel vento?" (da Emanuela Audiso, La crisi di Belgioioso. Addio al Festival, "La Repubblica", 28/09/'10)

martedì 28 settembre 2010

Antimateria di Frank Close


"Temo che, in Italia, gli amatori di romanzi e di poesia non leggano volentieri i libri di fisica teorica. Mi sembra doloroso e penoso: non solo perché i nostri letterati rinunciano a conoscere importantissime leggi di fisica, con le loro affermazioni, contraddizioni, scandali, strani contrasti con l´esperienza e la ricerca. C´è qualcosa di più grave. La passione metafisica, il gioco puro delle idee – tutto quanto, una volta, eravamo abituati a trovare nei libri di filosofia – , lo ritroviamo, oggi, nei libri di fisica teorica. Se leggiamo Einstein, o Heisenberg, o Hawking, – vi respiriamo quell´atmosfera di assoluto, quella luce di indimostrabile e incontrovertibile, che, alle origini della cultura europea, abbiamo conosciuto in Parmenide, Platone e, poi, in Plotino. Di questo respiro di assoluto noi abbiamo bisogno.
Nei libri di fisica teorica, la mente insegue il doppio infinito: oscilla tra l´infinitamente grande e l´infinitamente piccolo. La passione per l´infinitamente grande risale a Pascal e a Leopardi: «e quando miro / quegli ancor più senz´alcun fin remoti / nodi quasi di stelle / ch´a noi paion qual nebbia ...».
Oggi siamo abituati all´immensamente vasto: ciò che ci affascina è soprattutto l´infinitamente piccolo. I libri ci parlano, per esempio, del nanosecondo: vale a dire di un miliardesimo di secondo; tempo in cui la luce velocissima percorre trentatré centimetri e trentatré millimetri – niente.
Contro i libri di fisica moderna, i cultori di letteratura obiettano, di solito, che sono difficili: quel guazzabuglio di frasi e di numeri è incomprensibile. Non è vero. Tra i libri di fisica che oggi vengono pubblicati, sia tra quelli creativi sia tra quelli divulgativi, moltissimi sono estremamente facili: si leggono con un piacere quasi romanzesco, saltando di teoria in teoria, partecipando con passione alle discussioni tra grandi scienziati, insinuandoci come formiche tra gli enigmi. Vorremmo conoscere Dirac, o Touscheck o Ernest Rutherford, o il misteriosissimo Majorana, che ha lasciato il suo nome ai neutrini di Majorana; e ascoltarli discutere nel silenzio dell´universo. In questi giorni, per esempio, la casa editrice Einaudi pubblica un lucidissimo libro di Frank Close, professore ad Oxford: Antimateria (traduzione di Giorgio P. Panini, pagg. 204, euro 24), al quale auguro molti lettori felici.

***

Quattordici miliardi di anni fa, avvenne il cosiddetto Big Bang, prima del quale niente esisteva: un improvviso, violentissimo scoppio d´energia, di cui ignoriamo la fonte. Come dice la Genesi: «Sia la luce. E la luce fu». Le ricerche moderne e modernissime riescono a risalire a un attimo dopo lo scoppio: un miliardesimo di secondo. Allora si rivelò quale è il numero, e il ritmo fondamentale, dell´universo. Non l´Uno della filosofia platonica, e della religione cristiana ed islamica, ma il Due. Di qua la materia, di là il suo opposto, l´antimateria: di qua l´elettrone, con cariche elettriche negative, di là il suo opposto, il positrone, con cariche elettriche positive, lo specchio rovesciato del primo. Per un tempo esilissimo, le due forze si equilibrarono e si bilanciarono. E, per un istante, l´osservatore (se fosse esistito un occhio nel fuoco e nella tenebra) non avrebbe saputo prevedere il futuro dell´universo. Siamo diventati materia, e ne sopportiamo il peso: ma forse avremmo potuto diventare antimateria, la forza che domina nel cuore della nostra Galassia.
La fantasia del lettore moderno ritorna, senza fine, a quel miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, che gli scienziati hanno fatto rinascere negli anelli cavi del Cern di Ginevra. Di alcune cose siamo certi. Sappiamo che l´energia originaria si convertì, nel giovanissimo universo, in primordiali frammenti di materia (elettroni), da cui siamo discesi. E sappiamo che, di fronte alla materia, si estendeva una quantità quasi eguale di antimateria (positroni), la quale, forse, non era soggetta alla forza di gravitazione, e quindi si levava verso l´alto. Tra materia e antimateria (dotata di un immenso potere distruttivo), avvenivano collisioni frequentissime: elettroni e positroni si annichilivano in un lampo di luce; e gli oggetti appena nati duravano pochissimo. Se questa condizione di equilibrio e di simmetria tra i due poli fosse continuata, la vita non sarebbe mai apparsa nel mondo.
Se noi oggi viviamo, ciò dipende da due cause. La prima, l´ho già detta: nell´universo esistevano due forze, che lottavano l´una contro l´altra; non una sola forza, incapace di movimento. La seconda causa è probabile: allora esisteva un leggero squilibrio a favore della materia; uno squilibrio forse lievissimo, qualcosa di minimo e quasi inesistente come un nanosecondo, ma che bastò a produrre quella che viene chiamata la Grande Annichilazione. Nell´universo, il minimo genera, o può generare, l´immenso. Almeno nel nostro mondo, l´antimateria scomparve, come una furtiva ombra spettrale. E la materia cominciò a costruire i suoi innumerevoli edifici: tanto che oggi, per molte centinaia di milioni di anni-luce attorno a noi, tutte le cose sono costituite esclusivamente da materia.
Dove si è nascosta quell´immensa quantità di positroni, che esisteva dopo il Big Bang? Per loro, il mondo che noi abitiamo è alieno ed ostile, e li distrugge rapidamente. Ma, circa centomila anni fa, nel cuore del sole si formarono nubi di positroni, che sono stati quasi subito annichiliti, emettendo raggi gamma. Questi raggi tentarono di fuggire alla velocità della luce, ma vennero ostacolati da una folla di elettroni e protoni, che formano la massa ribollente del sole. Dopo un certo periodo di tempo, sebbene respinti in una direzione o un´altra, assorbiti e riemersi, riuscirono a raggiungere la superficie dell´astro; persero energia, cambiarono frequenza e lunghezza d´onda, diventarono prima raggi X, poi raggi ultravioletti, e percorsero tutti i colori dell´arcobaleno. La luce del sole, che ogni mattina appare ai nostri occhi, condivide dunque in piccola parte l´energia distruttiva dei positroni originari.
Con ogni probabilità, i positroni hanno trionfato altrove, lontanissimi dal sistema solare. Nel centro della nostra Galassia, esistono nubi di positroni: essi si trovano presso stelle binarie che emettono raggi X, e vengono attratte da stelle che producono neutrini e da buchi neri. Ma conosciamo positroni molto più prossimi a noi: quelli che hanno creato in laboratorio, per decenni, gli scienziati che lavorano al Cern presso Ginevra. I fisici del Cern hanno disposto un´immensa macchina, il Lep (Large Electron Positron collider) a una cinquantina di metri di profondità nel sottosuolo, in una galleria di 27 km, lunga come la Circle Line della metropolitana di Londra.
Il Lep è un anello cavo, dove viene fatto il vuoto. Una fitta serie di elettromagneti, disposti lungo la circonferenza del cavo, guida fasci di elettroni e di positroni, facendoli girare per settimane e settimane, a una velocità prossima a quella della luce. Le particelle rapidissime attraversano il confine tra Svizzera e Francia undicimila volte al secondo, passano sotto la statua di Voltaire a Ferney, sotto campi coltivati, villaggi ai piedi del Giura, dove un tempo Rousseau passeggiava ed erborizzava. I percorsi degli elettroni e dei positroni sono mantenuti a lieve distanza gli uni dagli altri: ma in quattro punti della grande circonferenza il loro cammino si incrocia. Qualche volta si verifica la collisione di un elettrone e di un positrone; ed entrambi si annichilano in un lampo incandescente di energia. Questo evento minimissimo nel sottosuolo di Ginevra riproduce quello che accadde, un istante dopo il Big Bang. Noi siamo vivi e attivi: cresciamo, abbiamo un corpo, mangiamo, parliamo, pensiamo, camminiamo, generiamo altra materia, che genererà altra materia; eppure siamo nati dalla Grande Distruzione che creò il nostro mondo." (da Pietro Citati, Misteri, segreti e bellezza della metafisica delle particelle, "La Repubblica", 28/09/'10)

