lunedì 30 agosto 2010

La sartoria di Proust


"Molto prima di andare alla ricerca del tempo perduto, Proust aveva incominciato a fare degli esperimenti col tempo. Prima lo lasciava scorrere deliberatamente. Una complicata vestizione precedeva l'uscita serale. Gli stivaletti tardavano a chiudersi, la cravatta bianca non voleva annodarsi, la bambagia protettiva faceva indiscretamente capolino sotto il colletto inamidato. La madre assisteva, senza capire, alla resistenza del figlio contro il tempo, dandogli un ultimo tocco prima che uscisse. Al termine dell'impresa, nel corso della quale aveva mescolato Leibniz alla profonda riflessione fatta da un cocchiere, lo sparato della camicia di Proust era già ammaccato e i capelli spettinati. Sembrava non sul punto di uscire ma in procinto di tornare a casa dopo una faticosa serata.
Poi Proust risaliva il tempo. Arrivava metodicamente troppo tardi, quando gli ultimi invitati si stavano congedando. «Sembra che la festa sia finita», constatava soddisfatto. Poi, con l'abilità suprema del grande schermitore, che rovescia un passo falso in una mossa vincente, muoveva all'assalto dei padroni di casa, impazienti di congedare l'importuno ritardatario. Con la sua prodigiosa eloquenza li ammansiva lentamente, allontanandosi a notte inoltrata, quando gli altri, ormai sedotti, insistevano per farlo rimanere ancora.
Allora scattava la terza operazione. Proust cercava di ritardare il flusso del tempo. Si faceva accompagnare in carrozza l'ultimo invitato. Ma non saliva in vettura. Si faceva seguire dal cocchiere mentre camminava discutendo con l'altro qualche tema affascinante. Arrivato a casa spiegava, come un gigantesco volatile, le ali immense della sua gentilezza per convincere il suo accompagnatore a lasciarsi scortare a sua volta.
In questa società che tenta di sfuggire al passato rifugiandosi nel presente, Proust è più prezioso che mai. Per questo una serie di libri lo inseguono cercandovi, a volte inconsapevolmente, una guida. Eva Tomei lo illustra con una suggestiva serie di foto (Dalla parte di Marcel, Postcart); La sartoria di Proust. Estetica e costruzione nella Recherche (ETS) perlustra il labirinto del capolavoro. Ma non bisogna ignorare che negli ultimi quindici in Italia non è uscito niente di significativo su Proust, tranne l'interessante L'evidenza della cosa terribile. Contro la vita, contro l'amore, contro la natura: scritto sulla Recherche di Marcel Proust di Massimiliano Parente (Cooper).
I cerchi neri scavati dall'insonnia intorno agli occhi di Proust erano gli occhiali di un navigatore in incognito nel mare del tempo. Lo scafandro indispensabile per scendere in quelle profondità glielo aveva fornito l'asma che nel 1902 aveva intensificato i suoi attacchi, sopprimendo le futili differenze tra il giorno e la notte e rendendo sempre più sporadiche le uscite mondane. «La natura inventa in caso di bisogno nevrosi protettrici e infortuni tutelari perché il dono necessario dell'artista non resti inattivo». Chiuso nella sua camera foderata di sughero come il capitano Nemo di Verne nel suo Nautilus, lo scrittore esplorava a tastoni, come un prigioniero in una cella buia, la muraglia compatta del tempo. E, poco a poco quell'oscurità si animava di minuscole luci, di squarci luminosi sempre pronti a richiudersi.
Aveva imparato che la memoria non ci riconsegna il passato, ma lo mette in scena secondo un copione sempre diverso, per accontentare quel pubblico sempre diverso che siamo diventati. Mentre poteva bastare un profumo o un sapore per spalancargli un panorama impareggiabile, destinato a riassorbirsi rapidamente nel magma della memoria volontaria.
L'amato Reynaldo Hahn fu testimone di una di queste rivelazioni. Stava chiacchierando con Proust davanti a un'aiuola di rose del Bengala quando lo scrittore aveva smesso di parlare e si era bloccato. Poi, spinto dalla sua straordinaria cortesia, si era scosso e aveva fatto qualche passo. Ma si era fermato di nuovo e aveva detto con una «dolcezza infantile e un po' triste»: «Vi dispiace se rimango un po' indietro? Vorrei rivedere quei piccoli rosai». Quando, dopo avere fatto un lungo giro, Hahn tornò, lo ritrovò immobile davanti alle rose. Le fissava intensamente, aggrottando le sopracciglia per la concentrazione, mentre la mano destra giocava macchinalmente coi baffi. Poco dopo si scosse e raggiunse l'amico per scusarsi.
Proust guardava attentamente le fotografie del passato, come un esploratore sperduto scruta le mappe stinte di un paese che non riconosce. «La fotografia acquisisce un po' della dignità che le manca, quando smette di riprodurre il reale per mostrarci cose che non esistono più». Ma a volte per liberarle dall'involucro ottuso del dolore le esorcizzava facendole commentare volgarmente da dei prostituti. Quando i genitori erano morti li aveva cercati nei mobili tra cui erano vissuti. Approfittando della remissività del fratello, si era riempito la casa di reliquie lignee, che le davano un aspetto e il profumo nostalgico di un negozio di rigattiere. Quello che non riusciva a ospitare veniva chiuso in un deposito. Di lì prese alcuni mobili da regalare a una casa di tolleranza. Era un altro tentativo di esorcizzare la superficie apparentemente inscalfibile della memoria volontaria? Ma quando li rivide fu punito: «Non tornai più, perché i mobili mi sembravano vivere e supplicarmi, come gli oggetti in apparenza inanimati di quel racconto persiano, dentro ai quali si trovano rinchiuse anime che subiscono un martirio e implorano la liberazione».
Nell'ultimo periodo della stesura della Ricerca la sua concentrazione era talmente intensa che il presente entrava direttamente nelle pagine assumendo l'intensità nostalgica del passato. Il navigatore notturno aveva capito che tutto il passato è equidistante dal presente, che il secondo appena trascorso è cenere quanto quello consumatosi tanti anni prima. Sapeva, come prima di lui Balzac, che la letteratura è il sole dei morti, che l'unico modo possibile per salvare il passato è quello fornito dall'arte. Ormai non c'era evento, oggetto o persona troppo grande o troppo insignificante per trovare posto nell'arca di Noè della sua opera. «La mia persona oggi è solo una cava abbandonata che crede che tutto quel che contiene è simile e monotono, dalla quale però uno scultore di genio estrae innumerevoli statue».
Ma proprio l'equidistanza di ogni aspetto del passato e del presente aveva sprigionato una luce inesorabile alla quale nessuno dei suoi sogni terreni aveva retto. Nel Tempo ritrovato ogni illusione sull'idolatrata aristocrazia è svanita. Non a caso madame Verdurin, emblema di una banalità aggressiva, è diventata la principessa di Guermantes. Al narratore che ritorna dopo una lunga assenza nei salotti tutti, tranne poche eccezioni, sembrano uguali, ma come imbiancati da un'invisibile nevicata. Quella canizie è la schiuma lasciata sugli esseri dall'onda del tempo, prima di travolgerli definitivamente. Solo nell'abbraccio alchemico dell'arte, la sconfinata miseria della vita si traduce nella perfezione vigile e immota dei capolavori, assaporando, al suo interno, l'unico paradiso offerto dall'universo proustiano, quello appunto schiuso dai pennelli del pittore o dalla penna di uno scrittore." (da Giuseppe Scaraffia, Proust, sublime perditempo, "Il Sole 24 Ore", 29/08/'10)

sabato 28 agosto 2010

Drood di Dan Simmons


"'Droodisti": bisogna partire da questo neologismo, concepito da un critico letterario inglese, per orientarsi nel romanzo di Dan Simmons, Drood. Come notò a suo tempo Stefano Manferlotti, i "Droodisti" rappresentano una tribù composta dalle migliaia di lettori che a partire dal 9 giugno 1870, data della morte di Charles Dickens, non hanno mai smesso di interrogarsi sulla sua ultima opera: Il mistero di Edwin Drood. Subito definito come la più misteriosa storia mai scritta, il libro risulta in effetti doppiamente misterioso: sia per il genere evocato nel titolo, sia per la sua natura incompiuta - Guido Almansi parlò di una autentica "menomazione". Alle sostanziose spezie della trama (con scomparse, sospetti di omicidi, eredità favolose, ricorso al mesmerismo e abuso d'oppio), si aggiunse insomma il brivido per la ricerca di un finale che Dickens non aveva rivelato a nessuno, né affidato ai suoi appunti (sebbene si dicesse che, poco prima di spegnersi, egli avesse concesso qualche anticipazione nientemeno che alla regina Vittoria). Il Drood di Simmons (Elliot) è dunque solo il più recente prodotto del "droodismo", e come tale viene riconosciuto dai lettori anglosassoni.
Per dare un'idea di quanto vasta sia l'industria letteraria fiorita intorno all'ultimo capolavoro di Dickens, basti ricordare che sono state avanzate più di duecento "soluzioni" diverse. Tra le più recenti, quella di Matthew Pearl, l'autore del fortunato Circolo Dante, con il suo romanzo Il ladro di libri incompiuti (Rizzoli).
Si potrebbe immaginare un passatempo più squisitamente inglese? Eppure, in questo secolare cruciverba indiziario, l'Italia spicca con un campione illustre, ossia La verità sul caso D. (Einaudi), firmato da Fruttero & Lucentini. Il testo racconta il progetto di alcuni sponsor giapponesi di riunire a Roma, nei pressi della Cecchignola, i massimi investigatori d'ogni tempo e paese: da Holmes, Dupin, Padre Brown, Maigret, a Marlowe, Wolf e Poirot. Sarà proprio quest'ultimo a scoprire la più incredibile delle verità: il mistero di Edwin Drood nasconde l'assassinio dello stesso Dickens da parte di Wilkie William Collins, suo amico e collaboratore, ma in realtà divorato dall'odio e dall'invidia. Ed eccoci tornati a Simmons. Il perché è presto detto: il suo Drood rappresenta infatti la torrenziale, amara e visionaria deposizione in prima persona dello stesso Collins. Maestro del fantastico e del giallo, padre del poliziesco, in certo senso il romanziere fu condannato, come Salieri nei confronti di Mozart, a subire la supremazia dell' ingombrante collega. La voce che ci parla da queste pagine è insomma quella di un uomo conscio della propria inferiorità (si pensi anche al Soccombente di Thomas Bernhard, Adelphi), un uomo che tuttavia, invece di Dickens, si limiterà a uccidere ... un idraulico.
Ma cerchiamo di riassumere la trama senza svelarne le numerose sorprese. Se Drood corrisponde a un immaginario resoconto della vita di Dickens nei suoi ultimi cinque anni, è per una ragione ben precisa: tutto comincia il 9 giugno 1865, quando il treno su cui viaggiava il grande romanziere fu coinvolto in uno spaventoso deragliamento. Anche senza scomodare le analisi che Freud dedicò alla nevrosi traumatica da incidente ferroviario, Simmons sottolinea bene l'eccezionalità di una simile esperienza, eccezionalità confermata dal fatto che proprio sul luogo del disastro, fra morti e feriti, fa la sua comparsa il protagonista dell'intera vicenda: un uomo pallidissimo, senza palpebre e naso, vestito di nero, solcato di cicatrici, nato in Egitto da un padre londinese e chiamato appunto Drood. Angelo o diavolo? Signore di un antica ricchezza sapienziale che risale alle origini mosaiche, o padrone di un regno delle tenebre denominato Sotterra, nonché responsabile di oltre trecento omicidi? Le due tesi si alterneranno per tutto il libro, fino a mettere in dubbio l'esistenza di una simile, soprannaturale creatura. Ma a rendere ancora più avvincente la vicenda, come ha osservato Tommaso Pincio, sta il personaggio di Collins, un oppiomane, afflitto da gotta reumatica e sindromi paranoiche che lo inducono a credere di essere costantemente accompagnato dal proprio alter ego. Al culmine di tale delirio, il narratore si vedrà inserire all' interno del proprio corpo, per mano dello stesso Drood, uno scarabeo magico, diventando così un posseduto. Le atmosfere egizie e vittoriane si sovrappongono adesso a effetti cinematografici degni di Cronenberg. Ma sarebbe scorretto svelare la conclusione: basti dire che le ultime pagine sono dedicate alle famose tournées di letture pubbliche che Dickens tenne in Gran Bretagna e Stati Uniti con un successo senza pari. Secondo Collins, tutto ciò era possibile grazie alle sue forze mesmeriche e magnetiche, capaci di anestetizzare gli ascoltatori. L'autore di David Copperfield si mostra allora sotto una nuova, sconvolgente luce: «Era un vampiro, e le occasioni pubbliche gli occorrevano per risucchiare dagli spettatori le energie necessarie a tirare avanti un altro giorno»." (da Valerio Magrelli, Il circolo Dickens, se la vita d'autore diventa un giallo, "La Repubblica", 28/08/'10)

