martedì 21 agosto 2012

The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore




"Da app a cortometraggio d'animazione, che ha perfino vinto un Oscar. Per poi diventare libro illustrato, appena uscito in libreria per Simon & Schuster. Ma non è finita qui: grazie ad una nuova applicazione chiamata Imag-N-O-Tron, i disegni di The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore dei Moonbot Studios ora possono prender vita se inquadrati con la fotocamera dell'iPhone e dell'iPad. E questo significa personaggi che compaiono fra le pagine all'improvviso, musica e suoni, piccole animazioni che si aggiungono alle tavole. Tutto grazie alla cosiddetta "realtà aumentata", augmented reality, tecnologia che sovrappone elementi digitali a quel che ci circonda quando viene guardato attraverso una webcam, uno smartphone o un tablet. Parlare di nuovo genere letterario tout court forse è una esagerazione. Ma considerando la statura dei personaggi che stanno lavorando a questo tipo di libri il dubbio viene. Cominciando da Joanne Rowling, l' autrice della saga di Harry Potter, che assieme alla Sony ha concepito Book of Spells per PlayStation 3, atteso per questo autunno.
«È cominciato tutto due anni fa», racconta Dave Ranyard, omone dall'accento britannico a capo del team che ne ha curato la realizzazione. «Stavamo lavorando con la Rowling al suo social network, Pottermore, e le mostrammo un prototipo di libro a realtà aumentata. A lei piacque e decise di scrivere un volume di incantesimi». E così, impugnando il controller move della PlayStation 3 come fosse una bacchetta magica, potremo interagire con la storia di Book of Spells facendo sorgere dalle pagine castelli e draghi, toccando parole chiave del testo, lanciando sortilegi e saette. «È un versione moderna dei libri pop-up di una volta, arricchita dalla potenza del digitale e con una trama completamente nuova legata all'universo di Harry Potter», continua Ranyard. Il libro fisico, un volume con quattro pagine pieno di loghi da porre davanti alla webcam collegata alla console, sarà gratuito. Il software che permetterà di animarlo invece avrà lo stesso prezzo di un videogame tradizionale, dunque 60 euro circa. Che sono tanti per un libro, anche se a "realtà aumentata". Ma alla Sony sono fiduciosi. Puntano sul nome e non solo quello della Rowling. Già, perché Book of Spells è solo il primo. Ne seguiranno altri, da Walking with Dinosaurs della Bbc a Diggs Nightcrawler, realizzato guarda caso proprio dai Moonbot Studios. Un noir scritto dallo stesso William Joyce, che Newsweek nel 2011 nominò fra le cento personalità più influenti in circolazione. Uno capace di passare con nonchalance dalle illustrazioni, pubblicate spesso e volentieri sul New Yorker, ad animazioni hollywoodiante del calibro di Toy Story. Per poi fondare i Moonbot Studios con Brandon Oldenburg, mago degli effetti speciali. Certo, i limiti di questa nuova letteratura sembrano ancora tanti. Bisogna per forza passare per uno schermo, quello della tv o dell' iPhone, e non sempre il sistema funziona a dovere, soprattutto nei volumi di Sony, chiamati Wonderbook. Ma in prospettiva è un genere che potrebbe diventare importante. Perché tutti stanno puntando alla realtà aumentata, cercando di superare smartphone e webcam. Basti pensare agli occhiali di Google, i Google Glass, che usciranno nel 2013. O ai Fortaleza Glasses, che Microsoft pare stia sviluppando. E anche Apple e Sony hanno registrato brevetti per dispositivi del genere. Insomma, dai contenuti alle tecnologie, i protagonisti coinvolti non sono esattamente nomi qualunque." (da Jaime D'Alessandro, Magie ed effetti virtuali. La doppia vita del libro. "La Repubblica", 18/08/'12)

martedì 14 agosto 2012

A Life with books


Julian Barnes: my life as a bibliophile (The Guardian)