Frank Close

lunedì 27 settembre 2010

La Nazionale di Firenze, memoria del Paese, è alla paralisi


"Signor ministro, quella che si appresta a leggere è l’ennesima lettera che le viene indirizzata di questi tempi per lamentare le tristi condizioni economiche che affliggono un’istituzione culturale. Sono d’accordo con lei: c’è qualcosa di insopportabilmente petulante non scevro di una vaga supponenza in queste lamentele in nome della cultura. La cultura: una roba — come senz’altro deve averle detto più di una volta qualche suo collega in Consiglio dei ministri — che non produce un centesimo ma sta sempre a chiedere soldi.
Di soldi, questa volta, ha bisogno, un urgente e disperato bisogno, la Biblioteca Nazionale di Firenze. La Biblioteca — non sto certo a dirlo a lei, che di sicuro lo sa benissimo, ma a qualche lettore distratto — è la nostra massima istituzione libraria, il luogo della Penisola dove è conservata la stragrande maggioranza del nostro patrimonio a stampa specie degli ultimi due secoli. Oltre ai libri di ogni tipo, giornali, riviste, opuscoli: tutto ciò che in Italia si è pensato e scritto da un certo momento in avanti sta qui, in questi depositi, in questi schedari, in queste sale. Per far funzionare e mantenere le quali è stato speso quest’anno 1 milione circa di euro, cui il suo ministero ha contribuito con la cifra modesta di 716 mila euro (escluso il pagamento degli stipendi): cifra modesta in sé e tanto più, vorrà convenirne, rispetto all’importanza dell’istituzione finanziata. Che però, ciò nonostante, l’anno prossimo si vedrà decurtare la cifra suddetta a meno della metà: 350 mila euro. Si aggiunga, per completare il quadro, il blocco del turn over: in cinque anni il personale della Biblioteca è diminuito del 60 per cento.
Il risultato lo si può immaginare. La catalogazione dei libri, ripresa solo grazie alla generosità del Monte dei Paschi, copre solo il 10 per cento (il 10 per cento!) dei volumi pubblicati negli ultimi due anni; dappertutto arredi vecchi che cadono a pezzi, scarsa pulizia e per finire — e quel che più conta — è stato annunciato che ormai restano in cassa solo poche decine di migliaia di euro per pagare il personale della ditta che si occupa della distribuzione dei volumi al pubblico, il cui contratto scade alla fine di novembre. Dopo, quindi, bisognerà ridurre drasticamente anche gli orari di apertura della Biblioteca. In pratica, per un’istituzione come questa, l’inizio della fine.
Vede, signor ministro, se i soldi non ci sono, non ci sono, chi non lo capisce? (naturalmente per un certo tipo di cose non mancano mai, ma lasciamo perdere) e dunque nessuno intende farle una colpa di una cosa (l’entità del bilancio del suo ministero) che non dipende certo da lei. Ciò che però colpisce — che almeno colpisce le persone come me che hanno un qualche interesse diretto in questo genere di faccende — è il modo tranquillo, mi viene da dire quasi disinvolto e distratto, spesso addirittura infastidito verso chi se ne lamenta, con cui lei vive e rappresenta all’esterno questa situazione di penuria.
Lei è niente di meno che il ministro preposto all’arte, al cinema, ai musei, ai teatri, alle biblioteche, di un Paese che non è il Paraguay o il Madagascar (degni peraltro del più incondizionato rispetto), ma che è l’Italia. Lei sa che senza quelle cose, senza i musei, le biblioteche, il cinema, l’opera, l’Italia non è niente. «Noi» non siamo niente. Senza di esse anche la nostra storia, anche l’oggi citatissimo e celebratissimo Risorgimento, non significano più nulla, l’Italia scompare. Ma non solo l’Italia (come forse a qualcuno piacerebbe). Scompaiono anche, mettiamo, la provincia di Verona o quella di Bergamo; le quali senza le cose di cui stiamo dicendo diventerebbero nient’altro che due floridi distretti economici senza passato, senza radici, che potrebbero stare qui come in Cina o in Romania. Ricchi ma insignificanti: come tutto ciò che non ha identità.
Vede, signor ministro, nessuno le chiede di darsi fuoco per protesta davanti al ministero del Tesoro. Ma il Paese — per essere più modesti almeno quella sua parte che condivide il contenuto di questa lettera — le chiede se non altro di condividere pubblicamente le sue preoccupazioni, di dare a esse voce intervenendo nell’arena pubblica non solo per stigmatizzare questo o quell’indirizzo ideologico a lei sgradito. Ci acconteremmo che lei non si stancasse di spiegare all’opinione pubblica e alla classe politica che ogni euro sottratto alle biblioteche, ai musei, al cinema, ai teatri, è una ferita aperta nella nostra storia. Insomma: alla fine non le chiediamo altro che di condividere una pena, di partecipare a un dolore. Mi creda, se lei lo facesse sarebbe già moltissimo. Con il mio ossequio." (da Ernesto Galli Della Loggia, Fondi dimezzati, la Nazionale muore, "Corriere della Sera", 27/09/'10)

Bondi: «La Nazionale usi i milioni in giacenza e i bibliotecari dell'Eti»


Biblioteca Nazionale, ci sono soldi fino a marzo

Bibliothèque Nationale de France (Wikipedia)

Libri. Storie di passioni manie e infamie


"Nel 1902, dieci anni dopo la morte in Africa di Arthur Rimbaud, un avvocato di Bruxelles che stava frugando nel magazzino dell’Alliance Typographique alla ricerca di certi vecchi annuari giudiziari trovò invece, in un pacco coperto di polvere, l’intera tiratura di Una stagione all’inferno nella mitica prima edizione del 1873. Si riteneva fino a quel momento che del libro esistessero sei esemplari: «contesissimi», scrive Giuseppe Marcenaro in Libri. Storie di passioni, manie e infamie (Bruno Mondadori). Erano quelli che il giovane e sconosciuto poeta aveva preso come anticipo, rinviando al giorno successivo il saldo con la tipografia - la Saison era pubblicata a sue spese - e il conseguente ritiro delle altre 494 copie.
La scoperta dimostrava che non le aveva distrutte, come recitava la leggenda sorta intorno alla sua breve, intensa vita da poeta maledetto. Le aveva semplicemente ignorate. Possiamo immaginare l’emozione dell’avvocato Léon Edmond Charles Losseau, che doveva essere un agguerrito bibliofilo. Ne acquistò 425 (perché alcune erano rovinate) e in tutta segretezza se le portò a casa. E’ probabile che ne abbia venduta qualcuna, molto riservatamente: e tuttavia per dieci anni mantenne il segreto, riservandosi uno straordinario colpo di teatro. Il 24 dicembre del 1912, infatti, rese pubblico il tesoro, regalò una copia a tutti i membri della Société
des Bibliophiles Belges e a qualche scrittore, si godette il trionfo supremo per un feticista del libro: da una parte la gloria, dall’altra la beffa, il piacere di veder crollare il mercato e di umiliare fior di collezionisti.
L’aneddoto è significativo, quasi esemplare, fra i tanti che Marcenaro intreccia nel suo libro, sapiente e arguto. Riassume in sé una dinamica bibliofila molto interessante, quella che nel primo Ottocento aveva portato per esempio Charles Nodier a immaginarela vicenda del libraio assassino di Barcellona, ritenuta vera per parecchi anni: la storia di chi è così travolto dal carattere di unicità di un libro da poter uccidere e morire, per la bramosia di farlo suo o per le delusione di scoprire che ne esiste un’altra copia. I bibliofili, si sa, sono creature bizzarre, amano scherzare su ciò che prendono terribilmente sul serio. Sono appassionati e autoironici, padroni di un piacere inebriante e servi della (loro) biblioteca. Anche Marcenaro, che pure respinge sia la definizione di bibliofilo sia quella di collezionista, sa che la sua - celebre - biblioteca è un essere probabilmente vivente.
Se ne definisce il custode, raccontandoci alcuni percorsi possibili all’interno di essa. «In gran parte - ci spiega - l’ho ereditata. Da un antenato ottocentesco
che passava per tipo balzano e acquistava libri antichi e incunaboli; da uno zio di mia madre che nel primo Novecento comprava semplicemente quel che veniva stampato, e da Lucia Rodocanachi», grande amica e soccorritrice di poeti e scrittori, spesso traduttrice ghost writer per rimediare alla loro carenza di tempo e di lingue straniere. Com’è ovvio l’ha arricchita personalmente, e non poco, creando così una delle più belle biblioteche private che ci siano in Italia. Dove i libri raccontano storie, non solo quelle racchiuse nella pagine, ma quelle che emergono dal rapporto tra di essi, dalla dinamica della biblioteca e dal lavoro del Custode, che li sposta e li riordina instancabile.
La Stagione all’inferno è solo uno dei ventimila o forse più. C’è anche L’osteria del cattivo tempo di Emilio Cecchi sfregiata da Camillo Sbarbaro, che detestava il critico; ci sono le Operette morali di Leopardi nella prima edizione del 1827 accanto alla seconda dei Dialoghetti scritti con grande e immediato successo da quel reazionario del conte Monaldo, il severo genitore del poeta, e da cui il povero Giacomo dovette a lungo difendersi perché gliene veniva attribuita la paternità; ci sono gli amanti Gustave Flaubert e Louise Colet con La Tentation de Saint Antoine e le Enfances célèbres.
C’è il Porto sepolto di Ungaretti nella seconda edizione, «perché ne ho conosciuto lo stampatore». E la prima, quella di Udine, no? «Ottanta copie, stampate in Friuli. Lo zio di mia madre non poteva incrociarle in libreria». Lei però non ha rimediato.
Disinteresse per il «feticcio»? «Non esageriamo. Non soffro per il fatto di non averlo. Se mi capitasse a un prezzo ragionevole non me la farei sfuggire».
Anche lei, dunque, è preda del vizio. «Sì, però ribadisco che mi piace soprattutto la storia dei libri. La mia biblioteca è la proiezione dell’universo in una casa, dove si aggirano i fantasmi. Il piacere della collezione è collezionare storie: quello di avere un libro di Caproni, per esempio Il seme del piangere, dedicato a Sbarbaro, che lo passa a un certo punto a Lucia Rodocanachi, che infine lo regala a me. Non ho scritto per esibire la mia biblioteca, ma per farla parlare», insiste Marcenaro. Sa benissimo, del resto, che le esibizioni sono sempre pericolose. E un episodio, in Libri, lo conferma. Anzi, contiene in sé un ammonimento perenne: riguarda Giovanni Spadolini, notoriamente fierissimo della sua biblioteca raccolta a Pian dei Giullari. Una volta, a Roma, magnificandola in Senato, si vantò di possedere 60 mila volumi. Carlo Bo, che lo stava ascoltando, lasciò cadere di averne forse 100 mila. Fu un colpo durissimo." (da Mario Baudino, Io, all'inferno con Rimbaud, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/09/'10)