Cronache marziane


"Era un giorno qualunque del gennaio 1999 - narra Ray Bradbury nelle Cronache marziane - quando da una base spaziale dell'Ohio partì la prima spedizione umana su Marte: un giorno che passò alla storia come «l'estate del razzo» per gli effetti climatici prodotti dalla vampata di calore dell'astronave al decollo, che spazzò via in un istante i rigori dell'inverno. Dal punto di vista tecnologico la missione fu uno straordinario successo, ma da quello socioantropologico fu un tragico fallimento, proprio come le due successive dell'agosto 1999 e dell'aprile 2000. I primi esploratori vennero uccisi da un nativo geloso, convinto che gli insidiassero telepaticamente la sposa. I secondi li fecero fuori gli psichiatri locali, ritenendoli inguaribili psicotici, visionari socialmente pericolosi. I terzi, infine, furono quietamente messi a morte dagli abitanti di un villaggio, timorosi che la loro presenza costituisse per il pianeta un micidiale fattore inquinante. Un timore legittimo, peraltro, visti gli esiti della quarta spedizione, che nel giugno 2001 riuscì finalmente a insediarsi sul pianeta e ad aprire la strada alla colonizzazione.
Gli umani d'altronde non avevano molte alternative. L'enorme progresso scientifico aveva di fatto moltiplicato i rischi di un catastrofico e apocalittico conflitto nucleare (giudicato ormai inevitabile e imminente) tra le potenze che si spartivano la Terra e che ricorrevano a ogni mezzo per mantenere il controllo dei propri territori. In Occidente, ad esempio, fin dal 1957 era stata imposta una censura rigidissima sulla cultura, sfociata di fatto nell'eliminazione di ogni forma di pubblicazione a stampa, come racconta lo stesso Ray Bradbury in Fahrenheit 451. E quindici anni prima, stando alla cronaca di George Orwell in 1984, il potere assoluto del Grande Fratello si era esteso a tal punto da imporre, oltre alle telecamere/spia, l'uso della «neolingua», una parlata universale generalista e sintetica che eliminava dal vocabolario ogni sottinteso e ogni potenziale metaforico. L'invio di una nave spaziale verso Giove sulle tracce del monolito scoperto sulla Luna, descritto da Arthur Clarke in 2001. Odissea nello spazio, era in fondo un semplice diversivo. I Terrestri avevano bisogno (e voglia) di una nuova Terra Promessa e poco importava se i Marziani rischiavano di far la fine dei nativi americani dopo l'arrivo della Mayflower e dei Padri Fondatori. Dapprima a decine e poi a centinaia e a migliaia giunsero così sul Pianeta Rosso i loro razzi, lucenti e onnivore cavallette metalliche, autentiche «locuste d'argento». La frontiera si spostò nello spazio, attirando pionieri e coloni, avventurieri e mercanti, idealisti e politici, missionari e burocrati, ricchi e poveri, giovani rampanti e vecchi pensionati, negri, cinesi e messicani.
Ma la loro avventura in quel sidereo Nuovo Mondo ebbe vita breve. Nel tardo autunno del 2005 esplose infine il tanto temuto conflitto nucleare. La Terra prese ad ardere e rischiò di disintegrarsi, mentre i coloni spaziali facevano rotta precipitosamente verso casa, nella speranza di poter almeno morire sul suolo che li aveva generati. Una ventina di anni dopo, le tracce della loro presenza su Marte erano ormai pressoché scomparse. Dopo averne quasi sterminato i primitivi abitatori (con il micidiale contagio del morbillo, con feroci partite di caccia, con spedizioni sistematiche), i pochissimi umani rimasti sul pianeta finirono per riconoscerlo finalmente come propria dimora, sentendosi intimamente affini a quegli esseri «scuri dagli occhi dorati» che a tratti occhieggiavano tra i sognanti, eterei e piumosi palazzi delle loro magiche città, deserte ma intatte, e altre volte veleggiavano su silenziose e lievi navi del deserto tra i colori indescrivibili dei loro cieli e dei loro mari di sabbia.
Oggi Marte è tornato alla sua pace millenaria dolce e solenne, recuperando una verginità solo scalfita da una fugace e arrogante presenza umana. Resta (o riprende a essere) impenetrabile e inconquistato non soltanto nel tempo del racconto ma anche nel tempo della nostra vita, al punto che tutto quanto in esso è dato per accaduto potrà ancora compiersi, forse, nel nostro futuro. Un mondo dove ciascuno può scegliere il proprio presente e il proprio futuro, libero di decidere se assaporare in una quiete serena e gioiosa un'esistenza senza turbamenti, solitaria o di gruppo ma comunque svincolata da ogni ansia di sopraffazione e di potere e giocata sull'eguaglianza, il rispetto e la pari dignità di tutti; o aspirare invece a sondare a fondo i misteri dell'esistenza e del creato, a tal punto dimentico dei bisogni e dei limiti del quotidiano da scordarsi del corpo e da disincarnarsi, trasformandosi magari, come gli Antichi di Marte, in quelle aeree sfere di luce che i primi missionari terrestri, ansiosi di predicare il Vangelo anche nello Spazio, riconobbero in diretta comunione con l'Universo e con Dio.
Le distese di Marte come esotici e romantici spazi di fiaba, dunque? Forse. Anche se l'utopia di Marte s'intreccia nelle Cronache marziane con la distopia della Terra, una Terra che proprio non ne vuol sapere di rinunciare al gioco masochistico dell'autodistruzione e pare anzi ansiosa di esportarlo sul Pianeta Rosso; sicché la dialettica tra Marziani e Terrestri si fa metafora del conflitto tra due opposte interpretazioni della civiltà e del progresso.
Nell'episodio di Usher II (aprile 2005) il signor Stendhal, per punire quanti hanno concorso sulla Terra al rogo dei libri descritto in Fahrenheit 451, si vale di una sofisticatissima tecnologia architettonica per elaborare una performance robotica ispirata ai racconti neri di E. A. Poe e destinata a trasformare un'orgia in massacro. Ma nelle rare occasioni in cui pochi Marziani superstiti s'intravvedono fluttuare leggeri nelle proprie abitazioni e nelle proprie città, la loro avveniristica tecnologia si rivela ancella di una filosofia al cui interno coesistono simbioticamente scienza, religione e arte, senso etico e ricerca del piacere, tensione mistica e godimento di un infinito attimo fuggente. Apprezzare l'esistenza significa per loro vivere pienamente la vita, assorbendo ed emanando gioia. E in virtù di tale filosofia, che si contenta di abitare i luoghi anziché possederli, i Marziani non esitano a regalare il pianeta ai visitatori alieni o ad assumere a loro conforto le sembianze di persone amate e perdute.
Nella sua immutabilità immemoriale, Marte è insomma un pianeta in ogni senso metamorfico. Gli Antichi si trasformano in sciami di sfere luminose simili a «un volo di angeli ardenti». Gli altri - trasparenti, diafani, impalpabili, soavemente fantasmatici - fanno di sé e del paesaggio un sublime «caleidoscopio» che trasmuta e rifrange il bisogno della conquista e del possesso nel piacere di sentirsi parte del miracolo dell'Universo. E tale e tanta è la sua vocazione metamorfica, da saper infine trasformare in Marziani persino i Terrestri. Nell'episodio conclusivo del romanzo, La gita d'un milione di anni (ottobre 2026), la famigliola fuggita dalla Terra con un razzo di fortuna, dopo aver distrutto subito la piccola astronave per precludersi ogni ritorno, gironzola in cerca del posto giusto per un buon picnic trovandolo infine lungo la sponda di un canale limpido e fresco sulle cui acque, specchiandosi, scorge nitidi i volti degli «ultimi marziani»." (da Ruggero Bianchi, Buon pic nic fra i Marziani, "La Stampa", 28/08/'10)

venerdì 27 agosto 2010

Venezia: la mostra e i film-libro, da Shakespeare a Murakami


"Da La solitudine dei numeri primi di Giordano a La tempesta di Shakespeare, da Notizie degli scavi di Lucentini a Norwegian Wood di Murakami, sono molti i film a Venezia tratti da opere letterarie e teatrali. 'La caratteristica dei tanti tentativi di trasposizione', spiega il direttore artistico Marco Muller 'è quella di un'altissima infedeltà, necessaria ad aderire completamente all'opera originale'. Il discorso riguarda La solitudine dei numeri primi di Costanzo 'che ha girato con uno stile da thriller soprannaturale anni Settanta. Ma pare che l'autore si sia sentito rappresentato'. 'Per molti dei romanzi si poneva la questione di una intraducibile ricchezza del libro di origine', continua Muller. Nel caso del film Noi credevamo, che Martone ha tratto dal libro di Anna Banti, la chiave è stata privilegiare una lettura del passato che servisse a reinterpretare il presente. Anche nel caso di La versione di Barney, il regista ha 'trasformato la complessità del libro in una storia lineare eppure molto letteraria'.
Norwegian Wood un cult per gli adolescenti di mezzo mondo, potrebbe accendere l'interesse verso il romanzo di formazione di Murakami, da noi non conosciutissimo.
Riuscito secondo Muller, l'esperimento con cui Ben Affleck con The Town (tratto da Il principe dei ladri di Chuck Hogan) riesce a forgiare un gangster movie in piena tradizione Warner. 'Ancora più affascinante è il modo in cui Celestini ha scarnificato perfettamente i dialoghi della ben più lunga Pecora nera. Notizie dagli scavi, trasposizione del racconto di Franco Lucentini datato 1964'. Pescano dalla cronaca Vallanzasca - Gli angeli del mare, che Michele Placido ha tratto dal libro di Carlo Bonini, e 20 sigarette di Amadei. Riesplora un classico shakespeariano come The Tempest la regista Julie Taymor; per Muller è 'una lettura lisergica di un'opera che risulta totalmente contemporanea'." (da a. f., La mostra e i film-libro, da Shakespeare a Murakami, "Il Venerdì di Repubblica", "La Repubblica", 27/08/'10)

