lunedì 20 settembre 2010

La civiltà del labirinto


"Nel 1922, annus mirabilis della letteratura moderna, T. S. Eliot pubblicò una memorabile recensione dell'Ulisse di Joyce. Joyce, disse, ha creato non solo un romanzo unico al mondo, ha inventato un metodo, consegnando a noi scrittori e di riflesso ai nostri lettori, a tutti noi uomini moderni, la chiave per dominare il caos del presente. E come? Intrecciando il disordine della vita all'ordine del mito. Eliot capì, perché era proprio quel che faceva in poesia: anche lui per citazione letteraria, per allusione mitologica provava a dare forma e significato "all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea". E insegnò a chi lo intese, e furono in molti nella sua epoca, come leggere non solo l'Ulisse, non solo La terra desolata, ma il Novecento, che proprio con Joyce, proprio con Eliot si manifesta nella sua potenza di secolo, che impone a chi in esso vive il problema del Tempo. Che cos'è il Tempo? È Chronos? È Tyche? È taglio o cucitura? È sequenza ordinata o interruzione? La domanda ossessiona il Novecento appena esso si apre alla consapevolezza di sé, come fa con Eliot, con Joyce. A questo servono gli scrittori, sono le antenne sensibili, vibratili che rispondono con più intensità alle angosce epocali.
In pagine altrettanto mirabili, qualche anno prima, Nietzsche aveva riflettuto sul significato dell'essere contemporaneo: ovvero tempestivo? O intempestivo? In altre parole, per abitare nel proprio tempo, bisogna andare a tempo, come si fa nella danza, o controtempo? Ecco l'intoppo. Eliot è americano, anche se si naturalizzerà cittadino britannico. Lo dico perché più di altre la civiltà americana sembra dominata dal problema del Tempo. E del Mito - come il successo del colossal Troy dimostra. E non sorprende che sia così, visto che essa nasce nella piena consapevolezza del passato, da cui s'è staccata nella presunzione di creare alla fine del diciassettesimo secolo dell'era comune, o cristiana, un mondo nuovo - moderno. Chi partì a bordo del Mayflower e nel dicembre del 1620 sbarcò a Cape Cod non andava per colonizzare, andava a fondare la Nuova Gerusalemme: quella, almeno, l'ambizione. I pellegrini avrebbero partorito un organismo sociale già sapiente, privo d'infanzia; il frutto nasceva maturo per l'esperienza che i suoi progenitori già avevano del Vecchio Mondo. Il quale però rimaneva sullo sfondo, e forniva immagini e simboli alla loro moderna odissea. Ma prima ancora di Ulisse, che Joyce celebrava nel suo romanzo, l'uomo moderno che abita la terra desolata di Eliot convive con altri fantasmi, più arcaici. Non solo con l'astuto greco, ma con Minosse, sostiene Theodore Ziolkowski, professore emerito di Letterature Comparate a Princeton. È Minosse, e con lui la sua isola, Creta, ad ossessionare la mente e la letteratura moderna. Non a caso lo studioso intitola il suo libro, dedicato a tracciare la mappa della persistenza di immagini antiche, addirittura arcaiche, nella vita moderna, Minos and the Moderns. Basta pensare all'idealizzazione del Minotauro da parte di Picasso, di Dürrenmatt, di Masson, di Breton; alla presenza inquietante del Labirinto nel pensiero di Freud, di Nietzsche, di Marx. O alla figura di Europa a cavalcioni del toro in mezzo al mare in tanta pittura non solo barocca. Per non parlare della sfrontata Pasifae, col suo erotismo alla Bataille. O del romantico abbandono di Arianna, che Strauss metterà in musica, su libretto di Hofmannsthal. O del torbido amore della sorella di Arianna, Fedra, che dopo Euripide e Seneca, ispirerà Racine. E Yourcenar. Creta risorge nella sua potenza di simbolo nel Novecento grazie a un singolare signorotto inglese, Sir Arthur Evans, che agli scavi si dedica con la tenacia di chi vuole scoprire le pudenda della civiltà vittoriana in cui è cresciuto, che in ogni modo ha voluto rimuovere la potenza della sessualità, che ha celebrato solo e soltanto nel suo aspetto procreativo; mentre a Creta la donna è madre sì, ma copula con un toro e genera un mostro, il quale a sua volta rappresenta la sfida, la minaccia, che il moderno ateniese Teseo deve vincere, instaurando il paradigma della modernità uguale vittoria sull'arcaico. Per trent' anni - racconta Cathy Gere nel suo affascinante Knossos & the Prophets of Modernism - Evans scavò nel palazzo di Cnosso riportando alla luce una civiltà che accese la fantasia di scrittori e artisti, da Joyce a De Chirico a Robert Graves a Hilda Doolittle. Non tutte le ipotesi di Evans corrispondevano alla realtà dei fatti; in effetti, l'intraprendente studioso - che per comodità si comprò il sito archeologico - ci metteva del suo. E scavò non solo nei sassi di Creta, ma nella propria interiore coscienza, nel proprio personale, o addirittura collettivo inconscio. Fatto sta che anche lui (come un altro signore svizzero di Basilea, Johann Jakob Bachofen, nato cinquant'anni prima di lui, ma sempre nell' Ottocento) lasciò intravvedere un altro mondo - materno; e prese a favoleggiare di arcaici matriarcati, di una libido materna attiva nelle mura di Creta, di una civiltà della madre promiscua, pacifica. Insomma, a Creta si scopriva non solo un luogo fisico, ma un tempo anteriore alla Storia. E se la Storia ha sempre un che di paterno, virile - non a caso la storia è un incubo per Stephen Dedalus, che già nel nome stringe la sua moderna nevrosi al mito cretese - il "prima" rivelava un mondo pacifista, materno. Evans parlò di un'origine africana della civiltà occidentale, si entusiasmò per il matriarcato, per l'androginia, il pacifismo, descrisse un mondo fiabesco, un paradiso di divinità femminili, privo di soldati, ma ricco di preti travestiti, di femmine atletiche, di giovani uomini effeminati, una specie di infanzia dell' Europa. Con giovani uomini e donne cretesi che erano già un'anticipazione dei figli dei fiori degli anni sessanta del ventesimo secolo. Un idillio europeo - un inizio di sogno per un'Europa che sarà tra poco travolta da conflitti mondiali asprissimi, traumatici." (da Nadia Fusini, La civiltà del labirinto, "La Repubblica", 20/09/'10)

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