sabato 25 settembre 2010

Yves Bonnefoy, L'opera poetica


"Pochi poeti contemporanei possono vantare un background culturale così ampio e variegato come il francese Yves Bonnefoy, del quale un bellissimo Meridiano raccoglie ora L'opera poetica (a cura e con un saggio introduttivo di Fabio Scotto, traduzioni del medesimo Scotto e di Diana Grange Fiori). Negli anni della formazione è centrale la matematica, ma ben presto Bonnefoy si indirizza verso studi filosofici di logica ed epistemologia, senza contare la successiva e crescente passione per la storia dell'arte. Segnatamente per l'arte rinascimentale italiana, il cui aspetto luminoso e geometrico imporrà al giovane poeta, attratto dai surrealisti e dallo sprofondamento nel mondo onirico e dell'inconscio, un nuovo sguardo sulla realtà. Capace di tenere insieme intuizione e raziocinio, visione fantasmatica e analisi critica. Proprio da qui vorrei partire, dall'indissolubile legame tra la figura del poeta e quella del critico, su cui anche l'introduzione del Meridiano si sofferma. La fertilità di tale osmosi è evidente.
Ma queste due figure non sono mai entrate in conflitto tra di loro? «Mi sono talmente impegnato a ravvicinare la scrittura poetica e la riflessione critica, che a volte, in effetti, non so più distinguere l'una dall'altra. Se questo è accaduto, la ragione è semplice: la poesia non si rapporta alle cose, ma alla singolarità delle esistenze. Anche quando parla di aspetti del mondo naturale, lo fa situandoli in un luogo, dando loro una realtà temporale. Per questo sfugge alla dimensione puramente concettuale, di per sé incapace di restituire l'esperienza del tempo. Da qui la necessità di una scrittura critica aperta alle due modalità del pensiero: l'intuizione e il ragionamento. Non vedo però perché questo dovrebbe dare luogo a dei conflitti. Quando accade è soltanto perché l'aspetto concettuale si cristallizza su posizioni ideologiche che il progetto poetico ha la precisa intenzione di decostruire».
L'amicizia ha avuto un'enorme importanza nella sua esistenza. Mi piacerebbe che, in particolare, ci dicesse qualcosa sulla sua relazione con Paul Celan. «Non è stato facile essere amico di Celan. Paul era di temperamento naturalmente affettuoso, ma le vessazioni che la sua famiglia e lui stesso subirono durante la guerra, e poi la calunnia di cui fu vittima qualche anno più tardi, distrussero in lui ogni fiducia in sé e negli altri. Bisognava continuamente rassicurarlo. Il che non ha impedito la creazione di una impresa comune, la rivista l'Éphémère, di cui era uno dei redattori. Resta che noi francesi, compresi moglie e figlio, non potevamo condividere il suo dramma più intimo, ovvero il rapporto incessante quanto doloroso con la lingua tedesca, che amava appassionatamente, ma di cui era stato e si sentiva vittima».
Si riferisce alla vicenda dei lager nazisti, in cui fu coinvolta la sua famiglia?
«Certo. Mi lasci aggiungere però, che malgrado un sentimento di cosmica sfiducia, Paul era capace di improvvisi slanci di confidenza, da cui scaturiva un sentimento di grande solidarietà nei suoi confronti. È stato così anche dopo la sua morte. Quando, qualche anno fa, si è parlato di erigere a Parigi una statua in suo onore, mi sono opposto con tutte le forze a un'idea nata sotto i peggiori auspici. Si sarebbe celebrato il grande poeta in modo allegorico: da un lato un uomo appoggiato a un palo, dall'altro una donna giacente a terra. Entrambi nudi. Paul sarebbe inorridito di fronte a una cosa del genere».
Quanto è rimasto in lei, nella sua poesia, dell'originaria matrice surrealista? E da cosa, in particolare, ha sentito di dover prendere le distanze? «L'elemento di maggior fascino del surrealismo era legato a un'idea di poesia capace di mettersi in ascolto della parola inconscia. Si scoprono così nei nostri comportamenti motivazioni censurate e si rende possibile una critica dei valori spesso fittizi e falsi di cui le società si fanno forti. Ma soprattutto si percepiscono analogie nascoste e si possono impiegare metafore e immagini con una libertà e inventività che il discorso ordinario non conosce. Da qui uno sguardo molto più penetrante su tutte le situazioni della vita, ivi inclusa la politica. È un peccato che la poesia successiva al surrealismo non abbia mantenuto vivo questo insegnamento».
Quali invece i motivi del distacco? «Lo stesso surrealismo che ha donato la parola all'inconscio, ha finito poi per togliergliela. La "scrittura automatica", rispetto alla sua sorgente più profonda, è soltanto un torrente superficiale. Votandosi alle associazioni del pensiero senza interrogarle a sufficienza, si finisce per non capire le intuizioni e le proposizioni che il nostro io profondo cerca di comunicarci. Peggio, si favoriscono interpretazioni sovrannaturali, basate sul ricorso alla mitologia o alla religione. Vede, bisogna prendere sul serio il surrealismo, e perciò stesso criticarlo. Prima ancora che nella riflessione teorica, nella pratica della scrittura. Questo era il mio progetto quando ho lasciato il gruppo di André Breton, che peraltro continuo a considerare uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo».
Lei ha scritto che «l'Italia è in modo quasi innato una terra per le immagini». Cosa intendeva dire con quella affermazione? «La ringrazio di pormi questa domanda dopo le osservazioni sul surrealismo. Perché l'incontro con l'Italia è arrivato subito dopo la conclusione di quell'esperienza, con tutti i problemi che aveva lasciato in sospeso. Il surrealismo ricorreva spesso a proposizioni confuse, informi, notturne dell'interiorità; mentre la grande arte italiana, al contrario, mi mostrava il valore, l'apporto di significato del gioco della luce sulle forme. Il surrealismo restava sul piano della pulsione e del desiderio, attento alle loro verità; la pittura di Piero della Francesca, o l'architettura di Alberti o Sangallo, invece, si ponevano immediatamente sul piano della sublimazione».
Ma non c'era solo questo aspetto. «Naturalmente no. L'arte italiana ha anche il suo "dark side": pensi a Paolo Uccello, a Pontormo, a Salvator Rosa. E nell'avvicinare questo tratto oscuro, il mio passato surrealista mi ha aiutato. Mi ha aiutato a riconoscere nella tradizione artistica italiana tanto la messa in scena di un sogno, quanto la spinta verso la conoscenza. L'Italia è terra delle immagini per eccellenza perché ha edificato un teatro in cui il pensiero e il sogno, la nostalgia dell'infinito e la percezione della finitezza, si confrontano in modo esplicito».
Di fronte a una generalizzata sfiducia nei confronti della poesia, lei invece individua in essa una forma di possibile «teologia della terra». Quale significato attribuire a questa immagine? «Il pensiero concettuale ha permesso all'epoca dei Lumi un progresso della scienza che ha inferto colpi tremendi ai miti, che fino ad allora avevano strutturato la forma del mondo sensibile. A quel punto la tentazione è stata di considerare come unica realtà quella del linguaggio; pensi alla poetica di Mallarmé. Ma dal carattere illusorio dei miti non bisogna dedurre che non ci sia "essenza" nel mondo che ci circonda. L'essenza è rappresentata proprio dalla terra che abitiamo. La poesia lo sa e deve riaffermarlo in modo ancora più forte, esaltando i diversi aspetti dell'ambiente naturale e gli insegnamenti che offre. Ciò detto, forse oggi non userei più la formula "teologia della terra", perché potrebbe far pensare alla terra come a una divinità, al modo dei romantici. Parlerei piuttosto della terra come della creta che possiamo modellare, naturalmente se abbiamo la saggezza di comprenderla»." (da Franco Marcoaldi, Yves Bonnefoy, 'Grazie all'arte italiana ho scoperto una nuova poesia', "La Repubblica", 24/09/'10)

All'indice Hemingway e King


"The Absolute True Diary of a Part Time Indian di Sherman Alexie, scrittore premiatissimo nato e vissuto in una riserva indiana, stava per essere cancellato dall’elenco delle letture estive assegnate in un liceo di Antioch, nell’Illinois, perché alcuni genitori lo trovavano volgare e razzista. Invece gli studenti di Santa Rosa, in California, sono esentati dalla lettura obbligatoria di The Tortilla Curtain di Coraghessan Boyle, se un genitore non è d’accordo. Stessa sorte per un romanzo della Nobel Toni Morrison, però nel Michigan. Nel Wisconsin, quattro membri della Christian Civil Liberties Union hanno chiesto la distruzione del volume e 30 mila dollari di danni morali cadauno, perché nella locale biblioteca era esposta una copia di Baby Be-Bop di Francesca Lia Block: libro a parer loro offensivo per tutti i maschi. Il comitato di gestione della biblioteca ha respinto all’unanimità la richiesta di rimozione del volumetto.
Nickel and Dimed: On (Not) Getting by in America è una grande inchiesta di Barbara Ehrenreich sui poveri negli Stati Uniti; è tradotta da Feltrinelli come Una paga da fame. In Pennsylvania, nello scorso mese di maggio, alcuni genitori di liceali hanno tentato di censurarla perché socialista e anticristiana. Negli stessi giorni, in Virginia, è scoppiato un pandemonio intorno a un libro che include(rebbe) argomenti sessuali e perfino omosessuali. Il libro era Il diario di Anna Frank (ricorderete che anche un deputato ne chiese, pochi mesi fa, la censura nelle aule scolastiche: ma in Lombardia, non nella Virginia rurale). Nel New Hampshire, in un liceo, hanno protestato contro un racconto di Ernest Hemingway, e contro un racconto di Stephen King, e contro un racconto di David Sedaris.
Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, è stato invece proibito nelle aule di Brampton, nell'Ontario, per via del linguaggio: usa parola «negro». Dal 25 settembre al 1 ottobre si celebra la Banned Books Week, in difesa del Primo Emendamento. Nel sito dell’Ala, l’associazione delle biblioteche, c’è una mappa dei luoghi dove si è consumata censura. È una mappa anche della paura, dell’ignoranza, del pregiudizio, dell’idiozia." (da Giovanna Zucconi, All'indice Hemingway e King, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/09/'10)

venerdì 24 settembre 2010

Save the Story


"Proviamo a immaginare Camilleri che per le strade di San Pietroburgo insegue il Naso inventato da Gogol. O Umberto Eco alle prese con Manzoni, «un nobile milanese con la faccia buona da cavallo un poco triste». Ed ancora Yehoshua esploratore dei dilemmi di Raskolnikov. O Stefano Benni calato nei panni di Cyrano. Proviamo a immaginarli, soprattutto, mentre raccontano queste storie ai loro nipoti. Da questa idea è nata la nuova collana Save the story, un'opera di "salvataggio culturale" secondo la definizione di Alessandro Baricco, ideatore della serie editoriale. «Ci sono delle storie che vengono dal passato e costituiscono un patrimonio collettivo. Come evitare di perderle? In redazione, alla scuola Holden, abbiamo pensato di farle raccontare ad alcune tra le voci più importanti della letteratura internazionale. Con una regola: la singola storia, se narrata oralmente, non deve durare più di un'ora. Soltanto così si riesce a catturare l'attenzione dei lettori dai cinque ai dodici anni d'età. E anche per i genitori e per i nonni sarà più facile leggerle ai bambini».
Storie scritte per essere lette a voce alta? « L' aspetto dell'oralità è essenziale. Abbiamo chiesto ai nostri autori di scrivere periodi brevi, frasi leggibili, dialoghi dotati di ritmo. Anche i capitoletti non devono superare i cinque minuti: questo per andare incontro alla testa dei più piccoli, evitando che s'accascino nel bel mezzo della lettura. Noi cerchiamo di salvare le storie, non le opere da cui sono tratte, nella speranza che i bambini una volta cresciuti vadano a scoprire gli originali».
La voce originaria scompare? «Sì, non potrebbe essere altrimenti. Come fai a leggere Moby Dick a un bambino? Soltanto in rari casi viene recuperata: Stefano Benni ha scelto di tradurre alcuni versi presenti nel testo di Rostand. Ma generalmente ogni autore reinterpreta alla sua maniera il romanzo di partenza, valorizzando alcuni aspettio trascurandone degli altri. Come quando a tavola si narra una storia al proprio figlio. "Com'è andata tra Achille ed Ettore?". E ognuno di noi la racconta come la ricorda. La mia richiesta a Eco, Yehoshua e agli altri narratori è stata proprio questa: raccontate le vostre storie come le raccontereste a un figlio o a un nipote».
Non potendo proporre il capolavoro nella scrittura originale, si cerca di mantenere uno stile narrativo d'autore. «Dovendo rinunciare alla voce originaria, noi la sostituiamo non con una lingua standard, ma con un'altra voce autorevole, forte, ben strutturata, coerente. Salviamo la storia e la porgiamo abbinata al piacere di ascoltare un narratore vero. Grazie alla Tv, internet, i videogiochi,i ragazzini conoscono già le trame. Con questi libri hanno la possibilità di ascoltare un modo di raccontare che fa parte della nostra civiltà dello scrivere».
Com'è nato l'abbinamento tra classico e contemporaneo? «In alcuni casi abbiamo spinto noi: I Promessi Sposi potevano essere raccontati soltanto da Eco, insolito incrocio tra accademia e letteratura. Così il Cyrano de Bergerac ci sembrava un testo ideale per Benni. In altri casi abbiamo proposto una lista di storie, invitando a scegliere quelle più congeniali. Non è un caso che un autore come Yehoshua sensibile al tema morale abbia scelto Delitto e castigo, e l' ironia di Camilleri si sia concentrata su Il naso di Gogol». Con quale criterio avete selezionato i titoli? «Abbiamo cercato storie adatte per i piccoli lettori, ma anche per gli adulti che abbiano curiosità. La scommessa è quella di costruire dei racconti che i bambini possano ascoltare con piacere, un po' come con Shrek o Avatar: sono prodotti fatti a strati, come le torte. Ognuno trova il proprio strato».
Lei ha scelto il Don Giovanni: nel suo racconto prevale la corda comica, anche se non manca l'epilogo moraleggiante. «La sua storia contiene un risvolto tragico, una sorta di sedimento morale che comunque ho voluto mantenere. I bambini amano portarsi a casa un insegnamento, abituati dalle fiabe ma anche da Walt Disney. Così in tutti questi libri c'è un capitolo conclusivo che restituisce il senso della storia. Tecnicamente ho attinto da Lorenzo da Ponte e da Molière, ma la mia è stata un' operazione istintiva, che tende a fare del Don Giovanni un paladino medioevale, un eroe western, in sostanza uno sfrontato cavaliere con una voglia di vita irrefrenabile: esattamente come il bambino a cui è rivolto»." (da Simonetta Fiori, Riscrivere i capolavori. Baricco: da Manzoni a Gogol, salviamo queste storie, "La Repubblica", 24/09/'10)

Teatro civile


"La memoria recuperata attraverso la potenza "sovversiva" della parola è la forza ammaliatrice del Teatro civile, un fenomeno tessuto d'impegno e talento che in Italia si è imposto come una delle forme più vitali del teatro contemporaneo e che ha ormai conquistato una folla fedele di spettatori. Dalle stragi naziste di Sant'Anna di Stazzena e di Marzabotto al disastro doloso della diga del Vajont; dall'eccidio di Piazza Fontana al caso Moro, fino alla strage di Ustica e non solo, tutti eventi della storia del nostro Paese portati in scena da mattatori magnetici come Marco Paolini, Ascanio Celestini, Giulio Cavalli, Giorgio Diritti e molti altri. Teatro civile, (edizioni Ambiente), l'ultimo libro di Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore e autore teatrale torna ora nei luoghi della narrazione e delle inchieste, ripercorre i tanti spettacoli che, negli anni, hanno raccontato in Italia le storie vere ignorate, dimenticate o "aggiustate" e ne evoca ed esalta la linfa rigeneratrice. Ed emerge come, attraverso la drammaturgia e l'utilizzo del corpo e della voce, si possano far rivivere fatti ed emozioni risvegliando il desiderio di conoscere e ricordare. Efficacissime le testimonianze vecchie e nuove dei protagonisti che quegli spettacoli hanno portato sulla scena (in palcoscenico, ma anche solo sulla strada o su una semplice pedana). Dimostrano che, mentre dovrebbero essere i referenti istituzionali a farsi carico di salvaguardare la memoria nazionale, sono stati spesso proprio i narratori a portarne il peso e a creare un ponte tra passato e presente. Una sfida riuscita, vinta fuori dai teatri tradizionali e dai meccanismi produttivi e di mercato, con spettacoli agìti per e fra il pubblico e con testi mai definitivi e invece sempre aperti a nuovi contributi.
Teatro civile restituisce la voglia di non dimenticare ciò che è stato e di partecipare a ciò che è. Un libro che mette in mostra la faccia positiva dell'indignazione, quella che affiora quando fatti coperti dall'oblio tornano a smuovere le coscienze.
Che cosa è per lei il Teatro civile? "Molti anni fa dalle mie parti, la zona di Monte Sole, vicino a Marzabotto, ogni sera il nonno si metteva vicino al camino, caricava la pipa, beveva un goccio di grappa. Poi si girava e diceva a noi bambini: "allora ...". E iniziava un racconto: il vento che si infilava nella porta, lo scalpiccio dei soldati nazisti lungo i sentieri di Monte Sole, gli spari, le urla, il silenzio. Ogni sera lo stesso racconto, ma c'era sempre un particolare che lo rendeva diverso. Questo è il teatro civile, raccontare storie per non dimenticare. E, ormai, in Italia, il Teatro civile rappresenta la vera grande novità nell'ambito della drammaturgia nazionale, decretata da consensi di pubblico davvero straordinari. Pensiamo al Vajont di Marco Paolini, visto da almeno tre milioni di persone, o a Radio Clandestina di Ascanio Celestini che ha raccolto un milione di spettatori. Il vero teatro contemporaneo che il pubblico apprezza è proprio il "teatro civile", che ha un significato doppio, perché tutto il teatro in sé è "civile". Ed è politico nel momento in cui metti in scena episodi come quello di Marzabotto o Sant'Anna di Stazzema. Quello che fa la differenza è la tecnica della narrazione, che si discosta dal teatro politico e impegnato degli anni Settanta, che era più di stampo brechtiano. Allora, il teatro doveva far passare un'idea e fare di tutto per convincere il pubblico che è quella giusta. Ora si parte da un altro presupposto: attraverso le storie si dipana la Storia con la S maiuscola, quella del nostro Paese".
Libri, teatro, cinema, ma anche fiction, musica. Possono tutti raccontare la memoria di un Paese? "Questo è un Paese che non ha memoria, perché ricordare significa anche mettersi davanti ad uno specchio e mettersi in discussione. Ed è anche un Paese anormale quello che consegna a noi cantastorie il compito di raccontare la storia collettiva di una nazione, comprese le pagine più buie: gli anni degli eccidi e della strategia della tensione, il senso di impunità, i depistaggi compiuti dagli uomini delle istituzioni, gli scempi e i disastri ambientali, i morti sul lavoro. Lo doveva fare la politica, ma le commissioni stragi e antimafia hanno concluso poco o nulla. Era compito degli storici che hanno invece pensato bene di riscrivere la storia parificando i partigiani ai repubblichini di Salò. Era anche compito della società civile che ha perso il senso dell'indignazione. E allora? E allora libri, dischi, teatro, letture possono servire a smuovere le coscienze rattrappite. Una rivoluzione culturale che metta in primo piano la difesa di quello che Pietro Calamandrei definiva "il patto giurato tra uomini liberi", la Costituzione".
Lei ha ascoltato molti interpreti, visitato i luoghi della narrazione. Dica quello che, per tutti, meglio rappresenta il suo libro-manifesto. "Non c'è un luogo ma ci sono i luoghi. Per me contano la stazione di Bologna, la chiesa di Sant'Anna di Stazzema, Seveso, via Mancinelli a Milano dove vennero uccisi Fausto e Iaio. Per Marco Paolini certamente Vajont, Ustica, i treni, i sentieri del ritorno dalla Russia di Mario Rigoni Stern. Per Ascanio Celestini il museo di via Tasso a Roma, le fabbriche, i manicomi, i call center. Per Giulio Cavalli l'aeroporto di Linate, le periferie di Milano infiltrate dalla 'ndrangheta. Ed è così per tutti. Perché i luoghi contano e perché nulla vada mai dimenticato"." (da Silvana Mazzocchi, Luoghi e protagonisti del "Teatro civile". Quando le storie diventano Storia, "La Repubblica", 23/09/'10)

