lunedì 31 marzo 2008

Economia canaglia di Loretta Napoleoni


"Canaglia: una persona malvagia, spregevole, disonesta. Se invece il termine viene posto accanto a 'economia' sembra rinviare all'economia criminale, alla malavita in senso stretto. Mafia e dintorni, per intenderci. E invece il termine può essere usato per un'infinità di pratiche economiche oggi diffusissime e soprattutto 'quasi normali'. Un'economia canaglia oggi potente e ricchissima. Ovunque e in nessun luogo.
I mutui subprime americani (per banche e assicurazioni uno strumento finanziario virtuoso fino a pochi mesi fa), parte di quella 'industria del credito' che ha fatto indebitare (deliberatamente?) gli americani per oltre il triplo dell'intero pil del paese; il 'mercato del sesso', che vale oltre 50 miliardi di dollari nel mondo (e la E-55 che corre tra Germania e Repubblica Ceca, 'squallida striscia d'asfalto che ospita la più alta concentrazione di prostitute d'Europa'; e Israele, che sarebbe uno dei maggiori 'importatori' di prostitute slave, con una 'domanda' prticolarmente alta tra gli ebrei ortodossi). E gli oligarchi russi e la mafia cinese; l'Europa divenuta oggi la 'lavanderia' del denaro sporco globale; i milioni di schiavi e di bambini-lavoratori che producono cose che noi tranquillamente consumiamo, compreso l'oro dei nostri anelli luccicanti; e la pornografia via Internet (60 miliardi di dollari di incassi globali annuali). E ancora: le politiche fiscali dell'occidente, un tempo progressive per ridistribuire i redditi a favore dei meno abbienti, oggi diventate regressive: minore è il reddito, maggiori sono le tasse. 'Una follia sul piano politico e sociale' - accettata però da elettori affascinati da chi promette di ridurre le tasse, senza spiegare come. Dice Morpheus nel film Matrix: 'Hai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?'. Ecco, l'economia canaglia è anche questo: essere ormai incapaci di distinguere il reale dal sogno (o meglio: dall'incubo). Se invece cercassimo di guardare la realtà vera, non quella che viene fatta immaginare, scopriremmo - scrive Loretta Napoleoni, esperta di economia internazionale e di terrorismo in questo suo inquietante Economia canaglia (appunto), dettagliatissimo viaggio nel lato oscuro del nuovo ordine (o disordine) economico globale - che siamo invece 'in pieno marasma commerciale', ma anche etico e politico. Ma l'economia canaglia non è cosa di oggi, anzi ha sempre caratterizzato - ancora Napoleoni - la maggior parte delle grandi transizioni storiche, dalla quarta crociata finanziata da Venezia per avere il monopolio dei commerci con l'Oriente, alla scoperta dell'America; dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del Muro di Berlino. L'economia canaglia farebbe dunque parte (inevitabile?) della storia umana, 'come lo yin e lo yang'. E allora vale il confronto con un'altra grande transizione, quella alla fine della II guerra mondiale. Allora, il sistema venne rifondato sulle regole e sul controllo politico (Bretton Woods, Piano Marshall). Dopo il 1989, invece, nessuna regola (è la deregolamentazione liberista), se non le regole dei più forti. Ovvero, 'dal controllo della politica sull'economia si è passati all'economia canaglia che tiene in scacco la politica'. Competizione esasperata, corruzione dlagante, valori morali scomparsi: è il nuovo 'senso comune'delle società attuali. E la democrazia sembra vacillare, debole e incerta. Ma sembra anche felice e contenta, perché mai come oggi l'economia del divertimento (un'altra economia canaglia?) è tanto diffusa e condivisa. Cercata. Invocata." (da Lelio Demichelis, Economia canaglia fin dalle crociate, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/03/'08)

domenica 30 marzo 2008

Sarinagara di Philippe Forest

"Sta come il pesce / che ignora l'oceano / l'uomo nel tempo"

"'E' di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure' scrive Kobayashi Issa, l'ultimo maestro dello haiku, dopo aver perso il figlio. Sarinagara, eppure: l'ultimo romanzo di Philippe Forest si costruisce a partire da questa parola; l'avverbio occupa, delle diciassette sillabe che compongono un haiku, un intero verso. E' un mondo fragile come rugiada, ma si può ancora viverlo, e raccontare. Philippe Forest (dopo Tutti i bambini tranne uno e Per tutta la notte, premio Grinzane 2007) parte con la moglie per il Giappone, lontano dal lutto della figlia che hanno perduto. Ma il viaggio non è davvero raccontato. Forest narra invece tre vite di giapponesi: di Kobayashi Issa (1763-1827), appunto; di Natsume Soseki (1867-1916), creatore del romanzo moderno giapponese; e di Yamahata Yosuke (1917-1966), il primo fotografo entrato a Nagasaki resa polvere dalla bomba atomica. I tre hanno qualcosa in comune: di nuovo, un lutto infantile. Ma le tre biografie non raccontano la rugiada; stanno dalla parte dell'eppure. Quando Issa abbandona la vita di poeta vagabondo, e torna tra i contadini del villaggio natale, Napoleone sta mettendo fuoco a Mosca. Soseki, il cui matrimonio tradizionale è stato combinato da mezzani, che scambiano le foto dei promessi, è contemporaneo di Proust. Mai Forest racconta il Giappone senza straniarci con l'Occidente. 'All'epoca dei maestri, lo haiku figura raramente da solo: è una creazione collettiva, il renga, dove è abolita la nozione di proprietà letteraria, esattamente' spiega ad esempio Forest, 'come nel cadavre exquis surrealista'. Lo haiku però può anche essere inserito in un diario di viaggio (nikki o haibun), che gli dà il giusto senso. Bambino abbandonato, Issa ha vagato per tutto il Giappone; il suo diario dell'anno 1819, Ora ga haru, La mia primavera (è un titolo ironico: il poeta ha più di cinquant'anni) contiene questo haiku: 'stanno giocando / guardo e il mio bambino non c'è / stanno ballando'. Soseki il romanziere accenna anche lui pudicamente a quello che resta dopo il lutto; Sorekara è un suo titolo, E poi. Yosuke Yamahata ha avuto la sua prima Leica a diciott'anni; lascia l'università e diventa fotografo per i Sevizi informativi che suo padre dirige. Gli viene assegnata la missione di accompagnare la Marina giapponese a Singapore, in Malesia, in Cina. Alla vigilia del 6 agosto del '45 - compie 28 anni ed è il giorno di Hiroshima - Yamahata passa velocemente per la città, diretto alla sua nuova guarnigione, nella più meridionale delle grandi isole del Giappone. La raggiunge mentre cominciano a sorgere le voci sulla sorte della città. Si trova a soli 160 chilometri da Nagasaki, e viene spedito dai superiori a raccogliere testimonianze fotografiche sull'esplosione. Arriva di notte; nel buio si accendevano fosforescenze fugaci, azzure sull'orizzonte assente, e si spegnevano. Yamahata si siede a fumare, aspettando che la luce gli consenta di lavorare. Non sa esattamnete cosa vedrà, per primo. Il racconto della notte ignara di Yamahata è indimenticabile ('sta come il pesce / che ignora l'oceano / l'uomo nel tempo', aveva scritto Issa). In un francese superbo, teso e terso, che mette in poesia il racconto (e ci vuole la grazia di Gabriella Bosco per tradurre tanta sospesa emozione) Forest spiega la natura dello haiku, 'algebra vuota' fedele alla 'fibra triviale e modesta del mondo', cui l'Occidente a torto presta sensi e simbologie. O indica la foto di una porta vuota sul silenzio carbonizzato di Nagasaki, con scritto l'ideogramma domanda. Eppure." (da Daria Galateria, Haiku e cognizione del dolore, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 29/03/'08)

venerdì 28 marzo 2008

Poeti per la pelle


"Nel 1978 la Mondadori pubblicò un Oscar di Poesie scelte di Carlo Betocchi e pose in copertina un paesaggio di Rosai che nella sua semplicità si sposava molto bene con questi versi piani, sorgivi, in qualche modo antichi. Carlo Bo, autore dell'introduzione, apriva con una dichiarazione impegnativa: 'Mi sembra che a nessun poeta del nostro tempo sia riuscito come a Betocchi il miracolo di identificare la propria vita nella poesia'. Betocchi è dunque un poeta senza progetto, che tuttavia vive nella poesia. All'apparire dell'Oscar scrive a Giorgio Caproni, suo fraterno amico da tanti decenni: '... son rimasto freddo, come se non fosse una cosa mia, anzi un libercolo noioso e inutile. Altro è il libro di poesie, stampate fresche e nuove, nei caratteri grandi di Lo Specchio: ed altro queste spruzzate di pianto inacidito. Non sono più io ...'. Ma Caproni di rimando: 'Leggerti o rileggerti (anche sotto un titolo inamidato come Poesie scelte) è sempre per me una gran festa, o meglio una gran gioia, anche quando parli di tristissime pene, di ferite nel povero vivere quotidiano. Sai che ti dico? Tu non scrivi con le parole. Scrivi con le cose, anzi, con i corpi vivi e viventi, anche quando appartengono al regno minerale, o a quello del puro spirito. Ad ogni pagina che volto, è per me come entrare in un vivaio, bosco o città che sia ...'. E' dal 1936 che i due poeti si scrivono e oggi il loro epistolario, che dura fino al 1986, introdotto da Giorgio Ficara e curato con molta sapienza da Daniele Santero vede la luce presso l'editore Maria Pacini Fazzi. E' come entrare in un altro mondo: un mondo fatto di povertà, di inverni freddi, di cibo scarso e di infinita dedizione alla propria ricerca poetica. Una ricerca che sta in cima a tutto, anche se non sempre lo si dà a vedere e che sta dietro a tutto. La ricerca della semplicità li accomuna, ma la diversità tra i due è grande. Giorgio, rispetto a Carlo, ha un respiro maggiore, più europeo e crescerà nel tempo. Ha notato Ficara che i due contravvengono alla regola 'poetica' dell'inimicizia. Anzi, ostentano una Amicizia con la A maiuscola, una reciproca devozione che è il dato più commovente della loro frequentazione. Su un piano più spicciolo l'epistolario consente una fruttuosa discesa nel secolo scorso, tra Firenze e Roma, tra il giovane Luzi e Vallecchi da una parte, e Bertolucci e Pasolini dall'altra. Nascono riviste ("La chimera"), si discute di collaborazioni 8la Fiera letteraria, l'Approdo), di premi, di soldi che non ci sono, di recensioni. 'Carissimo Giorgio', scrive Betocchi all'amico nel dicembre del '75, 'ricevo oggi l'Albero e vi leggo la recensione breve ma lucida come l'ariento (tanto per dire un argento che era davvero argento e splendidamente lavorato) di Mario Luzi; con un'altra di Francesco Tentori, entrambe sul tuo libro'. Il libro era Il muro della terra pubblicato da Garzanti. Un libro accolto molto bene e molto ben recensito. Rispondendo a Betocchi, Caproni dice che il discorso di Luzi gli appare stupendo 'ma non mi ha per nulla fatto sembrar di stoppa il tuo'. E alla fine della lettera senza nessuna affettazione conclude. 'Io sono niente di fronte a te, Carlo: quante volte te l'ho già detto?'. [...]" (da Paolo Mauri, Poeti per la pelle, "La Repubblica", 28/03/'08)
Centro Studi Carlo Betocchi
Fondo Carlo Betocchi (Gabinetto Vieusseux)
Carteggio Manzini - Betocchi (TecheRai)

