mercoledì 29 febbraio 2012

Leggere può cambiare la vita: la preziosa inutilità di libri che alimentano la speranza


"L'incontro con un classico può provocare una metamorfosi o, addirittura, può cambiare la vita. Basta scorrere le biografie o le autobiografie di scrittori e di filosofi, di poeti e di scienziati per trovarne testimonianza. Non si tratta però di un'esperienza riservata solo a persone eccezionali. La lettura di una poesia o di un romanzo può incidere segni profondi in qualsiasi lettore appassionato, pronto a lasciarsi infiammare dalle scintille che si sprigionano nel dialogo con un testo letterario o filosofico.
La lodevole iniziativa del «Corriere della Sera», di riproporre per un vasto pubblico una serie di testi latini e greci, si colloca in un momento difficile per la sopravvivenza dei classici. Negli ultimi decenni, purtroppo, gloriose collane hanno chiuso i battenti: si pensi, solo per fare qualche esempio, ai preziosi volumi della Ricciardi e della Utet, degli Scrittori d'Italia Laterza e dei classici Mondadori. Senza contare che, molto spesso, le opere esaurite di grandi autori non vengono più ristampate. Il mercato editoriale, invece, privilegia ormai la cosiddetta letteratura secondaria. La moltiplicazione dei manuali, dei bignamini, dei commenti, dei riassunti, delle antologie provoca un pericoloso paradosso: gli studenti, nelle scuole e nelle università, sentono parlare di opere che non hanno mai letto per intero o, nel peggiore dei casi, che non hanno mai avuto tra le mani. Sarà difficile, in questo contesto, che un amore improvviso possa nascere per Dante o per Lucrezio, per Cervantes o per Shakespeare.
Ma c'è di più. Assistiamo da decenni, come ha recentemente ricordato anche la filosofa americana Martha Nussbaum, al progressivo depotenziamento di tutte le discipline umanistiche che, su scala planetaria, vengono considerate «inutili», vengono marginalizzate non solo nei programmi scolastici, ma soprattutto nelle voci dei bilanci statali e nelle risorse di enti privati e di fondazioni. Perché impegnare denaro in un ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?
All'interno di questo contesto, fondato esclusivamente sulla necessità di pesare e misurare in base a criteri che privilegiano la quantitas, la letteratura e i classici (ma lo stesso discorso potrebbe valere per altri saperi umanistici) possono invece assumere una funzione fondamentale, importantissima: proprio il loro essere immuni da qualsiasi aspirazione al profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell'utilitarismo che è arrivata perfino a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri affetti più intimi. L'esistenza stessa della letteratura e dei classici, infatti, richiama l'attenzione sulla «gratuità» e sul «disinteresse», valori ormai considerati controcorrente e fuori moda.
A questo proposito mi sembra illuminante un passaggio di un discorso che David Foster Wallace tenne il 21 maggio del 2005 ai laureandi di Kenyon College, negli Stati Uniti. Lo scrittore — morto nel 2008, a 46 anni — si rivolge agli studenti raccontando una breve storiella che riesce a esemplificare in maniera egregia il ruolo e la funzione della cultura umanistica. Foster Wallace immagina l'incontro in un acquario tra due pesci giovani e un pesce anziano. Quest'ultimo rivolge una domanda ai suoi casuali interlocutori: «Salve, ragazzi. Com'è l'acqua?». «I due pesci giovani — scrive Foster Wallace — nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: Che cavolo è l'acqua?».
È lo stesso Foster Wallace a fornirci la chiave di lettura del suo racconto: «Il succo della storiella dei pesci — spiega lo scrittore americano — è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere». Come i due pesci più giovani, noi non ci rendiamo conto di che cosa sia veramente l'«acqua» nella quale viviamo ogni minuto della nostra esistenza. Non ci rendiamo conto, infatti, che la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l'insegnamento costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di uguaglianza, di diritto alla critica, di laicità, di giustizia, di tolleranza, di solidarietà, di bene comune, possono trovare un vigoroso sviluppo.
L'elogio dell'utile inutilità della letteratura e dei classici non deve però trarre in inganno. Non si tratta di ricreare la contrapposizione tra saperi umanistici e saperi scientifici. Al contrario: nella consapevolezza dei distinti ruoli, anche la scienza ha occupato e occupa un posto importante nella battaglia contro le leggi del mercato e del guadagno. È risaputo come da lavori scientifici considerati apparentemente inutili, non finalizzati cioè a un preciso scopo pratico, sia poi derivata un'inattesa utilità. Sarebbero state impensabili le invenzioni di Guglielmo Marconi senza gli studi sulle onde elettromagnetiche di James Clerk Maxwell e di Heinrich Rudolf Hertz: studi ispirati esclusivamente dal bisogno di soddisfare curiosità teoriche. Del resto, come ha suggerito egregiamente Abraham Flexner, scienziati del calibro di Galileo, di Bacone o di Newton hanno coltivato le loro curiosità, producendo grandi rivoluzioni, senza essere ossessionati dall'utile e dal profitto.
Certo, anche i classici — lo ricordava Italo Calvino — non si leggono perché debbono servire a qualcosa: si leggono solo per la gioia di leggerli, per l'esclusivo desiderio di conoscere. A tal proposito, lo scrittore romeno Emile Cioran — ispirato probabilmente dall'Apologia e dal Simposio: due opere di Platone presenti nella collana del «Corriere della Sera» — racconta che Socrate, mentre gli preparavano la cicuta, si esercitava sul flauto per imparare un'aria. E alla domanda «A cosa ti servirà?», il filosofo impassibile risponde: «A sapere quest'aria prima di morire». Ma — nonostante la consapevolezza che qualsiasi creazione letteraria o artistica non è legata a un fine — non c'è dubbio che, nell'inverno della coscienza che stiamo vivendo, alla letteratura e ai saperi umanistici, a quei lussi ritenuti inutili, spetti sempre più il compito di alimentare la speranza, di trasformare la loro inutilità in un utilissimo strumento di opposizione alla barbarie del presente, in un immenso granaio dove preservare la memoria e quegli avvenimenti ingiustamente destinati all'oblio." (da Nuccio Ordine, Leggere può cambiare la vita: la preziosa inutilità di libri che alimentano la speranza. Quelle opere sono per noi come l'acqua per i pesci, "Corriere della Sera", 29/02/'12)