Il museo delle lettere perdute


"«Mio caro Guillaumet, come vedi dalla fotografia qui sotto, aspetto con impazienza il tuo arrivo. Nessuno riesce a strapparmi dalla duna dalla quale osservo l' orizzonte». Nel 1927 Saint-Exupéry è comandante dello scalo di Cap Juby, nel Sahara del Marocco. Guarda il cielo del deserto, si annoia, scrive una lettera piena di affettuosi disegni al suo amico pilota Guillaumet. Quanta attesa, e che viaggio. Hanno attraversato amori, guerre e rivoluzioni. Le lettere hanno cambiato i destini di piccoli e grandi uomini, eppure oggi dobbiamo sbrigarci a mettere in calce l' ultima firma prima che scompaiano del tutto, sommerse da telefonate, sms, email. È questione di poco, ormai. Sembra una secolo fa quando ci si sedeva al tavolo per scrivere a un corrispondente lontano, riordinando i pensieri, curando la calligrafia, i capoversi e le maiuscole. E poi non rimaneva che aspettare una risposta. Ci voleva la pazienza, come scriveva il piccolo principe Saint-Exupéry.
«Vedo lo stupore dei ragazzi delle scuole quando vengono a visitare il museo. Per loro è già passato remoto» racconta Gérard Lhéritier, uno dei più grandi collezionisti del settore. Un postino, a modo suo. In un palazzo haussmaniano vicino a Saint-Germain-des-Prés, Lhéritier ha recapitato migliaia di lettere, chiudendole e salvandole per sempre dentro a bacheche di vetro. Epistole, ma anche manoscritti di romanzi, spartiti di artisti, studi di scienziati. Il filo conduttore del nuovo Musée des lettres et des manuscrits è l'antico gesto dello scrivere a mano. Seicento metri quadrati di esposizione, la storia della scrittura.
La comunicazione "Top secret" di Eisenhower alle forze alleate per annunciare la fine della guerra. 7 maggio 1945, l'esercito nazista si è arreso. Il manoscritto di Einstein sulla teoria della relatività, cinquantasei pagine di formule e scarabocchi. Napoleone che scrive da Nizza a Joséphine il "10 Germinal an IV", ovvero il 30 marzo del 1796, una lunga lettera d'amore nella quale invita la concubina a venire in Italia. Luigi XVI che fa un bilancio della Rivoluzione il 20 giugno 1791, poco prima della sua fuga a Varennes. È considerato il suo testa mento politico. L'anno scorso Lhéritier è riuscito a ricomprarlo per un milione di euro da un collezionista americano. E poi gli spartiti di Mozart, Chopin, Debussy, Wagner. Una lettera di Puccini l'11 febbraio 1911 per commentare la prima de La Fanciulla del West a New York. Le corrispondenze di Manet, Gauguin, Toulouse-Lautrec, Monet, Ingres. Gli schizzi naturalisti di Rousseau. Voltaire che scrive dalla Prussia a Richelieu per chiedere un'intercessione in favore della ripresa delle sue piéce vietate. Baudelaire che detta le sue ultime volontà prima di tentare il suicidio nel 1845. Il manoscritto originale di Cellulairement, raccolta di poesie che Paul Verlaine scrisse in prigione, tra Mons e Bruxelles, dopo essere stato ferito dall' amante Rimbaud. I manifesti del surrealismo di André Breton, le canzoni di Gainsbourg, le riflessioni sulla psicoanalisi di Freud. E così fino a metà del Novecento, che sembra già l'archeologia della scrittura.
Lhéritier ha incominciato a collezionare lettere più di trent'anni fa quando ha visto in una vetrina dell'Hotel Drouot una piccola busta con la menzione «par Ballon Monté». Era una di quelle lettere che erano state trasportate nei palloni gonfiati durante l'assediata di Parigi del 1870. Altre lettere erano state mandate con i piccioni viaggiatori. «Una storia alla Jules Verne» ricorda Lhéritier. Molte delle più belle d'amore, secondo lui, sono di quel periodo. «Vedere una lettera è sempre una grande emozione. L'andamento della calligrafia, le correzioni, gli spazi. È lo specchio di una vita» dice Lhéritier. «Ho tremato - racconta - quando ha avuto tra le mani alcune corrispondenze di Victor Hugo».
Il museo ha un fondo di settantamila documenti, dei quali solo quindicimila sono esposti. «Molti contenuti di queste lettere sono conosciuti dagli storici - spiega il collezionista - ma è la prima volta che c'è un luogo nel quale sono esposti al pubblico così tanti documenti autografi». Le epistole e manoscritti sono spesso conservate negli archivi o in collezioni private. «Finora bisognava veramente avere la passione per andarle a cercare» continua Lhéritier che pensa di aprire un'altra sede del museo a Bruxelles. Le lettere e i manoscritti antichi stanno prendendo sempre più valore, con picchi di decine di milioni di dollari come nel caso del Codice di Leonardo da Vinci acquistato da Bill Gates. «So che ce ne sono ancora due in mano privata - dice Lhéritier - averne uno sarebbe davvero il mio sogno». Un patrimonio che si può facilmente deteriorare. Le lettere del museo sono sottoposte periodicamente a controlli e restauri. Paradossalmente, dicono gli esperti, sono quelle più antiche che resistono meglio. L'uso della fibra di legno, incominciato nell'età moderna, ha infatti reso la carta più fragile. Nel museo ci sono anche alcune tavolette cuneiformi che risalgono all'origine della scrittura, nella Mesopotamia. Uno straordinario viaggio. Speriamo non sia davvero finito." (da Anais Ginori, Il museo delle lettere perdute, "La Repubblica", 26/08/'10)

mercoledì 25 agosto 2010

The Hunger Games


"Nel fantastico mondo della distopia i bambini sono condannati a combattere fino alla morte, come i gladiatori di una volta, e la guerra civile si gioca tra uno spot e l'altro lanciato in tv dalle fazioni l'una contro l'altra armata. Non è per niente il migliore dei mondi possibili e infatti lo dice la parola stessa: la distopia è un po' la faccia triste dell'utopia. Però in classifica l'ultimo fenomeno della letteratura per ragazzi (che nella patria del politicamente corretto chiamano Young Adults) si vende che è un piacere e in America sono convinti che Mockingjay batterà tutti i record dell'anno piazzandosi dietro alle ragazze che giocano col fuoco di Stieg Larsson. Il terzo volume della saga di Hunger Games è uscito ieri e alla mezzanotte precisa i fan di tutti gli States hanno festeggiato invadendo le librerie per accaparrarsi le prime del milione e duecentomila copie che la casa editrice Scholastic ha preparato per il primo round. Perché la distopia è un piatto che si gusta freddo: il primo volume della serie, Hunger Games appunto, uscito nel 2008 e pubblicato l'anno scorso anche in Italia da Mondadori, riuscì a malapena a piazzarsi al 92esimo posto in classifica. Ma il passaparola su Facebook e una crescente comunità di distopici fan ha spinto prima il seguito Catching Fire direttamente al primo posto e ha poi miracolosomanete recuperato nella top ten, a due anni di distanza, lo stesso Hunger Games. Un successo che si autoalimenta. E che sta trasformando la 47enne autrice Suzanne Collins in una star del calibro della mamma di Harry Potter, JK Rowling, e della generatrice di vampiri, Stephenie Meyer. Un trionfo impensabile fino a poco tempo fa per questa sceneggiatrice di televisione per ragazzi che adesso si costruisce un pedigree letterario e racconta che la sua distopia, a ben guardare, racconta storie che affondano nei miti greci come quello di Teseo e del Minotauro. Il Minotauro qui sarebbe il potere televisivo che si mangia i bambini ma al quale cerca eroicamente di resistere la protagonista della serie, Katniss Everdeen, la 17enne che ha generosamente preso il posto della sua sorellina nelle battaglie sanguinarie in tv. I critici avvertono che infiltrarsi nella trama è pericolosamente insidioso per i fan e i non addetti. Ma il dubbio che tutti sperano di vedere risolto nell'ultima puntata è semplice: si tratta di sogno o realtà? Il futuro distopico esiste davvero (sulla carta del romanzo, s'intende) o è solo frutto (un po' come nell'Inception di Leo DiCaprio) degli incubi dei suoi protagonisti? Meditate, ragazzi, meditate: da The Maze Runner a Incarceron nei negozi s'avanza la carica degli altri libri che scommettono sul boom distopico. Mentre Lionsgate, il gigante hollwyodiano che ha prodotto da Hulk all'ultimo Stallone, ha già opzionato i diritti dei tre volumi di Hunger Games, e la brava Suzanne è lì che combatte ancora con i suoi giovani gladiatori - e la sua nuovissima sceneggiatura." (da Angelo Aquaro, Se ora la distopia batte Harry Potter, "La Repubblica", 25/08/'10)