Michele Serra: "Morire di rave a 19 anni nel nome di un rito stanco"


"Tutte le culture, in tutte le epoche, hanno avuto i loro baccanali. Momenti di 'sballo' collettivo che liberano dalle regole, sfrenano i corpi, accendono gli spiriti. I rave party, così come si sono evoluti in un breve arco di tempo, sono un baccanale triste. Triste come la sconfitta culturale delle controculture giovanili che li hanno inventati e via via abbandonati. Li hanno via via abbandonati alla deriva masochista delle droghe (soprattutto intrugli di sintesi) e del compiacimento autodistruttivo. Quando nacquero, nelle zone degli Stati uniti in crisi industriale, sotto gli enormi scheletri delle fabbriche dismesse e in anni di pesante disoccupazione, volevano essere una risposta corale e alternativa all'aura di morte sociale che incombeva su luoghi e persone. Ballare per ore, a volte per giorni, proprio là dove la società industriale lasciava solo rovine e vuoto. Riempire quel vuoto con il battito simbolico della musica techno, spesso nata assemblando suoni urbani (sirene, clangori, effetti metallici) reiterati fino allo sfinimento. L'agitazione sfrenata dei corpi che riempie il nulla, lo contrasta, gli si rivolge contro. L'energia e l'adrenalina delle masse giovanili urbane che rifiutano di dismettersi insieme alla produzione. Un significato politico neanche troppo sotteso, anzi rivendicato: 'noi' non accettiamo il silenzio e la stasi che 'voi' imponete alle macchine. Noi non vogliamo arrugginire. Noi vogliamo vivere e godere. E il post-industriale americano e poi europeo si animò delle ombre irrequiete dei ravers, che danzavano sotto le volte scarnificate delle fabbriche abbandonate, in perenne conflitto con leggi (anche appositamnete varate), polizia, popolazioni confinanti assordate dal battito e disgustate dalla quantità inverosimile di rifiuti e deiezioni che il rave lasciava sul posto: fenomeno non sorretto, quest'ultimo da alcuna giustificazione 'alternativa', e anzi quasi una inconscia firma di indegnità collettiva della quale è molto difficile vantarsi ... Il problema è che, come spesso accade ai propositi radicalmente alternativi, anche i rave hanno finito per imboccare la strada dell'auto-parodia. La frenesia voluta, cercata, rivendicata, è diventata una penosa (e pericolosa) ossessione prestazionale, come se ammazzarsi di rumore, di stanchezza, di 'sballo' fosse una sfida alle convenzioni e non alla salute fisica e psichica. La resistenza alle droghe e alla fatica è stata spinta ben oltre il muro della logica. E - soprattutto il mito quasi sciamanico della 'trance' si è sovrapposto, col tempo, all'intenzione originaria, che era quella di una rappresentazione di energia di massa, quasi una riedizione 'statica' dei cortei degli anni Settanta: un corteo politico stanziale, con la techno al posto degli slogan, ma in qualche caso anche cortei in piena regola, rave-parade urbane come quella che ha dato tanti grattacapo a Cofferati negli ultimi anni sfilando per le strade di Bologna. 'Uscire di testa' è diventato il mezzo e pure il fine, forse la sola porta d'uscita di una contro-cultura che ama rappresentare la società come la più cupa e fredda delle galere: tanto vale cercare un varco psichico, ennesima versione (però incupita, nera, esiziale) del sogno lisergico di Leary e dei freaks visionari degli anni Sessanta. In tanti caddero lungo la strada, in tanti cadono ancora. Il rave di Segrate era, in questo senso, tipicissimo. Il capannone dismesso, lo squallore dei non-luoghi periferici inteso come teatro ideale della lunga cavalcata in arcione alla notte, alla musica e alla chimica. La rivendicazione di uno spazio e di un tempo entrambi non dati. Detto cinicamente, meglio lì che nei luoghi naturali così spesso massacrati dai rave, come i prati alpini spopolati di flora e fauna dopo il passaggio di decine di migliaia di ballerini tristi, e trasformati in discariche d'alta quota. Assai meno cinicamente, c'è da compiangere il ragazzo di diciannove anni stroncato da chissà quali porcherie, e da soccorrere i molti altri collassati, quelli che il rave, come un corpaccione sordo e sfrenato, proietta ai suoi margini, scorie umane che non reggono il ritmo infernale, ennesima metafora della ferocia meccanica di una fabbrica ormai inesistente. Caduti del non-lavoro." (da Michele Serra, Morire di rave a 19 anni nel nome di un rito stanco, "La Repubblica", 25/03/'08)
L'ospite inquietante. I giovani e il nichilismo di Umberto Galimberti (Feltrinelli)

giovedì 27 marzo 2008

Il capitalismo ha i secoli contati di Giorgio Ruffolo


"In un libro suggestivo di Luigi Zoja i concetti di hybris, di arroganza (verso gli dei) e di nemesis, di vendetta (degli dei) sono espressi come metafore della crescita capitalistica e delle sue contraddizioni. Metafore attinte al mito di quella Grecia classica che per prima ha suscitato l'inquietudine creativa, ma anche i complessi di colpa dell'Occidente. Quell'inquietudine è forse un virus che la Grecia ha trasmesso all'Occidente e che dopo un lungo letargo è riemerso nella modernità, alimentando gli 'spiriti animaleschi' del capitalismo. Quel virus ha proliferato grazie a una felice combinazione, propria e specifica dell'Occidente, di due fattori: la tecnica e il mercato. Questa formidabile ricetta ha permesso di estrarre da società stagnanti una fonte di crescita, prima della popolazione, poi della produzione, e di realizzare una condizione di netta superiorità delle economie dell'Europa e delle sue colonie bianche sul resto del mondo in termini di produttività e di benessere. Ma ha anche suscitato condizioni di insostenibilità. Insostenibilità fisica ed ecologica rispetto ai limiti posti dalla legge dell'entropia crescente. Insostenibilità politica rispetto ai vincoli che devono essere osservati per assicurare la coesione della società. Per la prima volta nella storia l'Occidente ha generato una società priva del senso del limite, 'illimitata', anzi, propriamente, sterminata. Ciò vale non soltanto per la crescita della produzione, ma per l'uso dello spazio, congestionato, e del tempo, sovraccarico. Nonché della parola, sempre più frenetica e urlata a riempire il silenzio, come accade negli show televisivi, o nei film, dove il dialogo è diventato un precipitato maniacale. E vale per l'estremo limite, quello della morte, scongiurata per quanto possibile dal discorso e dalla presenza. Ora, una civiltà che pretende di abolire il limite è perduta, non solo perché non riconosce i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce il senso che solo il limite può attribuirle. E' quello che viene a mancare nell'insensatezza della crescita, generando una instabilità e un'aggressività endemica. Di qui l'esigenza di arrestare la crescita in una condizione di 'stato stazionario' retta dai due principi fondamentali dell'equilibrio ecologico e della correlazione sociale. Il virus della hybris umana non si manifesta però solo 'negativamente', accelerando localmente, nel mondo dominato dall'uomo, la tendenza universale all'aumento del disordine: dell'entropia. L'uomo costituisce anche il punto più alto di un processo simmetrico a quello della crescente entropia: il processo dell'evoluzione. Simmetrica rispetto alla seconda legge della termodinamica c'è infatti quella che alcuni scienziati hanno definito la legge della organizzazione. Se esistesse solo la legge dell'entropia ci sarebbe solo il caos. Invece, a partire dal big bang il caos cede spazio a strutture ordinate: molecole via via più complesse, stelle, galassie, pianeti, formazioni geologiche, oceani, metabolismi autocatalitici: e poi vita, società, intelligenza ... Insomma: all'aumento complessivo di entropia fa da contrappunto una disposizione sempre più ordinata della materia. Quest'ordine non è il frutto né del caso né di un progetto divino. E' la capacità insita nella materia di autoorganizzasi, da forme semplici a forme sempre più complesse, attraverso la selezione anturale. In questo processo antientropico l'uomo occupa la posizione di punta. Nel processo di selezione naturale emerge infatti, attraverso la sterminata proliferazione di possibilità sanzionate dal successo, un'organica intenzionalità, che nell'uomo diventerà intelligenza. A quel punto, la selezione naturale è affiancata da una selezione culturale. L'intelligenza dell'uomo, frutto supremo di quella selezione, può impadronirsi, attraverso la scienza, della logica di quel processo evolutivo per guidarla sulla via di una trasformazione della specie umana in una specie più complessa, capace di ampliare i limiti che la natura le ha assegnato: le sue colonne d'Ercole; quella che Dante fa varcare al suo Ulisse in nome dell'umana trascendenza: 'fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza'. Mentre, restando all'interno della produzione materiale e della sua crescita, l'uomo incontra i limiti insuperabili dell'entropia, procedendo nella conoscenza l'uomo non incontra che i limiti della produzione di idee e delle capacità ideative del suo cervello che sembra sia tuttora utilizzato in minima parte. Possiamo allora immaginare di impossessarci del meccanismo della legge dell'organizzazione, dell'evoluzione, per raggiungere gradi sempre più elevati di conoscenza e di potenza. Invece di inseguire la potenza sulla via della crescita materiale, dell'avere, sbarrata dalla legge dell'entropia, perseguire l'autotrasfromazione del nostro essere, sia quanto al suo aspetto fisico (la durata della vita) sia nel suo aspetto spirituale (il senso della vita). In altri termini, renderci padroni della seconda legge dell'organizzazione, e quindi dell'evoluzione di noi stessi. Non era questo il significato di quei due alberi (non uno solo) ai cui frutti era fatto divieto di accedere nel giardino dell'Eden, per non diventare simili a Dio (l'albero del bene e del male, e l'albero dell'immortalità)? In questa trascendenza della condizione umana, fisica e spirituale, bisogna saper vedere, come fa Aldo Schiavone nel suo piccolo libro ispirato, Storia e destino, il senso e il destino dell'avventura umana. E l'improbabilità di una condizione economica e sociale che ha i secoli contati. [...] Non è già questa, della trascendenza umana, la via sulla quale sta procedendo, nel seguire la sua vocazione al sapere, la scienza? Non è questo il senso di quella grande impresa dell'intelligenza artificiale in cui scienziati pazzi e geniali' come Doyne Farmer, come Daniel Hillis, e tanti altri, stanno investendo la loro pazzia e la loro genialità? Dovremmo avere più paura di supercomputer in grado di pensare secondo regole logiche e morali dettate da noi di quanta ne abbiamo dei demagoghi e dei paranoici che guidano oggi popoli interi? Lungo questa linea non incontriamo altri limiti di quelli che ci poniamo noi stessi in nome di una religio che ci relega in una condizione di tanto superstiziosa quanto presuntuosa ignoranza. Se così stanno le cose, le filosofie che contestano la scienza e la tecnica come idoli della nostra servitù ci portano sulla strada opposta a quella segnata dalla legge dell'organizzazione che regola l'evoluzione dell'essere. Ci portano nelle fumosità del misticismo, mentre la scienza e la tecnica, al servizio della conoscenza, non del mercato, sono le vie aperte al nostro sviluppo creativo. [...] Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all'accumulazione capitalistica. Quella sintesi di tecnica e di mercato che ha costituito il segreto del trionfo capitalistico ne rappresenta oggi la prigione. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema, allora, non è quello di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato, ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l'equilibrio ecologico, l'arresto della crescita economica dell'avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo della specie umana." (da Giorgio Ruffolo, Il capitalismo senza limiti, "La Repubblica", 26/03/'08, anticipazione dal nuovo libro di Giorgio Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi)