Non per profitto di Martha Nussbaum

sabato 25 febbraio 2012

Biblohaus, l'omaggio a Einaudi


"Biblofilia, biblomania, bibliofollia, da Aristotele a Huysmans a Borges: i tre stadi di gravità (a quale, Eco?) del Morbo di Gutenberg (omonimo saggio del bibliotecario di Napoli Mauro Giancaspro). Di qui l’ipotesi: che ci sia un quarto stadio di questo «male» antico e contagioso: la bibliografia, ovvero il mettere nero su bianco, tutto o in parte, l’esistente su carta, o nella memoria, individuando nel bibliografo una specie di portatore sano del virus, capace alla fine di riequilibrare le più pericolose derive (la bibliofilia «oscura» di Canetti ...).

E altrettanto si può dire dei marchi specializzati in materia. Dal «vecchio» Sylvestre Bonnard «made» Anatole France, alla magnifica Olschki, all’Editrice Bibliografica, nonché, dal 2008, alla «voce» della Biblohaus di Simone Paquali da Macerata. Guidata da Massimo Gatta, la cui conoscenza della materia è arcinota, in tandem con il politico più libridinoso, Oliviero Diliberto (cui si deve, tra i primi titoli della nuova editrice, una gran Nostalgia del grigio. 60 anni di Bur, 1949-72), regolarmente ospite dell’annuale «Salone del libro usato» di Milano, segnale indiscusso di qualità, la sigla marchigiana schiera forti benché ancora limitate presenze, Croce e Echaurren, la Libreria antiquaria di Umberto Saba, Enrico Sturani e la sua Cultura delle quisquilie, Simone Berni a partire da Il caso Imprimatur - Storia di un romanzo italiano best-seller (ma all’estero, invece ritirato da Mondadori nel 2002 in ossequio al Vaticano).

Giovanni Comisso e i librai di Anna Modena; La libreria antiquaria di Roberto Palazzi; La biblioteca ritrovata. I libri di Italo Svevo di Simone Volpato sono le promesse per il 2012. Veri tesori non solo per l’acribia nella ricerca, ma per l’appeal di scritture, così diverse eppure così omogenee (grazie anche ai «registi» editoriali), che fanno di ciascun titolo un’amabilissima avventura. Come quelle di Gatta, autore, tra molto altro, dallo scorso gennaio per il centenario del Principe di via Biancamano, del lucido omaggio a Einaudi. Sibi et amicorum (inarrivabile collage delle plaquette dello Struzzo) e del quale si attende a breve Per una bibliografia degli scritti di Giulio Einaudi. A quale «stadio»?" (da Mirella Appiotti, Biblohaus, l'omaggio a Einaudi, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/02/'12)

mercoledì 22 febbraio 2012

Romanzieri ingenui e sentimentali


"Romanzieri ingenui e sentimentali di Orhan Pamuk (Einaudi) è un libro incantevole per candore e freschezza. Sebbene Pamuk abbia scritto romanzi complicatissimi e possegga una cultura sterminata, in queste lezioni egli conserva la condizione del ragazzo quindicenne o diciottenne o ventenne, che per la prima volta legge Guerra e pace, I demòni o la Recherche, e si perde completamente nella lettura. Come allora, per lui esiste solo il romanzo che, febbrilmente, scorre e si agita tra le sue mani. Leggere, per lui, è la felicità: scrivere, per lui, è una felicità ancora più folta e brillante, che lo nutre e lo possiede completamente. Si direbbe che debba ancora crescere, e imparare che la letteratura è anche l'applicazione, la fatica, la difficoltà, la pena e ci getta in una angoscia che ci salva dalla disperazione assoluta. Quando Pamuk legge un romanzo, gli accade quello che gli accadeva da ragazzo. All'improvviso - le sue mani hanno appena toccato la pagina tre del libro - abbandona la vita quotidiana: tutte le cose che vedeva e sentiva fino a quel momento, scompaiono: non avverte più la poltrona dove sta seduto, la stanza piena di tappeti turchi, il grido dei ragazzi che giocano a palla nelle strade di Istanbul, il fischio dei battelli in lontananza; e sopratutto perde se stesso, quel se stesso di cui era prigioniero fino a un istante prima.

Gli sembra di sognare: vede il mondo cogli occhi dei personaggi di Cime tempestose o di Anna Karenina; passeggia nei paesaggi che essi frequentano. Non ha nessuna importanza che il suo libro non racconti cose straordinarie: Madame Bovary e l'Education sentimentale narrano vicende di tutti i giorni; eppure se il soffio del romanzo comincia a muovere la realtà, entriamo in un altro mondo dal quale non vediamo più il mondo dell'abitudine. Tutti i suoi sensi sono all'opera: vista, odorato, udito, gusto, tatto; e tutte le sue fibre vivono nel romanzo che sta imparando a conoscere.

C'è un senso che Pamuk preferisce: la vista. Non ci meraviglia, perché era il senso che i Greci anteponevano a tutti gli altri. Forse, la vista di Pamuk non è quella greca: ma quella orientale, sopratutto quella persiana, che ha prodotto nei secoli migliaia di minuscole, meravigliose miniature, che lui, in fondo all'anima, preferisce alla pittura europea, verso la quale continua a provare una specie di diffidenza. Così adora Guerra e pace e Anna Karenina, quasi tutti i romanzi di Dickens e di Thomas Hardy, e quella prodigiosa combinazione di vista e odorato che è la Recherche, nella quale si vedono i profumi. Spesso prova una specie di invidia per i pittori, anche occidentali: vorrebbe essere Van Eyck, Giovanni Bellini, Pontormo, Poussin, Chardin, Monet, fusi in una specie di affresco mostruoso.