"Ho vissuto nei libri, per i libri, secondo i libri e con i libri; in anni recenti ho avuto anche la fortuna di vivere di libri. Ed è attraverso i libri che per la prima volta ho capito che esistevano altri mondi oltre il mio; che ho cercato per la prima volta di immaginare cosa si prova nei panni di un altro; che per la prima volta ho incontrato quel legame profondamente intimo che nasce quando la voce di un autore si insinua nella mente di chi lo legge. È stato forse un bene che i primi dieci anni della mia vita non abbiano conosciuto la concorrenza del televisore; e che quando a casa finalmente ne arrivò uno, rimase sotto lo stretto controllo dei miei genitori. Erano entrambi insegnanti, quindi il rispetto per i libri e ciò che contenevano erano impliciti. Non andavamo in chiesa, ma andavamo in biblioteca. (...) Possedere un certo libro - un libro che ti eri scelto da solo - equivaleva a un atto di autodefinizione. E quella autodefinizione andava protetta, fisicamente. Per questo coprivo i miei libri preferiti (in edizione inevitabilmente economica, per motivi di ristrettezze finanziarie) con una pellicola adesiva trasparente. Prima ancora, però, in un corsivo recentemente acquisito, annotavo il mio nome sul margine della parte interna della copertina con un inchiostro blu, sottolineandolo di rosso. Tagliato e adattavo poi la pellicola in modo che questa proteggesse anche la firma che stabiliva la proprietà del volume. Alcuni di questi libri - ad esempio le traduzioni dei classici russi di David Magarshack per la Penguin - si trovano ancora oggi sui miei scaffali. L'autodefinizione era una sorta di magia. Lentamente, con il tempo, ne conobbi un' altra: quella del libro usato, di seconda mano, non nuovo. Ricordo una fila di prime edizioni di Auden esposte nella vetrina di un vicino di casa: un uomo che decenni prima aveva realmente conosciuto quell' autore, insieme al quale aveva addirittura giocato a cricket. Circostanze che mi sembravano strabilianti. Non avevo mai poggiato lo sguardo su uno scrittore, né avevo mai conosciuto una persona che ne avesse incontrato uno. Mi era capitato forse di sentirne uno o due alla radio, e vederne uno o due alla televisione, intervistati a 'Faccia a faccia' da John Freeman. Ma il nesso più intimo che collegava la mia famiglia e la letteratura era rappresentato dal fatto che mio padre aveva studiato lingue moderne all'università di Nottingham, dove insegnava Ernest Weekley, la cui moglie era scappata con D. H. Lawrence. Oh, e una volta mia madre aveva scorto su un binario della stazione di Birmingham R. D. Smith, marito di Olivia Manning. Ora però mi trovavo di fronte a dei libri appartenenti a un uomo che aveva conosciuto di persona uno dei più famosi poeti viventi del Paese. Non solo: quei volumi contenevano le parole di Auden così com' erano state scritte in origine. Percepivo acutamente questa magia, e provai il desiderio di possederne una parte. Così, a partire dagli anni dell' università divenni un collezionista, oltre che un fruitore, di libri - e scoprii che non tutte le librerie erano di proprietà di WH Smith. Nei dieci anni che seguirono, o giù di lì - dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta - divenni un instancabile cacciatore di libri. Mi recavo nelle cittadine dei mercati e nelle città delle cattedrali alla guida della mia Morris Traveller, che caricavo di libri acquistati a un ritmo che eccedeva di gran lunga quello di ogni possibile velocità di lettura. (...) Già a quell' epoca probabilmente preferivo i libri usati a quelli nuovi. In America li chiamavano con disprezzo "libri vecchi", ma era proprio a quella continuità di fruizione che dovevano parte del loro fascino. Un libro offriva la sua visione del mondo a una persona, poi a un'altra, e così via per generazioni; mani diverse avevano stretto lo stesso volume traendone degli insegnamenti talvolta uguali, talvolta diversi. I libri usati dimostravano la loro età: tradivano i segni del tempo così come la pelle degli anziani è costellata da macchie senili. Inoltre avevano un buon odore - anche quando puzzavano di sigarette e (occasionalmente) di sigaro. Molti poi rivelavano al loro interno delle testimonianze odorose: annunci di case editrici ormai scomparse e vecchi segnalibri - spesso con la réclame di qualche compagnia di assicurazione o della saponetta Sunlight. Ogni volta che potevo mi recavo a Salisbury, Petersfield, Aylesbury, Southport, Cheltenham o Guildford per infilarmi nel retro dei negozi, nei magazzini e nei depositi. Nei luoghi dove le rilegature erano pregiate o la consapevolezza del valore di ogni articolo in vendita troppo acuta, mi trovavo decisamente meno a mio agio. Preferivo il democratico disordine di un negozio le cui merci erano disposte approssimativamente e dove fosse possibile concludere buoni affari. A quei tempi il turbinoso avvicendarsi dei titoli che la gestione centralizzata delle librerie impone non esisteva, nemmeno nei negozi che vendevano libri nuovi. Oggi un nuovo romanzo in edizione cartonata rimane sugli scaffali di una libreria in media per quattro mesi - sempre che riesca ad approdarvi. A quell'epoca invece i libri sostavano sugli scaffali sino a quando qualcuno li comprava, o non erano messi a malincuore