giovedì 6 marzo 2008

Veneno y sombra y adiòs di Javier Marias

"Qualche tempo fa il mio amico libraio Antonio Méndez, spossato dall'inondazione di novità editoriali che gli arriva ogni giorno e che trasforma la sua professione in un perpetuo aprire casse, tirar fuori libri, collocarli e restituirli - più che leggerli, raccomandarli e venderli - mi ha detto, riferendosi al mio ultimo romanzo, uscito il 24 settembre: 'Un libro uscito un mese e mezzo fa è già preistoria'.

Quel romanzo (Veneno y sombra y adiòs), ha 700 pagine, è il terzo volume di un'opera che complessivamnete ne conta quasi 1600 e che ho cominciato a pubblicare cinque anni fa. Ho impiegato a scriverla sette-otto anni, e ce ne sono voluti quasi tre per il volume finale. Certamente sul commento di Méndez avrà influito la sua percezione individuale e la sua deformazione professionale: uno che riceve chili di novità ogni giorno è logico che consideri vecchia quella che gli è arrivata un mese e mezzo prima. Dà l'impressione che a molti terrorizzi l'idea di avvicinarsi a qualcosa che non è rabbiosamente nuovo, come se temessero di 'non vivere a tempo'. Succede con tutto, con le notizie, gli eventi, i film, la musica, i libri e gli affari. Come dissi in un articolo ormai di diversi anni fa, galleggiamo in un'epoca in cui, paradossalmente, sembra essere presente solo quello che non lo è ancora ma è annunciato come imminente, e al contrario quello che è veramente presente, per il semplice fatto di esistere o essere avvenuto, si trasforma istantaneamente in passato. Si sa che un film - salvo rarissime eccezioni, salvo qualche successo che nasce 'nascosto', imprevisto - non incassa mai tanto quanto la prima settimana; questo può significare due cose: o che il passaparola ormai conta poco perché non c'è tempo perché possa avvenire, oppure che avviene tanto rapidamente, attraverso i cellulari e i loro sms, che la sorte si decide fin dal primo giorno. 'Ho appena visto l'ultimo film di Harry Potter', dice un messaggio istantaneo inviato a dieci persone, 'Non vale niente'. E dato che i film 'attesi' escono contemporanenamente in 80 sale e rimangono pertanto in cartellone poche settimane, per esser subito sostituiti da altri più nuovi, il verdetto iniziale e assolutamente sommario attirerà o dissuaderà migliaia di spettatori. Gli attirati andranno a vedere immediatamente quell'Harry Potter. I dissuasi, mentre magari ancora ci stanno pensando, si troveranno con la pellicola che ormai è uscita dalle sale e tutt'al più aspetteranno che esca in dvd o che passi in televisione. Quel film è esistito veramente quando ancora non esisteva, cioè quando ancora non lo si poteva vedere. Ci troviamo così alle prese, in un certo senso, con l'applicazione letterale di quello che il tempo fa effettivamente: minuto o secondo che arriva, minuto o secondo che è già trascorso, e che in un lasso di tempo tanto breve è passato dall'essere futuro all'essere passato, dal non essere ancora arrivato all'essere andato via. L'uomo ha sempre lottato contro questo concetto (o si è autoingannato a riguardo), perché vivere in questo modo non è possibile, o quanto meno risulta opprimente e angoscioso. E dunque, attraverso la memoria e quella che è stata chiamata 'proiezione di futuro', tradizionalmente abbiamo creato un falso presente che abbracciava il passato recente e il futuro prossimo, quello che si riusciva a intravedere, per evitarci la sensazione di vertigine e riuscire a convincersi di vivere all'interno di qualcosa di relativamente stabile, che non cancella e dimentica immediatamente quanto successo il giorno prima, e che conta sul domani. Abbiamo sempre avuto bisogno di un'impressione di falsa stabilità, come quella degli aerei: se in ogni secondo, in volo, avvertissimo la velocità con cui il veicolo si muove e avanza, con ogni probabilità nessuno si azzarderebbe a salirci sopra. Forse perché sono nato a metà del secolo passato (che è già stato sufficientemente veloce e rivoluzionario), mi domando a volte come possiamo sopportare questa vita tanto fuggitiva, in apparente accelerazione continua e crescente di cui non si intravede il limite. Può darsi che le generazioni più giovani siano nate già parzialmente abituate, e che nemmeno il tempo della loro infanzia - il tempo che trascorre più lentamnete - abbia avuto pause o un 'presente' ragionevolmente duraturo e tranquillo. La cosa strana è che in questa epoca ancora ci siano persone come noi, che quando facciamo un film o scriviamo un libro continuiamo a farlo sostanzialmente come facevano gli artisti del XVI secolo (per dirne uno): con la stessa lentezza, lo stesso talento artigianale, la stessa pazienza e le stesse pause. Questa grande contraddizione è un mistero: com'è possibile che a volte servano anni per 'produrre' quello che il destinatario non solo 'consumerà' in un paio d'ore - un film - o in una settimana - un romanzo lungo - ma che per di più, nell'atto di consumarlo, lo relegherà alla sacca fagocitatrice del 'già antico'? O forse le domande da porsi sono queste: perché c'è ancora domanda di opere create in questo modo? E perché le facciamo?" (da Javier Marìas, Se il mio romanzo dopo un mese è già vecchio, "La Repubblica", 05/03/'08)
I libri di Javier Marìas

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