Generazione A


""Noi viviamo vite piccole e di periferia: siamo ai margini, e ci sono molte cose alle quali decidiamo di non partecipare», ripeteva uno dei personaggi di Generazione X, il romanzo d'esordio di Douglas Coupland, nel 1991. Lo scrittore canadese torna con Generazione A (pubblicato in Italia da Isbn Edizioni), ambientato nel 2020, quando le api, scomparse da alcuni anni, ricompaiono in cinque parti del pianeta, per pungere i personaggi protagonisti del libro. Harj, Zack, Samantha, Julien e Diana vivono nello Sri Lanka, in Iowa, in Nuova Zelanda, nel dodicesimo arrondissement parigino, nell'Ontario. La ricomparsa delle api diventa un fatto eccezionale e i cinque protagonisti - da anonimi esponenti di quell' infinita giovinezza in cui molti, anche nella realtà, credono di vivere - sono trasferiti in laboratori asettici, dove vengono analizzati fisicamente e psicologicamente. Qui passano alcune settimane, senza libri, tv, Internet, e «neppure loghi sui materassi», prima di essere trasferiti a Haida Gwaii, un'isola del Pacifico, al confine tra Canada e Alaska, dove sono costretti a inventare storie e a raccontarle, a turno, come in una sorta di Decamerone contemporaneo. «È assurdo» dice Julien, il personaggio parigino che giocava da 114 giorni di fila al videogioco War of Warcraft, prima di essere punto. «La parte del cervello veramente creatrice di storie si atrofizza e muore». Attraverso i racconti alternati, i protagonisti diventano un' unica grande voce, riprendono qualcosa che avevano dimenticato, si smarcano dalla mansione di cittadini globali. L'atmosfera del libro oscilla tra una maggiore cupezza rispetto a Generazione X e il riecheggiare di alcune situazioni del libro d'esordio: qua e là perdura un'ironia pop che, credo, oggi come allora sia un lusso poco sostenibile, lusso peraltro incentivato, neutralizzato e già assorbito negli anni Novanta dalla cultura dominante, potere che proprio nell' ironia - e nel suo sottoprodotto: ciò che anni fa definii aggressività canzonatoria - trovava il proprio nascondiglio più sicuro sebbene molto evidente, in quella prigione comportamentale assai diffusa, cifra di decodificazione del mondo. E tuttavia Coupland ha il merito di innervare i propri romanzi su temi contemporanei fondamentali. La tecnologia invasiva. L'agricoltura come fabbrica alienante di cibo: «I campi di grano sono la cosa più spaventosa» dice Zack, il giovane uomo punto all'interno della mietitrebbiatrice, in un campo dell'Iowa. La distanza tra le proprie mansioni lavorative, i gesti e le conseguenze che queste azioni comportano. Harj, sopravvissuto casualmente allo tsunami del 2004, lavora in un call center dello Sri Lanka. «Nel giro di breve tempo cominciai a disprezzare la gente attaccata al telefono dall'altra parte del pianeta a dodici ore di distanza». Eppure Harj è l' unico personaggio che, in parte, crede ancora nel lavoro, e si stupisce davanti al distacco, alla disillusione dei lavoratori della sede centrale americana. Molti invece si sono arresi e questa sensazione influenza anche chi è sulla sessantina. «Tuo padre e io abbiamo deciso che non crediamo piùa niente» dicono i genitori di Samantha. Tutti, o quasi, sopravvivono prendendo dosi massicce di Solon, «un farmaco meraviglioso», che «mi fa sentire calma nella testa», aggiunge la madre. C'è smarrimento anche in un gesto riconciliante, come preparare una torta la domenica pomeriggio, se le mandorle non sono mandorle ma «l'odore dell'estratto artificiale di mandorla», che svela, ancora più dolorosamente, la nostra condizione. Generazione X era l'accettazione, l'adattamento alla vita laterale, un McJob qualunque, la lenta dispersione dei desideri nel paesaggio americano, prima Palm Springs e infine il deserto. Ritraendosi, i personaggi pensavano di trovare il proprio posticino nel mondo, nell'intersezione anonima della X, che diventava qualsiasi luogo a un'ora qualsiasi, effimera zattera di salvataggio dalle infinite, teoriche possibilità che il nuovo ordine mondiale offriva dopo il 1989: la democrazia - da esportare anche tramite guerre - equiparata a fondi d'investimento o a futures; il McJob trasformato da eccezione temporanea a ideologia condivisa meglio e prima di quanto nuove leggi potessero fare; il perfezionamento della merce, del prodotto, unico modello di riferimento, tecnologia compresa. Sono passati due decenni, i membri della Generazione X hanno più di quarant'anni, stretti tra il potere maturoei trentenni già prontia sostituirli. Così molti rimangono nelle nicchie delle loro esistenze, aggrappati alla circolazione di dati, notizie, la sedimentazione che tanto avrebbe bisogno di una continuità di azioni collettive; altri, pochissimi, credono di avercela fatta, fondendosi nel flusso, per uscirne da vincitori individuali, di successo, secondo i parametri consolidati. In ogni caso, bisogna capire se siamo mai davvero usciti dall' intersezione della X, che celava l' imminente scomparsa delle api, moria da avvelenamento peraltro avvenuta in molte parti del mondo, come in Piemonte e in Lombardia, in prossimità di campi trattati con pesticidi. Nel romanzo di Coupland, le api ritornano e le loro punzecchiature rianimano la Generazione A, la lettera A, la prima lettera, il segno di una rinascita, di una vertigine, un nuovo inizio che scacci la fine attraverso la narrazione collettiva. Il rinvenimento di un alveare a Tacoma può essere una notizia rivelatrice. Le api rinascono e sopravvivono, magari sotto il ponte di un'autostrada, nel 2020. Spesso la letteratura necessita di un piccolo scarto, un salto in avanti di pochi anni, ambienta ciò che viviamo già adesso in un futuro mascherato, vicinissimo, che si possa confondere con il presente. La speranza è che - nel New Jersey o in un maltrattato margine milanese - le api possano continuare a vivere, anche tra le macerie sulle quali, a volte, la natura sopravvive e perfino rifiorisce, nel 2020 e oltre, quando alcuni di noi vedranno le api o i germogli sui rami, piccoli fuochi di un'epoca antica." (da Giorgio Falco, La nuova generazione Coupland, "La Repubblica", 23/09/'10)