Javier Cercas: la fiction non basta più, serve il romanzo politico


"Sezionare il tempo. Sondarlo con accanimento chirurgico. Specchiarsi nella sua miriade di sfaccettature come in un prisma. Guardare al passato prossimo come a una dinamicissima avventura da esplorare in un viaggio strabiliante e sterminato. Dilatare in mezzo migliaio di pagine un attimo di folle intensità: una manciata di minuti decisiva per la storia di un Paese. Accade nell'ultimo libro di Javier Cercas, Anatomia di un istante, accolto in Spagna come un bestseller, incoronato dai due massimi quotidiani spagnoli (uno di destra e l'altro di sinistra) come il miglior titolo dell'anno e ora in uscita in Italia per Guanda nell'ottima traduzione di Pino Cacucci. L'istante "anatomizzato" dal romanziere e saggista catalano (già autore di quell'indagine geniale sulle ragioni profonde della guerra civile spagnola che fu Soldati di Salamina) è rintracciabile nel pomeriggio del 23 febbraio 1981, quando il colonnello Antonio Tejero irruppe alla testa di un gruppo di militari nel Parlamento madrileno dov'erano appena state avviate le votazioni per il nuovo presidente in seguito alla dimissioni di Alfonso Suárez. Fu un golpe rapido e assurdo, soffocato in poche ore e liquidato dagli storici come un episodio senza peso; eppure Cercas, nella sua analisi incalzante come un thriller, ne mostra il ruolo cruciale per l'identità e le sorti della Spagna contemporanea. «Di quello strano golpe», spiega lo scrittore, «ho voluto scegliere il momento iniziale, ovvero l'immagine di Tejero che entra sparando, e com'è ovvio tutti reagiscono buttandosi a terra. Ma tre persone non lo fanno restando ai loro posti: sono il premier uscente Suárez, il suo vice Manuel Gutiérrez Mellado e l'ex segretario del Partito Comunista Santiago Carrillo. Perché loro tre? E soprattutto perché Suárez, un individuo che io, come quasi chiunque altro, all'epoca disprezzavo profondamente? Il libro è un tentativo, più che di rispondere alla domanda, di formularla con la maggiore complessità possibile».
Che cosa ha spinto il romanziere Cercas a scrivere una vicenda fondata per intero su politica e Storia? «Mi sono reso conto che non potevo capire me stesso senza capire gli altri in quanto parte di me, e che non potevo cogliere il presente senza comprendere il passato, dimensione necessaria del presente. Il mio interesse per i temi collettivi ha a che fare anche, credo, con l'età e il fatto di avere un figlio, che mi ha reso iper-responsabile. Ma ora che lui sta crescendo spero di recuperare l'irresponsabilità dei miei vent'anni. In ogni caso non penso di potermi disinteressare alla Storia e alla politica perché nessuno può farlo».
Forse in un presente dove sembra essersi persa la nozione di sinistra emerge il bisogno di approfondire i presupposti di questa situazione? Crede che si possa parlare ancora dell'esistenza di una sinistra? «Certo che c'è la sinistra, così come la destra. Ma è una sinistra ormai vecchia e superata. Lo dimostra il fatto che a tutt'oggi molte persone di sinistra pensano che il regime cubano sia di sinistra e non una mera tirannia. Sono convinto che la colpa della decadenza della sinistra sia da dare proprio alla sinistra e sia catastrofica per tutti. E lo dico da scrittore decisamente di sinistra».
C'è un aspetto spettacolare o persino teatrale nel golpe, così come lei lo racconta. «È vero: pur restando rigorosamente fedele a quanto accadde, ho attribuito alla narrazione un'impronta drammatica. Ma la spettacolarità del golpe deriva anche dal fatto che fu ripreso in tivù; credo sia stato l'unico colpo di Stato trasmesso in televisione, il che è al tempo stesso la garanzia della sua realtà - altrimenti in molti ne avrebbero negato l'esistenza - e la prova della sua irrealtà, poiché la tivù rende irreale tutto ciò che tocca. Comunque è un documento eccezionale, paragonabile solo alla ripresa che Zapruder fece della morte di Kennedy. Ed è anche quasi l'unico di cui disponiamo riguardo a quel colpo di Stato. È per via di tale assenza di documenti che gli storici non lo hanno sufficientemente studiato, e per lo stesso motivo è fiorita in proposito un'incredibile quantità di sciocchezze: si sono accumulate tante di quelle leggende e menzogne sul tema che mi è parso ridondante e superfluo aggiungere finzione alla finzione. Perciò ho scritto un racconto il più possibile aderente ai fatti».
Può ripercorrere per noi il disegno dell'innovativa struttura del libro? «Parte dall'istante decisivo del titolo, si dilata nei 35 minuti della ripresa televisiva e poi nelle 17 ore e mezza della durata complessiva del golpe, e arriva ad abbracciare un trentennio di storia spagnola. È stato il libro a impormi questa forma, che non era esattamente quella che cercavo. La cosa che ho intuito dal principio è che quell'istante era colmo di significato, e alla fine ho scoperto che in quel momento non solo i tre protagonisti hanno deciso il loro destino e hanno capito chi erano, ma che lo ha saputo l'intero Paese. In quell'attimo cominciava la democrazia, finiva la transizione dalla dittatura e terminavano il dopoguerra e la guerra, dato che in Spagna il dopoguerra non è stato altro che il prolungamento della guerra con altri mezzi».
Parliamo dei gesti di resistenza con cui i suoi "tre moschettieri" vollero coraggiosamente sfidare il golpe. «Il motivo del coraggio di Gutiérrez Mellado è evidente: era l'unico militare che stava in Parlamento, aveva fatto la guerra e consacrato la vita all'esercito. Chiaro che gli sembrasse intollerabile la ribellione di un manipolo di soldati. Quanto a Carrillo, aveva combattuto al fronte ed era stato esiliato per quarant'anni, durante i quali era divenuto l'emblema dell'opposizione al franchismo. Ma Suárez? Era il presidente e ostentava la rappresentatività democratica, e tuttavia altri parlamentari che la ostentavano come lui obbedirono subito ai golpisti. Ho avuto bisogno di quasi cinquecento pagine per provare a capire il gesto di Suárez, e non sono sicuro di esserci riuscito. Direi che fu il gesto di un traditore e di un eroe. Meglio: di un eroe del tradimento che in quell'istante definitivo si scoprì come tale».
Nel libro i fatti appaiono geometrici, correlati e non casuali: crede che un'etica e una coerenza governino la Storia? «È come se la Storia cercasse un senso o lo stesse suggerendo, e tentasse di dirci che non tutto è furia e caos: penso che la realtà sia caotica e l'arte cerchi di imprimerle un ordine. Comunque qui il mio obiettivo è stato soprattutto provare a identificare un ordine nel caos tramite un libro che fosse al contempo Storia e letteratura, romanzo e saggio. Impresa impossibile: ma per me sono queste, ormai, le uniche sfide eccitanti»." (da Leonetta Bentivoglio, Javier Cercas: la fiction non basta più, serve il romanzo politico, "La Repubblica", 23/08/'10)

martedì 24 agosto 2010

Città in giallo: la Los Angeles di Philip Marlowe


"Non troveremo la porta a vetri con scritto «Philip Marlowe, Investigations» e neanche la monacale cella (sedia girevole, letto a scomparsa, ventilatore al soffitto e bottiglia sempre pronta nel cassetto della scrivania) dove il principe dei detective si metteva al servizio, per poche decine di dollari più spese, di gangster, ricchi infelici, bionde platinate, elegantoni e relitti di ogni specie giunti dai boulevard cittadini, dai canyon e dalle colline di Los Angeles.
Non troveremo quel celebre vetro smerigliato, ma parecchi luoghi in cui Raymond Chandler faceva ininterrottamente viaggiare «il suo paladino scoglionato e sentimentale» - come ha scritto l’indimenticabile giornalista-scrittore (e traduttore) Oreste Del Buono - in una plaga di fasulli e prepotenti, «di indolenti, di truffatori di professione e di imbrogliati per vocazione, di carnefici e di vittime [...], di angeli falsi e di mostri più che veri».
La città di Raymond Chandler e del detective più cinico e malinconico di tutti i tempi è ancora riconoscibile - quasi un miracolo per metropoli in cui gli Anni 40 sono Medioevo - sebbene l’ubicazione dei principali «rifugi» rimanga incerta: una cuccia forse era al sesto piano di un modesto edificio all’angolo tra Hollywood Boulevard e Ivar Avenue (interno 615) o a un isolato di distanza verso Est, nel palazzo ora sede di Scientology. Di certo nel suo anonimo appartamento Philip Marlowe dormiva poco; lo stropicciato e romantico padre dei tanti (troppi) detective odierni vi andava a cercare «una doccia, un cambio d’abito e una cena tardiva», mettendosi a letto «pieno di whisky e malato di sconforto» (Il grande sonno).
Chandler lo fa muovere un po’ in tondo: punta a Nord, si allontana da Los Angeles, gira in direzione dell’Oceano, imbocca la costiera che lo riporta in città. Se deve risolvere un caso sale in macchina e fa un giretto per Santa Monica Pier, Ventura Boulevard, San Bernardino Freeway, Beverly Hills. Idle Valley, location del Lungo addio, il più tragico e bello dei suoi romanzi, è Malibu. Esmeralda è nom de plume per la banale La Jolla, sobborgo per pensionati dove Chandler andrà assai prosasticamente a morire nel 1959, disperato e solo. Bay City, la cittadina della «pittoresca baia azzurra», protagonista di La signora nel lago, è Santa Monica. Ha un porticciolo per gli yacht, strade tranquille, prati verdissimi. «Conoscevo una ragazza che abitava nella Twenty-fifth Street», dice Marlowe. «Una bella strada. Una bella ragazza. Lei amava Bay City. Non ci voleva molto per amare Bay City. Bastava non perder tempo a meditare sulle catapecchie dei negri e dei messicani ammucchiate nelle squallide distese di là dalle vecchie carraie interurbane».
Immensa e schizofrenica, Los Angeles contiene varie città, è piena di chiaroscuri. Chandler l’ha sognata e descritta meglio di tutti, sulla pagina; lui che non ebbe mai rapporti con la malavita, ma un’educazione inglese (la public school di Wodehouse e dell’esploratore Shackleton), un’aria da professore di Oxford, diceva Maugham. Arrivò a L. A. nel 1913, giovanotto di 25 anni very british, «un bel guardaroba, un accento da scuola elegante, una quasi assoluta incapacità di guadagnarsi la vita e un disprezzo per la gente del luogo», confesserà.
Il grande sonno è probabilmente il romanzo - con Il lungo addio - nel quale Los Angeles si rivela più crudamente. Il memorabile incipit descrive Sternwood Palace, magione alle spalle di Sunset Boulevard, a Beverly Hills, oggi molto probabilmente Doheny Mansion, castello in stile Tudor del 1925. L’atrio alto due piani ha portoni d’ingresso «abbastanza ampi da far passare un branco di elefanti indiani». Qui Marlowe incontra la giovane e ingovernabile Carmen Sternwood, che cerca di sedurlo. La liquida con un indimenticabile «Fareste bene a cominciare a svezzarla. Non è più una bambina», detto al maggiordomo. La sorella Vivian, nel film capolavoro di Hawks del 1946, ha il volto di Lauren Bacall. Lui è Humphrey Bogart.
Downtown, la vecchia Los Angeles, a Chandler piaceva molto. In La finestra sul vuoto descrive «Belfont Building», ovvero il Bradbury, tra Terza e South Broadway, edificio del 1893 con un atrio alto cinque piani e ascensori a giorno immortalati anche da Ridley Scott in Blade Runner. Poco distante, tra Olive Street e la Sesta, c’è l’Oviatt Penthouse Building, il Treloar Building dell’incipit di La signora nel lago, pazzia Art Déco del 1925. Tre miglia a Nord di Santa Monica, sull’oceano, a Castellamare («Montemar Vista», per Chandler) c’è una costruzione in stile spagnolo che fu un tempo il Thelma Todd Cafe e ora è sede delle Edizioni Paoline Usa: compare in Addio mia amata, pare abbia ispirato Chandler la misteriosa morte dell’attrice Thelma Todd, trovata cadavere in garage con pelliccia e gioielli.
Altre suggestioni riserva Marlowe, il detective che conosceva Eliot e Proust, che poteva appassionarsi a un insetto rosa su una scrivania della Squadra omicidi (Addio mia amata) o apprezzare un filare di grevillee fiorite sul Foothill Boulevard di Ontario. Ma nulla è immutabile, sotto l’ingannatore sole californiano, nemmeno il suo viso, per qualcuno «Bogey» Humphrey Bogart, per altri Robert Mitchum, Dick Powell o Elliott Gould del grande Altman. Chandler avrebbe preferito Cary Grant.
Non resta che aggirarsi inquieti nelle sue atmosfere letterarie, fatte di palme ed eucalipti, motel scalcinati, botte in testa e sparatorie, fatine bionde e donne fatali, poliziotti impacchettati come tacchini al forno. Inquieti come Raymond Chandler, che continuò a spostarsi da Bel Air a Cathedral City, da Echo Park a Hollywood, da Palm Springs a Santa Monica, nella grande città stretta fra il deserto e l’oceano, che gli deve tanto, che solo grazie a lui è entrata nella letteratura. Perché con il suo stile unico, nel quale si riconoscono Hammett e Hemingway, ricco di metafore colorite e geniali, di descrizioni che spesso ricordano i piani sequenza del cinema, consente di riconoscere il suo eroe anche senza averne mai visto i luoghi: basta sentirlo parlare, anche al buio." (da Carlo Grande, Bionde fatali e botte in testa la Los Angeles di Marlowe, "La Stampa", 24/08/'10)