in offerta, o trasferiti al reparto dell' usato, dove potevano rimanere per anni. Spesso quel libro che non potevi permetterti o non eri sicuro di desiderare sul serio era ancora lì al tuo ritorno, l'anno successivo. I negozi di seconda mano insegnavano inoltre che uno scrittore può finire fuori moda. Morgan, Walpole, Yates, Lytton, Ellen Wood ... metri e metri di scaffali delle loro opere attendevano che il vento della moda cambiasse nuovamente direzione. Ma accadeva di rado. Acquistavo libri con una foga che con il senno di poi riconosco essere stata una sorta di dipendenza: la bibliomania dopotutto è un disturbo noto. L'acquisto dei libri consumava di certo più della metà del mio reddito disponibile. Compravo le prime edizioni degli scrittori che più ammiravo: Waugh, Greene, Huxley, Durrell, Betjeman. Compravo le prime edizioni di poeti vittoriani come Tennyson e Browning (senza aver letto né l' uno né l'altro), semplicemente perché mi sembravano incredibilmente economiche. Il mio collezionismo (o, forse, feticismo) ha iniziato a scemare dopo la pubblicazione del mio primo romanzo. Forse, inconsciamente, ho pensato che essendo ormai in grado di produrre da solo delle prime edizioni avevo meno bisogno di possedere quelle di altri. Ho persino iniziato a vendere dei libri, cosa che un tempo avrei giudicato inconcepibile. Non che questo abbia rallentato il ritmo dei miei acquisti: continuo a comprare libri più velocemente di quanto riesca a leggerli. Ma, ripeto, lo ritengo assolutamente normale: sarebbe proprio strano circondarsi solo della quantità di libri che si avrà il tempo di leggere negli anni che ci restano da vivere. Inoltre, rimango profondamente attratto dai libri e dalle librerie. Sia gli uni che le altre oggi subiscono delle pressioni enormi. In una libreria il mio ultimo romanzo vi sarebbe costato 12,99 sterline, ma circa la metà (più spese postali) se acquistato online e solo 4,79 sterline se scaricato su Kindle. I vantaggi economici appaiono incontrovertibili, ma per fortuna la lettura e l'acquisto dei libri non sono mai stati del tutto determinati da fattori economici. Verso la fine della sua esistenza John Updike era diventato pessimista circa il futuro del libro stampato: «Chi, in quel futuro inimmaginabile leggerà quando sarò morto? La pagina stampata è stata un breve miracolo durato solo metà millennio ...». Io sono più ottimista, sia per quanto riguarda la lettura che i libri. I non-lettori, i cattivi lettori, i lettori pigri esisteranno sempre - e sono sempre esistiti. La maggioranza delle persone sa leggere, ma solo una minoranza di loro fa di questa competenza un'arte. Tuttavia, nulla può sostituirsi a quella precisa, complessa, sofisticata comunione tra un autore assente e il suo lettore, assorto e presente. Né credo che gli e-reader prenderanno mai del tutto il posto dei libri - anche se dovessero superarli numericamente. Ogni libro è diverso al tatto e alla vista, mentre le opere scaricate su Kindle sono tutte esattamente uguali (benché forse un giorno gli e-reader saranno dotati di una funzione "olfattiva" che con un click permetterà al vostro romanzo elettronico di Dickens di emanare odore di carta umida, del passare del tempo e di nicotina). I libri dovranno guadagnarsi la propria sopravvivenza - e altrettanto dovranno fare le librerie. I libri dovranno diventare più desiderabili: non beni di lusso, ma oggetti ben disegnati, accattivanti, capaci di suscitare il desiderio di prenderli in mano, comprarli, regalarli, conservarli, farci pensare di rileggerli e ricordarci, ad anni di distanza, in quale edizione abbiamo scoperto qualcosa per la prima volta. Non nutro alcun pregiudizio luddista contro le nuove tecnologie; è solo che i libri sembrano contenere conoscenza, mentre gli e-reader danno l'impressione di contenere informazioni. I libri che mio padre vinse a scuola sono ancora oggi sui miei scaffali, a novant'anni di distanza. Preferisco leggere le poesie di Goldsmith su quelle pagine anziché online. Lo scrittore americano e dilettante Pearsall Smith disse un volta: «Alcune persone pensano che ciò che conta è vivere; io però preferisco leggere». La prima volta che lessi questa frase mi sembrò arguta; adesso invece la trovo - al pari di molti aforismi - una falsità ben confezionata. Vivere e leggere non sono attività separate. La loro distinzione è fittizia (come la scelta tra «perfezione della vita o perfezione del lavoro» ipotizzata da Yeats). Quando leggi un bel libro non fuggi dalla vita, ma ti ci immergi più in profondità. Esiste forse un elemento superficiale di evasione - in paesi, tradizioni, modi di parlare diversi - ma di fatto leggendo non facciamo che approfondire la nostra comprensione delle sfumature, dei paradossi, delle gioie, dei dolori e delle verità della vita. Lettura e vita non sono separate, bensì simbiotiche. E per questo impegnativo compito di scoperta e scoperta di sé esiste e rimane uno strumento perfetto: il libro stampato." (da Julian Barnes, Per noi bibliofili i libri contengono conoscenza mentre gli ebook raccolgono informazioni, "La Repubblica", 12/08/'12; traduzione di Marzia Porta; il saggio integrale A Life with books è uscito in Gran Bretagna da Jonathan Cape per la Independent Booksellers' Week)