Sempre meglio che lavorare di Michele Brambilla


"Liberi o asserviti? Servitori della verità o cinici arrivisti? Casta di intoccabili o peones delle redazioni? Inviati speciali o invidiati speciali? Si parla dei giornalisti, così come li dipingono due libri scritti da due di loro (entrambi milanesi), che hanno molti punti in comune: Casta stampata (Mursia) di Luigi Bacialli, caporedattore di Montanelli al "Giornale" e alla "Voce", direttore del "Gazzettino di Venezia" fra 2001 e 2005, e Sempre meglio che lavorare (Piemme) di Michele Brambilla, al "Corriere della Sera" per diciotto anni, quindi vicedirettore prima di "Libero" e poi del "Giornale". Non si tratta di due saggi bensì di due testi di riflessioni e rievocazioni, di echi e punzecchiature, di aneddoti e ritratti, in cui il mondo dei giornali è un po' messo alla berlina, anche perché sia Bacialli sia Brambilla mettono in campo una certa propensione al gioco satirico o al bozzetto umoristico. Quindi libri di gradevole lettura, in brevi capitoli, che però non nascondono di voler smascherare, dietro il tono leggero, gli aspetti meno nobili della professione giornalistica. Il titolo di Brambilla è tratto da una nota battuta la cui paternità è divisa fra Leo Longanesi, il grande scettico che inventò il rotocalco, e Luigi Barzini jr.,firma del "Corriere della Sera". E l'autore si diverte a mostrare perché fare il giornalista sia sempre meglio che lavorare: ecco il Grande Inviato all'opera, che parte con tutto comodo, vuole macchina con autista, esige mille euro ('per mance agli informatori'), si fa dare le notizie dai cronisti locali, mentre il povero (ipotetico) Balestrazzi, corrispondente di provincia pagato a pezzo, scarpina per lui, è il vero reporter ma nessuno lo considera. Oppure, su un altro fronte, non c'è redazione senza 'il mobbizzato': soggetto singolarmente perseguitato dalla sfortuna, che ha inanellato almeno otto direttori prevenuti contro di lui, nessuno gli ha mai permesso di esprimersi, è un genio incompreso trasformatosi in specialista della pausa-caffè, perciò fa causa al giornale. Il taglio di Bacialli è un po' più didattico e moralistico, nel senso di far toccare con mano al lettore i vizi dei giornalisti italiani, a partire dall'ipocrisia con cui si denunciano privilegi e sprechi degli uomini politici senza guardare a cosa accade in casa propria: per esempio si invoca un minor numero di parlamentari, ministri e amministratori pubblici, ma gli organismi di rappresentanza della categoria hanno dimensioni sproporzionate (il Consiglio nazionale dell'Ordine è composto di 139 giornalisti). Poi ci sono inviati a viaggi in tutto il mondo, basta fare un articoletto al ritorno; ci sono le sponsorizzazioni di natura politica, alla Rai e altrove, per cui sembra che non esista giornalista che non sia in quota a qualche partito; e c'è la corsa a premi e premietti, per cui autorevoli firme chiedono di scrivere pezzi su formaggi, carciofi, località turistiche, e su un serio quotidiano si legge il titolo a cinque colonne 'Cotechino che passione'. In realtà l'amore per il mestiere fa scrivere a Brambilla anche pagine dove racconta in fulminei ritratti personaggi come Montanelli e Biagi, Buzzati e Fallaci, o tira fuori dall'oblio un Giovannino Guareschi 'schiena dritta'. Lo stesso capita a Bacialli, che fra un ricordo di Indro e una evocazione della Voce, fra analisi della crisi della carta stampata e scandali e scandaletti che invischiano i giornalisti, tratteggia una linea di paziente fedeltà al mestiere di direttore." (da Alberto Papuzzi, Meglio le penne pulite, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/03/'08)

"Il Libano perde Persepolis"


Persepolis di Marjane Satrapi
"Rideva il profeta? Sì, assicurano le fonti: 'così di cuore che gli si vedevano i denti del giudizio'. In tempi più recenti non si può dire però che l'umore e l'ironia, per non parlare della satira, siano un marchio del mondo islamico. Tiranni e censori si allarmano facilmente. Perfino di fronte a un piccolo film a fumetti comico e amaro come Persepolis, con i suoi disegni assurdi e realistici, e le sue ragazzine dal viso tondo incorniciato dall'antipatico fazzoletto nero. Il film non sarà proiettato in Libano, hanno annunciato ieri le autorità di Beirut. Il Libano era sempre stato considerato un'oasi di liberalità dagli intelletuali arabi (al Cairo si scrive, a Beirut si pubblica, dicevano) ma a quanto pare ormai gli hezbollah sono diventati più Ahmadinejad-dipendenti degli stessi iraniani: sugli schermi di Teheran infatti Persepolis è stato proiettato (con diversi tagli e solo per pochi giorni), nonostante il presidente lo avesse definito 'islamofobo' e 'antiiraniano'. Il film come si sa è la storia della rivoluzione iraniana vista da una bambina di nove anni, figlia di genitori ricchi e liberali, oppositori dello scià e rivoluzionari a tempo pieno, che all'inizio avevano accettato Khomeini perché l'obiettivo politico di tutti gli iraniani era allora liberarsi dall'influenza straniera, insopportabile per un paese che era stato un grande impero per tremila anni." (da Vanna Vannuccini, Il Libano perde Persepolis, "La Repubblica", 27/03/'08)