Qualche volta è ingiusto: né I demòni di Dostoevskij né Il castello di Kafka sono romanzi visivi. Sono romanzi scritti, per così dire, con l'occhio della mente: eppure non possiamo uscire indenni dalla lettura dei Demòni o del Castello. Forse Pamuk vede con eccesso: la realtà non è, per lui, una quantità infinita di minimi tocchi visivi, che alla fine formano un paesaggio o un panorama. La realtà è un archivio: migliaia, decine di migliaia di oggetti e di quadri si affollano come al Victoria and Albert Museum, all'Hôtel de Cluny o agli Uffizi. Tutto diventa archivio: la fermata dell'autobus in fondo alla via, il giornale che leggo, un film che amo, la vista del tramonto dalla mia finestra, il tè che bevo, il vicolo in cui cammino a Istanbul. Attraverso un imbuto mentale, possiamo rovesciare nella vasta sacca del romanzo elenchi e inventari, orari delle ferrovie, poesie, commenti alle poesie, commenti di commenti, riassunti di altri romanzi, saggi storici e scientifici, testi filosofici, favole, digressioni, aneddoti: il romanzo accoglie qualsiasi cosa, anche l'irreale, l'inverosimile, l'impossibile, e tutto ciò che appartiene al regno dei cieli.
Mentre legge, Pamuk compie una singolare operazione: si chiede quanta parte del romanzo rifletta i pensieri e le sensazioni del narratore e quanta parte la realtà che egli ha osservato: quali pagine, per esempio, di Madame Bovary o di Delitto e castigo risalgano senza intermediari alla mente di Flaubert e a quella di Dostoevskij. Quanto a me, credo che, se un romanzo è riuscito, la proiezione dei pensieri di Flaubert e di Dostoevskij in quelli di Emma Bovary e di Raskòlnikov sia inavvertibile, perché autore e personaggio fanno uno, e il lettore si abbandona felice a questa fusione miracolosa. Se mai qualcosa di simile può avvenire nella seconda o terza o quarta lettura del libro, che rappresenta un'esperienza meno originaria della prima lettura, nella quale ci impossessiamo del romanzo o, per meglio dire, diventiamo il romanzo. Allora, nelle letture successive, possiamo scomporre e suddividere il processo di metamorfosi, che ha trasformato la mente di Flaubert e di Dostoevskij nelle menti dei loro personaggi.

Pamuk ricerca il centro di ogni romanzo: quel punto invisibile, dal quale tutto il libro è sgorgato e che continua a contenerne il segreto. Ma esiste davvero il centro di un romanzo? Credo che tutto il romanzo sia centro: i personaggi principali, quelli minori, i paesaggi, i capitoli, le immagini, persino i punti e i punti e virgola. Eppure, in parte Pamuk ha ragione. Il vero lettore non legge mai il libro apparente, che splende in superficie, ma il libro segreto, che sta nascosto negli strati più profondi, come negli strati successivi di una torta. Il lettore lavora nel buio, a tentoni, a tastoni, illuminato soltanto da una piccola lampadina portatile. Se vuole capire, le formule rapide e lusinghiere non gli servono a molto. Laggiù ogni cosa è così piccola, così delicata, così fragile. Con la sua lampadina portatile, il lettore segue il significato di ogni elemento, i rapporti che si stabiliscono tra gli elementi, le associazioni e le combinazioni e le corrispondenze, le trasformazioni e le condensazioni del materiale.

Una cosa sola manca, nel delizioso libro di Pamuk. Non parla mai del ritmo dei romanzi, mentre esso è l'ispirazione temporale che li sostiene. Ogni grande romanzo è nato dall'invenzione di un ritmo, che può essere lentissimo, lento, moderato, frastagliato, spossato, veloce, velocissimo. Senza l'invenzione di un ritmo, Manzoni non avrebbe scritto I promessi sposi, Stevenson L'isola del tesoro, Henry James Le ali della colomba. Il lettore non fa che seguirli nella mente: li intuisce, li fa propri, li fa rinascere in se stesso, provando, ogni volta, una forma diversa di beatitudine temporale." (da Pietro Citati, Lo sguardo orientale di Orhan Pamuk su Tolstoj e Flaubert, "Corriere della Sera", 22/02/2012)