sabato 11 agosto 2012

Dai libri illustrati alle App, così i bambini sono meno liberi


"Credo di aver imparato il significato del termine divulgazione ben dopo aver preso la patente. Quando ero bambino passavo gran parte delle mie giornate tra le pagine di ''Vita Meravigliosa'', un'enciclopedia dove gli argomenti più disparati erano esposti senza ordine: Chopin, il mosaico, i calabroni, il rame, le teleferiche. Era riccamente illustrata, e, allora come oggi, i disegni sono insuperabili per suscitare il senso di immedesimazione dei bambini e la loro curiosità. Gran parte dei miei interessi deriva da quelle giornate, e da quel genere di libri: hanno sempre rappresentato una quota di mercato minoritaria rispetto alla narrativa, ma di importanza fondamentale. Nel 2010 accanto all'80,58% di libri di fiction, le 450 novità divulgative comprendevano 16 tra dizionari ed enciclopedie, 138 libri di "natura" (animali, alberi e dinosauri), 60 biografie, storia e geografia, e quasi altrettanti libri di scienza e tecnologia (i bambini sembrano adorare i trattori). La divulgazione scientifica sembra aver tenuto il passo, pur se in una costante caduta che, a due anni di distanza dagli ultimi dati disponibili, si è ulteriormente accentuata.

