sabato 1 marzo 2008

Francis Bacon: "Ma cosa pretendevate? Che mi mettessi a dipingere rose rosse nel secolo degli orrori?"

"Bacon" mostra a Palazzo Reale (Milano), dal 15 marzo al 29 giugno.

"Che l'opera d'arte abbia a che fare con il bello è tesi antica e ancor oggi diffusa. L'opera pittorica di Francis Bacon sembra fatta apposta per smentirla. O la verità dell'arte non ha necessariamente a che fare col bello, oppure il bello estetico è altra cosa da ciò che comunemente si pensa. Per esempio esso si identifica con il sensibile puro, senza riguardo verso le nostre preferenze. Il bello estetico (kalòs) di una sensazione, diceva C. S. Peirce, non è come tale relativo a un nostro gradimento; può trattarsi anche, come del resto sapevano i greci, di qualcosa di doloroso, di disgustoso, di ripugnante, di terribile, e nondimeno ciò che così sensibilmente accade è un evento primordiale alla cui forza manifestativa e propulsiva non si può negare un fascino e una attrazione irresistibili: forse qualcosa che ricorda i luoghi di confine che Kant poneva tra il bello e il sublime. Francis Bacon è uno straordinario frequentatore di questo confine. Straordinario non solo nel senso della eccellenza tecnica del suo lavoro, ma anche nel senso del suo collocarsi fuori di ogni ordine o schema: tradizione, avanguardia, postavanguardia? Figurativo, non figurativo, concettuale? Sono categorie incongrue per capire Bacon, questo meraviglioso 'dilettante'; egli spazia libero per tutta la tradizione pittorica occidentale, passata o recente; non disdegna di civettare con la fotografia e con il cinema; 'rifà' a suo modo quadri famosi, con un'improntitudine dissacrante che si vorrebbe definire a suo modo innocente e comunque scusata dall'immenso dolore che essa custodisce nel lago ghiacciato del cuore dell'artista. Come i più tradizionali suoi colleghi, Bacon è un pittore di nudi e di ritratti, che però non sono mai soltanto né nudi né propriamente ritratti. Sono cifre mute della condizione umana, colta sul versante della sua esistenziale disperazione, luoghi abbacinanti di desolazione e di vita irrimediabilmente monca o mortalmente ferita. Com'è stato notato, le figure di Bacon non si collocano in una storia e in certo modo non hanno storia. Stanno al grado zero dell'umano, a un passo dalla condizione animale, oppure si dispongono in dittici e trittici grotteschi, che nondimeno evocano la condizione sacrale delle origini e il destino cruento della vittima: non a caso la notorietà di Francis Bacon ebbe inizio con i celebri Tre studi per le figure alla base di una crocifissione, esposti alla Tate Gallery di Londra nel 1944 e occasione di grande scalpore. Nondimeno le figure baconiane hanno un contesto, che le perimetra, che le contiene e che letteralmente le 'snatura'. Sono come pezzi di carne sanguinolenta abbandonati sul tavolo di una cucina, su una potrona vagamente da dentista, nella toilette anonima di un aeroporto, insomma in luoghi privi anch'essi di storia, ma illuminati a giorno da squallide lampadine penzolanti dall'alto e accompagnati da abbaglianti colori freddi, da cartellone pubblicitario. Il luogo più frequentemente evocato o suggerito, per lo spettatore, è una sorta di avveniristica macelleria. Lo ha detto, d'altronde, Bacon medesimo, nelle sue Conversazioni: 'Mi hanno sempre colpito moltissimo le immagini di mattatoi e di carne macellata: mi sembrano legate direttamente alla crocifissione [...]. Che altro siamo se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria mi meraviglio sempre di non essere appeso lì, al posto dell'animale'. Non pitture della carne (chair), ma della carne macellata (viande), ha detto giustamente Gilles Deleuze nel suo celebre saggio su Francis Bacon e la logica della sensazione. I nudi di Bacon sono corpi pervasi da spasmi dolorosi, corpi contratti, contorti, allucinati, come concentrati su un loro grido o lamento silenzioso; corpi tenuti in tensione da misteriosi fili che piovono dall'alto; corpi che si dissolvono, si sciolgono, colano al di là dei supporti che li dovrebbero contenere. Corpi senza organi che ricordano Antonin Artaud e la sua rappresentazione dell'osceno. Poetica della crudeltà che, proprio nell'Eliogabalo artaudiano, manifesta, anche diversamnete dalla più nota versione deleuziana, il destino di dissoluzione di ogni forma compiuta che pretenda di sottrarsi all'inevitabile catastrofe. Ma si può evocare, in proposito, anche l'interpretazione del sacro di Bataille; o infine certi tratti della meditazione cristologica e antropologica di Giovanni Testori. Per i ritratti e gli autoritratti è importante però ricordare proprio la splendida lettura di Deleuze: ecco strane protesi che deformano i volti, non sporgendosi verso l'esterno, ma insinuandosi sotto la pelle, all'interno del volto, nel corpo, nella carne, sino a trasformare la fisionomia in un grugno animalesco o in una maschera di morte. Pittore di teste, non di volti, ha scritto Deleuze, teste e membra che rivelano lo spirito animale dell'uomo e il suo irredimibile destino. Cioè che rivelano infine una verità profonda: quella verità che l'oscenità calcolata delle figure esibisce e manifesta senza rimedio. Qualcosa che non vorremmo vedere, ma che ci costringe a guardare. Qualcosa che ci rifiutiamo di sapere, ma che in fondo abbiamo sempre saputo." (da Carlo Sini, Quella verità crudele che vorremmo non vedere, "Corriere della Sera", 01/03/'08)

Nessun commento: