"Di Sergio Givone ce ne sono due, il filosofo e il romanziere. Come succede in questi casi (Calasso sul mito, Magris scrittore di romanzi, l'autobiografismo di Vattimo), il romanziere nasce dopo il filosofo, che per molti versi ne è all'origine. Il filosofo cerca concretezza, espansione creativa, misura e peso dei sentimenti. Filosofia come prospettiva che trova contenuti fuori da se stessa.
Il saggista Givone è autore, tra l'altro, di un libro memoriale su Dostoevskij e la filosofia, di un viaggio nella tradizione filosofica e letteraria occidentale intitolato Eros/ethos, e di Il bibliotecario di Leibniz, dove mostrava la difficoltà di separare dalla filosofia ciò che dovrebbe appartenere in esclusiva alla letteratura. Questo per dire quanto è stata sempre nutriente la sua attrazione nei confronti del romanzo. Il Givone romanziere, identità recente, ha firmato Favole delle cose ultime, Nel nome di un Dio barbaro e Non c'è più tempo, in uscita in questi giorni. E forse è proprio qui, in questo tenebroso racconto fiorentino, che si riflette al massimo la profondità dell'intreccio dei due volti del filosofo-scrittore. Narra la trama, svolta nell'arco di una notte, il compimento della sorte di Venturino Filisdei, paraplegico dalle riflessioni ossessive, architetto e docente, gnostico e poco amato dalla vita, che in una sera dell'ottobre 1981, accogliendo un misterioso invito, si reca nelle viscere dell'Antica manifattura Tabacchi, già Convento di Sant'Orsola: discesa agli inferi di una Firenze cimiteriale e fantasmatica, la cui visione cupa è tra le cose più sentite e originali del romanzo. In quello spaventoso 'mondo di sotto', Venturino diviene preda di un gruppo di terroristi: Max Penitente, la languida e incinta Quisqualis, il protervo Feuer, Dolores di sconvolgente bellezza. Anime perse, nebbiose, spiritate. Cattive e cerebrali come lui. Tra loro c'è il figlio, il rinnegato Riseverzi. Venturino lo ebbe con una sordomuta, un'innocente sedotta in gioventù e poi morta suicida in manicomio. Nella spirale di discorsi e confessioni che si scatena tra il prigioniero e i suoi aguzzini (unità di luogo e tempo: l'azione si sviluppa e si intensifica come a teatro), si citano Leopardi e Jean-Paul Sartre, si fanno affermazioni ritagliate o ispirate dai veri scritti di Enrico Fenzi, Antonio Negri, la Faranda e Morucci (lo dichiara l'autore nel post scriptum) e si evoca la morte, onnipresente. Discussa, sezionata, invocata. Filosofia del dopo, attesa o forse desiderio del trapasso. Excursus tormentosi tra gli apostoli del nulla. Capo della banda armata è Confiteor. Ermafrodito, androgino, conturbante per doppiezza. Dal confronto tra il condannato e i carcerieri emerge un doppio gioco, il ricomporsi di un tessuto di commistioni orrende tra servizi segreti e brigatisti. Chi spia chi? Questi infiltrati tra quelli o viceversa? Tutto è all'insegna del duplice e del trasformismo, come nel corpo di Confiteor, seno florido e fianchi virili. Giunge il processo: capi d'imputazione, angoscia che attanaglia. La mattina alle sette morirà qualcuno. Non Venturino, come ci si aspetta. Vittima sacrificale sarà il figlio. Gesù ucciso dal padre? E' un sospetto. La madre sordomuta si chiamava Maria.
Il nichilismo soprattutto, e la sua stretta parentela con il terrorismo, sembrano il cuore più decisivo di questo libro lancinante e sofferto. Negli anni Ottanta Givone, nella sua Storia del nulla, indicava il nichilismo come processo integrante della società moderna, alllontanandosi a grandi passi dal sacro. Ridotta a un apparato dove ciascuno ha un ruolo ma non un fine, e non si crede più a niente. 'Nulla' è la parola che chiude il romanzo: 'Non significa nulla', lascia scritto Dolores impiccandosi in cella. Sigillo tragico di un mondo dove non c'è più tempo." (da Leonetta Bentivoglio, Quelle anime perse e tormentate, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 08/03/'08)
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