Nonostante tutto, i genitori sembrano ancora apprezzarli: Anna Parola, dalla Libreria Ragazzi di Torino, lamenta come gran parte dei libri di divulgazione in Italia siano concentrati su materie non umanistiche. Va fortissimo il corpo umano, ma non la sessualità, i castelli medievali, ma non le crociate. Ci sono editori specializzati, come Editoriale Scienza e Lapis, ci sono piccoli sperimentatori (Dedalo), grandi collane (le Brutte Scienze di Salani), marchi popolari (Focus), libri fotografici (Ippocampo) e carnet di viaggio illustrati (EDT). Ma in generale "fare un buon libro di divulgazione è più difficile", ci spiegano alla storica Libreria Stoppani di Bologna. "I bambini appassionati sono attentissimi e precisi e a loro non sfugge nemmeno un errore". Colpa delle case editrici, quindi? Alla libreria Jolly di Verona, dove non si vende un libro di divulgazione da mesi, il titolare Claudio ha un'altra spiegazione: sono cambiati i genitori. Sono loro che preferiscono informarsi smanettando con gli smartphone. E i ragazzi, orfani di libri negli scaffali di casa, fanno altrettanto.
Le App divulgative per ragazzi sono un fenomeno in forte crescita, all'estero più che in Italia, dove la disponibilità di scelta è sconsolante. In una recente ricerca su 2000 genitori inglesi, il 75% ha dichiarato di condividere l'uso delle App con i figli (percentuale che sospetto salga al 100% pur di tenerli buoni al ristorante) e il 56% di possedere almeno una App richiesta dai bambini stessi. Il 37% considera, poi, le App una parte integrante del proprio capitale culturale. La maggior parte delle App divulgative sono concentrate nella fascia prescolare: per imparare lettere e parole, suoni e colori, numeri ed economia domestica. I bambini si dimostrano bravissimi a utilizzarle, è vero, ma questo è solo un aspetto. Per poter cominciare ad apprendere, infatti, occorre loro un telefono o un tablet (che costa), un genitore digitalmente competente (e se è affidato ai nonni?), che sia sempre presente (o ben presto il tablet si romperà). La curiosità del bambino, che con i vecchi libri si poteva esercitare semplicemente guardando le illustrazioni, è ora sottoposta a quella del genitore, unico in grado di orientarsi nelle librerie online, con domande tipo: esisterà una App che mi consente di insegnare a mio figlio a costruire un uccello e vederlo volare? (sì, c'è e si chiama ''Build a Bird'').

Non è comunque un'impresa facile, perché, a differenza delle librerie specializzate, i vari "store" non possiedono aree dedicate ai bambini, e i giovani aspiranti enciclopedisti dovranno saltare di categoria in categoria, prima di trovare ciò che cercano. Magari dovranno leggersi un paio di articoli per capire se ''Star Walk'', una App che per conoscere tutto di stelle e costellazioni, è adatta al suo bambino di quattro anni. E come sapere se le ricostruzioni 3D di ''Virtual History'' saranno meglio di un libro illustrato sull'Antica Roma? Chi non crede in queste formule di apprendimento arricchito ricorda bene il periodo in cui sembrava indispensabile acquistare un'enciclopedia su dvd, tipo l'Encharta di Microsoft, un fallimento spazzato via dall'intuizione collaborativa di Wikipedia, il luogo dove ogni curiosità viene soddisfatta da un'informazione ridotta al suo minimo comun denominatore, l'errore è all'ordine del giorno e la responsabilità per l'errore del tutto trascurabile.