Cosa leggono i nostri figli


"Il problema con i libri, è l'odore. 'Se puzzano di scuola, hai già perso la tua battaglia', avverte Emilio Varrà che con la sua associazione Hamelin combatte questa battaglia per far leggere i ragazzi da dieci anni. Ci sono libri che non puzzano di scuola? Certo che sì: quelli con maghetti, vampiresse e guerrieri a cavallo dei draghi. Quelle pagine da bere come cocacola ghiacciata, quel piacere avido del 'come va a finire', quei libri divorati in cameretta, la scuola non li contamina perché non se ne occupa, non li fa a fette a suon di questionari, schede e riassuntini come fa con gli altri, i libri suggeriti dai prof., per non dire imposti, insomma le temutissime 'letture estive consigliate' su cui (guardatevi intorno in spiaggia) sudano scontenti i nostri figli in questi giorni. ma non si vive di solo Harry Potter né di solo Twilight, e allora la sfida è proprio questa, trascinare quel piacere spontaneo e fresco che fa dei preadolescenti la fascia di lettori più forti in Italia nel difficile, odoroso giardino dei libri 'da grandi'. Ci si prova di solito a cavallo fra medie e superiori, ed è il momento critico, quando ci si gioca tutto su un crinale strettissimo: da una parte cadrà un lettore, dall'altra un digitatore compulsivo di Nintendo.
Certo, è un po' difficile deodorare dal puzzo di scuola un elenco di titoli che la prof. di Lettere ti detta assieme ai compiti per le vacanze. Tuttavia la scuola italiana, che è meno malandata di quello che appare, ci prova. Sfogliate i diari dei vostri figli: ci sono sorprese.
La tirannia del canone classico Verga-Pirandello-Svevo è tramontata da tempo, ma anche quello sessantottino Calvino-Levi-Anna Frank non domina più incontrastato. Le bibliografie suggerite oggi mostrano tentativi a volte prudenti a volte coraggiosi, comunque volonterosi, di svecchiamento del repertorio. Pescando a caso sulle bacheche elettroniche delle scuole italiane: lo scientifico Majorana di Torino propone Lo scudo di Talos di Manfredi e Io non ho paura di Ammaniti, quello di Giarre più prudente fa scegliere fra Pavese, Faulkner e Isabel Allende, il Matilde di Canossa di Reggio Emilia, pur senza scordare Dickens e Maupassant, osa avventurarsi finoa Febbre a 90 di Hornby, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Haddon e di nuovo Ammaniti, mentre le medie Lanfranco di Modena si buttano su Paco & il più forte di tutti di Brizzi, L'inventore di sogni di McEwan e l'onnipresente Ammaniti.
Nel corso degli anni, è vero, la diga dei classici "che bisogna leggere" si era già progressivamente incrinata lasciando passare canonizzazioni più o meno scontate come Salinger, Hemingway, Dürrenmatt, Blixen, Hesse, Uhlman, Borges ... La novità odierna è che gli scrittori contemporanei emergenti invadono di colpo le collane scolastiche. I loro bestseller passano direttamente dallo scaffale delle novità alle bibliotechine di classe. «Facciamo il possibile per aprirci alla contemporaneità - conferma Sergio Saviori, già direttore di Einaudi Scuola - abbiamo pubblicato un' edizione scolastica di Gomorra di Saviano, abbiamo intercettato titoli non banali come Mille splendidi soli" o Il cacciatore di aquiloni di Hosseini, per avvicinare la realtà del mondo dei libri ai programmi didattici. Tanto, dai Malavoglia o da Zeno, prima o poi i ragazzi ci devono passare comunque». Trascrivere le classifiche di vendita nelle bibliografie per ragazzi è però ancora una dimostrazione di fragilità. «Passata la sbornia da Harry Potter, l'editoria da qualche anno sta producendo ottimi titoli per adolescenti e giovani adulti, ma gli insegnanti non li conoscono, non li leggono e quindi non li consigliano», sostiene ad esempio Barbara Schiaffino, direttrice di Andersen, la più qualificata rivista del settore. «Così - prosegue - per svecchiare i propri consigli di lettura, anziché chiedere magari l'aiuto di un bibliotecario, ricorrono ai libri che leggono loro, i libri per gli adulti, spesso semplicemente quelli di cui si parla di più». Si spiegano così le apparizioni di Baricco, Grossman, Tabucchi, Camilleri tra le mani dei diplomati di terza media.
Ma allora, provoca Roberto Denti, scrittore e creatore della storica Libreria dei ragazzi di Milano, «meglio Collodi e De Amicis, che erano davvero scrittori per ragazzi. Non si può chiedere a un dodicenne di avere gli strumenti raffinati che servono per godersi lo stile del Barone rampante o le conoscenze storiche per comprendere il dramma di Anna Frank». Certo, imporre La mandragola di Machiavelli a un quindicenne è lettoricidio volontario aggravato. Ma è anche vero che esistono classici che possono ancora sorprendere un ragazzino. L'anno scorso la classifica di Xanadu, comunità di giovani "lettori ostinati" bolognesi raccolti attorno alla biblioteca Salaborsa, ha visto piazzarsi sorprendentemente al secondo posto Cime tempestose. Spiega Varrà: «Rinnovare non è sostituire un vecchio canone con un nuovo canone, ma scovare libri che escano dai canoni. Libri che in qualsiasi epoca hanno sollevato grandi domande e grandi emozioni». Naturalmente, tutto questo non basta. Lettura-dovere contro lettura-piacere: la differenza è forte, la sfida è impari. Un libro obbligatorio, per quanto bello sia, rischia sempre di trasformarsi in un libro di testo, rovinato in aeternum. «L'Italia è unita non dal tricolore, ma dal fatto che tutti abbiamo odiato I promessi sposi», riprende con sarcasmo Denti. La sua ricetta è drastica: «Separare rigorosamente i testi che servono per il lavoro didattico dai libri da leggere per il solo piacere di leggere. Nessuno è tenuto ad amare un'equazione algebrica, ed è giusto sudare un po' per impararla. Ma la passione della lettura no, va protetta dalle imposizioni», e quindi basta riassunti, schede, questionari, «l'unico obbligo del lettore, quando chiude il libro, è dire "m'è piaciuto, non m'è piaciuto". Anche Dan Brown ti appassisce fra le mani se ci devi fare il riassuntino». C'è chi sostiene, non a torto, che il verbo leggere, come amare, ridere e giocare, mal sopporta il modo imperativo.
Anche a Grazia Gotti della libreria Giannino Stoppani di Bologna stringe il cuore vedere le mamme che entrano in negozio con la lista dei titoli da comprare, come libri di testo, e che poi scelgono puntualmente quelli con meno pagine. «Ma io sono comunque per il libro suggerito, anzi direi perfino costretto. Finché hai una presa sui ragazzi, vale la pena giocarsela: è l'unica occasione per fabbricare un lettore. Un po' di forzatura ci vuole. Naturalmente, solo se c'è un insegnante che sa comunicare anche un po' di entusiasmo». Non dovrebbe essere poi così difficile. I lettori più forti in Italia, dicevamo, sono proprio i ragazzini tra gli 11 e i 14 anni: secondo l'Istat nel 2009 due su tre hanno letto almeno un libro, e uno su dieci addirittura uno al mese. Il guaio è che non dura: la curva da quel momento declina impietosamente. Tra i 45 e i 49 anni la quota di non-lettori è già ribaltata: due su tre non toccano mai libro. Vien da temere che gli studenti leggano perfino più dei loro professori. Basta addentrarsi, verso maggio, tra i forum Internet degli insegnanti per imbattersi in decine di appelli angosciati: «Devo dare i consigli di lettura ai miei studenti, aiutatemi, qualcuno ha delle idee?». Non era difficile da capire: il problema dei ragazzi che non leggono ancora, in realtà, è il problema degli adulti che non leggono più." (da Michele Smargiassi, Cosa leggono i nostri figli, "La Repubblica", 24/08/'10)