mercoledì 15 febbraio 2012

Manuzio, l’uomo che inventò il bestseller


"Dopo aver letto l’iperdocumentato e affascinante L’alba dei libri (Garzanti) di Alessandro Marzo Magno, è stato inevitabile mettere le mani in biblioteca, nello scaffale dei libri antichi. E trarvi un «reperto» dei tanti evocati in questo nuovo libro sull’incunabolo europeo dell’editoria che ebbe il proprio siderale stupefacente cortocircuito a Venezia, nel XVI secolo.
Il reperto è Rime del commendatore Annibal Caro. Sul frontespizio, sotto al titolo, la sigla «editoriale» un’àncora avviticchiata da un delfino - e poi «in Venetia appresso Aldo Manutio MDLXIX». Aldo Manuzio è il dominus che ha dato il tono all’editoria, dal suo tempo fino a oggi. In memoria dell’ascendenza laziale - venne al mondo a Bassiano nel ducato di Sermoneta - firmava Aldo Romano. È celebrato come Aldus. Non era uno stampatore tout court, come usava allora. Sceglieva personalmente le opere che sarebbero uscite dalla sua officina. Ponderava con attenzione lo scartafaccio manoscritto da trasformare in libro. Poteva essere un «ravatto» o un testo colossale che, diffuso, avrebbe mutato la maniera di intendere la vita, il mondo, l’universo. Lui guardava con un occhio sapiente alla qualità; però con l’altro alla bottega. Sapeva coniugare la «bellezza» con il mercato. Nel 1499 stampò il più splendido ed esclusivo libro mai visto. Dovuto a Francesco Colonna, con xilografie di estraniante armonia, era il mitico Hypnerotomachia Poliphili, nutrito di struggente misteriosofia ed esoterico erotismo. Acquistato allora da raffinati lettori - magari Federico Gonzaga, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Leone X - oggi è una leggenda tra i bibliofili.
Manuzio fu anche il primo a pubblicare un best seller. All’inizio del Cinquecento delle opere di Petrarca - morto da un secolo e mezzo - Aldus stampò e vendette centomila copie. Per la sua officina girava gente come Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Pietro Bembo, quasi un «proto»: suggerì all’editore una regola sull’uso della punteggiatura. Nacque il punto e virgola. E per buon peso l’apostrofo e gli accenti. Di suo Manuzio inventò il carattere corsivo. Ancora oggi gli inglesi lo chiamano italic. Ed è probabilmente sempre Manuzio il primo a produrre pocket book. Stampò volumi piccoli, più «dominabili». Per magari recarne sempre uno con sé. Libri fino a quel momento «oggetto» di biblioteca, di studio e preghiera. Forse proprio a Manuzio dobbiamo il piacere della lettura.
Quest’uomo, ricordato da Erasmo nel suo Elogio della follia - «Le grammatiche sono numerose quante i grammatici, anzi più numerose (il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate cinque lui solo)» - era al centro del centro d’una delle più straordinarie avventure dell’uomo: la nascita del libro e la sua diffusione. Da quando, attorno al 1450, a Magonza, Gutenberg realizzò le 154 copie del primo libro a stampa - la celebrata Bibbia delle 42 linee - una metastasi di volumi, di varia umanità, intricata a ogni tentacolo dello scibile umano, slavinò per il mondo. Nel solo XVI secolo, la «novità», il libro a stampa, si produsse in oltre 35 milioni di copie. La «smania» di comporre e imprimere, assemblare e legare, toccò uno dei suoi vertici tra il 1526 e il 1550. E fu Venezia con la pletora delle sue stamperie ad averne il primato. Sulla laguna si pubblicavano i tre quarti delle edizioni impresse in Italia; e la metà di quelle prodotte in Europa. Prendeva allora campo la cura editoriale. Un’attenzione ancora specificatamente veneziana.
Per facilitare la lettura vennero apportate al libro le tavole dei contenuti, gli indici, le note a margine. Venezia impose al mondo il business del libro e una nuova parola si aggiunse al lessico: editore, colui che investe nella produzione delle opere a stampa. E si aprì il «dibattito»: quello che l’oggetto libro propone con la sua mobilissima, contraddittoria e dirompente carica di umanità e cultura. Come si «produceva», da subito, e come sempre, c’era tuttavia chi si preoccupava di distruggere. Mentre dalle stamperie veneziane uscivano sempre nuovi volumi, e con i volumi nuove idee, in un solo giorno, il 18 marzo 1559, in piazza San Marco, per ordine dell’Inquisizione, le fiamme divorarono dodicimila volumi. Il rogo dei libri. Una «cerimonia» che lungo il corso dei secoli sarebbe stata messa in scena ancora un bel mucchio di volte." (da Giuseppe Marcenaro, Manuzio, L’uomo che inventò il bestseller, "La Stampa", 15/02/'12)

martedì 7 febbraio 2012

Cosa ci succede quando leggiamo un romanzo


"Cosa succede nella nostra mente, nella nostra anima, quando leggiamo un romanzo? In cosa tale sensazione interiore differisce da ciò che proviamo guardando un film, un quadro, o ascoltando una poesia, o un poema epico? Un romanzo può dare, di tanto in tanto, lo stesso piacere che danno una biografia, un film, una poesia, un quadro o una fiaba. Eppure l’effetto vero, esclusivo, di quest’arte è fondamentalmente diverso da quello degli altri generi letterari, del cinema e della pittura. E forse posso cominciare a illustrarvi la differenza raccontandovi ciò che ero solito fare e le complesse immagini che l’appassionata lettura di romanzi suscitava in me quando ero giovane.
Come il visitatore di un museo in primo luogo e soprattutto desidera che il quadro che sta guardando nutra i suoi occhi, io i solito preferivo l’azione, il conflitto, e la ricchezza del paesaggio. Mi godevo sia la sensazione di osservare segretamente la vita privata di un individuo sia quella di esplorare gli angoli oscuri della veduta d’insieme.
Non pensate che l’immagine che conservavo in me fosse sempre turbolenta. Quando leggevo un romanzo, nella mia giovinezza, accadeva talora che prendesse forma dentro di me un paesaggio ampio, profondo, quieto. E qualche volta le luci si spegnevano, il bianco e il nero si accentuavano e poi si scindevano, e spuntavano le ombre. Qualche volta mi meravigliavo, perché avevo l’impressione che il mondo intero fosse fatto di una luce del tutto diversa. E qualche volta il crepuscolo pervadeva e copriva ogni cosa, l’intero universo diventava una singola emozione e un singolo stile, capivo che ciò mi piaceva e sentivo che stavo leggendo il libro per quella particolare atmosfera. Mentre venivo lentamente sommerso dal mondo del romanzo, mi rendevo conto che le tracce delle azioni che avevo compiuto prima di aprire le pagine del libro, seduto nella casa di famiglia nel quartiere di Besiktas a Istanbul - il bicchiere d’acqua che avevo bevuto, la conversazione con mia madre, i pensieri che avevano attraversato la mia mente, i piccoli risentimenti albergati -, svanivano piano piano.
Sentivo che la poltrona arancione in cui ero seduto, il posacenere maleodorante lì accanto, la stanza piena di tappeti, le grida dei ragazzini che giocavano a pallone in strada e il fischio dei battelli in lontananza retrocedevano dalla mia mente; e un mondo nuovo prendeva forma davanti a me, parola per parola, frase per frase. Pagina dopo pagina, quel mondo nuovo si cristallizzava e acquistava nitidezza, come quei disegni segreti che appaiono a poco a poco quando ci si versa sopra un reagente; e venivano messi a fuoco linee, ombre, avvenimenti e personaggi.
In quei primi momenti, tutto ciò che ritardava il mio ingresso nel mondo del romanzo e mi impediva di ricordare e immaginare personaggi, avvenimenti e oggetti mi procurava grande fastidio. Un membro della famiglia di cui avevo dimenticato il grado di parentela con il protagonista, l’incerta ubicazione di un cassetto con dentro una pistola, o una conversazione di cui intuivo ma non riuscivo a interpretare il significato recondito, ecco, questo tipo di cose mi irritavano enormemente. Scrutavo con avidità le parole, augurandomi, con un misto di impazienza e piacere, che ogni cosa andasse rapidamente al suo posto. In quei momenti, tutte le porte della mia percezione erano spalancate, come i sensi di un animale domestico lasciato libero in un ambiente del tutto alieno, e la mia mente cominciava a funzionare assai più svelta, quasi in preda al panico. Mentre concentravo tutta la mia attenzione sui dettagli del romanzo che stringevo fra le mani, per mettermi in sintonia con il mondo in cui stavo entrando, lottavo per visualizzare le parole con la mia immaginazione e vedere con l’occhio della mente ogni cosa descritta nel libro.
Dopo un po’, quello sforzo intenso ed estenuante dava i suoi risultati e l’ampio paesaggio che desideravo vedere si apriva davanti a me come un immenso continente che appare in tutta la sua nitidezza quando la nebbia si solleva. Vedevo allora le cose raccontate nel romanzo come una persona che guarda comodamente il panorama da una finestra. Considero una sorta di modello come Tolstoj in Guerra e pace descrive Pierre che osserva la battaglia di Borodino dalla cima di un colle. Molti dettagli che il romanzo intesse delicatamente e prepara per noi, e che sentiamo il bisogno di serbare nella memoria, appaiono in questa scena come in un dipinto. Il lettore ha l’impressione di trovarsi non fra le parole di un romanzo, bensì in piedi davanti a un quadro. Qui, la cura dello scrittore per il dettaglio visivo, e l’abilità del lettore nel visualizzare le parole trasformandole in un vasto paesaggio, sono decisive. Leggiamo anche romanzi che non si svolgono nel paesaggio, su campi di battaglia o nella natura, e sono invece ambientati in una stanza, in atmosfere interiori soffocanti - La metamorfosi di Kafka è un buon esempio. Leggiamo queste storie come se stessimo osservando un paesaggio e, trasformandolo con l’occhio della mente in un quadro, ci abituiamo all’atmosfera della scena, ce ne lasciamo influenzare, anzi la esploriamo.
Voglio fare un altro esempio, di nuovo da Tolstoj, che ha a che fare con l’atto di guardare fuori da una finestra e mostra come leggendo si possa entrare nel paesaggio di un romanzo. È una scena del più grande romanzo di tutti i tempi, Anna Karénina. Anna ha appena incontrato Vrònskij a Mosca.
La sera, tornando in treno a San Pietroburgo, è felice perché l’indomani rivedrà il figlio e il marito:
«Anna \ prese dalla sua borsetta il tagliacarte e un romanzo inglese. Dapprima non poteva leggere. Davano noia il chiasso e l’andare e venire; poi, quando il treno si mosse, non si poteva non porgere orecchio ai rumori; poi la neve che batteva contro il finestrino di sinistra e che si appiccicava al vetro, e la vista d’un capotreno imbacuccato che passava vicino, coperto di neve da una parte, e i discorsi a proposito di com’era terribile la tempesta che c’era fuori, distrassero la sua attenzione. Più innanzi tutto fu sempre lo stesso: lo stesso traballìo accompagnato da picchi, la stessa neve contro il finestrino, gli stessi celeri passaggi da un caldo di vaporazione al freddo e di nuovo al caldo, lo stesso balenare degli stessi volti nella penombra e le stesse voci, e Anna cominciò a leggere e a capire quel che leggeva. \ Anna Arkàdjevna leggeva e capiva, ma le dispiaceva di leggere, cioè di seguire i riflessi della vita di altre persone. Aveva troppa voglia di vivere lei stessa. Se leggeva che l’eroina del romanzo vegliava un malato, aveva voglia di camminare a passi silenziosi per la stanza d’un malato; se leggeva come un membro del parlamento pronunciava un discorso, aveva voglia di pronunciare quel discorso; se leggeva che Lady Mary inseguiva un branco a cavallo e stuzzicava la cognata e stupiva tutti col suo coraggio, voleva far questo lei stessa. Ma non c’era nulla da fare, ed ella, girando il coltellino liscio con le sue piccole mani, si sforzava di leggere».
Anna non riesce a leggere perché non può fare a meno di pensare a Vrònskij, perché desidera vivere. Se fosse capace di concentrarsi sul romanzo, non avrebbe difficoltà a immaginare Lady Mary che monta a cavallo e segue la muta dei cani. Visualizzerebbe la scena come se stesse guardando da una finestra e avrebbe la sensazione di entrarci lei stessa a poco a poco.
La maggior parte degli scrittori sanno che la lettura delle prime pagine di un romanzo è un’esperienza affine all’entrare in un quadro di paesaggio. Pensiamo a come Stendhal inizia Il rosso e il nero. Prima vediamo da lontano la città di Verrières, la collina su cui è situata, le sue case bianche con i tetti spioventi di tegole rosse, le macchie di robusti castagni e le rovine delle fortificazioni. Sotto scorre il fiume Doubs. Poi notiamo le segherie e la fabbrica che produce toiles peintes, tessuti stampati pieni di colore.
Una pagina dopo, abbiamo già incontrato il sindaco, uno dei personaggi principali, e capito la sua struttura mentale. Il vero piacere di leggere un romanzo inizia con la capacità di vedere il mondo non dall’esterno ma con gli occhi dei personaggi che in quel mondo vivono. Leggendo un romanzo, oscilliamo fra ampia visione e attimi fuggevoli, fra pensieri generali e fatti specifici, a una velocità che nessun altro genere letterario è in grado di offrire. Mentre fissiamo un dipinto di paesaggio da lontano, ci ritroviamo all’improvviso tra i pensieri dell’individuo nel paesaggio e le sue sfumature d’umore. Ciò somiglia al modo in cui, nei dipinti di paesaggio cinesi, contempliamo una piccola figura umana sullo sfondo di fiumi, dirupi e alberi con miriadi di foglie: ci concentriamo su quella figura, poi cerchiamo di immaginare il paesaggio circostante attraverso i suoi occhi. (I dipinti cinesi sono fatti per essere letti così).
A quel punto ci accorgiamo che la composizione del paesaggio risponde all’esigenza di riflettere i pensieri, le emozioni e le percezioni della figura che c’è dentro. Allo stesso modo, sentendo che il paesaggio dentro il romanzo è un’estensione, o una parte, dello stato mentale dei personaggi, ci accorgiamo di identificarci con loro in una transizione invisibile. Leggere un romanzo significa che, mentre affidiamo alla memoria il contesto nel suo insieme, seguiamo, a uno a uno, i pensieri e le azioni dei personaggi attribuendo loro un significato nel paesaggio d’insieme. Siamo ora dentro il paesaggio che fino a poco fa guardavamo dall’esterno: oltre a vedere le montagne con l’occhio della mente, sentiamo la frescura del fiume e odoriamo il profumo della foresta, parliamo con i personaggi e ci addentriamo nell’universo del libro. La lingua del romanzo ci aiuta a combinare questi elementi distanti e distinti, e a vedere sia i volti sia i pensieri dei personaggi come parte di un’unica visione.
Quando siamo immersi in un romanzo, la nostra mente lavora sodo, ma non quanto quella di Anna, nello scompartimento di un treno sferragliante e coperto di neve per San Pietroburgo. Oscilliamo continuamente fra il paesaggio, gli alberi, i personaggi, i loro pensieri, gli oggetti che toccano - e dagli oggetti ai ricordi che essi evocano, ad altri personaggi, e infine alle riflessioni generali. La nostra mente e la nostra percezione sono attivissime, agiscono con estrema rapidità e concentrazione, facendo parecchie operazioni simultaneamente, ma molti di noi non si rendono nemmeno più conto di farle. Ci comportiamo esattamente come chi guida un’auto, che non compie consapevolmente il gesto di schiacciare pulsanti, premere pedali, ruotare il volante con cautela e nel rispetto di molteplici regole, leggendo e interpretando i segnali stradali e tenendo d’occhio il traffico.
Questa analogia è valida non solo per i lettori ma anche per il romanziere. Alcuni autori non sono consapevoli delle tecniche che usano, scrivono in modo spontaneo, come se stessero compiendo un gesto del tutto naturale, dimentichi delle operazioni e dei calcoli che svolgono mentalmente e del fatto che stanno usando il cambio, i freni e i pulsanti di cui li fornisce l’arte del romanzo. Userò il termine «ingenuo» per descrivere questo tipo di sensibilità, questo tipo di romanziere e di lettore di romanzi: quelli a cui non interessa quanto c’è di artificioso nello scrivere e nel leggere un libro. E userò il termine «riflessivo» per descrivere la sensibilità opposta: vale a dire quei lettori e scrittori che sono affascinati dalla componente artificiosa del testo e dalla sua mancata adesione alla realtà, e che prestano severa attenzione ai metodi usati nello scrivere romanzi e a come funziona la nostra mente mentre leggiamo. Essere un romanziere è l’arte di essere nello stesso tempo ingenuo e riflessivo." (da Orham Pamuk, Cosa ci succede quando leggiamo un romanzo, "La Stampa", 05/02/'12)

lunedì 6 febbraio 2012

L'ombra dell'uomo


"Nel 1960 una ragazza inglese di ventisei anni, armata di block notes e binocolo, arrivò sulla sponda orientale del Lago Tanganica, in Tanzania. A muoverla era la passione per l'etologia, nutrita fin dall'infanzia con le storie meravigliose del Dottor Dolittle, il medico che parlava agli animali. Quella ragazza oggi ha settantotto anni, e i suoi studi sugli scimpanzé, come ha detto Stephen Jay Gould, sono una delle più grandi conquiste scientifiche dell'Occidente. Dello scienziato americano è anche la prefazione al libro L'ombra dell'uomo, il racconto delle osservazioni fatte dalla Goodall in tanti anni di lavoro sul campo in Africa, che, pubblicato per la prima volta nel 1971, torna in libreria ristampato da Orme Editori.

Abbiamo sentito Jane Goodall al telefono da Bournemouth, nel Dorset, dove vive con la famiglia ("ma sono in giro trecento giorni l'anno per la mia fondazione, il Jane Goodall Institute"). Racconta: "In effetti i miei genitori avevano progetti diversi per me. A diciott'anni mi fecero partecipare al ballo delle debuttanti: era il 1952, e tutto quello che feci fu arrivare al palazzo, fare un inchino alla regina e poi tornarmene a casa. Preferivo gli spazi della mia immaginazione".

Ma per le ragazze vivaci erano tempi cupi: la madre Vanne, racconta Jane divertita, il giorno che la figlia espresse il desiderio di viaggiare, le consigliò di imparare a fare la segretaria, un mestiere che sarebbe stato comunque utile. A ventitré anni Jane visitò per la prima volta l'Africa, e lì in effetti fu assunta come segretaria dal paleontologo Louis Leakey, direttore del National Museum di Londra, darwinianio osservante e propugnatore della tesi che l'Africa fosse la culla dell'umanità. Un giorno Leakey pensò che il posto da ricercatore sugli scimpanzé che si era liberato al National Museum potesse essere giusto per Jane.

"Mi propose di studiare gli scimpanzé per la National Geographic Society, ritenendomi una mente priva di pregiudizi accademici. Io non aspettavo altro" spiega Jane Goodall, che solo dopo, nel 1965, si sarebbe laureata in etologia. Così, quasi per caso, partì una delle avventure scientifiche più importanti di sempre.

La ragazza inglese, apparentemente fragile e delicata, è in realtà un mastino dotato di infinita pazienza, e riesce ad avvicinarsi agli scimpanzé e a conquistarne la fiducia, così da poterli studiare nel loro ambiente naturale. Arriverà così alle scoperte più importanti che siano mai state fatte su questi nostri "cugini" e sulla loro impressionante vicinanza all'uomo, raccogliendo una straordinaria mole di dati.