Generation A (GuardianBooks)

mercoledì 22 settembre 2010

Byatt: Racconto il potere delle fiabe da Peter Pan a Harry Potter


"«Scrivo libri che parlano di libri, che hanno racconti e storie al loro interno, perché mi piace immensamente leggere, perché leggendo vivo più intensamente che nella vita. Perché da piccola non ho fatto altro che leggere, tutto, dai miti del nord, con la loro conclusione terribile, alle leggende greche, a cui non riuscivo a credere, alla mia amata George Eliot». Così, sullo sfondo di un salotto molto vittoriano in quella Putney che è ancora Londra ma è già sobborgo, con gli scoiattoli che si arrampicano sulle grandi querce del piccolo parco di fronte e le rose che ancora fioriscono nel minuscolo giardino di casa, così si racconta A. S. Byatt, dove A sta per Antonia e S per Susan, l'autrice del fortunatissimo Possessione, di Angeli e insetti, di La torre di Babele, e ora del monumentale e avvincente Il libro dei bambini (esce in questi giorni da Einaudi, traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi). Dove, riprendendo la fortunata struttura di Possessione, che sovrapponeva una storia a suspense nel presente alla ricerca sugli amori nascosti nel passato di un grande scrittore molto simile a Browning, intreccia invece una saga lunga e complessa che va dalla fine dell'Ottocento fino alla prima guerra mondiale, ai racconti e alle poesie creati dai suoi personaggi - artisti, poeti, anarchici, ribelli fabiani, intellettuali dell' era vittoriana e poi edoardiana. Anche ora Antonia Byatt sta lavorando a un racconto su un racconto. «Sto scrivendo per la casa editrice Canongate i miti del Nord, quelli, per intenderci, a cui si è ispirato Wagner, e li racconto con gli occhi di un bambino della seconda guerra mondiale. E quel bambino sono io, spaventata, con il mio papà lontano in Africa di cui non si avevano notizie, con le letture che mi hanno aiutato ad attraversare quegli anni».
L'infanzia nel suo Yorkshire, «a Pontefract, un piccolo paese con un castello diroccato, dove fu ucciso Riccardo II», la rigorosa educazione quacchera che le ha lasciato «il segno del puritanesimo», la disciplina che le hanno insegnato il padre, giudice e scrittore, e la madre, tornano spesso nei suoi ricordi. «Mia madre era una donna molto intelligente, laureata a Cambridge, che ha insegnato, durante la guerra, per essere poi rispedita a casa da una ingiusta legge postbellica che intendeva proteggere il lavoro maschile. Per questo il mio primo romanzo parla di una ragazza proprio com'ero io quando ho lasciato Cambridge, che sognava l'amore e il matrimonio, ma al tempo stesso aveva paura di una vita futura che la mettesse nella condizione di smettere di pensare». Le cose sono andate diversamente. Antonia - anzi, Dame Antonia, visto che ha ricevuto dalla regina Elisabetta il titolo di Commander dell'Ordine dell'Impero Britannico - ha insegnato, ha scritto un consistente corpus di libri, ha conquistato un Booker Prize, ha ispirato due film di successo, uno da Possessione uno da Angeli e insetti - e con i diritti del primo, dice sorridendo, si è potuta comprare la piccola piscina coperta che si intravede nel giardino dietro casa.
Ora si accinge a scrivere un romanzo (ma per ora è solo alla fase delle ricerche) su psicoanalisti e surrealisti, tra gli anni Trenta e la fine della Seconda Guerra mondiale. «Non ho ancora i personaggi, ho la cornice, come sempre, è il mio modo di procedere, dall'esterno verso l'interno. Ma sto studiando in particolare Max Ernst, che mi ha sempre affascinato». Anche in Il libro dei bambini Antonia Byatt ricostruisce un mondo e un momento della storia, e prevale, nell'attenzione del lettore, la cornice, la grande tela complessa che la scrittrice popola di personaggi di finzione, di famiglie allargate, di grandi case ospitali - e di comparse del mondo reale come H. G. Wells, Oscar Wilde, Emma Goldman, George Bernard Shaw, James Matthew Barrie. «Il mondo di un'Inghilterra colta e creativa e diversa che cercava e inventava nuovi modi di vivere negli anni severi della regina Vittoria - e che poi si è scatenato, alla morte di lei, con il gioviale Edoardo, riscoprendo i piaceri della vita, come tanti bambini. E forse non è un caso se in quel momento scrivere per i bambini ha rappresentato in Inghilterra una delle forme più alte di letteratura. Un mondo dove, nel mio romanzo, come un ragno al centro di un ragnatela, c'è Olive Wellwood, la bella e disinvolta scrittrice di racconti per ragazzi che, presa dal suo lavoro e dalla sua passione non si accorge di ciò che succede ai suoi i figli». Cosa che, suggerisce Antonia Byatt, è accaduta a molti grandi autori di storie per ragazzi - e, in certo senso ha rappresentato anche il punto di partenza del suo romanzo. «Il figlio di Kenneth Grahame, l'autore di un classico come Il vento tra i salici, è morto suicida, a due giorni dal suo ventesimo compleanno. Dei ragazzi che il papà di Peter Pan, James Barrie, ha adottato, uno è morto annegato. Gli scrittori possono essere gente pericolosa, dei distruttori, che divorano l'infanzia dei loro figli con la loro creatività». In un libro dalle molte intonazioni - ambizioso e fin troppo ricco nella visione di trent' anni di storia; deliziosamente frivolo, nella perfetta e dettagliata descrizione di vestiti ed interni; intenso ed esplicito nel racconto dei momenti di passione; emozionante nella descrizione della creatività dei suoi personaggi, e in particolare quando racconta le fasi della preparazione delle meravigliose ceramiche modellate da un artista «selvaggio» come il ragazzo Philip - le pagine più sconvolgenti sono quelle che, finito il momento eccitante e straordinario della libertà e dei giochi, degli amori e della creatività, parlano della prima guerra mondiale: «Dove la generazione che aveva scelto di essere bambina e libera è stata massacrata. E sa, a riprova di questo, che cosa ho scoperto e ho messo nel libro? Che i ragazzi inglesi, in mezzo a quel massacro, chiamavano le trincee con il nome dei personaggi o dei luoghi delle fiabe: la trincea di Peter Pan, il Boschetto di Uncino, la Casetta di Wendy». Donna di amori e disamori netti (è stata al centro di una polemica per aver criticato Harry Potter e l'ordine della Fenice: «Ma non è vero, ribatte lei, anzi, penso che la Rowling sia molto brava, ho solo detto che non capisco perché un adulto dovrebbe leggerlo»), graniticamente attaccata alle sue passioni letterarie (George Eliot, il cui Middlemarch ama immensamente, Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino per ragioni che paiono evidenti, Balzac di cui sta rileggendo adesso La cugina Betta, Alice Munro perché è «semplicemente grande», il provocatore Adam Thirlwell di Politics), scrittrice sofisticata che si nutre di scrittori e di metaletteratura (si veda Gradazioni di vitalità. L'arazzo del romanzo, la conferenza di Leida del 2004 ora pubblicata da Nottetempo), improvvisamente Antonia Byatt interrompe la chiacchierata letteraria e il gioco delle citazioni. Smette di elencare. Sorride. «Possiamo parlare di libri finché vogliamo. Io adoro il mio mestiere e continuerò alla mia maniera. Ma c'è un solo romanzo che ha cambiato la storia del mondo». Una pausa. «La capanna dello zio Tom». Anche per via di Eliza, la quacchera ribelle?" (da Irene bignardi, C'era una volta in Inghilterra, "La Repubblica", 22/09/'10)