Mal d'archivio. Aiuto, stiamo perdendo la memoria digitale


"Una sindrome si aggira per il mondo: il mal d'archivio. E' una malattia endemica nell'habitat umano, visto che le civiltà scompaiono e le biblioteche bruciano, ma da qualche parte ha subito una mutazione in seguito al passaggio dalla carta al digitale, e ha tre cause principali.
Primo, la deperibilità dell'hardware: i papiri sono arrivati sino a noi, i cd si smagnetizzano che è un piacere. Secondo, l'iper-evolutività del software: noi usiamo l'alfabeto dei Fenici, ma vai a leggere un testo di dieci anni fa in Wordstar. Terzo, l'inflazione per iper-riproducibilità dei documenti: portando all'estremo un processo già avviato con le fotocopie, il documento perde l'aura che deriva dalla sua unicità, e alla fine niente si conserva, o tutto si conserva in maniera casuale.
Il male può colpire archivi grandi e piccoli. Con i piccoli è inesorabile: lettere sbiadite e cartoline ingiallite possono arrivare ai nostri nipoti in scatole e cassetti, ma non un byte di memoria dei nostri computer o telefonini, a meno che i nostri figli non facciano gli archivisti e abbiano tempo da perdere. Però anche i grandi archivi sono minacciati, e non solo dai bombardamenti e dai roghi, ma banalmente da tagli e licenziamenti. Non dimentichiamo infatti che l'analogico ha un costo di produzione che può essere elevatissimo (incidere una lapide richiede tempo e denaro), ma un costo di conservazione relativamente modesto, nel caso dei libri, che comunque abbisognano di ripari dalle intemperie, o addirittura nullo, per l' appunto nel caso della lapide, che non ne ha bisogno: la conservazione è assolutamente passiva. Il digitale è l'esatto contrario: costi di produzione irrisori, e in costante diminuzione, ma costi di conservazione in crescita progressiva, per i motivi che abbiamo visto, e anche perché un libro può essere conservato da un analfabeta, come i codici di Timbuctu, protetti dal clima secco del deserto, mentre un file richiede competenze tecnologiche elevate e costantemente aggiornate. Si disegna così una curva entropica: più passa il tempo, più la manutenzione costa, più scompaiono i diretti interessati. E questa circostanza economica appare alla fine molto più decisiva di quella puramente tecnologica, perché in teoria si può salvare tutto, in pratica tutto può essere perso. Si pensi ad esempio al cosiddetto salvataggio "cloud", in cui i nostri dati vengono affidati a grandi organizzazioni che conservano in remoto; il vero problema è però non tanto che i nostri archivi cadono in mano d'altri, quanto piuttosto che questi altri possono cambiare (una azienda può venire comprata da un'altra, e con lei il nostro archivio) o possono cessare di esistere (l'azienda che salva in remoto fallisce, e buonanotte).
Con gli e-book, questo problema si estende all'editoria: Aldo Manuzio ha cessato le pubblicazioni da parecchi secoli, ma le sue edizioni sono ancora lì. Non lo stesso accadrebbe con un e-book. Sotto il profilo economico, dunque, il digitale è come il nucleare: molto conveniente, ma solo a condizione che si sia nelle condizioni di garantire una elevata manutenzione. Altrimenti bisogna prepararsi a delle catastrofi documentali parallele alle catastrofi ecologiche, e altrettanto gravi, perché dalla conservazione degli archivi dipende la sopravvivenza non solo della cultura, ma della intera società.
Che fare? Bloccare lo sviluppo del digitale è una battaglia persa e insensata, anche perché la nostra cultura è ormai intrisa in modo irrinunciabile dal digitale, che è il nostro presente e il nostro futuro. Si tratta piuttosto di trovare i modi per far sì che questo presente e questo futuro possano diventare un passato, cioè durare nel tempo. In questa partita, un ruolo centrale può essere svolto proprio dalle biblioteche, che diventano più cruciali che mai al tempo dell'e-book, come argomenta Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale di Firenze: «Gli autori e gli editori, forti anche dell'esempio di quanto avviene in campo musicale, debbono vedere nelle biblioteche un alleato in grado di far conoscere il loro lavoro anche quando cessano le campagne promozionali. Attraverso i cataloghi i lettori possono richiedere di stampare o di scaricare i file, con un pagamento che può apparire modesto, a livello di singolo, ma che consente in realtà di trasformare in long-seller anche i libri la cui vita sugli scaffali delle librerie si calcola in pochi mesi». Questo vale, a maggior ragione, per la conservazione, dove «attraverso procedure studiate a livello internazionale, le istituzioni della memoria si fanno carico della conservazione per i secoli futuri della nostra cultura».
Vorrei aggiungere due considerazioni. La prima è che la collaborazione tra biblioteche e web diventa tanto più cruciale nel momento in cui tutte le procedure della pubblica amministrazione si svolgono online, e dunque devono trovare una tutela nel tempo. La seconda è che questo sistema si può estendere agli archivi individuali, i più esposti al mal d'archivio, per esempio proponendo uno scambio in cui il privato (individui o gruppi) finanzia - nelle modalità esposte da Franco Debenedetti - la conservazione e restauro di un testo e la biblioteca assicura la catalogazione e tutela dell'archivio privato. Insomma, diversamente da altre sindromi, il mal d'archivio ha una cura: sono le biblioteche, gli archivi di stato, le università, i centri di ricerca (in Italia l'Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee sta elaborando un ambiziosissimo progetto in questa direzione) cioè gli ambiti tradizionali di creazione e trasmissione del sapere. Certo, costano. Ma molto meno di quanto costi un mondo senza memoria." (da Maurizio Ferraris, Mal d'archivio. Aiuto, stiamo perdendo la memoria digitale, "La Repubblica", 24/08/'10)

lunedì 23 agosto 2010

Il magico iPad nel paese di Alice


"Prendete Wolf Hall di Hilary Mantel e Alice in Wonderland di Lewis Carroll, non i libri stampati ma le applicazioni dette app: il software per i cellulari e l'iPad. L'app di Wolf Hall è di grande bellezza, contiene il testo ovviamente, ma il lettore può passare agevolmente all'albero genealogico dei Tudor e degli York, ad altri articoli di Mantel e a un affascinante video in cui la scrittrice discute con lo storico David Starkey. Tutto questo approfondisce e arricchisce il contesto storico del romanzo e dei personaggi.
Ma Alice per l'iPad è tutt'altra cosa. Potete lanciare torte contro la Regina di cuori, aiutare il Bruco a fumare il narghilè, far diventare Alice grande come una casa e restringerla di nuovo. Guardare il Cappellaio matto ammattire di più e gettare pepe alla Duchessa. Nelle 52 pagine dell'app ci sono 20 scene animate. Ogni immagine è stata prelevata dall'edizione originale e resa sensibile alla forza di gravità, per reagire se viene scossa, inclinata o toccata con un dito. La storia non è mai uguale alla prima volta perché sono gli utilizzatori a guidare Alice nel Mondo delle meraviglie. Il Bruco fumerà il narghilè in altro modo se inclinate l'iPad, e potete anche lanciare una seconda manciata di pepe.
Sarebbe stato semplicissimo convertire i file di testo del libro e scaricarli direttamente nell'iBookshop, ma Atomic Antelope ha voluto catturare con arte puntigliosa, per piccoli e grandi, la fantasia della storia, e ha ricreato ciò che un e-libro può e dovrebbe essere. I nuovi sistemi come iPhone e iPad, Sony Reader o Kindle, sfidano editori e autori a concepire da capo i contenuti per trasmettere l'esperienza visiva e interattiva che il libro stampato non da: testi di architettura con piante tridimensionali degli edifici, guide di viaggio con video e mappe interattive, libri per bambini con giochi e personaggi che si presentano, e così via. Il potenziale è enorme, non si tratta solo di stipare tanta parola scritta nel congegno ma di reinventarne del tutto il contenuto.
Per ora, ci viene offerto poco più di un libro su un supporto elettronico, ma la novità di girare le pagine pigiando su un tasto svanisce presto. Senza un materiale più ricco e un'esperienza di altro livello, che senso ha ritoccare un po' l'aspetto a stampa per adattarlo ai media elettronici? Autori ed editori devono tornare al tavolo da disegno e nel momento in cui nascono le idee riflettere su come usare, o meno, questi nuovi giocattoli. (...)
Per capire come sfruttarli al meglio, sono tornato all'origine e ho analizzato la mia produzione di matematico e di scrittore. Come si dice in gergo, devo "fornire contenuto" nelle forme più diverse e alle persone più diverse e numerose possibile. Dimostro teoremi, presento trasmissioni in radio e in televisione, intervengo in scuole e università, carceri e ministeri. Collaboro con troupe teatrali e compositori per creare rappresentazioni artistiche che esplorano temi matematici, con specialisti di video-giochi per creare Mangahigh, una scuola on-line che consente agli studenti di impossessarsi della matematica giocando. Ora la tecnologia coinvolge i suoi utilizzatori al punto che posso portare parte della mia esperienza in televisione e con il pubblico nei libri che scrivo. Avrei potuto scrivere l'ultimo, The Num8er My5teries (Harper Collins), prima dell'era digitale, dei cellulari e dei lettori di e-book collegati al web. Ma queste possibilità ormai ci sono e insieme al libro viene lanciata un'app di gioco interattiva, per la prima volta posso usare la tecnologia per rendere viva la matematica, e illustrare in tempo reale problemi come finora è stato fatto solo a stampa o di persona. Mentre scrivevo, mi sono reso conto che il libro lottava per liberarsi dai vincoli della pagina. La matematica non è uno sport per spettatori, bisogna sporcarsi le mani, esplorare, indagare, giocare e arrivare al proprio "eureka". Nel libro ci sono esperimenti con la dinamica della crescita di popolazioni che si apprezzano meglio quando si fanno di persona e giochi di cui il lettore può testare le strategie matematiche sull'app. Vuol ancora fornire un'esperienza letteraria tradizionale, essere un posto dove immergersi per qualcosa di più di pochi clic sulle pagine del web. È ancora lineare, la trama porta da A a B, ma aspira anche a coinvolgere più di un libro. Come scrive Clay Shirky nel suo nuovo saggio, Cognitive Surplus, l'internet, i videogiochi e i portatili stanno creando una generazione di attivissimi produttori e di diffusori di contenuti, al posto dei consumatori passivi. Le nuove tecnologie non ci rendono affatto più stupidi, ci impegnano direttamente nella costruzione di un mondo più democratico e creativo.
Gli e-book e le app permettono di riprogettare dei testi in funzione degli strumenti che la gente usa per scriversi, parlarsi, giocare e twittare e per un autore significa poter raggiungere persone che mai comprerebbero un libro. Gli editori e l'industria dei videogiochi che prima non avevano nulla da dirsi hanno cominciato a conversare. E il futuro promette ben altro. Una delle promesse che più mi incuriosiscono è quella di usare i social network per condurre esperimenti di massa in cui spiegare la scienza di cui parla un libro. È già possibile scaricare un'app per partecipare al progetto Galaxy Zoo e aiutare gli astronomi a esplorare l'universo. Con Twitter and Facebook si possono formare gruppi accomunati dall'esperienza della lettura di un particolare libro. L'app con la quale leggere gli album di Scott Pilgrim sul cellulare, sfrutta già la potenza dei social network per far dialogare i lettori che utilizzano come avatar i personaggi degli album.
Da secoli autori e compositori tentano di coinvolgere in qualche modo il loro pubblico nell'atto della creazione, o per lasciarlo navigare come vuole attraverso un brano per creare una composizione personale e unica. Qualche problema c'è com'è evidente nel caso del Musikalisches Würfelspiel di Mozart, un gioco musicale che per ogni risultato di un lancio di dadi (l'app c'è già) produce un valzer diverso: in totale circa 46 milioni di miliardi di valzer. Suonati l'uno dopo l'altro richiederebbero 200mila ore di ascolto, ma nessuno è paragonabile alle composizioni sulle quali Mozart esercitava un controllo assoluto. Credo che il miglior riassunto degli ostacoli incontrati da questi tentativi sia quello del matematico Henri Poincaré: «Creare consiste precisamente nel non fare combinazioni inutili. L'invenzione è discernimento, scelta... Le combinazioni sterili neppure si presentano alla mente dell'inventore». Questo non significa che le nuove tecnologie non gratifichino i lettori, dando loro la possibilità di navigare in proprio nella narrazione, ma sono difficili da usare senza interrompere l'esperienza, un po' come la televisione che cerca tuttora qualcosa di creativo da fare con il pulsante rosso (?) per esaltare l'esperienza dello spettatore invece di frustrarla. I maggiori progressi con la narrazione interattiva sono stati compiuti dai videogiochi: Heavy Rain per la Playstation3 prevede scelte in vari punti e i giocatori si sentono partecipare a un film noir continuo e diverso per ciascuno di loro. Poiché siete responsabili della morte di un personaggio di primo piano nelle sequenze finali, siete più coinvolti emotivamente. In Fable II per l'Xbox il vostro personaggio subisce un morphing, diventa più o meno cattivo, più grasso o più magro, a seconda delle vostre azioni. Organizzazioni come l'Independent Game Developers' Association stanno ora cercando «fornitori di contenuto» tradizionali per collaborare a progetti digitali e alcuni scrittori hanno voglia di provarci. Graham Joyce, quattro volte vincitore del premio British Fantasy, è sotto contratto dal 2009 per scrivere la sceneggiatura di Doom 4, e collaborazioni analoghe cominciano ad abbattere le barriere tra editoria e industria dei videogiochi. (...)
Uno dei temi centrali di The Num8er My5teries è il potere della matematica di calcolare gli eventi successivi, purtroppo non serve a prevedere la forma che i libri assumeranno ne prossimi decenni. È improbabile che cambi la natura della finzione letteraria, ma nuovi sviluppi editoriali sono inevitabili perché le cose stanno cambiando rapidamente. Come ogni scrittore sto già pensando al prossimo libro, ma quando uscirà potrebbe essere assai diverso da quello che vi aspettate." (da Marcus Du Sautoy, Il magico iPad nel paese di Alice, "Il Sole 24 Ore Domenica", 22/08/'10; trad. di Sylvie Coyaud)

