martedì 30 novembre 2010

Carlo Dossi, Note azzurre


"Carlo Alberto Pisani Dossi: due nomi, due cognomi, ma una sola persona. Davvero? Intanto questo scrittore molto lombardo, che sta tra la generazione del Manzoni e quelle dei Gadda, Buzzi e Arbasino, asciuga la firma e si contenta di Carlo Dossi. Però poi scrive (1870) la Vita di Alberto Pisani, l'altra metà di se stesso o, se vogliamo, il suo doppio. Carlo Dossi avrà sempre la capacità di sdoppiarsi e moltiplicarsi: lo scrittore, precocissimo, è critico di se stesso, incline a riscrivere. Ha un gusto "fisico" per la parola: la nutre di accenti, badando al ritmo metrico, poetico della frase ed ha un gusto fortissimo per l'oggetto libro. Ne parla anche il suo alter-ego Alberto Pisani, sorpreso dal lettore mentre scarta il pacchetto che contiene le prime copie di un suo libro e subito un refuso, balzato agli occhi, quasi lo offende. Continuando con gli sdoppiamenti occorre aggiungere che lo scrittore Dossi smette ad un certo punto di scrivere e si dedica alla carriera diplomatica. Siamo grosso modo all'epoca di Crispi con il quale Dossi a lungo collabora. Nel momento di maggior tensione tra il giovane Stato italiano e la Chiesa Cattolica, Dossi, che è più o meno ateo, tiene i rapporti con il Vaticano: è un capitolo ancora po co indagato della sua attività. Al ministero degli Esteri studia anche la distribuzione degli italiani nel mondo: ne esce un volume di grandissimo interesse. In missione in Colombia, in Grecia e poi anche in Italia Dossi coltiva la sua passione per l'archeologia. Esiste una sua collezione, oggi sepolta in un museo milanese, dicono per mancanza di spazio. Torniamo al centenario che si celebra con qualche convegno e soprattutto con la riedizione delle Note azzurre finalmente integrali, presso Adelphi che già le pubblicò nel '64 a cura di Dante Isella: il grande filologo allievo di Contini che a Dossi ha dedicato una notevole parte della sua attività a cominciare dalla tesi di laurea discussa a Firenze nel '47, stampata da Ricciardi nel 1958 e ora riproposta in facsimile da Officina Libraria, con l'aggiunta di un saggio affettuoso, su Dossi e Isella di Niccolò Reverdini, che di Dossi è il bisnipote. Ancora Reverdini, nella nuova edizione delle Note Azzurre firma un documentatissimo excursus sulla storia editoriale di quest'opera straordinaria composta in quarant'anni, vero specchio di una mente curiosissima e di un'indole incontentabile. Uscì per la prima volta postuma, a cura della vedova Carlotta Borsani, nel 1912. Era una versione ridotta che giudiziosamente tralasciava le Note più spinte. Si sarebbe dovuti arrivare al secondo dopoguerra per veder cominciare il lungo travaglio della nuova edizione. Dunque Dante Isella, poco più che ventenne, sale al Dosso, la villa che Carlo Dossi ha fatto costruire quasi a picco sul lago di Como in mezzo a cipressi centenari, e lì consulta e trascrive con cura estrema i quaderni con la copertina azzurra (da lì il nome delle Note azzurre) che Carlo ha con grafia minuta messo in bella copia. Passano alcuni anni e si cerca un editore, ci si consulta anche con Benedetto Croce che fraintende e pensa di dover curare lui l'edizione e declina per via dell' età ormai avanzata. Alla fine, finanziando l'impresa la famiglia, si arriva a Ricciardi. Ma quando tutto è pronto Raffaele Mattioli, il banchiere umanista cui la Ricciardi fa capo, consulta gli avvocati e tutto viene sospeso. Si temevano cause intentate da persone ancora viventi o dagli eredi per i non pochi giudizi, diciamo così, piuttosto critici. I fogli di quella edizione rimasero in tipografia e furono poi ritirati. Si allestì un numero limitatissimo di copie ad uso privato, con la raccomandazione esplicita di non diffonderle. Contini nel tira-e-molla se ne ebbe anche a male. Ma erano così esplosive le Note azzurre? Già era ricorsa agli avvocati la vedova dello scrittore quando si era accorta che Gian Pietro Lucini, poeta e amico di famiglia, aveva trafugato materiale dagli archivi e citato Note azzurre proibite nel suo volume L'ora topica di Carlo Dossi. E gli avvocati, prudenti, avevano inviato una bella parcella dopo aver esaminato la questione e chiesto di non intentare cause che sarebbero state "la gioia dei gazzettieri". Una nota proibita, per esempio, riguardava Tommaseo e la sua abitudine di frequentare case di tolleranza, chiedendo sempre che ci fosse una candela di sego da infilare nelle terga, sennò il servizio non gli sembrava completo. Un'altra toccava delle abitudini sessuali di Vittorio Emanuele II, cui venivano frenesie improvvise e bisognava procurargli subito una donna. Ma c'erano anche espliciti attacchi a personaggi ben noti, come Fausto Maria Martini, letteratoe funzionario della Pubblica Istruzione che Dossi diceva tra i più corrotti, reo, tra l'altro, di aver nominato ispettricea Firenze una donna di facili costumi, moglie del poeta Mario Rapisardi e amante, tra gli altri, del Verga, che Dossi definisce "romanziere da dozzina". "Udii", dice un'altra nota, "accusare Manzoni di pederastia quando era giovine". In realtà il vero "scandalo" delle Note azzurre, se così si può dire, è nell'essere un'opera molto originale, uno Zibaldone lombardo nato negli anni verdi della Scapigliatura nel quale tra l'altro l'autore a lungo indaga il prediletto tema dell'umorismo, vero indicatore dell'epoca moderna, cui meditava di dedicare un saggio compiuto. Sono stato al Dosso e ho potuto vedere gli originali delle Note azzurre e l'archivio in cui Dossi stesso aveva organizzato le proprie carte, letterarie, familiari e pubbliche con ordine estremo. Visitando la grande villa, magnifica nelle sue stanze decorate e affrescate secondo il gusto del primo Novecento, uno stile floreale corretto dall'atmosfera nordica, mi è subito venuto in mente Mario Praz e il suo culto delle case. Praz al Dosso non è mai stato, ma c'era stato Savinio, quando la costruzione era ancora da ultimare e subito gli era sembrata "nelle sue colonne e nei suoi terrazzi tra gli alberi" una villa dipinta da Boecklin. Lì aveva ragionato e scherzato con Dossi, definito "un soffio d'uomo", che si paragonava ai cardi (Savinio dice carciofi) presenti un po' dovunque nelle decorazioni che, come lui, erano spinosi fuori e morbidi dentro. Sarebbe scivolato via a soli cinquantasette anni di lì a poco, colpito da ictus, lasciando a immagine di sé una casa e un archivio perfetti dove in segreto abita ancora." (da Paolo Mauri, Dossi, il libro maledetto venerato e censurato, "La Repubblica", 30/11/'10)

lunedì 29 novembre 2010

Misteri d'autore


"Alla base di Misteri d’autore (Aragno), trittico di studi dedicato a Gadda, Fruttero & Lucentini, Eco, stanno, con intima simmetria, almeno tre provocazioni, tutte oculatamente argomentate ma tali da dispiacere alle cerchie di gusto più esclusive. La prima è già chiara nel piano d’opera, che in nome del giallo novecentesco, e di una sua crescente nobilitazione estetica, affianca Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, La donna della domenica e Il nome della rosa. Ossia un monumento allo sperimentalismo espressionista, un romanzo supposto di consumo e il manifesto niente meno della riconversione postmoderna: solitamente dislocati, e per concorde parere su piani diversi del nostro sistema letterario.
Ciò non stupisce affatto in un saggista come Vittorio Spinazzola, decano della contemporaneistica italiana e incline per costume a un lavorio mitemente trasgressivo (non una nota a piè di pagina, non un rinvio alle ricerche altrui: cose che irritano forte la comunità dei dotti). Individuato nel poliziesco il genere più dinamico del secolo scorso, egli si prova a campionare alcuni esiti, tenendo in conto sia le reazioni della critica ufficiale sia il successo largo tributato loro dai lettori. Naturalmente non per fare un’apologia indistinta della formula, dello schema originario, ma per verificare secondo quali procedimenti essa tenda a stabilizzarsi nei piani medio alti della nostra letteratura. E grazie a un metodo che procede non già dal testo al codice, ma all’inverso, dal codice alle varianti concretamente realizzate: Gadda e l’ibridazione con il romanzo sociale; Fruttero & Lucentini per il brillante innesto di detection e ordine dei sentimenti; Eco con il giallo filosofico ed erudito di angolazione neostorica.
Siamo sinceri, una pagina del semiologo di Alessandria o del duo F & L non regge minimamente al confronto con Gadda. Ma non è questione qui di magistero stilistico, bensì di architetture, di modelli antropologici e comportamentali che il giallo favorisce. In questo senso – seconda provocazione -, Gadda invece di prevalere gloriosamente sui contendenti ne risulta sfavorito, prigioniero com’è di impulsi ad alto quoziente colposo, voyeurismo, tendenze matricide maldecantate, che non sembrano consentire una distensione organica della materia. Il proporsi aperto e inconcluso del Pasticciaccio diventa per conseguenza una menda piuttosto che uno slancio novatore; il suo rinunciare alla sintesi, un’inanità anzi che una disarmonia prestabilita. Non che Spinazzola mostri di transigere sulle manchevolezze dei colleghi: «spassose frottole pseudo-ecdotiche», definisce la prefazione apposta da Eco al Nome della rosa; così come ne censura l’orditura linguistica, soprattutto quando si innalza a episodi di estaticità ispirata («sovreccitazione a freddo») o quando abbandona la parodia per accorate ricette di vita («saggissimo melodrammatico»).
Nella Donna della domenica coglie senz’altro «una trama rilassata e divagante», e insomma il tipo del “romanzone” ottocentesco. Però tutti e tre i capi d’opera cantano alte le loro notevolissime ragioni, son date da Spinazzola con un gusto analitico che fa visibilmente perno sugli aspetti di tipo psichico e generativo, energetico, di slancio edificante. È ben vero che gli affezionati del giallo rifiuterebbero di riconoscersi in narrazioni di tale fattura; perché le resistenze, per così dire, vengono a un tempo dall’alto e dal basso. Ma proprio qui lo studioso milanese mostra meglio il suo moderatismo anticonformista, la sua medietà corrosiva: quando cioè si colloca sul piano sommamente strategico dei personaggi protagonisti, dei detective procacciatori di verità. E nel farlo – terza e finale provocazione - non mostra di intronizzare affatto il commissario Ciccio Ingravallo, con il suo cerebralismo esacerbato, talora fallace e desistente (non lo incanta lo “gliommero”, «metafora divulgativa del pensiero indeterminista»).
Né mostra soverchia simpatia per Guglielmo da Baskerville, emblema più che controfigura in carne di una intellettualità inorgogliata e meta temporale. Si schiera piuttosto affianco del bonario e sornione Santamaria, che nelle pagine di F & L spicca per onesta e lungimirante fattività piccolo borghese. Lui la vera figura di mediazione tra ordine e disordine, che il giallo classico prevede (e qui tornano illuminanti le note introduttive al volume che suggeriscono una disgiunzione strutturale tra poliziesco e noir).
Occhiuto e persino severo con Gadda ed Eco, Spinazzola appare in sostanza più generosamente disposto verso F & L. Si può capire il privilegiamento: nei modi, bisogna ripeterlo, di una trasgressività moderata, lo studioso milanese è in cerca di opere che istituzionalmente, non eccentricamente, sanciscono la fortuna del giallo novecentesco. Riguardo a tale ascesa, o rottura del tabù elitaristico, sarebbe se mai da discutere circa il ruolo preminente che egli assegna al Pasticciaccio, vera testa di serie entro la canonistica maggiore. Altrettanto e forse più a contribuito Sciascia con Il giorno della civetta e con il Capitano Bellodi, sfortunatamente inedito eroe della lotta antimafia. L’ingegnere ha agito fuor di dubbio, e chissà con quanta intenzione, presso i gruppi esteticamente più squisiti; in siciliano a ricompensa dei lettori più sensibili in senso civico (e benché meno autorevoli, i secondi sembrerebbero maggioranza rispetto ai primi). Ma sono dettagli, abrasioni fisiologiche dinanzi a un ragionare sempre intenso ed elegantemente fluido volto a celebrare i meriti di un genere quanto mai interclassista e multiculturale. O meglio: a considerare nella coscienza critica dei contemporanei una forma di «intrattenimento ludico non degradante», che mentre amplia i margini del sistema, mostra di insidiarne i pregiudizi più sclerotici (un plauso ci sia concesso all’editore, per il prezzo singolarmente contenuto del volume)." (da Bruno Pischedda, F & L battono Eco e Gadda, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/11/'10)