E chi non crede nel futuro dei libri, invece, sa che per gli stessi motivi l'Enciclopedia Britannica, fiore all'occhiello della borghesia inglese, ha smesso di stampare i suoi volumi. Myron Taxman, che li ha venduti porta a porta per 28 anni, dice che "bisognerebbe comprarsi le ultime 4000 copie rimaste, e rivenderle tra un po' come oggetti di antiquariato". E chissà che non abbia ragione. Nel frattempo ci si interroga, piuttosto inutilmente, se consultare una App sia meglio o peggio che leggere un libro. Gli ultimi esperimenti (Korat, 2008) mostrano che non solo ai bambini i libri elettronici piacciono più di quelli tradizionali, ma anche che ne ricordano meglio i contenuti e sono più rapidi a rispondere alle domande di comprensione testuale. I piccolissimi (3-5 anni), imparano più velocemente a riconoscere suoni e parole, rispetto ai libri letti a voce alta da un adulto. Tutto vero, forse.

A patto che il bambino possa sempre contare su un genitore che faccia da mediatore, e che, in pratica, lo controlli in continuazione. La "macchina" delle storie, che sia un tablet o smartphone, è ancora più fragile e più pericolosa della televisione, sulla cui valenza diseducativa si sono versati fiumi di inchiostro: è perennemente connessa, e ha un numero imprevedibile di funzioni. Le possibilità di errori di utilizzo, di chiamate indesiderate, di accesso a contenuti inappropriati o a piccoli shock sono quasi le stesse delle opportunità formative, almeno fino a quando non verranno diffusi tablet pensati appositamente per i bambini (ce ne sono già alcuni, come il Fable, ma non sono molto diffusi). Quando ero piccolo io curiosavo e imparavo da solo con la mia enciclopedia illustrata (e capisco solo ora quanto fosse una posizione privilegiata), di certo più "sicura" di una di queste meraviglie e, soprattutto, che sentivo totalmente "mia".

Uno studio piuttosto interessante della professoressa Mariah Evans, dell'Università del Nevada, ha dimostrato come per avere successo a scuola possedere almeno 500 libri in casa sia due volte più importante del livello di educazione dei genitori. Il che conferma la vecchia teoria che la curiosità sia una scienza esatta, ma da coltivare da soli. Sarà vero anche tra una ventina d'anni, con un tablet munito di 500 App?" (da Pierdomenico Baccalario, Dai libri illustrati alle App, così i bambini sono meno liberi, "La Repubblica, 11/08/'12)

Brutte scienze su IBS

mercoledì 1 agosto 2012

Vila-Matas: "Solo i romanzi dicono la verità"

"Mi piacerebbe riuscire a rendere con le parole tutti quei silenzi. Il modo in cui, alla fine di una frase, Enrique Vila-Matas si fermava e mi guardava senza parlare, con i suoi occhi grandissimi. E quando finalmente mi decidevo io a dire qualcosa, lui mi interrompeva e, dal profondo del suo semplice stare, mi diceva una cosa sublime. Non si deve mai tornare su una storia d'amore finita, per esempio. Perché se ti volti indietro, se rifai la strada al contrario la prima cosa che incontrerai, di quell'amore, è la sua morte.

Nato a Barcellona nel 1948, Vila-Matas ha scritto saggi, romanzi e racconti. È uno scrittore che scrive di letteratura anche quando racconta il mondo, che non conosce il peccato di realtà. Nel salotto di un albergo elegante, mentre fuori il caldo bruciava la città, gli ho chiesto di parlarmi d'amore.

"È un argomento difficile. Vede, il tema dell'amore è strettamente legato a quello della verità. Nel 1939, un autore francese scrisse un saggio, intitolato L'amore e l'occidente (Rizzoli). Denis de Rougemont, questo era il suo nome, sosteneva che nel nostro mondo l'amore fosse fondato su un'idea narcisistica. Partendo dal mito di Tristano e Isotta, spiega che ciò di cui noi fatalmente ci innamoriamo, non è l'altro, ma l'idea stessa di amore. Che appunto prescinde dalla persona amata, ed è invece un'auto-esaltazione di colui che ama, del suo coraggio nell'affrontare gli ostacoli. Un amore-martirio, infelice e non sensuale, che si esaurisce nella passione che brucia. Questo concetto, centrale nella poesia trobadorica e i romanzi medievali, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.