mercoledì 26 marzo 2008

Il gallo di ferro di Paul Theroux


"Nel suo libro di viaggi in Cina e Tibet, Il gallo di ferro, lei affermava che il treno non avrebbe mai raggiunto il Tibet. 'E' vero. I cinesi riescono a spostare le montagne. Hanno letteralmente spianato tutto l'est della Cina per costruire fabbriche e intere città. E quando non riescono a spostare le montagne le colonizzano, come in Tibet. Ho trovato stupefacente che siano riusciti a collegare Golmud nel Qinghai con Lhasa. Ma questo è successo perché i cinesi non hanno il minimo riguardo per l'ambiente o per le opinioni altrui e nessun senso della giustizia. la ferrovia significa più fabbriche, più apparecchi televisivi, più soldati, più colonizzatori in Tibet - e più turisti. In questo omento stanno costruendo una gigantesca autostrada a otto corsie fra Kunming nello Yunnan e il confine del Vietnam, attraverso la giungla vergine. E questo malgrado il Vietnam'. Può commentare la situazione attuale? 'Quello che vediamo è il risultato dell'invasione cinese del Tibet il 10 marzo 1959 e dell'annessione alla Cina - meglio, all'impero cinese e al suo imperatore Mao Zedong. All'epoca non si levò alcuna voce di protesta: tutto il mondo permise questa violazione. Sette anni dopo, durante la Rivoluzione Culturale, il Tibet fu saccheggiato, i monaci furono uccisi o arrestati, i templi demoliti e i mattoni utilizzati per nuove costruzioni; i soldati si acquartierarono nei monasteri, compreso il sacro Potala. Alcuni templi servirono da porcili per i maiali, per comodità, ma anche per spregio. I tibetani si sentivano oltraggiati, ma cosa potevano fare se il mondo stava a guardare? All'inizio degli anni Ottanta i cinesi inziarono a costruire le strade e a trasferire un numero ancora maggiore di soldati in Tibet, con lo scopo di industrializzare quella che era una società feudale. Questo sviluppo si è svolto senza verifiche di alcun genere. Quando i cinesi si sono resi conto delle potenzialità turistiche del Tibet, hanno permesso i viaggi e decorato alcuni templi - per i turisti, non per i buddisiti tibetani. Ci furono delle dimostrazioni nel 1986-'87 e nel 1989, ma furono brutalmente represse. E aggiungo che sia Henry Kissinger che Lee Kwan Yew, il primo ministro di Singapore, approvarono la repressione e sostennero la brutalità del governo cinese. Quindi, vede, nessuno ha mai fatto nulla per aiutare la lotta del popolo tibetano. Si può capire la loro rabbia'. Cosa pensa del boicottaggio delle olimpiadi e dell'impossibilità dell'embargo commerciale? 'Non sono d'accordo sul boicottaggio. I giochi si devono svolgere. Ma allo stesso tempo la condanna della colonizzazione cinese dovrebbe essere universale. Un embargo commerciale? Sarebbe interessante. Se l'Italia non comprasse i vestiti cinesi, gli italiani andrebbero in giro nudi. E così gli americani. Metà del mondo dipende dalle merci cinesi - gli Stati Uniti più degli altri. La Cina potrebbe distruggere l'economia americana. La Cina è un drago che sputa fuoco, letteralmente. Per secoli si è ritratta in questo modo agli occhi di un mondo che la derideva. Adesso il drago cinese è intimidatore, potente e battagliero'. Lei descrive le risate dei tibetani. 'Una risata sincera è una cosa rara in qualunque società - il riso rappresenta sovente altre emozioni, dalla cautela all'imbarazzo, dalla conquista alla paura vera. La risata cinese mi è spesso sembrata di vendetta o rabbia. Quella tibetana di esasperazione'. Lei celebra l'unicità di Lhasa, il luogo che ha più amato in tutta la Cina. 'Da viaggiatore sono interessato solo ai luoghi disperati, con governi spaventosi. Qualche anno fa sono stato in Turkmenistan con il suo dittatore pazzo e ho potuto testimoniare la sua follia. Non amo le vacanze orizzontali, su una spiaggia, al sole. Ho tentato invano di tornare a Burma. Ho molto amato il Tibet. Ci tornerei subito - per essere testimone di quello che accade, ciò che ogni scrittore dovrebbe fare, anche se mi rendo conto che la parola martire deriva dal greco testimone'. Ci sono viaggiatori italiani che l'hanno ispirata? 'Sono per metà italiano, i miei nonni erano di Ferrara e Piacenza e quindi la mia ispirazione di viaggiatore è quella di padre Matteo Ricci che ha introdotto la cartografia scientifica in Cina oltre ad altre raffinatezze coem la pittura a olio o certe tecniche di memorizzazione. In genere non mi sento di avere nulla da offrire ai luoghi che visito, ma solo di avere molto da imparare. La lezione del Tibet è che un grande paese unificato, pio e indulgente, con una più o meno felice struttura sociale seicentesca e un leader saggio, è stato occupato con la violenza e sovvertito davanti all'indifferenza del mondo'. Pensa ancora che i tibetani siano imperituri? 'Sì, ecco un esempio. Ero recentemente in India e ho incontrato molti tibetani. Ve ne sono centinaia di migliaia, se non milioni, che vivono come rifugiati in tutta l'India. Molti sono di seconda generazione. Nessuno di loro ha la nazionalità o il passaporto indiano. Hanno un certificato che li identifica come rifugiati. Questo status è stato accettato grazie alla rivendicazione del Dalai Lama secondo cui essi sono ancora tibetani e un giorno torneranno nel loro paese, quando sarà nuovamente una nazione sovrana. Naturalmente glielo auguro. Ma il prossimo grande caso difficilmente sarà la liberazione del Tibet, bensì l'annessione di Taiwan. E chi cercherà di impedirla?'." (da Pico Floridi, Se Lhasa scomparirà nella bocca del dragone. Intervista allo scrittore Paul Theroux, "La Repubblica", 25/03/'08)
"To the end of the line" (da GuardianUnlimitedBooks)
I libri di Theroux

Feltrinelli. Una storia contro


"15 marzo 1972. Un uomo viene trovato morto, dilaniato da un'esplosione ai piedi di un traliccio dell'alta tensione, a Segrate. Ha documenti falsi, ma presto si scopre che è Giangiacomo Feltrinelli, editore, nome di battaglia Osvaldo. parte da qui, da un'esplosione nel buio, la pioggia che scroscia e il rincorrersi di voci e commenti di chi scoprì il cadavere, il fiorentino Mauro Monni, attore e autore 40enne, per il suo monologo Feltrinelli. Una storia contro, da stasera al Teatro Libero (Milano, via Savona, 10 - 02/8323182, fino al 31 marzo). Monni, perché uno spettacolo su Feltrinelli? 'L'idea è quella di raccontare l'Italia, dal dopoguerra alle stragi di Stato e agli Anni di Piombo, ma non in modo cronachistico. la racconto con gli occhi di Giangiacomo Feltrinelli. Senza apologie, ma con la convinzione che era un utopista, uno che cercava di importare una rivoluzione senza sangue, facendola uscire dai libri, coinvolgendo anche il popolo'. Lui che er ail rampollo di una delel famiglie più ricche d'Italia ... 'Racconto anche questo, sulla scorta del bel libro del figlio Carlo, Senior Service. Di lui che, nato in una famiglia diventata richissima con il traffico di legname, a 17 anni scappa di casa e diventa partigiano, scopre un mondo diverso da quello delle ville dorate. Sposa l'idea del Partito Comunista, vuole far qualcosa di importante per i lavoratori, lui che ha i mezzi per farlo. E allora fonda una biblioteca di testi comunisti, Marx, Engels, Lenin. E diventa editore'. A lanciarlo nel mondo dell'editoria vera e propria ci fu però il caso del Dottor Zivago ... 'Che è uno spettacolo nello spettacolo, una storia pazzesca. Lo pubblicò mettendosi contro l'URSS e Togliatti, nel '57, ma l'anno dopo Pasternak vinse il Nobel. Per Giangiacomo fu la consacrazione, la fama internazionale. E sempre per un libro, un'intervista che voleva fare a Fidel Castro, scopre Cuba e la rivoluzione, un'utopia che sconvolgerà la sua vita. Ma lui non era un terrorista, el sue erano azioni di sabotaggio, senza sangue né violenza'. E' una sorta di emblema degli Anni di Piombo. 'Sì. Quegli anni io li ripercorro in scena attraverso gli occhi di Feltrinelli, raccontando le stragi di quegli anni, Piazza Fontana di cui ingiustamente accusato, ma anche quelle che seguirono la sua morte, l'Italicus, Bologna, Ustica. L'Italia delle stragi ancora senza colpevoli, che io ricordo per non dimenticare e perché anche i ragazzi sappiano cos'è successo in quegli anni'." (da Feltrinelli, un uomo contro, "La Repubblica", 25/03/'08)

Galassia Gutenberg


"Li immaginiamo in funzione al Viminale o nelle prefetture della Campania. Invece gli 'Stati generali della spazzatura' opereranno alla Stazione Marittima di Napoli, dal 28 al 31 prossimi durante la 19ª Galassia Gutenberg. 'Abbiamo faticato per mettere a punto il programma di quest’anno' - ammette l’editrice Maria Liguori che con il fratello Franco ha inventato e conduce l’unica importante (talvolta anche contestata) rassegna dedicata, nel Mezzogiorno d’Italia, al libro e dintorni. Ma ai problemi di una città che in questi mesi è stata falciata con le immagini del suo degrado in circolazione planetaria, era d’obbligo rivolgere speciale attenzione.
GUTENBERG 2008. Sicché, accanto ad uno degli ormai storici impegni di fondo, la ricerca di un sempre più stretto rapporto tra le due sponde del Mediterraneo, il tema centrale della Gutenberg 2008, non poteva che essere legato all’ambiente: nel binomio 'Cultura e natura' confluiranno naturalmente molti percorsi e le eterne domande: quali le sfide per il futuro? Quale il ruolo degli intellettuali per una cultura della sostenibilità?
GURU DELLA MONNEZZA. 'Non la spazzatura a Napoli e nel mondo, ma la spazzatura del mondo' è uno dei filoni nell’opera di Alberto Abruzzese: il sociologo della comunicazione avrà alla Gutenberg ampio spazio per aprire con gli Stati generali 'un anno di interventi nazionali e internazionali'. 'L’idea chiave - spiega - è che Napoli sia una città paradossale, che fa vedere cose altrove nascoste. Così come accade con la camorra di cui Saviano ha scoperchiato il baratro. In realtà sono situazioni globali delle quali Napoli sta facendo dolorosamente le spese addossandosi il peggio dell’Occidente ... C’è da fare molto: in concreto. Ma anche con la 'parola': una cultura non subalterna, non meridionalista, attenta ai fenomeni della contemporaneità come quella della Galassia può incidere nella rivalutazione del territorio, vicino e lontano che sia ...'.
FOFI, L’ASINO & ALTRI ANIMALI. Cultura e natura: c’è anche l’altra metà dello 'scandalo', i nostri rapporti con gli animali. Partendo dal bellissimo logo di Toccafondo per Gutenberg 2008, l’asino che legge, ovvero due mondi che paiono in estinzione ma che vogliamo salvare. E ci proveranno un gruppo di scrittori trentenni, da Bajani alla Parrella alla Vinci, nell’incontro "Asino chi scrive", le performances teatrali dell’"Asino fuggente" mentre Fofi sosterrà una vera e propria intervista sull’asino, affiancando La Capria che parlerà del suo Guappo e altri animali per chiudere, Bettin, Paolini, Ernesto Franco e Fofi medesimo, con un omaggio a Rigoni Stern, 'l’unico grande scrittore italiano che ha parlato della natura'. Una sorta di militanza che, ribadisce Fofi, latita tra gli intellettuali: 'rimasti al di sotto delle proprie responsabilità, mai abbastanza radicati nelle situazioni ... Si fa di Napoli un capro espiatorio senza riconoscere che qui ci sono cose che stanno in piedi, se pur faticosamente'.
L’ALTRA BELLEZZA. Tra gli innumerevoli argomenti che la Gutenberg ha in programma, legati al sociale, alle donne, alla scuola, alle storie dell’Italia di ieri e di oggi, ai problemi dell’editoria, suggestivo sarà il soffermarsi su quella che comunque resta la 'bellezza' indistruttibile e ineffabile di Napoli: qui, anche, rappresentata dalla terza edizione di 'Na Tour - Giro di Napoli in 80Moleskine', la città esplorata e messa in mostra da un centinaio di viaggiatori-cartografi, dal giapponese Yoshiko Matsuki al 'maestro di strada' Marco Rossi-Doria. Una 'Biutifùl cauntri', nonostante tutto." (da Mirella Appiotti, La poubelle di Galassia, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/03/'08)