Più libri più liberi


"Il 2011 sarà l'anno dell'eBook, l'effetto speciale che trasformerà la carta in contenuto digitale da sfogliare. Una rivoluzione nell'ambito dell'editoria che per alcuni potrebbe avvicinare al mondo della lettura, soprattutto chi mangia tecnologia, per altri potrebbe spaventare, soprattutto chi ama il peso del tomo e il suo profumo. Probabilmente si tratterà di un semplice passaggio di consegne a cui non si deve guardare con diffidenza, l'importante è che gli editori riescano a trovare un unico interfaccia su cui continuare a raccontare le proprie storie. Il dato è che nel 2009 l'eBook valeva lo 0,03% del mercato complessivo (1,1 milioni di euro) ma già il prossimo Natale raggiungerà lo 0,1%. Insomma le prospettive sono positive. Si parlerà di questo e di molto altro alla IX Fiera della piccola e media editoria, in programma dal 4 al l'8 dicembre al palazzo dei Congressi di Roma. Come si svilupperà il mondo dei libri nel 2020? Quale apporto darà l'intelligenza artificiale? Lo racconterà Derrick de Kerckhove, uno dei massimi teorici dell'argomento.
In un periodo di crisi economica la piccola e media editoria funge da traino del mercato che nel suo complesso ha fatto registrare (nel 2009) una diminuzione del giro d'affari del 4,3% e della produzione di titoli (-0,5%). L'editoria indipendente invece, quella che fatica a trovare spazio nelle vetrine delle librerie, non solo mantiene il proprio fatturato, ma riesce ad incrementarlo rispetto al totale del settore passando dal 35,4% del 2008 al 35,6% del 2009 rosicchiando quote di mercato ai colossi. Un dato testimoniato anche dai dati stessi della fiera che ogni anno registra un incremento positivo, nel numero dei visitatori (oltre 55mila nel 2009, +6,7% rispetto al 2008), nel numero dei volumi venduti (rispetto alla prima edizione è più che raddoppiato), e anche nel numero degli espositori (430) e degli ospiti (oltre 700). Questa fiera avrebbe solo bisogno di un contenitore più adatto.
Molti gli appuntamenti in programma, troppi per poterli citare tutti, ma per chi fosse interessato il calendario giornaliero è disponibile sul sito PiùlibriPiùliberi. Partiamo dal 4 dicembre con André Schiffrin, l'ospite d'eccezione, il rappresentante numero uno dell'editoria indipendente, colui che ha ispirato un modo diverso di fare cultura. Quel giorno parleranno anche Adriano Sofri e Andrea Camilleri che ricorderanno, insieme ad altri autori, Elvira Sellerio, la fondatrice della casa editrice siciliana scomparsa l'estate scorsa.
E poi ci saranno il premio strega Sandro Veronesi che parlerà del suo ultimo libro XY, il triestino Boris Pahor, il vincitore del Man Booker Prize 2010 Howard Jacobson, Anne Wiazemsky, che qualcuno ricorderà nei film di Jean-Luc Godard (Vladimir et Rosa, Vento dell'est, Crepa padrone, tutto va bene) e di Pier Paolo Pasolini (Teorema), prima di approdare con successo alla narrativa. A Roma presenterà insieme a Muriel Barbery (L'eleganza del riccio) La ragazza di Berlino, la sua ultima fatica. E ancora saltano all'occhio Stefano Benni, Miriam Mafai, Vito Mancuso e nientemeno che Luis Sepulveda." (da Emanuele Bigi, Sepulveda, Benni, Camilleri & c. tutti alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, "Il Sole 24 Ore", 25/11/'10)

Torna Più libri più liberi, nel segno dello Slow Reading ("La Repubblica")

sabato 27 novembre 2010

Dizionario della censura nel cinema


"Che ci crediate o no, la prima opera censurata, sotto l’Ancien Régime, fu la Bibbia, dato che il clero voleva esserne l’unico interprete: avere accesso al testo sacro, avrebbe consentito di contestar l’ordine costituito. Così, con una divertita ironia mai disgiunta da vis polemica s’esprime Jean-Luc Douin - firma cinematografica di Le Monde e romanziere - introducendo il proprio Dizionario della censura nel cinema.
Il notevole interesse suscitato dall’argomento è corroborato da curiosità, notizie, aneddoti, che rendono il libro gustoso (anche se non privo d’inesattezze rilevanti, aggravate da una traduzione ch’è eufemistico definire approssimativa): fa sorridere che un bacio in The Kiss (1896) fosse all’epoca considerato «bestiale» e «disgustoso» da un critico, che un’innocua scena di danza del ventre in The Serpentine Dance venisse occultata da delle strisce bianche per mascherare gli ancheggiamenti lascivi della protagonista.
La censura - annota inoltre l’autore - è versipelle: può essere emanata dall’alto (ministri) o dal basso (associazioni a difesa del buoncostume); mutila, taglia
(una frase, una scena); pone divieti (ai minori, a tutti); agisce sia prima delle riprese (in fase di sceneggiatura) che durante o dopo; sequestra, requisisce, condanna i negativi al rogo.
Con amarezza, lo storico Pascal Ory affermava «non c’è libertà di espressione, solo prove di libertà», aggiungendo poi che la libertà infinita non può esser che «d’essenza divina. Un’utopia»; di contro Théodore Schroeder, che dedicò tutta la propria esistenza al tema, sosteneva che «l’oscenità non è che una condizione dello spirito di chi legge o chi guarda».
Pur se il volume è prevedibilmente francocentrico nelle sue scelte, si occupa di molti Paesi, adoprando ad esempio Brancati per ritrarre l’asfittica temperie culturale d’Italia, nel fascismo come nel dopoguerra. Scopriamo, così, che il regime raccomandava d’ignorare «il cinema di propaganda dell’ebreo Chaplin» nel ‘41, ma che in epoca democristiana - per fare solamente un esempio - in Bellissima (1951) di Visconti veniva eliminata la battuta «chi se lo gode questo ben di Dio», poiché detta espressione era adoperata per indicare le carni rigogliose di una donna! Ed è non meno interessante notare come Philippe Sollers, nel suo L’infini (Gallimard, 1991), denunci il nuovo conformismo del «politicamente corretto», che mirerebbe in maniera indiretta ad omologare le opere d’arte, tagliando ogni guizzo.
Tornando in Italia, va sottolineata la continuità censoria: se, per dirne una, Mario Gromo - critico cinematografico de La Stampa - notava che sotto il fascismo «il delinquente è eliminato dallo schermo perché, nell’Italia fascista, la delinquenza non esiste», non si può non constatare come nel periodo 1947-1962 ben 1569 film su 5000 sian scartati, tagliati o vietati ai minori di 16 anni. E riconduce ai concetti di travisato decoro, di malintesa dignità già della dittatura il ludibrio inflitto a Totò e Carolina (1953) di Monicelli, reo di dipingere le forze dell’ordine in maniera poco rispettosa, se non di sovversione (perciò, ai lavoratori diretti a un incontro sindacale cantando Bandiera rossa, era messo in bocca un canto di origine montanara).
Coerentemente, in periodi successivi, tutti i nostri principali autori - da Fellini ad Antonioni, da Pasolini a Bertolucci - incapperanno nelle ire della censura: che, col pretesto di tutelare la morale pubblica, colpisce le idee ed il pensiero non allineato.
Ovviamente, pure all’estero l’insofferenza per il talento scomodo a volte s’è fatto sentire: basti pensare alle peripezie patite dai film di Buñuel nella Spagna franchista, o al destino subito da L’impero dei sensi di Nagisa Oshima in patria.
Insomma, la ghigliottina dell’intolleranza mai manca di sostenitori; lo dimostra, ancora una volta, Censurato! - Come ho messo il bavaglio ai comici più pericolosi d’America (Sagoma editore) in cui William G. Clotworthy - che in 42 anni di carriera ha limato infinite lingue taglienti, da Eddie Murphy a Robin Williams - narra del proprio lavoro di forbici sulla comicità in televisione, negli Usa.
Tutto fino al giorno in cui ci si deciderà a rispettare pure sull’argomento quanto esaltato dai giudici nel verdetto di Norimberga, vale a dire «il valore irrinunciabile di ogni essere umano considerato individualmente»." (da Francesco Troiano, La ghigliottina su quel ben di Dio, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/11/'10)