C'è una scena bellissima ne Il Grande Gatsby di F. S. Fitzgerald, ce ne sono tante in verità in quello che io considero forse la più perfetta storia d'amore mai raccontata. Ma quella a cui mi riferisco è il primo incontro tra Gatsby e Daisy, dopo cinque anni. Nick ha invitato la ragazza a prendere un the a casa sua, su suggerimento di Gatsby. Vuole andarsene, lasciarli soli. Ma loro insistono che rimanga. Perché, si chiede Nick. "Forse", scrive Fitzgerald, "la mia presenza li faceva sentire più piacevolmente soli". È una frase sibillina.
Siri Hustvedt, la scrittrice moglie di Paul Auster, ha parlato di questo momento in un suo saggio. Mi piace molto quello che dice: l'amore, scrive Hustvedt, per esistere ha bisogno di essere visto. È una coppia composta da tre persone. Forse essere innamorati, amare, è una condizione talmente ineffabile che solo un testimone può renderla credibile, reale. Forse Daisy aveva bisogno di Nick per "vedere" il suo amore per Gatsby".

Si possono raccontare solo gli amori infelici?

"Non necessariamente. Nabokov per esempio è uno scrittore che ha saputo descrivere anche amori leggeri, compiuti. Però è vero che i più bei romanzi d'amore raccontano di passioni che spezzano la vita. Amori che sono malattie, come quello tra Heathcliff e Catherine, in Cime Tempestose di Emily Bronte. Eterni, indissolubili. Amori disperati, come quello di Adele H, la figlia di Victor Hugo, per quello stupido tenente francese, nel film di Truffaut. Il più sublime esempio di amore che trascende la vita stessa, è quello raccontato da Hitchcock in Vertigo (La donna che visse due volte). Il legame che unisce il protagonista, James Stewart a Kim Novak, nel doppio ruolo di Madeleine/Judy. Chi è la donna di cui davvero lui si innamora? Un fantasma del passato che lui ricostruisce con pazienza nel corpo di lei, trasformandola in quello che il suo desiderio sta cercando. Questa storia ci rivela la complessità e il mistero di quello che chiamiamo l'amore passionale. Che si contrappone all'amore quieto e razionale che costituisce la base dei cosiddetti matrimoni per convenienza.
Chi può dire quale delle due condizioni garantisce maggiore durata e felicità?
Quel che è certo è che l'amore, in qualsiasi forma, è l'unico sentimento che ci introduce all'idea dell'altro, che ci permette di uscire dalla condizione dell'identità, dell'io nevroticamente arroccato in se stesso, e conoscere
il mondo".

L'amore dunque fa male ma è necessario.

"È ineludibile. Come il dolore del resto. Miguel Delibes, uno scrittore spagnolo, ha scritto un romanzo il cui protagonista è un bambino. La sombra del ciprés es alargada si intitola, è un libro del 1947. Questo bambino perde improvvisamente il suo migliore amico e decide che mai più sentirà amore per qualcuno per non soffrire della sua perdita. È questo che pensiamo tutti quanti ogni volta che un amore finisce. Ma è assurdo, e infatti nessuno mantiene la promessa. E continuiamo a innamorarci, sbagliare, riprovare.
Ricordo un racconto di Adolfo Bioy Casares, la storia di un uomo che amava un donna. A un certo punto però, decide di lasciarla. Il motivo è che si è reso conto che lei ha un difetto. Non spiega quale sia questo difetto, ma è sufficiente a fargli decidere di separarsi. Quell'uomo, dopo qualche tempo, incontra un'altra donna e se ne innamora. Si fidanza con lei, ma dopo un po' scopre che questa donna ha un difetto. Lo stesso difetto della precedente. E la lascia. E così anche un terza volta. L'amore ci inganna, facendoci pensare che ci sia qualcosa oltre, qualcosa di meglio, di più bello. Un'altra persona più adatta per noi. Ma la verità è che il difetto è in noi, e lo ritroveremo sempre, in chiunque incontriamo".