lunedì 20 settembre 2010

La civiltà del labirinto


"Nel 1922, annus mirabilis della letteratura moderna, T. S. Eliot pubblicò una memorabile recensione dell'Ulisse di Joyce. Joyce, disse, ha creato non solo un romanzo unico al mondo, ha inventato un metodo, consegnando a noi scrittori e di riflesso ai nostri lettori, a tutti noi uomini moderni, la chiave per dominare il caos del presente. E come? Intrecciando il disordine della vita all'ordine del mito. Eliot capì, perché era proprio quel che faceva in poesia: anche lui per citazione letteraria, per allusione mitologica provava a dare forma e significato "all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea". E insegnò a chi lo intese, e furono in molti nella sua epoca, come leggere non solo l'Ulisse, non solo La terra desolata, ma il Novecento, che proprio con Joyce, proprio con Eliot si manifesta nella sua potenza di secolo, che impone a chi in esso vive il problema del Tempo. Che cos'è il Tempo? È Chronos? È Tyche? È taglio o cucitura? È sequenza ordinata o interruzione? La domanda ossessiona il Novecento appena esso si apre alla consapevolezza di sé, come fa con Eliot, con Joyce. A questo servono gli scrittori, sono le antenne sensibili, vibratili che rispondono con più intensità alle angosce epocali.
In pagine altrettanto mirabili, qualche anno prima, Nietzsche aveva riflettuto sul significato dell'essere contemporaneo: ovvero tempestivo? O intempestivo? In altre parole, per abitare nel proprio tempo, bisogna andare a tempo, come si fa nella danza, o controtempo? Ecco l'intoppo. Eliot è americano, anche se si naturalizzerà cittadino britannico. Lo dico perché più di altre la civiltà americana sembra dominata dal problema del Tempo. E del Mito - come il successo del colossal Troy dimostra. E non sorprende che sia così, visto che essa nasce nella piena consapevolezza del passato, da cui s'è staccata nella presunzione di creare alla fine del diciassettesimo secolo dell'era comune, o cristiana, un mondo nuovo - moderno. Chi partì a bordo del Mayflower e nel dicembre del 1620 sbarcò a Cape Cod non andava per colonizzare, andava a fondare la Nuova Gerusalemme: quella, almeno, l'ambizione. I pellegrini avrebbero partorito un organismo sociale già sapiente, privo d'infanzia; il frutto nasceva maturo per l'esperienza che i suoi progenitori già avevano del Vecchio Mondo. Il quale però rimaneva sullo sfondo, e forniva immagini e simboli alla loro moderna odissea. Ma prima ancora di Ulisse, che Joyce celebrava nel suo romanzo, l'uomo moderno che abita la terra desolata di Eliot convive con altri fantasmi, più arcaici. Non solo con l'astuto greco, ma con Minosse, sostiene Theodore Ziolkowski, professore emerito di Letterature Comparate a Princeton. È Minosse, e con lui la sua isola, Creta, ad ossessionare la mente e la letteratura moderna. Non a caso lo studioso intitola il suo libro, dedicato a tracciare la mappa della persistenza di immagini antiche, addirittura arcaiche, nella vita moderna, Minos and the Moderns. Basta pensare all'idealizzazione del Minotauro da parte di Picasso, di Dürrenmatt, di Masson, di Breton; alla presenza inquietante del Labirinto nel pensiero di Freud, di Nietzsche, di Marx. O alla figura di Europa a cavalcioni del toro in mezzo al mare in tanta pittura non solo barocca. Per non parlare della sfrontata Pasifae, col suo erotismo alla Bataille. O del romantico abbandono di Arianna, che Strauss metterà in musica, su libretto di Hofmannsthal. O del torbido amore della sorella di Arianna, Fedra, che dopo Euripide e Seneca, ispirerà Racine. E Yourcenar. Creta risorge nella sua potenza di simbolo nel Novecento grazie a un singolare signorotto inglese, Sir Arthur Evans, che agli scavi si dedica con la tenacia di chi vuole scoprire le pudenda della civiltà vittoriana in cui è cresciuto, che in ogni modo ha voluto rimuovere la potenza della sessualità, che ha celebrato solo e soltanto nel suo aspetto procreativo; mentre a Creta la donna è madre sì, ma copula con un toro e genera un mostro, il quale a sua volta rappresenta la sfida, la minaccia, che il moderno ateniese Teseo deve vincere, instaurando il paradigma della modernità uguale vittoria sull'arcaico. Per trent' anni - racconta Cathy Gere nel suo affascinante Knossos & the Prophets of Modernism - Evans scavò nel palazzo di Cnosso riportando alla luce una civiltà che accese la fantasia di scrittori e artisti, da Joyce a De Chirico a Robert Graves a Hilda Doolittle. Non tutte le ipotesi di Evans corrispondevano alla realtà dei fatti; in effetti, l'intraprendente studioso - che per comodità si comprò il sito archeologico - ci metteva del suo. E scavò non solo nei sassi di Creta, ma nella propria interiore coscienza, nel proprio personale, o addirittura collettivo inconscio. Fatto sta che anche lui (come un altro signore svizzero di Basilea, Johann Jakob Bachofen, nato cinquant'anni prima di lui, ma sempre nell' Ottocento) lasciò intravvedere un altro mondo - materno; e prese a favoleggiare di arcaici matriarcati, di una libido materna attiva nelle mura di Creta, di una civiltà della madre promiscua, pacifica. Insomma, a Creta si scopriva non solo un luogo fisico, ma un tempo anteriore alla Storia. E se la Storia ha sempre un che di paterno, virile - non a caso la storia è un incubo per Stephen Dedalus, che già nel nome stringe la sua moderna nevrosi al mito cretese - il "prima" rivelava un mondo pacifista, materno. Evans parlò di un'origine africana della civiltà occidentale, si entusiasmò per il matriarcato, per l'androginia, il pacifismo, descrisse un mondo fiabesco, un paradiso di divinità femminili, privo di soldati, ma ricco di preti travestiti, di femmine atletiche, di giovani uomini effeminati, una specie di infanzia dell' Europa. Con giovani uomini e donne cretesi che erano già un'anticipazione dei figli dei fiori degli anni sessanta del ventesimo secolo. Un idillio europeo - un inizio di sogno per un'Europa che sarà tra poco travolta da conflitti mondiali asprissimi, traumatici." (da Nadia Fusini, La civiltà del labirinto, "La Repubblica", 20/09/'10)

Gli scrittori del '900 e quel difficile equilibrio con il lavoro vero


"Litterae non dant panem, la scrittura non paga. Lapidari quant'altri mai i latini liquidavano la faccenda in un motto valido per ogni tempo e latitudine. Perché gira che ti rigira c'è poco da fare: nella maggior parte dei casi per dedicarsi all'arte dello scrivere occorre arrangiare altrimenti la focaccia.
E il paesaggio della narrativa italiana novecentesca almeno in ciò può dirsi pienamente cosmopolita. Anche se spiccano comunque due vene carsiche.
Da un lato ci sono gli scrittori che non svolsero mai — o quasi — professioni altre rispetto al lavoro autoriale o editoriale. Potevano essere giornalisti, collaboratori di case editrici o addirittura editor anzitempo: ma non finirono per "sporcarsi le mani" con qualcosa di assai distante dalla parola.
Fra di essi si contano alcuni dei più grandi: Calvino, Moravia, Arbasino, Malerba, Carlo Levi, Pirandello, Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Tondelli e molti ancora. Senza dimenticare la fitta schiera dei traduttori-autori, capitanata da Pavese e dalla sua allieva Pivano. Forse non basta a dire che per scrivere bene occorre non timbrare il cartellino — o quantomeno nascere in una famiglia agiata, cosa questa che accomuna non pochi — ma è comunque un dato significativo. Resta nel solco anche l'esperienza di attore e drammaturgo e Nobel Dario Fo.
Dall'altro lato abbiamo un rigoglioso battaglione di "scrittori lavoratori" veri e propri.
Una premessa: pochi autori nostrani possono mostrare curricula sconvolgenti come quelli di Jack London (fiociniere sull'Artico, lavandaio e cercatore d'oro), Joseph Conrad (marinaio, e commerciante) di Céline (direttore di una piantagione di cacao in Africa e poi medico dei poveri), o di George Orwell (poliziotto in Birmania e sguattero nei ristoranti parigini) o del più recente ed eclettico Raymond Carver (anche falegname e fattorino).
Ma le cicatrici del mestiere con cui campare non mancano fra i narratori della Penisola. L'esempio più eclatante è forse Primo Levi, che lavorò nel campo chimico fino alla pensione. Prima impiegato e poi direttore della Siva, ditta di vernici nel torinese: nonostante il grande riscatto letterario avuto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, non abbandonò mai la sua professione — e anzi onorò l'arte dell'operaismo specializzato nel suo romanzo La chiave a stella.
E quanto a specializzazione tecnica, viene subito in mente Carlo Emilio Gadda. Il grandissimo scrittore milanese lavorò infatti come ingegnere elettrotecnico fino al 1940, nonostante alcuni sofferti e ripetuti tentativi di dedicarsi soltanto alla letteratura. Solo a quarantasette anni suonati (e dopo un premio Bagutta), si concesse di tornare per sempre al suo vero amore.
Notevole, e quasi unico nel suo genere, è anche il caso di Paolo Volponi. Autore fra i più significativi del Novecento italiano, lavorò all'Olivetti come direttore dei servizi sociali e poi come direttore delle relazioni aziendali. Passò quindi alla Fiat e fu poi addirittura presidente della Fondazione Agnelli, prima di diventare senatore del PCI. Anche per lui le esperienze nel mondo del lavoro lasciarono un segno, pienamente visibile in opere come Memoriale (dove spicca la fabbrica alienante del dopoguerra) e Corporale.
Altri esempi? Della doppia vita di Italo Svevo sappiamo fin dai banchi del liceo: fu impiegato nella filiale triestina della Banca Union e poi manager nell'azienda del suocero. Mario Rigoni Stern — dopo le terribili esperienze in guerra — non si mosse dal catasto di Asiago, dove lavorò come impiegato fino al prepensionamento per questioni di salute. Piero Chiara, delizioso affrescatore della provincia varesotta, lavorò nella cancelleria di Luino. Elio Vittorini fu per anni contabile e correttore di bozze, prima che la Bompiani e poi l'Einaudi non gli dessero incarichi editoriali, facendolo passare dall'altra parte della barricata.
E prima di diventare quello che tutti sappiamo — un parlamentare, uno scrittore, un intellettuale di peso — Leonardo Sciascia lavorò per sette lunghi anni al Consorzio Agrario di Racalmuto, il suo paese d'origine in provincia di Agrigento.
Molto ampia e variegata fu la schiera degli insegnanti: una strada quasi naturale soprattutto per gli intellettuali di provincia, e che garantiva ampio tempo libero da dedicare alla scrittura.
Su tutti ricordiamo Lucio Mastronardi, quasi archetipale nella sua figura di insegnante dal carattere difficile e complesso — e che tornerà, immancabile, nel suo famoso Maestro di Vigevano. Un cenno a parte meriterebbe Pier Paolo Pasolini, che da giovane insegnò alla scuola media di Valvasone, in Friuli, e più tardi in un istituto parificato del Ciampino a Roma. Anche Giuseppe Pontiggia — bancario depresso per una decina d'anni, esperienza cui dedicò l'eloquente La morte in banca — si dedicò in seguito all'insegnamento serale, lavoro che gli consentiva di scrivere con maggiore agio. Diversa la questione per Mario Lodi, che fu maestro elementare e pedagogo di grande livello, e non vide mai nella scuola un lavoro "altro" rispetto alla scrittura: anzi, li fece compenetrare in una poetica unica. ricca è la casistica anche fra i cattedratici. Due fra tutti: Pirandello a Magistero insegnava Stilistica, Umberto Eco Semiotica a Bologna.
Nel novero degli scrittori "popolari" merita una citazione almeno Giorgio Scerbanenco: prototipo del narratore di seconda generazione, madre italiana e padre ucraino, dovette cavarsela con una quantità di mestieri umili — fra cui il guidatore di ambulanze e l'operaio.
L'esperienza più singolare rimane quella di Vincenzo Rabito, autore di Terramatta, contadino semianalfabeta che non subì mai la contraddizione fra desiderio delle lettere e dura realtà del lavoro: concentrò entrambe in sette anni di lavoro solitario per raccontare cinquant'anni di storia. Cinquant'anni di un Paese che lavora, ama, lotta. E scrive." (da Stefano Biolchini - Federico Fiorencis, Gli scrittori del '900 e quel difficile equilibrio con il lavoro vero, "Il Sole 24 Ore", 19/09/'10)