lunedì 24 marzo 2008

La verità non serve a niente di Giorgio Van Straten

"Un romanzo che sa di antico. Che recupera il senso di una narratività lenta e porosa. Che incide nel disagio dei nostri giorni per vie remote, attraverso personaggi di nodi e di segreti.

L'ultimo romanzo del fiorentino Giorgio Van Straten, appena pubblicato da Mondadori, s'intitola La verità non serve a niente, ma non so se sia davvero un buon titolo o perlomeno un titolo che rifletta il cuore del romanzo, perché ne dice solo una parte (la frase è pronunciata da un 'comandante' che tira i fili di una politica da burattini). Personalmente, gli avrei preferito 'Anche se non mi senti, io ti parlo', perché quest'altra frase, estratta da un vecchio racconto scritto dal protagonista, contiene invece tutta la tenacia di un dialogo che riesce ad agire e soprattutto di una letteratura che riesce - perché si ostina - a dire, trasformandosi in dono esclusivo. I fili, infatti, sono almeno due. C'è il filo diretto delle storie narrate e c'è il filo riflesso della scrittura che le narra. Da un lato l'intreccio tra presente e passato, il gioco dei destini che s'incrociano e che s'interrompono come i sentieri di un bosco. Dall'altro lato una piccola e discreta (se non proprio dissimulata) riflessione sulla scrittura, interpretata dall'apparente inconcludenza dell'ottantenne protagonista, che ha scritto in passato racconti di energia trattenuta e che sta scrivendo ora il romanzo della sua vita, quello di più difficile e urgente necessità. Il motivo conduttore è la distanza (una parola chiave). Qui sono tutti distanti da qualcuno o da qualcosa. E più di tutti è distante Nicola, il vecchio scrittore che vive in una sua solitudine aspra e riottosa. Distanti sono i tempi della guerra che gli torna alla memoria (di memoria era intriso il più memoriale dei libri di VanStraten, Il mio nome a memoria). Distante è l'amore provato per Claudia, la persona di servizio con cui ha vissuto per un periodo non breve. Distante il dissenso dei genitori che lo allontanano. Distante la militanza politica nelle file di un partito che subisce la crisi dei carri armati in Ungheria. Distante la vita del figlio Bernardo, che si svolge a sua volta - e per sua scelta - ben distante dalla vita del padre e da altre vite (o addirittura dalla vita). Bernardo ha intrapreso la carriera politica nel partito che il padre ha lasciato, fino a diventare ministro, ed è colto dal romanzo nel punto in cui - preso nella tela di ragno delle logiche di potere - è costretto a dare le dimissioni che non vorrebbe dare. Ha le sue distanze anche Valentina, giovane praticante di un giornale che nella circostanza delle dimissioni del figlio si mette sulle tracce del padre per averne un parere. Distante dai genitori e distante da molte altre cose, Valentina. Ma anche anello di congiunzione e un po' magica aiutante che riesce pian piano a estrarre da Nicola - dopo un primo sconfortante approccio - un bisogno di contatto. È lei a stanarlo. Lei ad ammansire gli aculei del riccio. Lei a fare da tramite tra padre e figlio. Lei a forare la crosta del 'mondo opaco e refrattario che la circonda'. Lei, dunque, ad accogliere il dono del segreto che il vecchio scrittore le affiderà in un gesto di rinuncia vitale, se è vero che 'la letteratura può causare dolore a chi la fa e anche a coloro che la leggono, ma il dolore a volte serve a capire. Ammesso che la gente abbia voglia di capire, invece che di essere consolata'. Di quale segreto (narrativo) si tratti non voglio rivelarlo, perché il lettore ha diritti che impongono al critico il dovere della reticenza. Ma certo da quel segreto si schiudono a ritroso frammenti e spiragli di commozione. Nel romanzo di Van Straten molto si parla di cattura della luce, di uno splendore che s'insinua nelle pieghe e negli interstizi, che s'incunea nell'oscurità, che anima momenti brevi (una gita al mare, un gesto giocoso, un paesaggio emblematico, come accade in certi scorci tra Roma e le colline circum maremmane). Per fortuna, qui non accadono miracoli e la distanza tra i personaggi non si scioglie in una coincidenza felice o in una prossimità a lieto fine. Il dolore e il grumo restano. Ma consegnati come sono alla forza non appariscente di una scrittura che ne rischiara il fondo, suonano - senza essere facilmente consolatori - tanto più onesti e persuasivi." (da Giovanni Tesio, Il lungo addio agli affetti e alla politica, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/03/'08)

domenica 23 marzo 2008

La fatica della luce di Gabriella Caramore

"'Se i profeti irrompessero / per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria. / Orecchio degli uomini / ostruito d’ortica / sapresti ascoltare?'.
Versi di Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura del 1966. Il piccolo libro Einaudi è sul tavolo, molto ordinato, di Gabriella Caramore. Veneta di nascita, romana di formazione, dopo la laurea con tesi dedicata a L’anima e le forme di György Lukàcs, inizia a collaborare ai programmi di Rai-Radio Tre.

E dal 1993 è lei, ogni sabato e ogni domenica, la voce amatissima di "Uomini e profeti". La sola trasmissione, in tutto il sistema dell’informazione televisiva, che si occupa di fede e di religioni non per servizio o per obbligo, non per contratto, ma per volontà e per piacere. Che ascolta e dà ascolto a una pluralità di voci, di ogni fede, credenti e non. A che cosa dedicherà la trasmissione di domani, domenica di Pasqua? 'Sarà nel segno di Giona, che rimane tre giorni nel ventre della balena e sopravvive'. Per Morcelliana, è in uscita La fatica della luce, un suo libro dedicato ai 'confini del religioso'. Chi fa più fatica, la luce a trovarci o noi a scorgerla? 'E’ un’indagine sulle ragioni del credere. Nell’esercizio della laicità sta la possibilità di vivere la propria fede, cercando dentro di lei la speranza, la libertà, la lotta alla morte. La luce fa fatica a farsi percepire da noi'. Dio non ha religione: è una frase del Mahatma Gandhi. Come le suona? 'Bene, sottoscrivo in pieno. Naturalmente per quel poco che noi uomini possiamo dire di Dio: ogni parola rivolta a Lui si assume il suo rischio. Dio è più grande di ogni nostro pensiero sulle religioni'. Per dire di Dio, quando finisce la parola inizia la musica. 'L’antagonismo alla parola è anche il silenzio: nel silenzio transitano molti ascolti'. Ha avuto una formazione cattolica? 'Molto tiepida. Dopo un periodo di oscuramento conoscitivo e di isolamento, il mio paesaggio mentale ha cominciato a rianimarsi, anche per impulso di nuovi amici: Massimo Cacciari, Sergio Quinzio, Roberto Esposito, Beniamino Placido. Poi un rapido 'passaggio in India': lì ho cominciato a guardare all’orizzonte religioso come a un’esperienza e un cammino che riannodavano fili spezzati'. Il suo primo approccio con questo mondo? 'E’ venuto prima quello con l’invisibile: l’universo delle fiabe, che mia madre mi leggeva e raccontava con grande generosità. Il sogno, la realtà, mondi così comunicanti: attraverso le fiabe impari a distinguere il bene e il male. Poi, la prima lettura che davvero ricordo: La capanna dello zio Tom. Avevo otto anni, è stata la scoperta dell’amore che non muore, della forza del perdono. Un’esplosione di senso'. Quale versione legge della Bibbia e con quale frequenza? 'La versione TOB, pubblicata da Elledici. E’ l’edizione ufficiale della C.E.I, con i commenti della 'tradizione ecumenica'. E’ una lettura quotidiana, nel desiderio e nella speranza che continui a essere 'lampada per i miei passi, luce sul mio cammino'. E’ un verso del Salmo 119'. Un libro di teologia che ama? 'Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer. Viene arrestato nel 1943 per aver partecipato al complotto contro Hitler ed è impiccato il 9 aprile 1945, poco prima dell’arrivo dell’esercito americano. E’ un libro capace di far risuonare la parola cristiana nel mondo 'adulto' della secolarizzazione'. L’editoria religiosa italiana è in un momento di buona salute? 'Negli ultimi anni è cambiata molto. Prima c’era una separatezza tra la cultura teologica, o chiesastica, e quella laica, adesso si pubblica moltissimo anche nell’editoria normale. Qualche volta con troppa indulgenza nei confronti dell’attualità, dello scandalistico. C’è ancora poco rigore, ma certamente c’è un dialogo fecondo tra le due editorie'. Com’è arrivata a "Uomini e profeti"? 'Il programma nasce prima di me, all’inizio degli anni Ottanta, per volontà, anche, di Enzo Forcella, allora direttore di Radio Tre. Aveva avvertito una lacuna verso il pensiero religioso e voleva iniziare a colmarla'. La responsabilità, il piacere di immaginare e condurre la sua trasmissione. Come l’hanno cambiata? 'Ho cominciato e continuo ad attraversare la tensione paradossale dell’evento cristiano e della sua parola con forte intensità, ma senza ritrovare nessuna appartenenza alla 'patria' cattolica'. E lei come ha cambiato il programma? 'Quanto accade nel mondo entra con più forza. Come si fa a non parlare dei monaci cambogiani, tibetani? E certamente negli ultimi anni è stato più necessario tornare a parlare di fede e laicità, delle posizioni della chiesa cattolica, talvolta così apertamente stridenti con la parola evangelica. Tentare di sciogliere le confusioni tra i fondamentalismi radicati in ogni tradizione e i fondamenti dei testi sacri'. Una battaglia perduta? 'Una battaglia che non si può perdere'. "Uomini e profeti": le piace il titolo? 'Ormai è quello, ma perché solo uomini e solo profeti? C’è dell’altro'. Ci sono anche gli umili testimoni. Come racconta Dostoevskij ne L’Idiota, altro suo libro di riferimento. Chi sono gli idioti di oggi? 'Tutti coloro, e sono molti, che cercano con piccoli gesti di spezzare la catena del male, senza pensare a sé'. Conosce esempi sublimi di perdono? 'Quello che viene da un’intelligenza compassionevole. Etty Hillesum che, guardando l’aguzzino nazista, dice che in fondo non riesce ad odiarlo e perdona loro perché non sanno quello che fanno. Zazà, il detenuto di Rebibbia, condannato per reati gravi, che ha perdonato se stesso, cioé ha capito di dover cambiare, si è convertito, in un senso profondamente umano'. Quindici anni di programma. La persona più bella che ha incontrato? '...'. Si sta commuovendo. A volte le succede anche alla radio, in diretta. Una commozione che le esplode dentro. '... Molte, davvero. E un profugo kosovaro; gli abbiamo chiesto, parlando del Padre Nostro, che cosa è per te il 'pane quotidiano': avere una casa, poter fare una carezza a mio figlio." (da Sandro Cappelletto, La fatica della luce nel cielo di Pasqua, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/03/'08)