venerdì 26 novembre 2010

Piergiorgio Odifreddi, C'è spazio per tutti


"E' risaputo, è quasi un luogo comune. Di tutte le discipline scolastiche quella in assoluto meno amata è la matematica. A parte qualche rara eccezione, gli studenti non solo la trovano arida e noiosa ma la percepiscono come un incubo oppressivo, uno strumento di tortura tanto sottile quanto crudele: le definizioni astruse, le insulse formulette, le regole da mandare a memoria suscitano, e non a torto, un senso di profonda avversione. Tra aritmetica, algebra e geometria - che Lautréamont nei suoi visionari Canti di Maldoror celebrava come «grandiosa trinità» e «triangolo luminoso» - è soprattutto l'ultima a essere insegnata nel modo peggiore e, di conseguenza, a risultare la più incompresa e detestata. Paul Lockhart, autore di un appassionato e corrosivo pamphlet Contro l'ora di matematica (Rizzoli 2010), ha pienamente ragione ad affermare che «le lezioni di geometria sono di gran lunga la componente più distruttiva dal punto di vista mentale ed emotivo dell'intero programma di matematica della scuola dell'obbligo».
La presentazione falsamente rigorosa della geometria elementare, le assurde definizioni di punto, di retta, di piano o di angolo, che fanno acqua da tutte le parti, le presunte dimostrazioni formali invece di educare al ragionamento e di trasmettere il fascino della disciplina costituiscono, nella maggior parte dei casi, un insulto all'intelligenza degli studenti e mortificano doti preziose, che andrebbero coltivate e incoraggiate, come l'intuizione spaziale e il senso della bellezza. Un secolo fa il grande matematico francese Henri Poincaré metteva in guardia contro l'insensatezza e la nocività dell'insegnamento dogmatico. Così osservava in un capitolo di Scienza e metodo (1908): «Il professore detta che 'la circonferenza è il luogo dei punti del piano equidistanti da un punto interno detto centro'. L'alunno diligente scrive questa frase nel suo quaderno, quello negligente scarabocchia dei pupazzetti, ma né l'uno né l'altro hanno capito. Il professore prende allora il gesso e disegna una circonferenza sulla lavagna. 'Ah - pensano i ragazzi - una circonferenza è un tondo, avremmo capito subito'».
È bene dirlo chiaramente, a scanso di equivoci. La responsabilità dello stato disastroso in cui versa l'insegnamento della matematica, e della geometria in particolare, non grava solo sulle spalle dei docenti, i quali si dibattono tra mille difficoltà e sono, in un certo senso, essi stessi vittime del sistema di formazione universitario, che da almeno quarant'anni si rivela fallimentare nell'assolvere il proprio compito di trasmissione e di costruzione del sapere. La responsabilità è da attribuirsi principalmente ai famigerati programmi ministeriali e alla loro più diretta emanazione, i libri di testo sui quali i nostri figli sono costretti a studiare. Grafica d'antan, che mette tristezza al primo sguardo, linguaggio spesso pomposo e al contempo impacciato, grande sfoggio di dogmatismo che lascia in ombra le idee fondamentali e le ipotesi implicite, nessun tentativo serio di esplorare i legami, gli intrecci affascinanti con altri campi della cultura, come l'arte, l'architettura, la musica, la fisica, la filosofia.
Non ha questi difetti il «grande racconto della geometria» - C'è spazio per tutti - del prolifico Piergiorgio Odifreddi, primo libro, in uscita domani da Mondadori, di una serie di quattro (a quel che è annunciato) nei quali sarà ripercorso l'intero corpus delle discipline matematiche. Innanzitutto, il volume è magnificamente illustrato, una vera gioia per gli occhi: ma l'apparato iconografico non ha valore puramente esornativo. Le figure accompagnano il testo e lo commentano, sono esplicative e, al tempo stesso evocative. La spirale della conchiglia del Nautilus (come già messo in luce da D'Arcy Thompson in Crescita e forma) guida il lettore alla scoperta delle proprietà della sezione aurea e delle quantità irrazionali; i quadrati colorati nelle tele di Mondrian e di van Doesburg fanno da controcanto visivo alle costruzioni necessarie alla dimostrazione del teorema di Pitagora. In secondo luogo, la scorrevolezza della scrittura e la verve espositiva non vanno mai a scapito del rigore dei ragionamenti: non si dimentichi che Odifreddi, fin troppo noto come polemista, è un valente logico matematico, autore di importanti contributi alla teoria della ricorsività.
Infine, e questo è forse il merito maggiore del volume, le straordinarie scoperte della geometria antica - dagli Egiziani, agli Indiani, ai Greci - sono narrate come avventura del pensiero, che infrange ogni barriera tra i diversi campi del sapere. Da Platone ai teorici rinascimentali della prospettiva, da Tolomeo a Keplero, da Euclide a Einstein, da Archimede a Buckminster Fuller, si disegna un fitto ordito di rimandi e di suggestioni, che costituisce la trama stessa della nostra cultura occidentale." (da Claudio Bartocci, Se Mondrian ci spiega il teorema di Pitagora, "La Stampa", 22/11/'10)

Odissea nello spazio (geometrico) (da "La repubblica")

mercoledì 24 novembre 2010

Stephen King: "Oggi la gente ama i thriller perché è abituata all'orrore"


"Stephen King torna al racconto lungo e cambia traduttore (da oggi, Wu Ming 1, che propone un King dal ritmo serrato e senza orpelli). Di più: dei quattro racconti di Notte buia, niente stelle (Sperling & Kupfer), tre riguardano le donne. Riguardano, per meglio dire, la violenza compiuta sulle donne: omicidio (in 1922, dove un agricoltore convince il figlio a uccidere la rispettiva moglie e madre, Arlette), stupro (Maxicamionista narra la tormentata vendetta della scrittrice Tess), menzogna (Darcy, la protagonista di Un bel matrimonio scopre che il marito è un serial killer).
Un'attenzione non nuova, come racconta lo stesso King.
La questione femminile attraversa tutta la sua opera narrativa, e lei è uno dei pochissimi scrittori in grado di affrontare questo argomento con reale empatia. Questa volta, però, le donne sono le protagoniste quasi assolute e sono per lo più vittime del mondo maschile: significa che anche nel mondo reale le cose, da questo punto di vista, sono peggiorate?
"Penso che nel mondo reale la condizione delle donne sia migliorata. Credo di avere una visione chiara - per quanto possa averla un uomo - dei problemi che alle donne tocca affrontare. Sono figlio di una ragazza madre che riceveva salari più bassi e veniva trattata con sufficienza perché senza marito. Non ho mai scordato quelle ingiustizie. La mia idea è che, nel complesso, le donne se la sappiano cavare in molte più situazioni e siano più abili degli uomini a risolvere problemi. Spero che nei miei libri questo si veda. Sto molto attento, cerco di evitare la pecca segnalata dal critico Leslie Fiedler: gli scrittori maschi americani hanno una visione semplicistica dei loro personaggi femminili, li rappresentano solo come "nullità" o come "esseri distruttivi". Io ho sempre cercato di fare meglio di così".
I personaggi femminili dei racconti sono vittime ma anche carnefici: la moglie assassinata di 1922 ha la volgarità avida di una grizzly mom. La stessa definizione (e la stessa prassi: difendere i propri cuccioli ad ogni costo) si potrebbe riferire alla terribile madre di Maxicamionista. E anche quando sono "soltanto" vittime, devono comunque uccidere per ristabilire un equilibrio. Sembra non esserci quella possibilità di redenzione intravista in The Dome: sembra, cioè, che la sua narrazione, in questi ultimi tempi, stia diventando più politica, e contemporaneamente, più pessimista. E' così?
"In realtà nessuna delle donne di Notte buia, niente stelle è una carnefice: non più di quanto lo fossero Carrie White o Dolores Claiborne. Tess e Darcy non innescano la violenza, ma reagiscono ad essa, facendo del loro meglio. Sono le sopravvissute. Quanto ad Arlette in 1922, è causa della propria sventura. Anche se questo non giustifica l'agire di suo marito".
Solo in uno dei quattro racconti, La giusta estensione, è presente l'elemento soprannaturale: e anche in questo caso è un soprannaturale sfumato e ambiguo, e il patto col diavolo del protagonista può essere interpretato come un'allucinazione. Si sta incamminando verso una narrazione più realistica?
"Non mi sto intenzionalmente allontanando dal soprannaturale, come non mi ci sono intenzionalmente avvicinato. Come scrittore, lavoro sulle intuizioni. Quando mi viene l'idea per una storia, mi metto a scriverla. Prima di iniziare, però, mi faccio sempre una domanda: "Cosa rende questa storia tanto importante da essere scritta?". Cerco di individuare il fulcro, quel che permetterà alla storia di funzionare a un livello tematico più profondo. In 1922 è il potere del senso di colpa. In Maxicamionista è l'alto prezzo della vendetta. In La giusta estensione è la gioia meschina che ci procura la rovina altrui. Quanto a Un bel matrimonio, il fulcro è una domanda: si può davvero conoscere un altro essere umano?".
Nella postilla ai racconti lei annota: "si scrive male quando ci si rifiuta di raccontare storie su quel che la gente fa realmente". Qui, come nelle sue opere precedenti, lei narra il punto di frattura delle vite ordinarie. Com'è diventato, quel punto, in tutti questi anni? Più forte o più fragile? Gli esseri umani si sono abituati all'orrore?
"Sì, la gente è più abituata all'orrore. Come potrebbe essere altrimenti, dopo quel mattatoio che è stato il ventesimo secolo? E il secolo appena iniziato non si preannuncia meno turpe. Allo stesso tempo, siamo diventati più litigiosi, più disposti a ricorrere alla violenza per risolvere i nostri problemi. Horror e thriller sono due delle tante valvole di sfogo per questi sentimenti negativi".
Lei ha sempre posto una grandissima cura al linguaggio, allo stile, al suono delle parole: eppure la critica letteraria non glielo ha riconosciuto spesso. Continua ad esserci diffidenza, nell'ambiente accademico americano, nei confronti della narrativa ritenuta di genere?
"La narrativa di genere ha un po' più status letterario di un tempo, perché oggi molti bravi scrittori scrivono polizieschi, romanzi di spionaggio, thriller e horror. Mi viene in mente, per fare un esempio, The Passage di Justin Cronin. A rendere diffidenti i critici è stata la narrativa pulp che si scriveva nella prima metà del Novecento, e che io chiamo "lumpen-narrativa". Da allora, la narrativa di genere ha conosciuto una lenta ma costante rivalutazione. Forse è vicino il giorno in cui i romanzi saranno giudicati per i loro meriti anziché per gli argomenti di cui trattano. Anche in futuro ci sarà più robaccia che buona letteratura, quindi il ruolo del critico letterario resta importante. Solo che io, per quanto riguarda i meriti, non faccio distinzioni tra quel che scrive una come Joyce Carol Oates e quel che scrive, poniamo, Laura Lippman. Una buona storia è una buona storia, a prescindere dal genere. E qual è una buona storia? Quella che dice la verità su di noi. Sulla condizione umana"." (da Loredana Lipperini, Oggi la gente ama i thriller perché è abituata all'orrore, "La Repubblica", 24/11/'10)