Marcus Du Sautoy su IBS

sabato 21 agosto 2010

Dublinesque di Enrique Vila-Matas



"Enrique Vila-Matas è uno dei più grandi scrittori del mondo. Nel suo Paese, la Spagna, è idolatrato, in Francia è oggetto di devozione. Ma in Italia è ancora - ingiustamente - considerato uno scrittore di nicchia. Bartleby e compagnia, il romanzo che l'ha fatto conoscere al grande pubblico, è stato tradotto in ventisette paesi, dagli Stati Uniti alla Cina. Ed è da allora, anno 2000, che è nato nel mondo il fenomeno Vila-Matas, scrittore tra i più raffinati, uno dei pochissimi a riuscire coniugare vocazione letteraria e grande leggibilità, romanzo erudito e romanzo esistenziale. Borges e Cervantes, citazionismo e ironia.
Bartleby e compagnia andava fino in fondo al grande enigma rappresentato da quegli scrittori che, per chissà quale oscura ragione, un giorno si sono sottratti al mondo, smettendo di scrivere, celandosi a tutto. [...]
E ora torna in libreria con un altro romanzo Dublinesque (Feltrinelli) che in Spagna è già stato un caso. Ma qui a scomparire non sono gli scrittori, né le persone. A scomparire sono i libri. Nessun rogo, per loro, ma più prosaicamente, e più mestamente, la caduta in disgrazia. Colpiti alle spalle da una scure tecnologica. Internet, il libro digitale, dunque, contro la carta.
Sotto una nube fallimentare, il protagonista, l'editore Manuel Riba, parte per Dublino con un manipolo di amici per celebrare il funerale dell'Era Gutenberg, l'era del libro cartaceo. La data del viaggio è il 16 giugno, ovvero il Bloomsday, il giorno in cui si svolge l'Ulisse di Joyce. Al ritorno lo aspetta la chiusura della casa editrice di cui è proprietario. Il gruppo, che dalla Spagna s'invola verso l'Irlanda, ha un nome - i Cavalieri dell'Ordine di Finnegan's - che non è legato al Finnengan's Wake, l'ultimo e intraducibile libro di Joyce, ma - ironicamente - al nome di un pub di Dublino.
Google contro l'Ulisse, anche se tra i due la distanza è meno abissale di quanto si potrebbe pensare. Per discutere di questo e di altro abbiamo incontrato Enrique Vila-Matas a Portovenere, dove era stato invitato a parlare di come si possa 'scomparire il più discretamente possibile'.
In questo periodo infuria la polemica sugli e-book, che metterebbero in serio pericolo l'esistenza del libro così come lo conosciamo. Lei che ci ha raccontato di come si possa scomparire nel nulla, di come si possa venire inghiottiti in imprevedibili buchi neri, crede davvero che ora tocchi al libro scomparire? 'Non credo, ma è una paura del mio protagonista, Samuel Riba. Non ho di queste paure. Penso piuttosto che per i romanzieri il web rappresenti un'occasione, una nuova dimensione. Uno spazio temporale che prima non esisteva. Lo stesso Dublinesque non arebbe stato concepibile, senza questa dimensione. Navigo di continuo, per fare ricerche, per le consultaizoni che non posso fare in altri luoghi. Uso internet come enciclopedia e contemporaneamente come biblioteca. E per concepire i miei romanzi attraverso vere e proprie investigazioni. Proprio come farebbe un autore realista, che si mette in viaggio e va a cercare. Faccio lo stesso, ma con il web. Ma è un fatto recente, il mio rapporto con la tecnologia non ha molti anni'.
Quindi non è la tecnologia che uccide i lettori? 'Non è quello il problema. Anzi, la tecnologia è utile perché permette di fare cose altrimenti impossibili. E' piuttosto l'editoria, così come oggi è concepita, a modificare i lettori'.
A proposito di Dublinesque, citiamo: 'Sogna il giorno in cui la rottura dell'incantesimo del bestseller lascerà spazio alla ricomparsa del lettore di talento. (...) Ritiene che se si pretende talento da un editore letterario o da uno scrittore, lo si deve pretendere anche dal lettore'. 'Un tempo il lettore attivo non era affatto raro. Le persone che leggevano Joyce, Proust, Faulkner, erano tantissime, a dispetto di quello che oggi si potrebbe pensare. Era un tipo di lettore che oggi esiste ancora ma sta scomparendo, rimpiazzato da un lettore passivo. Il lettore attivo partecipa al libro, lo completa, e aiuta l'autore con la propria intelligenza, contribuisce in maniera concreta alla buona riuscita del libro stesso. Perché ci mette dentro il proprio sapere e la propria esperienza. Entra in contatto, e spesso, anche in contrasto diretto con l'autore, con l'opera che ha scelto di avere tra le mani'. [...]
Manuel Riba 'sogna un giorno in cui la rottura dell'incantesimo del bestseller lascerà spazio alla comparsa del lettore di talento e al siglare di nuovo i termini del contratto morale tra autore e pubblico'. Tutta colpa dell'editoria da bestseller? 'Non solo. I grandi gruppi editoriali affiancano per fortuna l'editoria da grandi numeri a quella di qualità. Escono bestseller, ma accanto a quelli anche i romanzi di Philip Roth, che sono di qualità e fanno anche grandi numeri. Per il momento va ancora bene. Dovremo allarmarci il giorno in cui non ci saranno più due filoni - bestseller e qualità - ma uno soltanto. Secondo me esiste davvero una relazione tra la natura del lettore - il suo essere attivo o passivo - e il leggere bestseller. Quest'ultimo è un lettore meno attivo'.
Forse un lettore che legge 'soltanto' bestseller ... Perché si potrebbe obiettare che ci sono lettori forti che leggono 'anche' bestseller ... 'Sì, certo. Ma un'idea piuttosto diffusa è che leggere Dan Brown o altri del genere sia soltanto un inizio: dopo Dan Brown e grazie a lui, il lettore arriverà a Proust, Joyce, Faulkner. Ecco, per chi legge esclusivamente bestseller non credo sia vero. Uno così si infila dentro un vicolo cieco, e da lì non lo smuovi: chi legge bestseller dopo leggerà altri bestseller. E basta'.
L'editore però forse dovrebbe avere il coraggio di rischiare, e lo fa semrpe di meno. Esiste una forma di repsonsabilità dell'editore, nel contribuire a nutrire, libro dopo libro, la coscienza dei lettori? O no? 'L'editore dovrebbe avere un ruolo sociale, certo. Il modo mgliore per farlo è non pensare che i lettori siano degli imbecilli. Dovrebbero piuttosto dare loro molta fiducia. Il lettore diventa quello che legge, e se si ha il coraggio di rischiare, poi si viene ripagati'.
Parla per esperienza personale? 'Dublinesque in Spagna ha avuto moltissimi lettori, pur appartenendo di per sé al settore letterario, non commerciale. Qualcuno ha detto di me, e gli sono grato, che scrivo per una grande minoranza, e forse è ciò che bisognerebbe fare: pubblicare libri per una grande minoranza di lettori'." (Andrea Bajani, Vila-Matas: 'Scrivo per una grande minoranza', "D La Repubblica delle donne", "La Repubblica", 21/08/'10)

Da Gutenberg a Google: Vila-Matas al Festival della mente di Sarzana

Un futuro da Novecento (Il Sole 24 Ore)