Iacopo da Varazze, Legenda aurea


"Sempre più raro il piacere di avere fra le mani nuovi libri, considerati 'inutili' secondo i parametri aziendalistici di case editrici e operatori culturali perché 'inattuali' libri cioè non condizionati dal chiacchiericcio politico, dal gossip salottiero, dai dibattiti televisivi, senza ricadute, come si dice oggi, sul sociale o sul territorio. Libri fuori dal tempo che rispondono solo agli interessi scientifici ed eruditi di chi li ha scritti, esito di una rigorosa ricerca individuale, monastica - a volte promossa da istituzioni anch'esse fuori dai salotti intellettuali alla moda - per inseguire e capire personaggi, testi, situazioni che interessano solo l'autore, ma che potranno essere utili nel tempo futuro ad altri solitari ricercatori. Proprio per questo libri destinati a non esaurirsi in pochi mesi, ma a costituire quei depositi che i più grandi editori non sopportano e spesso distruggono. Tali sono ad esempio i libri della Società internazionale per lo studio del medioevo latino (Sismel), il più grande e prestigioso centro europeo di medievistica, che ora mette sul mercato la traduzione (con testo latino a fronte secondo l'edizione data da Giovanni Paolo Maggioni per la stessa Sismel nel 1998) della Legenda aurea di Iacopo da Varazze, il classico di tutta l'agiografia cristiana medievale, come definita fino al XIII secolo. Testo fascinoso di grande leggibilità che, fra storia e mito, fa capire i complessi paradigmi della santità medievale. Opera di larghissima fortuna, come attesta la tradizione manoscritta, fonte di tanta letteratura e arte europea del medioevo e dei tempi moderni. La traduzione, sostenuta dal Segretariato europeo per le pubblicazioni scientifiche (Seps), coordinata da Francesco Stella, ampiamente annotata, è arricchita dalle miniature di un codice dell'opera conservato alla Biblioteca Ambrosiana, di poco posteriore alla morte di Iacopo da Varazze. Passando a un altro settore di pubblicazioni 'inutili' ecco gli ultimi volumi della collana Corrispondenze letterarie, scientifiche ed erudite dal Rinascimento all'Età moderna: compare la corrispondenza di Jean-Robert Chouet, professore di filosofia a Saumur (1664-1669) e a Ginevra (1669-1686), maestro fra l'altro di Jean Le Clerc e di Pierre Bayle; autore fin qui pressoché ignoto del quale Mario Sina (a lui dobbiamo la monumentale edizione dell'Epistolario di Jean Le Clerc, Olschki) mette in luce l'incisiva presenza nella Repubblica delle lettere negli ultimi decenni del Seicento, inserendolo nelle complesse vicende del cartesianesimo e più in generale della cultura francese negli anni immediatamente precedenti e seguenti la revoca dell'Editto di Nantes (1685). Ancora negli ultimi decenni del Seicento e inizi del Settecento si collocano le lettere del benedettino Francois Lamy pubblicate (per intero o in regesto) da Maria Grazia Zaccone Sina, già affermata studiosa del cartesianesimo e dello stesso Lamy. Benedettino, 'uno dei più autorevoli cartesiani che siano in Francia' secondo il giudizio del non facile Bayle, ha lasciato un ricchissimo epistolario, in gran parte inedito, di notevole importanza per la fitta rete di rapporti con filosofi, teologi, eruditi dell'epoca, impegnato non solo a difendere il cartesianesimo ma a combattere aspetti della cultura libertina e soprattutto Spinoza. Fra i suoi corrispondenti il grande Mabillon. In una lettera a lui indirizzata torna il tema che ci riguarda: Lamy, criticando vivacemente un censore che avrebbe sostenuto l'inutilità di un suo libro perché destinato 'a poche persone', scrive a Mabillon: 'Bisognerebbe allora sopprimere un'infinità di libri simili che hanno arricchito la Repubblica delle lettere; e non so se si dovrebbe sopprimere anche la vostra eccellente opera De re diplomatica' che, come noto, ha posto le basi della moderna diplomatica e paleografia, opera ancor oggi fondamentale. Legati alla collana delle Corrispondenze, i volumi dei Subsidia: uno dedicato da Candida Carella all'insegnamento della filosofia alla Sapienza (non Università di Roma, nota l'autrice, ma del Pontefice), specchio di una cultura stanca e arretrata ove i pochi professori aperti al pensiero contemporaneo erano obbligati a sostenerne, per difenderlo, la falsità. Come Vitale Giordano del quale la Carella pubblica qui un importante inedito Della filosofia naturale moderna, che per sostenere la nuova scienza corpuscolare e copernicana, doveva avvertire che si trattava di 'false ipotesi', tanto per quanto concerne il movimento della Terra ('tal sistema è falso') quanto i temi della filosofia corpuscolare, 'ipotesi falsissime'. In clima assai più articolato e aperto ci porta Giuliano Gasparri con il suo studio sul problema, posto da Descartes - ma non nuovo nella tradizione teologica e riproposto dall'occamismo - del Dio creatore delle verità eterne: Dio è autore, anzi creatore delle verità eterne (dei principi logici come delle leggi di natura) che da lui dipendono come da 'causa efficiente e totale'. Dottrina 'dura' secondo un obbiettante di Cartesio, destinata a divenire centrale nel dibattito sul cartesianesimo (congiuntamente all'ipotesi del Dio ingannatore) coinvolgendo tutta la problematica teologica, metafisica e gnoseologica. Se Dio è creatore delle verità eterne, avrebbe potuto crearle diverse? E potrebbe invalidare il principio di non contraddizione? Anche il cardinale di Santa Romana Chiesa, Pietro d'Ailly non aveva dubbi rispondendo affermativamente." (da Tullio Gregory, Tra Cartesio e la santità, "Il Sole 24 ore Domenica", 23/03/'08}

sabato 22 marzo 2008

Nabokov: "Vorrei capire da dove viene questa onda lunga di felicità che trasforma all'istante l'anima in qualcosa di immenso, trasparente e prezioso"

"[...] Sotto il titolo Una bellezza russa (The Stories of Vladimir Nabokov), la casa editrice Adelphi pubblica tutti i racconti di Nabokov: mancano soltanto quelli raccolti nella Veneziana. Credo che il romanzo sia il respiro naturale di Nabokov, che desidera molti personaggi e vaste e complicate architetture.