Totally Hip Video Book Reviews


"Secondo il giornale online di Harvard Neiman Storyboard è l’uomo che potrebbe, da solo, salvare l’editoria americana in crisi. «Macché salvatore e salvatore», si schermisce Ron Charles in un’intervista a Corriere.it, «la mia è una semplice parodia della cultura letteraria contemporanea. La satira agrodolce su un’industria morente che negli ultimi anni ha visto la chiusura di innumerevoli inserti Libri e il licenziamento di tantissimi critici letterari». Sarà. Ma da quando, lo scorso agosto, il critico letterario e vicecaporedattore culturale del Washington Post ha inaugurato la sua rubrica Totally Hip Video Book Reviews in cui recensisce le novità di fiction con dei video bizzarri ma irresistibili e tutt’altro che in linea con la critica tradizionale, il numero di visitatori del sito web del prestigioso quotidiano del Watergate è lievitato a macchia d’olio.
UMORISMO POP ED ERUDIZONE - Il segreto del quarantottennenne Charles, un ex insegnante di letteratura inglese originario di St. Louis, è un originalissimo cocktail di umorismo pop «Saturday Night Live», misto all’affettazione erudita, da salotto, di chi per mestiere ha letto un libro alla settimana negli ultimi tredici anni. Natale, Pasqua e Thanksgiving inclusi. Nei suoi videoclip – una decina fino ad oggi – Charles ridefinisce lo slogan di Marshall McLuhan secondo cui «il medium è il messaggio». Scenografia, montaggio, mimica, tono di voce, effetti speciali, travestimenti e battute sono convogliati per fare il verso alla cultura di Twitter e Facebook e arrivare dritto al cuore dei più giovani, oggi troppo deconcentrati da mille distrazioni digitali per leggere come vorrebbero gli editori. Per non tradire la sua missione all’insegna del «fast, fun and totally hip», il dotto Charles non esita a rotolarsi sul letto in pigiama, a infilarsi una parrucca di pancetta affumicata stile Lady Gaga in testa e a girare una scenetta in bianco e nero con la figlia Madeleine, entrambi travestiti da pionieri, per sfottere il New York Times che «ha definito Freedom di Jonathan Franzen un capolavoro lapidario già nel lontano 1834», (l’allusione è al battage di recensioni pro-Freedom prima ancora della sua uscita in libreria).
I VIDEO SUL SITO DEL GIORNALE - L’aspetto forse più singolare del fenomeno Ron Charles riguarda la risposta del suo stesso giornale. «Immaginavo che ai piani alti si sarebbero irritati e mi avrebbero chiesto di porre fine a quello che all’inizio era nato come un semplice gioco per pochi amici e famigliari», racconta il critico, «invece i capi mi hanno subito chiesto di mettere i miei video sul sito ufficiale del Washington Post». Il resto è storia. Nonostante le loro insistenti offerte di mettergli a disposizione i tecnici dell’online per migliorare la qualità digitale dei clip, lui ha deciso che voleva continuare a realizzare video «fatti in casa, con l’aiuto della moglie e dei figli. «Volevo il controllo creativo e dei contenuti», spiega, «mi interessava evitare una svolta seriosa». A quella pensano già altri «critici video» come Sam Tanenhaus, il compassato capo della New York Times Book Review. «Io voglio soprattutto divertirmi e divertire», insiste lui. Grazie all’inaspettato successo della sua iniziativa Charles è riuscito a rivitalizzare un settore del Washington Post che non si è ancora ripreso, almeno psicologicamente, dalla chiusura del celebrato inserto «Book World», l’ennesimo «speciale libri» domenicale a chiudere i battenti in America negli ultimi anni. «Mia figlia diciannovenne Madeline e i suoi compagni di università giurano di divertirsi un sacco guardandomi», racconta, «magari c’è davvero speranza per il futuro dei libri»." (da Alessandra Farkas, Nuova vita sul Web per i libri
con le recensioni di Ron Charles
, "Corriere della Sera", 24/11/'10)

martedì 23 novembre 2010

Living with Books


"Siamo sempre convinti di sapere d’istinto dove abbiamo messo questo o quel libro; e anche se non lo sappiamo, basterà comunque percorrere rapidamente tutti gli scaffali. A quest’apologia del disordine simpatico si oppone la tentazione meschina della burocrazia individuale: una cosa per ogni posto e ogni posto alla sua cosa, e viceversa». Tra la «bonomia anarcoide» di lasciare che i libri si dispongano più o meno sulla libreria secondo il loro (non già il nostro) estro, e «la freddezza efficiente delle operazioni “gran riordino”, finiamo sempre per cercare di sistemare, in qualche modo, i libri che possediamo». «È un’esperienza estenuante, scoraggiante, ma che a volte ci procura piacevoli sorprese, come quella di trovare un libro, dimenticato a forza di essere occultato, che, rimandando a domani quel che non faremo oggi, ci rimettiamo finalmente a divorare, stesi sul letto a pancia in giù». Sapeva bene di cosa parlava, Georges Perec, quando si metteva a discutere dell’Arte e del modo di riordinare i propri libri, un delizioso testo che ora ritrova la strada delle librerie - e degli scaffali degli appassionati - per le meritorie edizioni Henry Beyle, mentite spoglie sotto le quali si cela non Stendhal, ma il siciliano Vincenzo Campo.
Sul riordino e la classificazione della biblioteca non arriveremo mai a una definitiva e comune accettazione delle regole, lo sappiamo. Perec prova a elencare qualche possibilità: per ordine alfabetico, per continente o paese, per colore, per data di pubblicazione (ma anche di acquisizione - criterio davvero singolare), per formato, genere, grandi periodi letterari, lingua, priorità di lettura, rilegatura, collana e potremmo continuare a lungo. Stante il fatto che avremo sempre libri facilissimi da riordinare («i Verne con la copertina rossa di Hetzel»), quelli non troppo difficili (testi sul cinema, «i romanzi sudamericani, l’etnologia, la psicoanalisi») e quelli che è quasi impossibile da piazzare (ne abbiamo, ne abbiamo, e ciascuno combatte la sua solitaria e perdente battaglia con questi unicorni bibliofili!). Una delle prossime rivoluzioni del libro, che si accompagnerà all’evento dell’e-book e degli altri dispositivi di lettura, sarà forse anche la sparizione della dimensione fisica del libro e della drastica riduzione, nelle nostre case, dell’ingombro delle librerie. Va bene, aspetteremo il momento.
Per ora, però, le librerie ce le abbiamo ancora tutti. E allora perché non goderci le meraviglie di chi ha fatto della libreria il centro della propria casa, della disposizione dei libri un fatto ancor prima estetico ed etico che pratico. E benché i libri sull’arredamento non dedichino - a nostro, malatissimo, interessatissimo, avviso - troppo spazio alle librerie e al loro impatto “scenografico”, sono usciti ora alcuni titoli che ci fanno sognare o, semplicemente, venire idee sulle librerie. Certo: il problema è poi avere i soldi quelle case e quelle librerie. Ma, si sa, questo è altro discorso.
Abitare con i libri, appena tradotto da Mondadori, è una rassegna monografica spettacolare di alcune più belle e ingegnose scaffalature e case-libreria sparse per il mondo, come quella, bella e impossibile - bisogna ammettere (prevede tanto di imbracatura per perlustrare gli scaffali), della designer Sallie Trout, mentre Living with Books dei francesi Dupuich e Beaufre privilegia oltre che la specificità della libreria anche la fama del possessore. Un tuffo nel passato più chic fatelo con il più grande decoratore americano: Billy Baldwin che disegna, per dire, le eleganti librerie nella suite del Waldorf di Cole Porter. Se volete, invece, curiosare tra gli ambienti più cool del mondo in questo momento, ecco il repertorio di case e bei tipi che il blogger Todd Selby è andato a fotografare. Imperdibile la libreria parigina, per vastità e disposizione dello stilista Karl Lagerfeld, grande cultore del libro, che addirittura, a fianco casa, possiede anche una libreria (intesa come rivendita di libri).
Dopo la scorpacciata di immagini e idee, però, torneremo alla nostra quotidiana giungla di libri. E allora, come i bibliotecari borgesiani che cercano il libro che fornirà loro la chiave di tutti gli altri, «oscilliamo tra l’illusione della compiutezza e la vertigine dell’inafferrabile. In nome della compiutezza vogliamo credere che esista un ordine unico, in grado di farci accedere al sapere d’emblée; in nome dell’inafferrabile, vogliamo pensare che ordine e disordine siano due vocaboli identici per disegnare il caso. Fra un estremo e l’altro, comunque, non è un male che le nostre librerie servano anche di tanto in tanto da pro-memoria, da poggia-gatto e da metti-tutto». Già, ben detto, caro il mio Perec! E ora, però, dove ti metto? Libri sulle biblioteche? Edizioni di pregio? Libri di Perec? Boh, vedrò. Per adesso mi sa che lo lascio appoggiato qui, vicino al fermalibri a forma di scottish terrier. Ci metto sopra la scimmia Zizì di Munari, così mi ricordo che poi devo spost... Aaah! Ecco dov’era quel libro su Saul Bass che non trovavo l’altro giorno. Certo che Bass ... fammi vedere ..." (da Stefano Salis, Incubi e sogni da scaffale, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/11/'10)