Come ricorda l'arrivo in Tanzania?
"Mi alzavo alle cinque per osservare gli scimpanzé sulle montagne del Gombe e, dopo una fetta di pane e un caffè, rimanevo per tutta la giornata nella foresta, lontana dal cibo e dalle comodità. Appollaiata su un albero o nascosta nell'erba alta - dove una volta un leopardo mi passò a pochi metri senza notarmi - per ore, anche sotto la pioggia. E molte volte, quando tornavo all'accampamento, trascrivevo fino a notte fonda ciò che avevo osservato, dimenticandomi di mangiare. Quando mia sorella Judy venne a trovarmi, si spaventò per la mia magrezza. Così fece arrivare i cibi più ghiotti. Ma io avevo troppo da fare, e alla fine, per non sprecare, era lei a mangiare tutto. Quando andammo a Nairobi per incontrarci con Louis Leakey, lui mandò un telegramma in Inghilterra: "Ragazze sane e salve stop. Una magra una grassa stop"".

Forse non è un caso che la sua scoperta più nota abbia a che fare con il cibo...
"Ricordo ancora adesso quando notai lo scimpanzé che avevo ribattezzato David Greybeard dapprima infilare uno stelo in un termitaio per catturare termiti, e poi prendere un rametto, togliere le foglie e utilizzarlo anch'esso per pescare termiti. Io ritenevo gli scimpanzé capaci di questo, ma trovarmi lì, a essere la prima testimone di questo comportamento in natura, fu un'emozione che mi travolse. Gli scimpanzé non soltanto potevano usare oggetti come strumenti, ma anche modificare un oggetto esistente per trasformarlo in uno strumento".
Era il 1961 e si pensava che solo l'uomo potesse usare gli strumenti ...
"Alcune scuole di pensiero scientifico definivano l'uomo come "il costruttore di strumenti". Quando raccontai la scoperta a Leakey, lui commentò: "Adesso dobbiamo ridefinire il concetto di uomo, o quello di strumento, oppure accettare gli scimpanzé tra gli esseri umani!"".

Come fu accolta la scoperta?
"Cambiò molte cose: mi permise di avere altri finanziamenti. E soprattutto d'essere presa sul serio. Diciamo che fino a quel momento mi consideravano una specie di "ragazza di copertina" del National Geographic".

Nel libro ci sono molti racconti che provano la vicinanza degli scimpanzé con l'uomo. Per esempio nel campo delle emozioni.
"La loro gamma emotiva - e la varietà di modi con cui le comunicano, cioè baci, abbracci, tenersi per mano, darsi pacche sulla schiena, agitare i pugni - è molto ricca. Sanno perfino esprimere imbarazzo: ricordo uno scimpanzé che si faceva bello davanti agli altri e allo zio dondolandosi decisamente sui rami. Finché uno si ruppe: lui scappò via e non si fece più vedere per tutta la giornata".

Lei parla addirittura di moralità degli scimpanzé.
"Quando divampa una lotta tra due scimpanzé, capita spesso che un maschio o una femmina di rango alto intervengano bruscamente per impedire che il più debole soccomba. Credo sia il comportamento che conduce alla moralità".

Non manca la violenza però...
"Sì, ma è diretta soprattutto verso scimpanzé di un gruppo sociale diverso: verso gli "stranieri". E in quel caso sanno diventare molto brutali: possono trattare gli stranieri come se fossero animali di un'altra specie".

Come vivono oggi?
"In Africa, dal 1960 ad oggi, gli scimpanzé sono scesi da un milione a meno di 300 mila. Ecco perché non lavoro più "sul campo" ma viaggio per il mondo cercando di aumentare la consapevolezza sul disagio di questi animali e delle popolazioni che, per la loro povertà, sono costrette a cacciarli per cibarsene"." (da Giuliano Aluffi, Jane Goodall: "Io, da segretaria a scienziata famosa grazie agli scimpanzé", "Il Venerdi' di Repubblica", 03/02/'12)

venerdì 3 febbraio 2012

La poetessa delle parole (apparentemente) semplici


"Quando un poeta diventa popolare? Quando è capace di parlare un linguaggio che tutti capiscono, con parole che possiedono, ma che solo lui, il poeta, è in grado di trovare, di rimescolare, di pronunciare con una precisione disarmante e farci scoprire, grazie a quelle parole, qualcosa di noi e della poesia.
La poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, morta ieri a Cracovia, era una grande poetessa in questo senso. Aveva 88 anni, tutti dedicati alla letteratura. Aveva molto successo in Italia, era diventata amatissima grazie agli editori Scheiwiller e Adelphi. Le sue raccolte sono facilmente reperibili in libreria. Non è un caso. In Italia aveva esordito grazie, ancora una volta, a Vanni Scheiwiller. L'editore più raffinato d'Italia la volle, nel 1993, per una delle Strenne Franci, una serie di piccoli libri fuori commercio, che spesso arrivavano a pubblicare (come in questo caso) autori che avrebbero avuto fama e onori. In quella plaquette, oggi rinomata chicca bibliografica per i cercatori di libri, c'era già tutto della poesia della scrittrice polacca. La fiera dei miracoli è il paradigma della capacità della Szymborska di giocare con il linguaggio comune, una nitidezza di espressione e una capacità di ironizzare sul reale che pochi altri poeti hanno avuto con il suo grado di consapevolezza.

«La scintilla, la precisione, la molteplicità degli interessi filosofici e scientifici, la sua non appartenenza a nessun gruppo o corrente letteraria fanno della sua poesia un piccolo miracolo di assoluta semplicità e immediatezza». Con queste parole la presentava Vanni ai lettori italiani e la Szymborska, sempre tradotta da Pietro Marchesani che ne ha saputo restituire davvero la grandezza poetica e umana, iniziava a diventare da allora una stella fissa nel firmamento letterario.
Le cronache del tempo che è venuto dopo sono quelle di una poetessa, una gentile signora con il sorriso garbato e l'occhio sempre un po' incredulo rispetto a ciò che ha davanti. Le cronache del tempo che è venuto dopo sono quelle di migliaia di persone alle sue letture, gli autografi, i riconoscimenti.
Eppure non a questo badava lei. Come spesso diceva nella sua rubrica sui giornali polacchi "Posta letteraria" (poi tradotta in italiano) agli aspiranti poeti, non è spesso la scrittura cui prestare attenzione, ma la lettura. Così noi, suoi lettori, restiamo con le sue fragile, densissime, potenti poesie tra le mani e le rileggiamo e le ripensiamo ogni volta, fieri del nostro piccolo segreto, vogliosi di espanderlo e condividerlo, con le persone giuste.
La Szymborska è diventata popolare, è vero. Ma spesso sfugge la complessità dietro quelle apparentemente ingenue poesie. Con il pensiero e con la poesia non si può barare: o li si possiede o niente. Ecco: abbiamo perso ieri la poetessa, le sue poesie ci faranno compagnia per molto e molto tempo.