Corro al lavoro, poi scriverò (Serena Danna)

sabato 18 settembre 2010

Calvino, nel labirinto ci serve ancora la sua bussola


"L’enfasi celebrativa con cui di solito ci occupiamo di ricorrenze e anniversari sta a significare il suo contrario: celebriamo rumorosamente i grandi scomparsi per meglio auto-esentarci dal dovere di rileggerli.
Con Italo Calvino questi rischi non si corrono. I venticinque anni che sono passati dalla sua prematura scomparsa (aveva da poco passato i sessanta) servono a capire ancor meglio quanto ci sia (sempre più) necessario, addirittura indispensabile.
E cade opportuna la dedica di «Portici di Carta» anche perché il sardo-ligure Calvino qui aveva trovato il suo habitat naturale. Di Torino, scrisse, gli piaceva «l’assenza di schiume romantiche, il far affidamento soprattutto sul proprio lavoro, una schiva diffidenza nativa, e in più il senso sicuro di partecipare al vasto mondo che si muove e non alla chiusa provincia, il piacere di vivere temperato di ironia, l’intelligenza chiarificatrice e razionale». Lo aveva attratto «un’immagine sociale e civile» più che «letteraria».
Qui ha messo a punto la sua strategia cognitiva. Figlio di scienziati, e scienziato per abito mentale egli stesso, Calvino elabora nientemeno che un nuovo modo di vedere il mondo al di là delle vecchie convenzioni neo-impressioniste o neoespressioniste.
Gli interessa definire le complicate reti di relazioni che si danno tra le persone, le cose, gli eventi: simile in questo a Gadda, ma con tutt’altri registri di scrittura. È un cartografo, un costruttore di sestanti e astrolabi, un maestro
del calcolo combinatorio, un architetto-urbanista di palazzi e città letterarie, un inventore di apparecchi radiografici e tomografie assiali computerizzate.
Nulla lo appassiona quanto fare continuamente il punto, fissare la posizione propria e degli altri, cercare nessi, indagare il rovescio, la trama segreta di quell’arazzo di inganni e di apparenze che è la vita.
Tutto questo, si badi, partendo più o meno dall’Ariosto, cioè da un’apparenza di leggerezza fantastica, quasi d’evasione fiabesca. Che invece è un modo di giocare di sponda, di sottrarsi alle servitù della cronaca e del realismo, ai gonfiori e alle complicazioni dell’Io e dello psicologismo, alle pretese dello storicismo, ai lenocini dell’intrattenimento.
Scegliendo la posizione defilata e lievemente rialzata del Barone Rampante, Calvino è quello che ha visto meglio di tutti. Ci voleva una grande intelligenza e un grande coraggio per esordire raccontando la guerra partigiana nei modi del Sentiero dei nidi di ragno e proseguire in piena età dell’impegno con la trilogia degli antenati (ma già i raccontini giovanili hanno un’impronta di apologo filosofico incredibile per quei tempi). E poi andare avanti a sperimentare, senza mai ripetersi, senza mai campare di rendita, fino alla fine, sempre contando su una qualità di scrittura che rende ogni pagina, anche la più estemporanea, semplicemente perfetta.
Per via della stessa lucidità del suo talento d’indagatore, Calvino ha conosciuto il disincanto sin dalla metà degli Anni '50, ma non si è lasciato travolgere dallo sgomentoe dall’angoscia, non ha alterato la sua fisionomia illuministica con sogghigni nichilisti alla Cioran o voluttà apocalittiche.
Fedele al diritto-dovere della laconicità, ha tenuto la postazione senza arretrare, ha continuato a esercitare il pragmatismo stoico definito in una celebre pagina delle Città invisibili: l’inferno esiste, è il qui e ora che abbiamo costruito insieme, ma se non vogliamo lasciarcene inghiottire o diventare parte integrante di esso, dobbiamo «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
In questi anni di basso impero è un invito che costituisce una bussola sicura. Leggendo alla radio il poema ariostesco, Calvino aveva osservato a proposito del destino già scritto a cui Ruggiero è condannato: «Tra il punto in cui egli si trova ora e l’adempiersi del destino possono succedere tante mai vicende, tanti ostacoli frapporsi, tante volontà entrare in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d’arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che danno forma all’esistenza».
Antieroe della «perplessità sistematica», anti-presenzialista che cercava di far perdere le proprie tracce tra le moltitudini delle metropoli, Calvino non si è mai sottratto alla sfida, fino a schiattare letteralmente di fatica, come un contadino dei poderi paterni, durante la stesura delle Lezioni americane, un libro che da solo può dare la misura di una civiltà letteraria. Perfettamente consapevole dell’inevitabile scacco finale, ha continuato a disegnare mappe sempre più esatte del labirinto che ci tiene prigionieri.
Per questo continueremo ad avere bisogno di lui. Per questo continuano a leggerlo in tutto il mondo." (da Ernesto Ferrero, Nel labirinto ci serve ancora la sua bussola, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/09/'10)

Contro la letteratura


"Tempo fa mi chiedevo: «Come mai, se la poesia è tanto presente nell’insegnamento scolastico, una volta terminati gli studi sono così pochi i suoi lettori?». E allora
mi veniva naturale una risposta: «La scuola educa troppo spesso, sia pure involontariamente, contro la poesia, riducendola a un oggetto scolastico, a un compito che fuori dalla scuola non avrebbe senso, come il problema dell’acqua che scende nella vasca da bagno o della rotazione di una figura piana. Chi, sano di mente, tornando a casa dal lavoro, penserebbe di autoassegnarsi un problema di quel genere?».
Davide Rondoni pubblica ora un pamphlet, Contro la letteratura (Il Saggiatore), che affronta il tema, considerando appunto l’uso improprio che i professori troppo spesso fanno della letteratura.
E allora scatena una provocazione, un paradosso estremo che, se assunto come tale, può diventare l’utile apertura di una riflessione necessaria e di un discorso nuovo.
Rondoni dice in sostanza che la poesia e la grande letteratura in genere dovrebbero essere sottratte dall’obbligo scolastico nelle superiori. Dice che solo lasciandole alla libertà di un insegnamento facoltativo potrebbe essere evitato un destino di indifferenza e oblio post-scolastico. Una provocazione, appunto, molto acuta.
Ma è chiaro che la questione è molto vasta, anche perché non so quale sia il livello della proposta scolastica per tutte le altre materie, per quanto di ben diversa natura ... Diciamo allora che il problema è essenzialmente quello della formazione di una classe docente più qualificata, essendo in effetti molto spesso ferma alle nozioni scolastiche, scarsamente motivata, mai aggiornata e dunque difficilmente in grado di coinvolgere attivamente gli studenti.
Rondoni affronta l’argomento con spirito reattivo e in uno stile «sincopato» e disinvolto (anche troppo ...). Parte dalla giusta convinzione che «la letteratura non è una materia da imparare a scuola, ma un’attitudine da non perdere per conoscere il mondo e se stessi». Il che non toglie, io penso, che la stessa scuola possa - o meglio debba - trasmettere, a tu per tu con i testi, questo messaggio.
Condanna quegli insegnanti che per raggiungere più facilmente l’attenzione e il consenso degli alunni accorciano la strada presentando come poesia dei semplici testi per canzone. Ed è questo un difetto grave presente anche nei manuali. Non poche volte è capitato anche a me, girando per la scuole, di litigare con professori convinti dei valori poetici della canzonetta. Come in ogni situazione professionale, del resto, nella scuola sono molti i professori bravissimi (tra l’altro non sono pochi gli scrittori-insegnanti; per fare qualche esempio: Lodoli, Mastrocola, i poeti De Angelis, Benedetti, Santagostini) e moltissimi sono quelli scadenti che portano danno, che hanno - direbbe Rondoni - gli occhi gelidi del «killer» di letteratura.
Quella che a mio parere manca è una fascia media decisiva di insegnanti quanto meno informati, preparati, capaci di trasmettere i valori di un testo senza tradurlo in quelle banali pillole di contenuto che ne riducono o azzerano la decisiva dimensione estetica. Quante volte abbiamo sentito una domanda tipo: «Che cosa voleva dire, qui, il poeta?». Il poeta voleva dire esattamente ciò che ha detto, ciò che sta nelle parole, nelle sillabe e negli spazi bianchi del testo ... Questa è la sola risposta ragionevole.
Quello che manca, in fondo, è l'insegnamento a un corretto e approfondito uso estetico del testo. Un utile contributo - ne parla anche Rondoni - potrebbero
dare scrittori e poeti chiamati al lavoro nelle scuole e nelle università, non solo occasionalmente, mainmodo organico, secondo un preciso piano istituzionale." (da Maurizio Cucchi, La poesia vive solo lontano dalla scuola, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/09/'10)