lunedì 22 novembre 2010

Inge Film


"Il 24 novembre prossimo Inge Feltrinelli compie ottant'anni. La festa - amici, editori, scrittori arriveranno da molte parti del mondo - si terrà alla Stazione Centrale di Milano, con l'apertura di Feltrinelli Express, la libreria numero 101, «la Feltrinelli più grande d'Italia». In quell'occasione si proietterà Inge Film, realizzato da Luca Scarzella e Simonetta Fiori e presentato in anteprima al Festival di Roma. «È la mia autobiografia non scritta» dice Inge Feltrinelli. «Tutti mi chiedono di scriverne una, ma io non voglio. Tutte le autobiografie sono vanitose, non dicono mai la verità vera. Aveva ragione un mio amico che non c'è più, il grande editore Rowohlt, che diceva sempre: noi editori non dobbiamo scrivere libri, non siamo bravi a scrivere. Non siamo uomini di idee, ma di aneddoti».
Raccontare la vita di Inge Feltrinelli del resto non è facile, perché lei di vite ne ha avute tante. Così come ha tanti nomi: Ingelein, il diminutivo con cui la chiamava Giangiacomo (che ricorre nel libro del figlio Carlo, Senior Service); per il disegnatore Peynet era «la petite princesse esquimoise» per via del taglio degli occhi, da cui poi il nome della barca a vela Eskimosa. «Oggi i miei nipotini mi chiamano Mops, che è il nome in tedesco del carlino, un cane che ha gli occhi tagliati come me». Delle sue tante vite, tante non sono conosciute. Come l'infanzia e l'adolescenza a Göttingen, gli anni come fotoreporter ad Amburgo e in giro per il mondo (celebri le foto di Hemingway a Cuba, di Picasso, Anna Magnani, Chagall, Simone de Beauvoir). Tutti ricordano il suo matrimonio con Giangiacomo Feltrinelli, il suo dedicarsi sempre più alla casa editrice del Dottor Zivago e del Gattopardo, poi, dopo la morte di lui sul traliccio di Segrate, è lei, la presidente, che con ostinazione salva la Feltrinelli dalla crisi («non ero sola, eravamo e siamo un gruppo», ribadisce), investe nelle librerie, pubblica libri che di nuovo diventano bestseller (si comincia con L'amante di Marguerite Duras, 1985, poi verranno Tabucchi, la Allende, Coe, Oz e tutti gli altri). Della Feltrinelli è lei l'immagine, il simbolo, la forza trainante; inaugura le nuove librerie, segue gli autori e organizza feste per loro, partecipa ai party di amici editori e scrittori, sapendo, come riesce solo a lei, mescolare cultura mondanità business. «Mio figlio Carlo (amministratore delegato della casa editrice, presidente della società Librerie Feltrinelli, ndr) odia la mondanità, io mi diverto da morire». C'era una volta, in Germania. Un libro uscito da poco in Germania ha messo in subbuglio tutta l'intellighenzia tedesca. Sono i Diari (Tagebücher 1981-2001, editi da Rowohlt) di Fritz J. Raddatz, l'ex caporedattore delle pagine culturali del settimanale «Die Zeit». In quelle pagine - oltre 900 - ce n'è per tutti. L'unica con cui Raddatz non è stato troppo caustico è Inge Feltrinelli. «Ci conosciamo da tanti anni» ricorda Inge. «Nel '68, durante la Fiera di Francoforte, eravamo insieme a un incontro con Daniel Cohn Bendit. Lo avevamo invitato io, Rowohlt, Christian Bourgois e altri cinque importanti editori europei, allo Hessischer Hof per proporgli di fare un libro. Dany venne con alcuni compagni, si parlò, alla fine fu Rowohlt a pagare il whisky. Nessun disordine, nessuna manifestazione. Eppure al proprietario dell'albergo (il principe d'Assia) quella riunione non piacque, e per più di dieci anni non vollero più darmi una camera. Comunque, poi la stanza l'ho riavuta, ed è la più bella dell'albergo». Trovarsi su una lista nera non era una novità per Inge Schoenthal Feltrinelli: le era già capitato nel '44, a Göttingen, quando venne espulsa da scuola perché figlia di padre ebreo. «Nei documenti ritrovati nel mio liceo c'è scritto: "Per le leggi razziali deve lasciare la scuola perché bastarda". Mia madre non me lo disse, mi spiegò che era meglio se restavo a casa per via dei bombardamenti. Mio padre era riuscito a fuggire dalla Germania dopo la Notte dei cristalli, nel '38. Aveva voluto che mia madre divorziasse per potersi risposare. Così fece, si sposò con un ufficiale di cavalleria, Otto Heberling. Vivevamo in caserma, mi ricordo. Il mio patrigno era affettuoso, delizioso con me. Mi insegnò ad andare a cavallo, mi regalò un pony». Quel periodo, fino al '45, Inge lo ricorda come «un paradiso»: «Non sapevo niente, non capivo niente, avevamo da mangiare, facevo molta attività fisica, vivevo come una principessa. Volevo entrare in un gruppo con altri ragazzi, c'era la Hitler Jugend, mia madre però non mi ci mandò con la scusa che dovevo fare i compiti. Così entrai a far parte di un gruppo di ragazze più grandi di me, attrici, facevamo numeri di cabaret per i soldati feriti all'ospedale. Poi, un giorno, era il '43, arriva l'annunzio del Festival della gioventù a Berlino. Decidono che dovevo andare io, ero la più brava in atletica. Ero felicissima, mia madre invece era terrorizzata, aveva paura che scoprissero che mio padre era ebreo. Fortunatamente presi la scarlattina, e quindi niente Berlino». La guerra è finita. Dopo la guerra, Göttingen è amministrata dagli inglesi. «Che subito, a scuola, ci fanno vedere le immagini dei lager. Il paradiso è finito, scopro la realtà, l'orrore. E sento tutti i genitori delle mie compagne di scuola che dicono: noi non ne sapevamo nulla. Bravi tedeschi, tutti nazisti. È un clima cupo, opprimente, voglio andarmene». Heberling, il patrigno, viene messo a riposo. «Vivevamo in povertà - dal matrimonio erano nati due figli, un maschio e una femmina - e lui era caduto in una profonda depressione. Si ammalò di ulcera, forse un fatto psicosomatico; è morto presto, nei primi anni '50».
E suo padre? «Viveva in America. Si era risposato con una signora di Hannover che aveva conosciuto durante il viaggio in nave. Avevo trovato il suo indirizzo, e gli scrissi: volevo andare in America. Lui mi rispose che sua moglie non voleva che la mia presenza turbasse il loro matrimonio». L'ha mai incontrato? «Sì, anni dopo, nel '52. Lavoravo già come fotoreporter, ci siamo visti in America. Un incontro convenzionale, senza affetto. Io non credo a quelli che parlano della voce del sangue, tra noi non c'era niente. Ma è stato meglio così, se mi avesse lasciato restare con lui avrei rischiato di diventare una vecchia americana grassa di provincia».
E invece? «Invece andai ad Amburgo, come assistente di una fotografa. Dovevo guadagnare, mandare dei soldi a casa. Ed ero determinata. In quegli anni tutto era più facile, in poco tempo avevo conosciuto l'editore Axel Springer, Rudolf Augstein il fondatore di "Spiegel", l'editore Heinrich Maria Ledig-Rowohlt. Volevo fare la fotoreporter, foto e articoli. Un amico mi regalò un viaggio per nave a New York, Rowohlt mi disse che dovevo andare a Cuba, da Hemingway, di cui era l'editore per la Germania. Tutto cominciò così». Poi, nel '58, a una festa da Rowohlt, incontra Giangiacomo Feltrinelli. E così un'altra vita comincia. E come sempre Inge volta pagina, senza ripensamenti. Le foto finiscono nelle soffitte di via Andegari. Dieci anni fa, Carlo e Grazia Neri le ritrovano e organizzano una mostra: «Era il regalo per i miei settant'anni. Quest'estate, Göttingen ha ripreso quella mostra. L' editore Steidl l'ha vista, ci farà un libro».
C'era una volta, a Milano. «Com'era viva la Milano in cui arrivavo intorno al 1960. Era uno dei centri più importanti d'Europa, cultura, musica, teatro, editoria. Discussioni politiche, dibattiti animati dentro una sinistra divisa tra Pci e Psi. Io ero digiuna di politica, venivo dalla Germania del cancelliere Erhard, dove contava solo l'economia. Qui c'era una borghesia illuminata, intellettuali generosi, impegnati. E la Feltrinelli, la casa editrice più nuova, più internazionale. Ecco, oggi questa città non la riconosco più. Se ci fossero ancora Giangiacomo e il suo grande amico Roberto Olivetti, cosa direbbero di questo stato di cose, dei politici che abbiamo? Penso che più in basso di così non si può scendere. Dunque che siamo pronti per ripartire, per risalire. Sarà il mio inguaribile ottimismo, non lo so ... Forse, guardando il film, mi pento di non essere stata più dura contro la politica di oggi. Certo, tutte queste critiche le faccio in Italia. Fuori, questo Paese lo difendo. E non solo perché ci vivo da cinquant'anni. Ma perché conosco la qualità degli italiani, che anche nella crisi più profonda sanno inventare qualcosa, a differenza dei tedeschi che invece, se l'economia non tira, si deprimono, vivono nell'angoscia».
Milano, dopo una diffidenza iniziale («i tedeschi non erano visti di buon occhio»), l'aveva adottata. E Milano anche nei momenti più difficili è vicina a «la Inge». «Quando dopo la morte di Giangiacomo, per salvare la casa editrice si dovettero prendere misure gravi, licenziare 25 persone - una cosa terribile per un editore di sinistra - ci fu un impiegato, il ragionier Silvio Pozzi (sul biglietto da visita c'era scritto "ex partigiano in bicicletta"), che andò di casa in casa a spiegare il perché di quella decisione. E poi abbiamo dovuto rinunciare a molti autori che pure avevamo lanciato noi: García Márquez, Grass, Vargas Llosa. Al rinnovo dei contratti ci chiesero delle somme che non potevamo permetterci. Un altro dolore. Anche se ... (ride) anche se, sinceramente, scrittori come Grass e Vargas Llosa i libri migliori li hanno pubblicati con Feltrinelli»." (da Ranieri Polese, «Com'era vivace Milano. Oggi non la riconosco più», "Corriere della Sera", 20/11/'10)

Frédéric Martel, Mainstrem


"È un'inchiesta che in Francia ha fatto molto discutere. Quella proposta da Frédéric Martel nelle pagine di Mainstream (Feltrinelli), un libro appassionante ricco di dati, storie e riflessioni che prova a spiegare «come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media». Grazie alle testimonianze dei protagonisti delle «industrie creative» raccolte ai quattro angoli del pianeta, lo studioso francese descrive lo scontro culturale in atto che vede alcuni paesi emergenti rimettere in discussione l'egemonia culturale degli Stati Uniti. Uno scontro che avviene innanzitutto sul piano della cultura «mainstream». Vale a dire, la cultura «che piace a tutti», la cultura di massa legata al mondo dell'immagine e della musica - e solo in misura minore al mondo della cultura scritta - nei confronti della quale l'autore di Mainstream tenta innanzitutto di smontare luoghi comuni e pregiudizi: «Nei confronti della cultura di massa c'è ancora molta diffidenza», spiega Martel, che ha creato Inaglobal, un sito internet dedicato a queste problematiche. «Le opere mainstream vengono spesso considerate con disprezzo e percepite come un divertimento superficiale estraneo all'arte. E' un pregiudizio diffuso tra gli intellettuali europei, purtroppo ancora prigionieri della condanna senza appello emessa dalla scuola di Francoforte nei confronti della cultura di massa. Invece, il mainstream va studiato seriamente, perché ha molto da insegnarci sull'evoluzione della cultura contemporanea. Oggi, avremmo bisogno di un nuovo Walter Benjamin che ci aiutasse a riflettere sull'opera d'arte all'epoca della riproducibilità digitale, per parafrasare il titolo del suo celebre saggio».
La tradizionale opposizione tra arte e entertainment va superata? «Certamente. Si tratta di un'opposizione figlia di una concezione aristocratica della cultura, per la quale il mercato corrompe inevitabilmente la purezza dell'arte. Il mercato però a priori non è buono né cattivo. Può distruggere la cultura, ma anche favorirla. Il mainstream può produrre banale divertimento ma anche opere di qualità. Inoltre, tra l'arte più elitaria e le opere più standardizzate esistono innumerevoli forme intermedie, dove arte e divertimento coesistono in dosi più o meno accentuate, contaminandosi e alimentandosi a vicenda. Insomma, il mainstream rimette in discussione le tradizionali frontiere tra cultura alta e cultura bassa».
La cultura mainstream è quindi più complessa di quanto si immagini? «Per parlare a tutti non è necessario essere superficiali e scontati. Toy Stories, Ratatouille o Avatar hanno conquistato il pubblico mondiale perché, dietro l'apparente semplicità, agivano opere sofisticate, creative e tecnologicamente complesse. Naturalmente il mainstream può anche produrre opere piatte e consolatorie, ma non sempre è così, dato che non nasce mai dalla semplice ripetizione. Al contrario, è sempre alla ricerca di formule originali per rinnovarsi. Solo così conquista il pubblico».
Secondo alcuni critici, il pubblico sarebbe succube dell'industria culturale ... «Il pubblico non subisce mai passivamente le strategie dell'industria culturale. Lo dimostrano i molti flop della storia della cultura mainstream. Il pubblico ha una propria gerarchia di valori ed è capace di distinguere un prodotto originale da uno inutilmente ripetitivo. Sa riconoscere la creatività. I prodotti culturali non sono come la Coca Cola, che replica invariabilmente la stessa formula. Devono rinnovarsi di continuo e produrre risultati originali».
In che modo? «La cultura mainstream si nutre di creatività, ricerca e libertà. Sfrutta la diversità culturale, l'innovazione tecnologica e la sperimentazione artistica. In Europa, pensiamo che la ricerca e la cultura di massa siano mondi differenti e separati, ma negli Stati Uniti vivono di scambi continui. Il problema dei cinesi nasce proprio da qui. Vorrebbero produrre una cultura mainstream, per essere presenti nel grande mercato mondiale della cultura, ma contemporaneamente uccidono la diversità, la controcultura, la libertà d'espressione. Senza tutto ciò non si fa mainstream».
Il mainstream finirà per invadere ogni spazio della cultura? «Non mi sembra un rischio reale, dato che, nonostante il successo mondiale di una cultura mainstream sempre più globalizzata, le culture nazionali godono dappertutto di buona salute. In Francia, ad esempio, il 50% del box office è prodotto dai film francesi. Tuttavia, accanto alle culture nazionali, ovunque si impone la cultura mainstream prodotta negli USA. Batman, Lady Gaga e il Codice da Vinci hanno successo dappertutto».
Negli ultimi anni però i prodotti mainstream non sono più solamente americani ... «E' vero, basti pensare al successo internazionale dei film indiani di Bollywood, delle telenovelas brasiliane, dei manga e dei videogiochi giapponesi, dei programmi informativi di Al Jazeera. Insomma, anche se non credo alla teoria del declino degli Stati Uniti, che restano il primo esportatore mondiale di prodotti culturali, è indiscutibile che il mercato mondiale della cultura sia in piena trasformazione. Emergono infatti nuovi paesi che riescono ad imporre i loro media, le loro culture e i loro valori anche al di fuori dei rispettivi mercati nazionali, creando nuovi flussi di scambi culturali. Accanto a Los Angeles e Miami, le nuove capitali della cultura mainstream sono oggi a Hong Kong, Il Cairo, Bombay o Tokyo». Quanto contano le nuove tecnologie in questi successi? «La rivoluzione digitale ha offerto un'enorme opportunità ai paesi emergenti, che considerano le nuove tecnologie uno strumento indispensabile per costruire la cultura di domani. Oltretutto, i nuovi protagonisti della cultura di massa non hanno avuto bisogno di gestire la transizione tra i prodotti culturali della tradizione e i nuovi format della cultura mainstream. Si sono lanciati immediatamente, e con successo, sul nuovo. Di conseguenza, oggi il mondo della cultura non ha più un solo centro. E ciò naturalmente è un bene per tutti».
In questo scenario l'Europa perde peso? «In effetti, anche se è pur sempre il secondo produttore mondiale di cultura. Il declino è dovuto anche alla mancanza di una vera cultura europea comune. Accanto alle rispettive tradizioni nazionali, le popolazioni europee hanno in comune solo la cultura mainstream americana. E la frammentazione culturale non aiuta certo a produrre opere per il mercato mondiale. Tuttavia possiamo ancora invertire la tendenza, ma non è alzando le barricate che si produce cultura mainstream in grado di conquistare il mercato mondiale»." (da Fabio Gambaro, La vera cultura è di massa, "La Repubblica", 22/11/'10)