Il tema dell'amore e quello della bellezza sono legati?

"Credo proprio di sì. La bellezza è uno sguardo, e una percezione. Sophie Calle, l'artista francese, fece un giorno una performance riunendo un gruppo di persone cieche. Chiese loro, a turno, quale fosse la loro idea di bellezza. Mi ricordo di una ragazza che rispose Alain Delon. Che, ovviamente, non aveva mai visto. Perché? La mia risposta è che la ragazza percepiva l'intensità della passione, dell'amore che quell'uomo suscitava nelle persone, e lei collegava appunto quel sentimento con l'idea di bellezza. I due temi sono strettamente legati anche in un'altra grande storia d'amore, quella di Stendhal per l'Italia. Lo scrittore si innamora di tutto, tutto gli sembra straordinario. Entra in una cucina, dove c'è una donna che sta dando da mangiare al suo bambino. Si innamora di quella donna, della placida bellezza che emana la scena. Ne parla Roland Barthes nell'ultima conferenza che stava scrivendo prima di morire. Barthes è alla stazione di Milano e deve prendere un treno notturno per Lecce. Scrive: "Lecce, il mistero di una città estremma", e sta di nuovo parlando dell'amore".

C'è un personaggio della letteratura di cui lei è innamorato?

"Certamente Anna Karenina. E in particolare nel capitolo 29, quando in treno, in viaggio da Mosca a San Pietroburgo, tira fuori dalla borsa una lanternetta, la attacca al bracciolo della poltrona e si mette a leggere un "romanzo inglese". Sullo stesso treno viaggia anche Vronksij, ma lei non lo sa ancora. Lo scoprirà soltanto quando scenderà alla stazione. È una scena straordinaria: la donna, la lampada, il treno che corre nella notte, e le vicende del libro che scorrono parallele.
Claudia Cardinale in La ragazza con la valigia di Zurlini, è stato un altro grande amore per me. E anche Jeanne Moreau in La Notte di Antonioni ... molte, in verità".

C'è uno scrittore del quale avrebbe voluto leggere una storia d'amore e invece non l'ha mai scritta?

"Patricia Highsmith. C'è un'ultima cosa che vorrei dirle: le storie d'amore più belle sono quelle che ognuno di noi vorrebbe aver vissuto. L'ostinata ricerca di Fabrizio del Dongo ne La certosa di Parma di Stendhal, la devozione di Dante per Beatrice, la passione per Elena, l'invenzione di Dulcinea da parte di Don Chisciotte, ma soprattutto, come le dicevo, l'amore purissimo di Gatsby per Daisy. Ricorderà la scena in cui lui le mostra tutte le sue camicie e lei scoppia a piangere. In questo romanzo, ognuno inventa se stesso, il suo passato, la sua identità. Eppure una verità profonda percorre tutto il libro. "Sono veri, lo crederebbe mai?", dice quello strano personaggio, "con gli occhiali da civetta" al cospetto dell'enorme quantità di libri raccolti nella biblioteca di Gatsby. Soltanto lui, di tutte le persone che riempivano le feste e la vita di Gatsby, si prenderà la briga di essere presente la funerale.
Scompaiono tutti, come la luce verde. Da dove venivano, perché erano lì, qualcuno li aveva invitati? "Io", dice a un certo punto il narratore, "ero stato davvero invitato". Non le sembra una perfetta metafora di quello di cui stiamo parlando? Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all'amore". " (da Elena Stancanelli, Passioni che spezzano la vita e amori passionali. Vila-Matas: "Solo i romanzi dicono la verità", "La Repubblica", 30/07/'12)  

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