Il cerchio imperfetto


"Da una parte la solitudine «sempre più totalitaria» («Soffro di essere del tutto solo, e di non sentire intorno a me che odio»), dall'altra una partecipazione sempre mite e vigilata. Da una parte gli abissi della nevrosi (il «cuore stretto da una mortale incomprensibile angoscia») lenita dall'assunzione di farmaci a base di morfina che danno dipendenza, dall'altra i più fisiologici intralci di una sfiducia (o «crisi di fiducia») compensata dall'amicizia e dalle cure familiari. Da una parte una sostanziale (e persino disarmante) sicurezza di giudizio, dall'altra le esitazioni e le perplessità di chi non si sente mai del tutto a posto. Da una parte la coscienza del proprio valore, dall'altra una specie di paura, il «qualcosa che mi ferma», come ha evocato una volta Lalla Romano in un suo ricordo molto bello. Da tutte e due le parti l'onestà e la chiarezza del sentire profondo, la diffidenza antimondana, la severità e la sobrietà delle parole essenziali: ciò che significa una lezione di decenza umana e intellettuale prima che letteraria.
In sintesi estrema è il doppio ritratto che scaturisce dalla lettura del carteggio tra Umberto Saba e Vittorio Sereni, Il cerchio imperfetto. Lettere 1946 - 1954 (39 le lettere di Saba, 19 di Sereni), sono otto anni cruciali di storia personale e nazionale che Cecilia Gibellini ha pubblicato da Archinto con un occhio rivolto non solo agli studiosi (testo, note, appendici, indice dei nomi), ma anche al lettore curioso messo in condizione di trarne il suo vantaggio.
Sereni lettore di Saba è un paragrafo non certo minimo della nostra storia letteraria (la dichiarata fedeltà a una lettura «che continuerà per tutta la vita»), anche se questo carteggio non serve soltanto a documentare il pur intenso dialogo di due grandi poeti che si trattano ormai di lontano (dopo essersi frequentati nel periodo in cui Saba abitò a Milano), ma a sottolinearne le pieghe più segrete, a smascherarne gli umori, a rivelarne momenti di vita vissuta, di intese imperfette, di affinità contraddittorie, di solide e affettuose discontinuità.
E anche di opinioni politiche come quando - in occasione del Fronte Popolare - Saba sottoscrive la più ardita delle sue provocazioni: «Del resto so benissimo che, se i comunisti fossero al potere, mi lascerebbero vegetare, o mi metterebbero al muro. Ma se da una parte vedessi i preti pronti ad incensarmi e dall'altra il plotone d'esecuzione comunista, scegliere ancora quest'ultimo».
Saba è più dolorante ma più deciso. Sereni più deferente ma mai arreso. Saba dà a Sereni del tu, chiamandolo sempre col nome (caro, mio caro, carissimo Vittorio). Sereni a Saba dà sempre del lei chiamandolo inderogabilmente col cognome (caro Saba).
Da parte di Sereni un rispetto senza deroghe, da parte di Saba un affetto senza lesine: «Tu sai che, degli amici di Milano (intendo di quelli che mi ero fatti a Milano negli ultimi tempi) mi sei stato, e mi sei, il più caro, e che, quando venivo a Milano, cercavo solo di te».
Saba è già il poeta che è. Vive a Trieste aggiogato al lavoro della libreria antiquaria («dove soffro di non poter strozzare uno - almeno un - cliente») e accresce il suo Canzoniere pubblicando Mediterranee e Uccelli. Mentre il più giovane Sereni, che a Milano fa l'insegnante per poi passare al settore pubblicitario della Pirelli (prima di trasferirsi alla direzione letteraria di Mondadori), è il poeta di Frontiera (titolo che Saba strapazza ripetutamente per una sua idiosincrasia) e arriva a pubblicare Diario d'Algeria. Ma Saba ama di più le sue prose («Vorrei che tu scrivessi più prosa») e le loda più delle poesie che non giudica sempre persuasive: «Sereni è bello quando è nudo; invece molte volte egli si esibisce vestito, e di vesti che si riconoscono non sue a un miglio di distanza».
E tuttavia il più alto elogio alla poesia di Sereni Saba lo pronuncia affermando e confermando di volere come epigrafe sulla sua tomba i tre versi finali di Solo vera è l'estate e questa sua, compresa in Diario d'Algeria (non senza una variante che conferma il suo bisogno di intervenire): «Ora ogni fronda è muta, / fatto il guscio all'oblio, / perfetto il cerchio».
Giustappunto i versi da cui - con callida variazione - il titolo del carteggio è stato felicemente desunto." (da Giovanni Tesio, “Carissimo Vittorio, solo vera è l’estate”, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/08/'10)

Diario di lettura: Nanni Balestrini


"La vita intellettuale di Nanni Balestrini è stata scandita dalle riviste. Cominciò col verri poi arrivarono Quindici e la prima Alfabeta. E ora alfabeta2. Sono quattro Italie molto lontane l'una dall'altra. «Il verri fu l'apertura all'estero; Quindici fu la fine della neoavanguardia e il momento di un'azione più diretta: dopo il Sessantotto mi sono sostanzialmente dedicato alla politica. Verso il 1976-77 inventammo “Area”: una federazione di piccoli editori che ebbe ottimi risultati commerciali e alla quale nel '78 venne posta la parola fine da pesanti interventi politici. Insieme ai transfughi di “Area” pensammo che occorreva reagire al dilagare della repressione, alle leggi speciali. Con Paolo Volponi, Maria Corti, Antonio Porta, Gianni Sassi, Mario Spinella e altri partivamo proprio dall'eterogeneità dei nostri percorsi: eravamo uniti dall'emergenza in atto. Non è un caso che feci in tempo a realizzare solo il primo numero di Alfabeta, nell'aprile del '79: mentre andava in stampa venni coinvolto nel processo "7 aprile" e dovetti lasciare l'Italia. Il fascicolo lo ricevetti per posta, a Parigi. In quel periodo ho conosciuto bene Gilles Deleuze e Félix Guattari: Mille Plateaux fu un'altra lettura decisiva, con la sua visione "plurale" sia dell'individuo che della società, percorsi da forze propulsive di liberazione: una grande opera politica. Dopo il processo e l'assoluzione, nel 1984 rientro in Italia ma per alcuni anni continuo a vivere più in Francia: lì mi sono dedicato con continuità all'arte visiva, che è poi oggi la mia attività prevalente. Sin da quando ho cominciato a scrivere poesia considerare la parola come oggetto ha portato con sé la pratica del ritaglio e del collage. Ma ho fatto tante altre cose: programmi televisivi, la prima web-tv culturale, eccetera».
E oggi, come mai di nuovo una rivista, «alfabeta2»? «L'idea ce l'ho da qualche anno. Con Eco e altri ci siamo decisi constatando una situazione italiana sempre più incancrenita, una cultura sempre più degradata. Gli intellettuali non possono più starsene a contemplare il naufragio, ci vuole un Sos. Come nella prima Alfabeta occorre mettere assieme diverse generazioni: ci sono la mia, la tua, quella di mezzo e poi i più giovani, che saranno l'anima del sito: tutt'altro che una vetrina della rivista cartacea ma al contrario il suo vero motore. Che alfabeta2 sia stata attaccata da più parti vuol dire che non lascia indifferenti; ma nella maggior parte dei casi c'è stata un'accoglienza entusiasta, persino sorprendente. Che sta a noi non deludere».
Sembra esserci qualcosa di non italiano in Balestrini, al di là dell’aspetto e delle origini famigliari. Come se fosse sempre in fuga, o comunque velocemente di passaggio ... «Mia madre era tedesca ma si trasferì in Italia quando sposò mio padre, industriale chimico. Ho vissuto a Milano, Roma, Parigi e Berlino e le sento tutte città mie. Dove faccio delle cose, lì sto bene. Più importante è essere stato giovane negli Anni Cinquanta, un nuovo Rinascimento europeo. Da noi arrivavano dirompenti cose stranote all'estero come i Cantos di Pound o
l'Ulisse di Joyce. Ho cominciato a scrivere poesie nell'adolescenza,
effusivamente, come si fa in quell'età; qualcosa che con la poesia vera e propria, con l'arte del linguaggio, ovviamente non aveva niente a che fare».
Caosmogonia, uscito quest'anno nello «Specchio» Mondadori, dispiega pienamente quest'«arte del linguaggio ...». «Nei primi componimenti le parole di Bacon, Cage e Godard mi servono per dichiarazioni di poetica, o di etica se si vuole. La parte centrale è per me abbastanza nuova, un flusso verbale legato all'inconscio. Come piace dire a Umberto Eco, usando da sempre il collage verbale non ho mai scritto una parola di mio; è un'esagerazione ma c'è del vero, perché anche le parole mie le ho sempre usate in modo impersonale. Qui ho lasciato parlare il mio inconscio come fosse un estraneo».
'Make it new!' di Pound fu lo slogan decisivo, insomma. Era l'autore di culto della vostra couche milanese ... Vanni Scheiwiller, Aldo Tagliaferri, Leo Paolazzi cioè il futuro Antonio Porta ... «Ricordo bene una lettura di Pound a Milano: il suo ritmo come un basso continuo corporeo, una specie di mantra sonoro. Proprio Pound, come critico, ci insegnò che un classico come L'educazione sentimentale anticipava l'epica del quotidiano dell'Ulisse. Il romanzo di Flaubert mi affascinava dalla giovinezza ... una scrittura che annega l'illusione romantica nella banalità quotidiana, una struttura senza trama e senza eroi che sfilaccia l'esistenza borghese in una consapevolezza di inutilità, corruzione e fallimento ... A scuola, al Liceo Scientifico Vittorio Veneto di Milano, ho poi avuto la fortuna di avere Luciano Anceschi come professore di filosofia. Era il 1952; Anceschi si interessò ai miei primi versi e divenni il ragazzo di bottega della rivista il verri, alla sua fondazione nel '56. Nello stesso anno lessi Laborintus di Sanguineti; lui aveva solo cinque anni più di me ma io l'ho subito considerato il mio maestro; in effetti l'ho sempre chiamato così, “Maestro”».
Nella neoavanguardia al nome Balestrini resta legata una spinta al fare, all'organizzare. «È un po' la mia croce. Quando si trattava di organizzare convegni, festival, riviste nessuno ne voleva sapere; mi ci incastravano tutte le volte, finché è parso naturale che me ne occupassi sempre io. Poi il lavoro editoriale mi ha insegnato qualche trucco del mestiere».
Quell'editoria era già un fenomeno industriale, ma assai diverso da oggi. «Negli Anni Sessanta comincio a lavorare alla Feltrinelli dove incontro un personaggio straordinario come Giangiacomo. Sono stati anni appassionati, anni felici, anni straordinari. Ma anche da Einaudi e Bompiani lavoravano tanti intellettuali della mia generazione, giovani scrittori con ruoli decisionali. La dimensione del mercato c'era anche allora, certo; ma scoprire la letteratura sudamericana o quella tedesca - insieme a Valerio Riva ed Enrico Filippini - significava esercitare l'immaginazione imprenditoriale e, insieme, fare una scommessa culturale. Per Feltrinelli, poi, l'interesse culturale e quello politico erano una cosa sola. Si potevano pubblicare libri fuori del mercato, come quelli della neoavanguardia, perché li si considerava culturalmente importanti. La fine di questo sistema è legata alla scomparsa dei fondatori; le loro case editrici ora sono società gestite da amministratori ...».
... nell'editoria di oggi, i libri sono concepiti come armi di intrattenimento di massa ... «...come si vede anche in politica, in Italia ci adeguiamo sempre al livello più basso. All'estero l'editoria di massa si fa benissimo ma si mantiene vivo anche un settore letterario, dal pubblico più limitato ma consistente. Da noi si fa finta che non esista, questo pubblico diverso; anzi lo si respinge, evitando di pubblicare libri in quella direzione o presentandoli come opere d'evasione. Gli autori esordienti vengono normalizzati dall'editing, così amputandoli delle loro potenzialità. Viviamo nel dogma capitalista della produttività ma è proprio il mito dello sviluppo a causare le crisi di sovrapproduzione: si incoraggia la gente a indebitarsi sino a che la bolla esplode. Anche in editoria ci sono troppe pubblicazioni, si va avanti a forza di anticipi della distribuzione poi al momento delle rese ci si trova coi debiti fino al collo ...». ... è la corsa dei lemming verso la scogliera." (da Andrea Cortellessa, 'Pound e Joyce, il mio Rinascimento', "TuttoLibri", "La Stampa", 21/08/'10)