sabato 20 novembre 2010

Rebecca West, La famiglia Aubrey


"La saga degli Aubrey, dell'inglese Rebecca West, è un'impresa per lettori anticonformisti o folli. Difficile capire chi, in questo tempo frettoloso e opportunista, possa imbarcarsi in un libro del genere: fluttuante, sospeso, iper-dettagliato nelle descrizioni, pieno di incantesimi, affreschi di natura, dissertazioni alate sulla musica, affetti delicati o vibranti. Il tutto in oltre mille pagine.
Il primo 'folle' è l'editore Mattioli 1885. Complimenti per il suo sprezzo dei criteri commerciali. E' lui a proporre la Aubrey Trilogy della West, comprensiva di The Fountain Overflows del 1957, This Real Night pubblicato postumo nel 1988, e Cousin Rosamund uscito un anno dopo. Già editi dalla stessa sigla (tra il 2008 e il 2010) come La famiglia Aubrey, Proprio stanotte e Rosmaund, i tre romanzi escono adesso in cofanetto. Eroica o 'folle' è anche la curatrice, Francesca Frigerio, che ha lavorato sulla lingua con accanito gusto delle sfumature, ha arricchito il progetto di note preziose e ha firmato tre dense postfazioni analitiche.
Raccontata da Rose, in cui si specchia la stessa West, la storia degli Aubrey, tanto vivida e teatrale nei dialoghi quanto abile nell'intrecciare i generi (fiaba, romanzo gotico e d'appendice, Bildungsroman intensamente femminista), segue le sorti di una famiglia estrosa e squattrinata che all'alba del novecento passa da Edimburgo a Londra sulle tracce del padre, l'irlandese Piers Aubrey, avventuriero vagante tra velleità di scrittore e fallimentari speculazioni economiche. [...]
Fu una donna formidabile, Rebecca. Storica, critica letteraria, giornalista (lavoroò per la rivista socialista Clarion e per il foglio delle suffragette The Freewoman, e firmò cronache del processo di Norimberga per il "New Yorker"), autrice di un celebrato reportage sui Balcani (Balck Lamb and Grey Falcon), fu una femminista atipica, troppo individualista e anti-ideologica per adeguarsi al gregge. Ebbe amici e amanti illustri: tra i primi figurano George Bernard Shaw e T. S. Eliot, tra i secondi Charlie Chaplin, il magnate americano della stampa Max Beaverbrook e lo scrittore di fantascienza H. G. Wells. Dal rapporto, durato dieci anni e mai legittimato (Wells era già sposato), nacque il figlio Anthony. Nel '30, dopo aver tanto vilipeso l'istituzione del matrimonio, Rebecca sposò il banchiere Henry Maxwell Andrew, col quale si ritirò in una tenuta nel Buckinghamshire, trasformandosi da «zingara tenace come un terrier» (Virginia Woolf) in pacifica signora di campagna. Per breve tempo in gioventù fu attrice, e il suo pseudonimo letterario (in realtà si chiamava Cecily Isabel Fairfield) arriva da un'eroina ribelle di Ibsen. Finora, come autrice di fiction, era nota per Il ritorno del soldato ripubblicato qualche mese fa da Neri Pozza. La trilogia degli Aubrey, profondamente autobiografica (il padre di Rebecca era un giornalista irlandese, la madre una pianista scozzese lasciata dal marito), ne svela anche meglio il fuoco di romanziera fervida, inventiva e stravagante." (da Leonetta Bentivoglio, Fantasmi e passioni: ritratto di famiglia alla Henry James, "La Repubblica", 20/11/'10)

venerdì 19 novembre 2010

Aldo Nove, La vita oscena


"La vita oscena, l'ultimo romanzo di Aldo Nove in uscita per Einaudi Stile libero, è un libro potente ed emozionante, che piacerà a chi ha amato questo scrittore fin da Woobinda, il suo sorprendente esordio, ma anche a chi traccheggiava, un po' sconcertato davanti alla sua prosa letterariamente sconfitta e smangiucchiata. È una specie di spin off di un altro suo romanzo, Amore mio infinito, che raccontava la biografia sentimentale di Matteo, «venditore di vasche per il pesce in acciaio inox 316», ma con Aldo Nove al posto di Matteo. Grazie al vincolo dell'autobiografia, lo scrittore abbandona l'adolescenza come luogo dell'anima ma anche della scrittura, si toglie di dosso quanto più possibile artificio ed effetti speciali, approdando a una maturità stilistica che commuove per rigore e passione. Il protagonista, uno stordito Parsifal alla ricerca di neanche lui sa bene cosa, rincorso dal dolore del suo immendicabile lutto si sottopone a un'ordalìa di prove iniziatiche. Senza mai tirarsi indietro, convinto che non ci si possa fermare fin quando tutto non sia compiuto.

Di solito uno scrittore, soprattutto se ha a disposizione una biografia straordinaria come la tua, decide di giocarsela subito, nel primo libro. Come mai tu invece hai aspettato così tanto?
«Quando ho pubblicato il mio primo romanzo (Woobinda, 1995, n.d.r.) avevo urgenza di raccontare il mondo che mi circondava. Sentivo di avere una specie di compito da svolgere. Volevo marcare i confini della mia esperienza e del mondo. Avevo bisogno di definire, per comprendere. Ma c'è qualcos'altro, ed è il dolore stesso. Diciamo che adesso mi sono sentito pronto, non solo come scrittore. Dovevo acquisire un distacco sufficiente, un altro sguardo per poter scrivere di quanto ho vissuto».

A un certo punto il tuo protagonista, di fronte alle immagini di una rivista pornografica, dice: «Lessi l'intero servizio, le parole, parole volgarissime e sacre, ripetizioni liturgiche dell'osceno, entravano in me una a una, come purificando i pensieri da tutto ciò che non fosse sporco e non fosse lì». Che cos'è, oggi, l'oscenità?
«Quando io ero un ragazzino, andavamo a cercare le riviste porno nella spazzatura. Erano segrete, proibite e residuali. Per questo erano salvifiche. La pornografia era l'altrove, la salvezza stava nello scarto. Attraverso la pornografia conoscevamo il mondo. Ma il mondo, oggi, è completamente pornograficizzato. La politica, la cultura i rapporti umani. La sensazione è quindi quella che non ci sia più niente da scoprire. Roland Barthes diceva "osceno è ciò che si propone come erotico ma non lo è affatto". A me sembra che l'oscenità, oggi, sia il non saper dare confini alle cose. Tra fantasia e immaginazione, tra realtà e finzione, tra politica e pornografia».

C'è una scena che mi piace moltissimo. Quando il protagonista, ricoverato in ospedale, riceve in regalo dalla zia una bottiglia di un'imitazione da discount della Coca Cola, che lo intenerisce e lo commuove. La pietas per gli oggetti, un tema che ti è sempre stato caro ...
«Perché cruciale nella nostra storia. È come se avessimo trasferito nelle merci parte delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti. Pensa a Carosello. Mi ricordo un'immagine de L'illustrazione italiana: famiglia felice, col sole sul volto, padre madre e due figli che uscivano da un negozio col frigorifero nuovo. Noi abbiamo caricato le merci di affetto e amore. Ma poi è successo che quelle merci si sono moltiplicate e riprodotte a un punto tale che ci hanno sommerso. E si è creato un meccanismo di inversione. Le merci si sono umanizzate e gli uomini e le donne mercificati. Gli adolescenti sognano di diventare merci, aderire a un mondo dove le persone sono merci. È mostruoso e osceno, di nuovo senza confini. Come la pornografia, anche il commercio diventa enorme, e va a saturare tutti gli spazi. Questo ci impedisce di produrre immaginazione».