Nel racconto di dieci o quindici pagine, egli si trova sovente allo stretto: vi versa tutta la massa incandescente del suo spirito, che a volte si trova soffocata nella misura breve. Nabokov ne è cosciente; e, con un lieve avvento autodenigratorio, mette sulla bocca di un personaggio questa frase: 'Lasci che le dica che non vado matto per i suoi racconti: mi irritano come una luce violenta o la conversazione ad alta voce di estranei, quando uno desidererebbe stare in silenzio, e pensare'. Nei primi racconti non risuona ancora la voce di Nabokov: il timbro è troppo basso; quando, all'improvviso, siamo travolti dal suo splendore impennacchiato e dal taglio meraviglioso dei finali. Credo che questa esplosione sia avvenuta sotto l'influenza di Gogol. Ricordo solo alcuni testi: Pioggia di Pasqua, Il ritorno di Corb, Terrore, Una questione d'onore, L'Aureliano, L'atreplice, Il cerchio, Mademoiselle O: capolavori, da mettere accanto ai più belli tra i suoi romanzi. Nei racconti perfetti, abbiamo l'impressione che un gruppo di artisti impugni la penna, il pennello e l'archetto: qualche volta essi litigano tra loro; ma alla fine, questi litigi si placano, perché, con la testa fra le nuvole, un re misterioso regge le fila, immagina il quadro, dirige l'orchestra, accorda gli esecutori. Tra questi artisti, ecco in primo luogo, il maestro della felicità, il quale si chiede: 'Vorrei capire da dove viene questa onda lunga di felicità che trasforma all'istante l'anima in qualcosa di immenso, trasparente e prezioso'. Vicino a lui, sta il maestro della luce, che rivela lo splendore del sole al diapason oppure esplode in una girandola di luci colorate; e più lontano, il maestro dei riflessi, per cui esistono soltanto i veri e i falsi specchi, le ombre, e le nuvole mutevoli come i sogni. Accanto, sta il maestro dell'inverosimile e dell'impossibile; e sul lato opposto, il suo apparente nemico, il maestro degli oggetti: ora animati e antropomorfici, ora vuoti, spettrali insensati; in ogni caso, dipinti con inezia, perché lo scrittore è proprio colui 'che dà importanza alle inezie'. Tutti questi artisti sono protetti dal maestro del riso, lontano erede di Rabelais, il quale travolge le luci e le ombre con un'ondata incontenibile di ilarità, orchestrata con una sottilissima sapienza di modulazioni. Nel cuore di questo gruppo di artisti laboriosi, si muove il maestro dei ricordi. Ecco che un ricordo insignificante torna, con un lampo, nella memoria, brilla di luce intermittente, pulsa ancora e riflette la luce; ma un attimo dopo, sprofonda sotto i nostri occhi e sembra esalare l'ultimo respiro, come se non reggesse al passaggio troppo brusco nel presente. In realtà, nella memoria formidabile di Nabokov nulla viene mai perduto: ogni cosa è accumulata e immagazzinata, sia pure nel buio e nella polvere e, dopo un lungo percorso sotterraneo, ritorna alla luce. Il passato ritorna: specie i venti anni trascorsi in Russia, per i quali Nabokov prova un amore e una tenerezza senza riserve. Di quegli anni ricorda persino la forma esatta di una nuvola in un pomeriggio di primavera, un giardiniere che cura le peonie, una farfalla polygonia che si crogiola al sole, i pannelli di vetro colorato in una veranda, attraverso i quali egli vede ogni volta il mondo in un colore diverso. Ciò che ammiriamo sempre, anche quando Nabokov imposta la voce su una nota troppo alta o troppo bassa, è l'infinita sottigliezza delle sensazioni. Quasi nessuno, nel ventesimo secolo, gli sta vicino: forse soltanto Proust e la Woolf, Yeats e Pessoa. Nabokov racconta tutte le sensazioni che gli attraversano la mente, sia pure per un baleno. Le trattiene come sono, ben strette nella mano, oppure le trasforma insensibilmente - ciò che è, forse, la maniera più sicura per conservarle. Talora sembra che egli provi una sensazione per l'ultima volta. 'La mia vita - dice - è un addio perpetuo agli oggetti e alla gente, che spesso non fa alcun caso al mio amaro, breve, folle saluto'. Talora intravede soltanto una confusa prefazione che annuncia un ultimo testo sconosciuto. Ma spesso non conosciamo questo testo definitivo: le sensazioni esplodono, come pesantissime bolle di sapone punte con uno spillo, che lasciano cadere al suolo torrenti di miele. Con queste sensazioni sovranamente reali, Nabokov vuole creare un mondo nuovo: un mondo che sia esclusivamente suo, che non assomigli a quello reale, né a quello degli altri scrittori. Qui regnano leggi e consuetudini che non ritroviamo in nessun altro luogo della terra. Non ci sono orologi: oppure battono furiosamente, lasciandosi alle spalle i minuti. Vediamo Nabokov all'opera: costruisce il racconto, come uno scenografo costruisce una scena di teatro: ha sottomano i pali, le tele, le quinte, i palazzi di cartone, i paraventi, i burattini, i martelli, i chiodi, le lacche, una lampada: gira intorno con un'aria indaffarata; e immaginiamo che nessuno meglio di lui conosca quello che costruisce. Questo mondo nuovo ricorda spesso l'operetta: un Offenbach ilare e cupo, metafisico e utopico. Alla fine, dopo che abbiamo contemplato ed ammirato il lavoro coscienziosissimo di Nabokov, ci assale una sensazione di meraviglia. Il mondo nuovo è avvolto e penetrato di mistero, che lo rende ancora più incomprensibile di quello reale. Nabokov ha cretao un enigma, di cui crede di conoscere il significato: mentre nemmeno lui né le farfalle gigantesche, né il grande Re mascherato conoscono l'ultimo segreto dei suoi racconti." (da Pietro Citati, Le farfalle di Nabokov, "La Repubblica", 21/03/'08)

Altri esercizi di pentimento. Storie di amori, disamori e distacchi di Pier Luigi Celli


"I saggi di Pier Luigi Celli sono sempre stati esercizi di gestione dei rapporti umani, con quel misto di partecipazione e distacco che compongono il 'cinismo ben temperato': ossia l'applicazione di criteri di razionalità alla volubilità e alla volatilità delle psicologie, con il necessario desencanto suggerito dallo scetticismo dettato dall'esperienza. Invece i suoi racconti vanno alla ricerca dei momenti fatali di crisi, allorché la linea del destino si inceppa, e il razionale si attorciglia all'irrazionalità: 'Doveva essere ridicolo. Come tutti gli uomini che cominciano a invecchiare, nei momenti in cui perdono il controllo, così che è più facile che tutti i difetti vengano a galla, con quella punta di disfacimento che già fa presagire il futuro. [...] La magia se ne era andata così, che sembrava persino impossibile; svaporata. Tutto esaurito nel breve ciclo di qualche ora'. Quelle raccolte nel suo nuovo libro Altri esercizi di pentimento. Storie di amori, disamori e distacchi (Aliberti) sono tutte vicende di conclusioni che si compiono, abbandoni, tradimenti, addii sanciti magari da una morte, da un suicidio, comunque da un distacco, imposto o normalmente fisiologico: 'C'è un eccesso di silenzio e una specie di tradimento in questo commiato furtivo', dice uno dei personaggi di Celli commemorando la morte di un collaboratore. Ecco allora storie in cui l'esperienza personale di un uomo che è stato costantemente al centro di luoghi di potere si mescola alla non ragione dei sentimenti, degli abbandoni, delle decisioni che sopravvengono improvvisamente, in cui 'la si fa finita': si cambia lavoro, ci si tinge i capelli, si lascia la famiglia, si va alla ricerca di un mucchietto d'ossa, si decide un distacco praticandolo con la propria morte. Alla fine, si ha la consapevolezza che ogni racconto è la testimonianza di qualcosa che finisce." (da Edmondo Berselli, Eccesso di silenzio se qualcosa finisce, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 22/03/'08)
Breviario di cinismo ben temperato (anteprima da GoogleBooks)
RadioAlt intervista Pier Luigi Celli

venerdì 21 marzo 2008

I custodi del libro: l'Haggadah di Sarajevo


"Era il 1942: le truppe naziste avevano già invaso Sarajevo. La comunità ebraica stava per essere falcidiata dalle deportazioni. E le otto sinagoghe della città erano state saccheggiate: correva voce che, una volta sterminati gli ebrei, Hitler intendesse creare da qualche parte in Europa un 'museo della razza estinta', dove esporre migliaia di cimeli per i turisti ariani. Così quando Dervis Korkut venne a sapere che un generale tedesco era appena entrato nel Museo Nazionale di Bosnia, dove lui era bibliotecario, si pose un unico obiettivo: salvare il gioiello della collezione, la cosiddetta 'Haggadah di Sarajevo', uno splendido codice miniato ebraico della Spagna del XIV secolo (che si chiamava 'di Sarajevo' perché lì era ricomparso nell'Ottocento, dopo un lungo oblio). Korkut era musulmano e le Haggadah - raccolte di racconti e preghiere che gli ebrei recitano in occasione della Pasqua (Pesach) - non appartenevano alla sua cultura. Ma da raffinato intellettuale qual era (teologo che parlava almeno dieci lingue), era disposto a rischiare la vita perché un simile tesoro medievale non venisse rubato. Di nascosto, riuscì quindi a convincere il direttore del museo ad affidargli l'Haggadah che teneva in cassaforte: l'avrebbe nascosta a suo rischio e pericolo. E quello che oggi è considerato uno dei volumi più preziosi al mondo e il più bel manoscritto ebraico, per le sue 34 pagine di straordinarie miniature in foglia d'oro e pregiati pigmenti, ricavati da lapislazzuli e malachite, è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale grazie a un musulmano che lo ha nascosto in una moschea. Il che è solo uno dei tanti episodi di salvataggio di cui il codice è stato protagonista nei secoli, fino alla guerra serbo-bosniaca di quindici anni fa, quando il volume scampò ai bombardamenti grazie a un altro bibliotecario, di nuovo islamico. Una serie di avventure rocambolesche che ora vengono raccontate in un romanzo in uscita da Neri Pozza, I custodi del libro dell'australiana Geraldine Brooks, un'ex reporter di guerra per le più prestigiose testate americane diventata scrittrice di successo (il suo precedente romanzo, L'idealista, ha vinto il Pulitzer). La Brooks è brava nel costruire storione avvincenti, passo spedito e montaggio abile: in questo caso parte dalle vicende vere (ma spesso lacunose) dell'Haggadah spagnola approdata a Sarajevo, e riempie i vuoti, immaginando personaggi, dialoghi, pericoli, amori ... 'Lavoravo per il "Wall Street Journal" nella Jugoslavia in guerra. Allora il Museo Nazionale di Bosnia era crivellato dalle granate serbe e la biblioteca sventrata: sentii parlare dell'Haggadah, ma nessuno sapeva che fine avesse fatto' spiega oggi Geraldine Brooks. 'Solo a guerra finita, dopo mille congetture, si scoprì che era stata salvata. E solo nel 2001, quando le Nazioni Unite e la comunità ebraica bosniaca finanziarono il restauro del prezioso manoscritto ebbi l'idea del romanzo: quel volume, per il quale sia ebrei sia musulmani avevano rischiato la vita, era diventato il simbolo potente dell'ideale multietnico di Sarajevo, città che un tempo era stata famosa per la sua tolleranza e la convivenza pacifica tra religioni. Prima ottenni di poter assistere al restauro, che si svolse nella banca che custodiva il tesoro, alla presenza di dieci poliziotti. Poi mesi di ricerche a tappeto, per ricostruire la storia del manoscritto dal Medioevo a oggi'.