Il protagonista della storia sceglie la cocaina per compiere il suo rito di abiezione. È così che è andata anche a te? Pensi che la cocaina sia una metafora della nostra società?
«Lo è. C'è stato un tempo in cui attraverso la droga si cercavano esperienze mistiche e di evasione. Lsd, eroina, hashish servivano ad evadere da un mondo per scoprirne altri. La cocaina è il contrario. È la droga dell¿adeguamento, che ti permette di stare in un mondo, che lei stessa svela come allucinato. Entrare, e non uscire. Gli operai in fabbrica si fanno la cocaina per fare gli straordinari. Non per divertirsi, ma per produrre di più. Ci droghiamo per poter lavorare. Per me, al tempo in cui avevo deciso di arrivare al fondo, la cocaina era solo un vettore di morte».

Nel finale del libro, il protagonista ha una visione che interrompe la discesa agli inferi e, in qualche modo, lo traghetta dall'altra parte. Qual è il limite, fin dove si può arrivare?
«Il limite è la scoperta che per quanto tu possa scendere in basso, non troverai niente. Ma per capirlo devi attraversare la palude di putredine, come diceva Sanguineti. Per scrivere questo libro, per diventare grande, ho dovuto attraversare tutti i fantasmi del mio lutto, decifrarli, capirli, viverli. Per tutta la vita, non facciamo altro che tentare di soffocare i nostri fantasmi. Il più serio dei quali è il fantasma dell'altro, lo straniero. Ma se non li combatti, finisci per diventare tu il fantasma di te stesso».

Scrivere un'autobiografia significa provare a scrivere un libro nel quale tutto quello che scrivi è vero? «Anche un'autobiografia è un romanzo, e quindi partecipa dell'artificio. Quando scrivi metti in gioco un armamentario tecnico che è quello della lingua. Certo, tendi a dire la verità, ma già per il fatto di dirla la stai trasformando. Più che verità, direi sincerità. E precisione. Ho avuto sempre in mente una parola, mentre scrivevo questo libro: precisione. Per questo ho scelto di lavorare con meno cose. Senza effetti speciali»." (da Elena Stancanelli, La mia vita oscena. Aldo Nove: 'Dal dolore alla droga, racconto l'inferno che ho attraversato', "La Repubblica", 18/11/'10)

Oscena è la realtà ("Il Sole 24 Ore")

mercoledì 17 novembre 2010

Sebastian Fitzek, La terapia


"'La nostra mente è come un mare profondo pieno di misteri dove nessuno è mai stato' mi ha detto durante l'intervista che segue Sebastian Fitzek, l'autore che, con ormai quattro titoli, ha portato il genere psycothriller al successo in Germania. Una frase che ben evoca un aspetto oscuro della psiche umana, quello spazio sconfinato, abituale protagonista dei suoi romanzi, dove tutto può accadere e con cui ciascuno di noi deve fare i conti. Quella zona buia che insidia il nostro cervello e che è sempre al centro degli intrecci ideati da Fitzek. Enigmi che non si dipanano secondo le logiche tradizionali dei thriller doc, bensì attraverso quei percorsi, solo apparentemente insondabili, che appartengono alla neuropsichiatria.

In La terapia, il primo romanzo che solo quattro anni fa rivelò Sebastian Fitzek e che è arrivato in libreria solo oggi, dopo i tre titoli che l'hanno consacrato al grande pubblico (Il ladro di anime, Il bambino e Schegge, tutti usciti in Italia per Elliot), a lottare contro i misteriosi territori della mente è Viktor, un abbiente psichiatra reso popolare dai talk show televisivi che abbandona la professione e la vita normale in seguito alla scomparsa della figlia dodicenne, Josy, sparita nel nulla un giorno qualunque e mai più riapparsa. La vita di Viktor va avanti per quattro anni nell'angoscia, mentre il suo matrimonio va in pezzi e la sua carriera è stroncata. Fino a quando, rifugiato su un'isola del Mare del nord, incontra una giovane donna, forse malata di shizofrenia, che metterà in moto allucinazioni e ricordi, accompagnandolo lungo un sentiero accidentato che gli fa intravedere la verità. Un epilogo eclatante, degno della fama di star dello psycothriller che Fitzek si è guadagnato sul campo in questi anni, a colpi di milioni di lettori.

Un riconoscimento meritato per uno scrittore originale e unico nel suo genere che, con grande abilità, sa trasferire i principi della neuropsicologia dentro trame strutturate come gialli classici e che riesce a raccontarle con un ritmo allucinato e immaginifico. La Terapia dimostra che il suo talento viene da lontano.

Con La Terapia ha dato vita allo psycothriller in Germania. Si aspettava il grande successo che ha poi avuto il suo libro?
"No, assolutamente. Quando ho cercato di trovare un editore in Germania tutti mi dicevano che nessuno avrebbe voluto leggere uno psycothriller tedesco. Me lo dicevano così spesso che anche io ho iniziato a crederci. Ogni volta che leggevo un buon libro mi chiedevo: "Sarò mai capace di scrivere una storia così anche io?" E qualche anno fa ho deciso di provarci. Mi ci è voluto del tempo prima che il mio primo manoscritto venisse pubblicato e sono passati altri quattro anni dalla consegna all'arrivo in libreria. Per fortuna, ho incontrato Roman Hocke, il mio agente letterario. Mi ha messo davanti a tutti i miei errori da principiante e mi ha fatto rivedere il mio thriller di debutto, La terapia, sette volte prima di affidarlo alla mia attuale casa editrice tedesca. Quando infine è uscito ed è entrato nella lista dei bestseller ne fui davvero molto sorpreso e questo è il motivo per cui i lettori che hanno fatto diventare realtà il mio sogno vengono sempre per primi nei miei ringraziamenti".

I misteri della mente hanno una chiave interpretativa?
"Per molti anni ho lavorato come direttore del programma per una stazione radio popolare tedesca. Lì ho iniziato ad osservare le persone che stavano intorno a me, primi tra tutti i miei colleghi. Questo è stato (ed è ancora) un luogo dove poter incontrare un gran numero di "disturbati". Sono stati la mia maggiore fonte di ispirazione e mi hanno aiutato ad avere uno sguardo più profondo riguardo al comportamento umano e ai disturbi psicologici. Inoltre ho studiato diritto penale e, durante le lezioni, ho ascoltato un sacco di storie strane. Tutto questo è stato utile per imparare a fare ricerca e mi ha aiutato ad avere l'ispirazione per i miei libri. Ma non penso che i misteri della mente possano essere realmente letti e interpretati. E dunque restano tali: il problema è che abbiamo bisogno del nostro cervello per analizzare il nostro cervello. E' come un cane che osserva il suo muso allo specchio. Guardiamo solo la superficie ma non capiremo mai l'immagine intera".

Lo psycothriller è il genere letterario dei tempi moderni?
"Sì. Ormai, quasi ogni segreto del mondo moderno è risolto, tranne uno, forse il più importante e cioè come funziona in ogni sua parte il nostro cervello. La nostra mente è come un mare profondo, pieno di misteri e nessuno è mai stato realmente lì. Gli psycothriller si occupano di quei segreti ed è questo il motivo per cui io credo fermamente che il genere non perderà mai attrattiva per i suoi molti lettori. Nei miei libri gli eventi si susseguono senza sosta, portano il lettore di fronte a una porta che non può non aprire. Gioco con i delitti della mente, proietto le follie, le paure, le angosce del passato. La mia vocazione per lo psycothriller è venuta fuori d'improvviso. Stavo nella sala d'aspetto di un medico e aspettavo la mia fidanzata, mi annoiavo e ho cominciato a pensare: Cosa succederebbe se lei non uscisse più? Se mi dicessero che non è mai entrata nello studio e che il suo nome non è nell'elenco dei pazienti?"." (da Silvana Mazzocchi, Sebastian Fitzek, re dello psycothriller: Gioco con i delitti della mente umana, "La Repubblica", 17/11/'10)