Una storia iniziata in Spagna, probabilmente intorno al 1350: le macchie di vino sulla pergamena confermano la lettura dell'Haggadah durante le cene rituali della Pasqua ebraica. E continuata con un primo fortunato salvataggio ai tempi della cacciata degli ebrei dalla Spagna da parte di Isabella di Castiglia, nel 1492: il libro fu uno dei pochi a sfuggire alla confisca e alla distruzione, quando lasciò il Paese con i suoi custodi. Ma per un po' se ne persero le tracce. Ricomparve a Venezia nel 1609, dove scampò al rogo dell'Inquisizione grazie al visto di tale padre Giovanni Vistorini, censore del Sant'Uffizio forse più indulgente di altri. Per poi arrivare a Sarajevo: una famiglia di ebrei indigenti, di nome Kohen, la vendette al Museo della città nel 1894. E siccome la Bosnia era amministrata dall'Austria-Ungheria, il volume fu inviato per una valutazione a Vienna, dove si riconobbe il capolavoro, anche se lo si rilegò in modo dozzinale. Ben più preziosa doveva essere la legatura originaria. Un volume di piccolo formato, con coperta di cartone a motivi floreali: era questo il codice che Korkut salvò dai nazisti, convincendo il generale Johann Fortner, che era venuto a rivendicarlo, del fatto che era già stato confiscato da un altro ufficiale tedesco. 'Dove Korkut avesse nascosto l'Haggadah rimaneva però un mistero' continua Brooks. 'Finché per caso non ho scoperto che la moglie, di 37 anni più giovane di lui, è ancora in vita: una vivace ultraottantenne di nome Servet. Una sera, mi ha raccontato, il marito era tornato a casa con quel volume infilato sotto la giacca, per ripartire la mattina dopo in macchina, verso un lontano paesino di montagna, dove viveva un amico imam. L'Haggadah rimase nascosta fra i testi islamici per tutta la durata della guerra, per poi essere restituita al Museo'. Brooks continua: 'Non è tutto. Servet Korkut mi ha raccontato un'altra storia mozzafiato, di eroismo e tradimento. Un giorno il marito era tornato a casa con una giovanissima ragazza ebrea, che dopo aver combattuto con i partigiani di Tito, era stata - per lotte intestine - abbandonata a se stessa: 'Bisogna aiutarla', aveva detto, 'dalle un cahdor, spacciamola per una domestica musulmana che viene da un lontano villaggio'. Così du: Mira Papo rimase con i Korkut quattro mesi, finché non le trovarono un rifugio più sicuro. Ma quando, a guerra finita, lei divenne ufficiale nell'esercito comunista e a cadere in disgrazia fu il dissidente Korkut, Mira si rifiutò di andare a testimoniare in suo favore, per paura di rappresaglie. Fu solo trent'anni dopo, ormai 72enne, che trovò il coraggio di dichiarare al mondo l'eroismo di Korkut e il fatto di averlo tradito. Oggi il bibliotecario musulmano e la moglie Servet sono ricordati tra i 'Giusti' nello Yad Vashem, il museo della Shoah a Gerusalemme: tra coloro che hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei'. Un capitolo a sé questo di Korkut e Mira Papo: la storia di Haggadah si riapre ai primi anni Novanta. Protagonista un altro bibliotecario musulmano, Enver Imamovich, quando il Museo di Sarajevo si trovò sotto le bombe serbe. 'Furono lui e i suoi colleghi a mettere al riparo intere collezioni di libri. E a nascondere Haggadah nel caveau di una banca' aggiunge Brooks. 'La polizia si era rifiutata di rischiare la vita per delle carte polverose'. Oggi il manoscritto restaurato è di nuovo esposto al Museo Nazionale di Bosnia, circondato di icone ortodosse e opere d'arte islamiche, a dimostrare la radice comune e la convivenza possibile delle tre religioni a Sarajevo. Il tutto grazie a due sconosciuti topi di biblioteca. E infatti I custodi del libro di Geraldine Brooks è dedicato 'a tutti i bibliotecari del mondo'." (da Antonella Barina, Sopravvissuto. Storia del manoscritto ebraico sfuggito a tutte le guerre e salvato da due musulmani, "Il Venerdì di Repubblica", 21/03/'08)
"From Written to Printed Text: Transmission of Jewish Tradition" (da Library.upenn.edu)

giovedì 20 marzo 2008

Per isole remote. Poesie 1953-2000 di José Angel Valente


"Rare e bellissime le mie serate madrilene con Josè Angel Valente. Di lui avevo letto soltanto alcune raccolte, e in particolare Interior con figuras e Material memoria, quando lo incontrai verso la fine degli anni '80 nella Spagna del grande 'disgelo', delle interminabili charlas e movidas, la Spagna straordinariamente europea, anzi: cosmopolita e poliglotta 'maturata' nei due decenni precedenti ed esplosa alla caduta del franchismo. La Spagna della generazione dei miei amici filosofi e storici, architetti e artisti, da Francisco Jarauta a Santiago Calatrava, da Josè Jimènez a Rafael Moneo, da Fernando Checa a Maria Vela, a tanti, tanti altri. Era stato uno di loro, Valeriano Bozal, ad aver ospitato in una collana da lui diretta la traduzione in castigliano del mio Angelo necessario, e ad Angel io ne portai una copia in omaggio nel nostro primo incontro nel famoso caffé della Casa de Bellas Artes. Pochi giorni dopo mi dedicò Material memoria nella preziosa edizione de La gaya ciencia, illustrata da tre disegni di Tàpies, con queste parole: 'A Massimo Cacciari por la doble necesidad del àngel y del libro'. Fu nel segno dell'angelo che continuammo a 'coltivare' la nostra amicizia nel decennio che seguì. Amicizia de loihn, segnata da rari incontri, le dediche sui libri scambiati, poche cartas. Ma da molti, molti pensieri, che io 'scavavo' dal suo fare poesia che 'non è fare, ma aposentarse, estar'. Il segno dell'angelo indica appunto il luogo dell'estar: lo può indicare soltanto, definire mai, poiché esso rimane appunto proprio nella sua incertezza, nella sua insecuritas, luogo tra ombra e luce, tra luminosa, sovra-essenziale 'trascendenza' e verbo incarnato. Nel 'tra' degli opposti, nel luogo-non-luogo che opponendoli li rende con-fini, dimora la poesia di Valente. Essa si 'immagina' come lotta con l'angelo: per costringerne la luce a farsi corpo e, ad un tempo, trasfigurare la nostra materia nella sua luce. Duplice invocazione, all'angelo perché rimanga nella nostra parola, e a questa perché ne sia 'capace'. L'angelo di Angel, 'obliquo e ironico', che non pronuncia né 'mai' né 'sempre', rappresenta anche la forza che mantiene 'aperta' la parola. Da entrambi i suoi lati: quello per cui essa può 'annunziare' (anche se ignora quale dio - il tema di Al dios del lugar), e quello per cui essa è 'nostalgia' della lettera anteriore a ogni significato, della lettera come indice del suono originario, dalla cui 'prima' potenza si generano le parole. Lettera che non dice, ma 'fa' il senso (Tres lecciones de tinieblas). Riattingendo alla lettera, al suono della lettera, la poesia è sempre memoria, ma memoria che dice un Adveniens; la presenza, il corpo della sua parola, è perciò sempre anche assenza, poiché 'ciò' di cui è memoria e 'ciò' di cui è annuncio non sono, o sono soltanto nella e per la sua parola. In quanto presenza di un'assenza, la poesia tende naturalmente al silenzio, lo contiene come materia natural. 'Poética: arte de la composiciòn del silencio'. Il silenzio entra radicalmente nella materia, come la pausa nel tessuto musicale, o come nella pittura di Tàpies, al quale Material memoria è tutto ispirato, proprio la forza materica dell'apparire rivela il nascondersi di physis. Per la generazione di studiosi e artisti formatasi in anni ormai lontani dalla guerra civile, ignara dell'esilio, e tuttavia ancora in un periodo segnato dalla lenta e odiosa agonia del franchismo, Valente rappresentava una figura-simbolo. Era il 'ponte' tra loro e la generazione dei 'padri', Unamuno e Ortega, Machado e Jiménez, di cui era memoria allora ancora vivente Marìa Zambrano. E, insieme, egli era la figura 'europea' che 'componeva' la grande tradizione spagnola della prima metà del '900 con le esperienze più radicali del dopoguerra, con quella di Paul Celan anzitutto. In questo 'pericoloso' esercizio egli riscopriva le più profonde radici della propria lingua e della propria cultura: la mistica del Siglo de oro, San Juan de la Cruz, nelle loro stesse segrete dimensioni ebraiche e islamiche. Per comprendere questo intreccio di elementi religiosi e filosofico-teologici sono indispensabili le prose di El fin de la edad de plata (Tusquets), l'età della hybris proterva, degli uomini che non venerano gli immortali, il cui ethos ignora ogni culto divino." (da Massimo Cacciari, Nel segno dell'angelo, "La Repubblica", 20/03/'08; dalla postfazione di M. Cacciari a Per isole remote. Poesie 1953-2000, Metauro)
"Jose Angel Valente, 71, Poet Who Knew Purity of the Word" (da NYTimesArts)