sabato 13 novembre 2010

Diario di lettura: Serena Vitale


"Fine dicembre 1978, uno degli inverni più gelidi del secolo. A Mosca il termometro segna trentaquattro gradi sotto zero: la giovane italiana esce dall'albergo e controlla se «loro» sono ancora lì. Le due Zaporozhets ingranano la prima e si muovono lentamente slittando sul ghiaccio. Anche se si è abbigliata come una moscovita doc con cinque chili di karakul nero, irsuta pelliccia-corazza contro gli spifferi gelidi, non riesce a passare inosservata, la slavista Serena Vitale.
Da qualche giorno percorre sempre lo stesso tragitto con un taxi. Le due macchine - ognuna con dentro stipati quattro giganti dai cappottoni di pelle - seguono l'auto pubblica su cui è salita la scrittrice che in quegli anni fa la spola con l'Urss, abbandonando ogni tanto Roma o il sole di Puglia, terra natale. Gli spioni la «scortano» alla casa del celebre formalista russo Viktor Borisovich Shklovskij, ex futurista e provocatorio intellettuale. La Vitale stava lavorando a un'intervista al saggista (sarebbe uscita dagli Editori Riuniti, Testimone di un'epoca), punteggiata di tanti «non so», «non ricordo», «ma come si permette di chiedermi questo?». Questa memoria labile era un riscontro del regime di terrore costruito attraverso sofisticate «cimici» intercettatrici, disseminate negli appartamenti, a cui si poteva far fronte solo parzialmente con lo sciacquone del wc premuto più volte. Con Shklovskij, Serena di solito si intratteneva fino a pomeriggio inoltrato. Ma quel 29 dicembre la Vitale, intorno alle ore 12, esce di corsa dal portone con due lacrimoni che rotolano giù per le guance prima di diventare perle gelate. «Gli avevo chiesto se le nuove generazioni lo avessero dimenticato e se ora fosse entrato a far parte dell'establishment», ricorda nella sua bella casa milanese nei pressi della Cattolica. «Non l'avessi mai detto, Shklovskij impermalosito mi caccia via, per poi scusarsi il giorno dopoperlo scoppio d'ira».
Comunque gli otto angeli custodi che stanno alle calcagna della ricercatrice decidono di dare una bella lezione all'intraprendente che si occupa di un critico letterario il cui fratello, Vladimir, filologo romanzo e teologo, è stato chiuso nel gulag e poi freddato con un colpo alla nuca. Una spallata ben assestata la fa planare sul marciapiede della metropolitana e le incrina un paio di costole.
Il giorno dopo uno dei due macchinoni le punta addosso il suo brutto muso grigio provocandole altre contusioni e fratture. «Ancora oggi non mi è completamente chiaro il motivo dell'aggressione. Ero ospite ufficiale dell'Unione degli scrittori sovietici e avevo un contratto con la Vaap (Agenzia dei diritti d'autore, filiale letteraria degli Organi della sicurezza di Stato), eppure mi vollero kappaò».
In questo «Gorky Park» in cui si traffica di libri, tra pedinamenti, inseguimenti, cazzotti, microfilm occultati e alfabeti segreti, si è svolta la vita «editoriale» di Serena Vitale, razza rara nella tribù degli intellettuali italiani, agente segreto ovvero contrabbandiera di carta stampata.
Ora la scrittrice in A Mosca, a Mosca! (Mondadori), con stile esilarante e raffinato, ci restituisce i suoi «calienti» anni moscoviti. Vi descrive la capitale sovietica dalla fine degli Anni Sessanta in poi, quando, studentessa del grande esperto di lingue e letterature orientali Angelo Maria Ripellino, va a far ricerca nella biblioteca Lenin (altro covo di spie e di occhiuti sorveglianti) per portare a termine la sua tesi su Andrej Belyj.
Oggi è un'autrice di gran successo (da Il bottone di Puškin a L'imbroglio del turbante) ed è una delle più note e feconde traduttrici di Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, e di Nabokov, Il dono, o anche di Puškin, Piccole tragedie. La sua esistenza l'ha trascorsa tra volumi che da «avventure dell'anima» si sono trasformati in «avventure del corpo» e anche in trappole micidiali, dice la Vitale con l'understatement e l'ironia che le sono cari.
Data di inizio della trasposizione? «Mi sono sempre piaciuti gli scrittori che mi portavano lontano. Da piccola la parola “tormenta” in Dostoevskij mi faceva impazzire, dal momento che a Brindisi, di tormente non ce n'erano. I miei autori sono stati negli anni Balzac, Dickens, Goethe, Austen, James, Manzoni, Nabokov, Mandel'štam, Dostoevskij e tantissimi altri. La passione per far diventare il libro una realtà avventurosa l'avevo però fin da ragazzina. Mia madre mi porta a visitare le grotte di Castellana: all'epoca ero tutta presa da Le avventure di Tom Sawyer che si perde mentre esplora cunicoli e caverne. Così abbandono il gruppo e cerco di imitare le gesta del mio piccolo eroe. Mi vengono a cercare con la polizia».
E l'università l'ha incoraggiata nella sua vocazione alla scoperta culturale?
«Certamente. Ho avuto professori di grande valore oltre a Ripellino, Giovanni Macchia, Giulio Carlo Argan, Giacomo Debenedetti le cui meravigliose lezioni si tenevano in piccole aule, a orari improbabili della mattina o della sera. Sono stata molto fortunata per aver compiuto i miei studi prima del Sessantotto. La mia voglia di rompere vincoli e barriere e di far conoscere in Europa e al mondo libri censurati è nata anche nelle aule della Sapienza di Roma. Un impulso che, comunque, mi ha creato non pochi guai».
Vi sono state alcune volte in cui ha immaginato di essere al limite, di finire nelle segrete stanze dalle luci sempre accese della tetra Lubjanka? «Uno dei peggiori momenti me lo ha riservato Padiglione cancro di Solzenicyn che sottoforma di microfilm stavo cercando di portare all'Einaudi. La pellicola l'avevo acquistata a suon di dollari da un gruppo di intellettuali non allineati. Il mio treno viene fermato a Chop, un paesetto di confine con l'Ungheria. Salgono dei militi armati.
Stanno cercando proprio me, quasi sicuramente a seguito di una spiata di un “caro” amico o degli stessi “non allineati”, forse imbroglioni patentati. Mi fanno scendere e mi trattengono senza aver trovato la pellicola che sta davanti ai loro occhi in una reticella di frutta, dentro una finta arancia. Nella stazioncina battuta dalla neve, il medico di turno, Valentin, mi aiuta: fa una diagnosi falsa, dice che sono malata di cuore e riesce a ingannarli. Mi accoglie nel suo studio, mi addormenta e si approfitta brutalmente della mia incoscienza. Il giorno dopo vengo caricata su un treno per Budapest dove sbarco in piena notte. Sono senza bagaglio e addirittura in tailleur, con quel freddo: ho dovuto regalare il pellicciotto e tutto il resto alle poliziotte per farmi rilasciare. Con i soldi arrivo a malapena a un biglietto per Zagabria. Qui incontro un italiano che, informato delle mie disgrazie e del fatto che sono a corto di quattrini, ripetendo continuamente "povera figlia!" mi propone di “darmi una mano”. Altro che mano! È un malintenzionato e sono costretta a rifugiarmi in ambasciata. Finalmente si apre uno spiraglio e posso rientrare. Successivamente trascorrerà qualche anno prima che io torni in Urss. C'era stata l'invasione della Cecoslovacchia e le vicende che mi avevano coinvolto mi avevano profondamente segnato».
Come faceva a far transitare i dattiloscritti proibiti verso lidi più ospitali? «In tanti modi, certo non c'erano macchine per le fotocopie. Inventai un inesistente carteggio Flaubert-Turgenev per far passare oltre frontiera Lettera all'Amazzone della Cvetaeva, di cui un apprezzato critico di regime aveva scritto: “non ha nulla da dire, la sua opera assomiglia a una cava di pietra aperta e vuota”. L'epistolario della stessa autrice, invece, lo sottrassi a uno studioso che amava molto la vodka. Mentre ronfava, imbottito dall'alcol di cui gli avevo fatto consistente omaggio, portai il malloppo alla redazione di Repubblica e fotocopiai a rotta di collo. Poi bussai all'alba a casa dell'ambasciatore Sergio Romano che mi accolse molto gentilmente ancora in vestaglia ma che si mostrò ligio e mi negò la valigia diplomatica. Alla fine trovai altre strade. Altre volte alternavo in grandi quaderni la copiatura a mano di una pagina “proibita” e di una pagina di un autore su cui non c'era nessun veto».
Le sensazioni di quegli anni? «Il malessere per la cultura del sospetto: se una donna aveva un anellino d'oro ci si chiedeva se l'avesse ottenuto a seguito di una delazione e a tavola quando un commensale andava via per primo ... si pensava che fosse andato a fare una spiata. Nella bella abitazione del figlio di Pasternak, sempre per timore delle maledette “cimici”, si comunicava tramite una piccola lavagna».
E al rientro in Italia, la sua vita intellettuale a fianco di Giovanni Raboni, un protagonista per anni del mondo culturale? «E' stata molto ricca. Da Attilio
Bertolucci, personaggio straordinario e di grande umanità e mitezza d'animo, ad Antonio Porta a Elsa Morante, la “gattara” con cui condividevo la singolare passione per i mici, eravamo come una famiglia. C'erano rapporti di scambio intenso, quasi quanto quelli indimenticabili, suggellati da mille difficoltà, che per anni ho coltivato a Mosca»." (da Mirella Serri, Con la vodka ho salvato la Cvetaeva, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/11/'109

venerdì 12 novembre 2010

The Necessity for Ruins


"Secondo il grande storico dell´arte cinese Wu Hung (professore a Chicago), nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle; le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell´arte e nella letteratura.
Per Chateaubriand (in una celebre frase del Génie du Christianisme, 1802), «tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine», a causa di un sentimento del sublime destato dal contrasto fra la condizione umana e la caduta degli imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano. Secondo un saggio di Georg Simmel (1919) «il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un´opera dell´uomo possa esser percepita come un prodotto della natura», della sua potenza distruttrice. J. B. Jackson, che il New York Times definì «il massimo scrittore sulle forze che hanno forgiato la terra occupata dalla nazione americana» scrisse nel 1980 un prezioso libretto, The Necessity for Ruins.
Secondo Jackson (americano, ma nato e morto in Francia), le città americane fanno enormi sforzi per costruirsi una memoria storica artificiale, creata a partire da oggetti visibili che vengono reinterpretati come monumenti, landmarks; ma anche creando dal nulla rovine fittizie, prêtes-à-porter di marca hollywoodiana, come i saloons "ricostruiti" in tante piccole città del Nevada. Anche le finte rovine hanno una prodigiosa efficacia sociale: presuppongono e incorporano le rovine della storia e quelle dell´immaginazione, ricreano un passato "vero" non perché dimostrabile, ma perché "tipico". Il gesto di invenzione della tradizione viene implicitamente legittimato come "ricostruzione" di una tradizione "autentica", che interpreta un´esigenza quasi religiosa di memoria collettiva. Scrive Jackson: «solo le rovine danno un incentivo efficace per la rinascita, per un ritorno alle origini. È necessario un intervallo di morte o di oblio, prima che possa davvero parlarsi di rinnovamento o di riforma».
Pensieri consolanti, in un Paese che va, moralmente e fisicamente, in rovina? È davvero necessario che Pompei e la Domus Aurea cadano a pezzi, per innescare nei cittadini una qualche voglia di riscossa? Dopo la frana di Giampilieri di un anno fa (18 morti), dobbiamo aspettare che franino l´una e l´altra sponda dello Stretto per accorgerci che non basta "dichiarare l´emergenza" come fece allora il governo, ma bisogna "curare" il dissesto idrogeologico anziché posare le prime pietre di un faraonico Ponte? Ma la riflessione sulle rovine, nella tradizione occidentale, non è consolatoria, è tragica.
Il detto famoso di Beda il Venerabile («Finché starà il Colosseo, starà Roma; e finché starà Roma, starà il mondo») non è un grido di trionfo, è un ammonimento e un allarme. Scrivendo nell´VIII secolo, Beda non si riferiva al Colosseo nel suo pieno fiorire, luogo di spettacoli che accolse per secoli decine di migliaia di spettatori, ma già (come oggi) a un gigantesco rudere che continua a morire a ogni istante, eppure vive ancora. Perciò le foto di Jack London a San Francisco dopo il terremoto del 1906 indugiano su chiese semidistrutte, ma ancora in piedi, su edifici in frammenti, ma riconoscibili. Fra la rovina (il frammento) e l´intero c´è una corrente di senso: fin quando la rovina è riconoscibile, invita il lavoro della memoria, la pietà della ricostruzione, l´intelligenza della riflessione storica. Perciò le rovine segnalano sì un´assenza, ma al tempo stesso incarnano, sono una presenza, un´intersezione fra il visibile e l´invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere "inutile" e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria). Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia, ben al di là della perdita del valore d´uso, la durata, e anzi l´eternità delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo.
Memoria di quel che fummo, le rovine ci dicono non tanto quel che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quel che per l´individuo sono le memorie d´infanzia: alimentano la vita adulta, innescano pensieri creativi, generano ipotesi sul futuro. Così le rovine (dei monumenti, delle istituzioni, dei valori) ci ricordano col loro crollo quotidiano che non possiamo essere solo spettatori. Nel segno della morte, alzano una barriera fra i viventi, sono segno di contraddizione: di qua chi al crollo reagisce con sdegno e volontà di rimedio, di là i distruttori di mestiere, che nei crolli e nelle rovine vedono solo occasioni di far bottino, e a chi si sdegna rispondono con battute e sberleffi, e l´inevitabile, miserevole invito a "non strumentalizzare" (è successo, in alcune servili reazioni dopo il recente crollo a Pompei).
Ma nelle rovine di quel che fu Roma peschiamo almeno questa citazione (da Seneca): è capace di indignazione solo chi è capace di speranza. Guardiamo dunque attentamente le rovine che si addensano intorno a noi, ma guardiamole con occhi allarmati. Hanno molto da dirci, se sappiamo interrogarle. Se non le consideriamo "inevitabili", ma prodotto di incuria a cui porre rimedio. Lasciamo alla loro morte morale chi danza cinicamente sulle rovine. Prendiamoci la vita, la lezione etica e politica che viene dalla memoria e dalla solidarietà collettiva, dalla volontà di rinascita. L´Italia lo merita." (da Salvatore Settis, I simboli della nostra civiltà che rischiano di diventare macerie, "La Repubblica", 11/11/'10)