Quando si ha la fortuna di vedere un classico in vita, non c'è molto altro da fare che contemplarlo e ammirarlo." (da Stefano Salis, La poetessa delle parole (apparentemente) semplici, "Il Sole 24 Ore", 02/02/'12)

Szymborska bestseller, grazie alla poesia in tv

L'alba dei libri


"Di pari passo con il cinema nel cinema, con il teatro nel teatro, con il romanzo nel romanzo, anche al mondo della carta stampata va riconosciuto il diritto di contemplarsi orgogliosamente la coda. E' il primo pensiero con il quale ci si accosta al volume di Alessandro Marzo Magno L'alba dei libri (Garzanti). L'autore, un veneziano trapiantato a Milano, dove è stato caposervizio agli esteri per settimanale Diario, s'intrattiene in quest'opera su una serie di deliziose vicende della sua città. E lo fa con una minuzia a tratti struggente, che finisce per irretire il lettore. L'inno al libro, da lui composto, coinvolge l'immagine storica della Serenissima, così come traspare dal sottotitolo "Quando Venezia ha fatto leggere il mondo". Si tratta di una rievocazione del capoluogo lagunare in quanto capitale mondiale dell'editoria lungo quel secolo, il Cinquecento, che fu al centro delle nostre glorie rinascimentali.

I motivi di quella supremazia in campo editoriale non sono difficili da scrutare. Oltre a rientrare, con Parigi e Napoli, nel trio dei centri europei considerati delle megalopoli in quanto abitati da più di 150 mila abitanti, la Dominante (mai appellativo fu più doveroso) era all'epoca, in primo luogo in virtù della posizione geografica, «un luogo più simile a un mondo intero che a una città». L'Adriatico andava visto come una sorta di lago veneziano: lo sapevano siai letterati chei mercanti. I «domini da mar» della Signoria Serenissima si estendevano su Istria e Dalmazia, coinvolgevano gli odierni serbi e croati - questi esponenti della "Slavia veneta" - investivano la Grecia, inglobavano, da Creta a Cipro, le grandi isole mediterranee e intrattenevano attivi (anche se spesso turbolenti) scambi culturali con l'universo islamico e con quello ebraico.

Non a caso fu proprio dai torchi d'una bottega di Venezia - dove ebbe sede il primo ghetto del mondo - che uscì un esemplare leggendario del Talmud. Sempre lì, con il titolo Alcoranus arabicus, venne dato alle stampe il primo Corano che vedesse la luce nella lingua di Maometto. A questa ultima rarità bibliografica, di cui si sarebbero perse le tracce per mezzo millennio, l'autore dedica un romanzesco capitolo. Da Aldo Manuzio, questo «Michelangelo dell'editoria», in giù, attraggono l'ammirata attenzione dell'autore decine di persone che consacrarono la vita agli esordi della carta stampata. Il risalto geloso acquisito da Venezia in materia sarà alla base di un non casuale equivoco, quando essa volle contestare a Gutenberg l'ideazione della stampa per attribuirlaa Panfilo Castaldi, medico e umanista di Mestre. Sul piedistallo del monumento che gli ha dedicato la città natia figura ancora oggi una scritta che gli attribuisce «la paternità di un'invenzione non sua».

Risulterà lampante a questo punto quanto fossero eminentemente marittime, fra Quattro e Cinquecento, le vie di diffusione commerciale dei libri tra Venezia e il resto d'Europa. Desta curiosità il modo di "vestire" i volumi per sottrarli all'insidia delle onde. Essi «viaggiavano raccolti in balle o chiusi dentro botti o casse rese impermeabili con la catramatura». Se simili cautele connesse alla navigazione dei libri oggi non sono più attuali, restano valide molte delle scoperte tecniche in materia di editoria risalenti a quei tempi: dall'introduzione del corsivo - un carattere capace, secondo Manuzio, «di assicurare alle stampe l'eleganza e la bellezza del manoscritto umanistico» - alla realizzazione di punzoni in piombo o altri metalli, dovuta, sulla metà del XVI secolo, al francese Claude Garamond, il cui nome ancora oggi distingue un particolare carattere tipografico.

Quanto alla voga riservata nel Rinascimento al libro "portatile" o "economico" in piccolo formato, ritenuto adatto agli «studenti o studiosi che vagavano tra le grandi università europee», nonè neppure il caso di soffermarsi sulla sua perennità. Per non parlare del «best seller», categoria editoriale della quale l'autore individua un antenato nell'Orlando furioso di cui il veneziano Gabriel Giolito de' Ferrari pubblicò tra il 1542 e il 1560 ben ventotto edizioni. Con connotati squisitamente moderni si presenta, nel racconto di A. Marzo Magno, la tendenza delle stamperie lagunari a concentrarsi fra loro in holding che, accogliendo anche soci stranieri, prefigurano altrettante multinazionali del libro.

L'epoca delle grandi scoperte offrirà all'editoria veneziana un nuovo avvio di penetrazione commerciale: la produzione di testi, carte e documentari geografici. Gli scritti di Cristoforo Colombo, raccolte nel volume anonimo dal titolo Libretto de tutta la navigazione de' Re di Spagna de le isole et terreni novamente trovati e soprattutto la famosa lettera di Amerigo Vespucci a Lorenzo de' Medici, di cui nella prima metà del Cinquecento si moltiplicarono, le edizioni con il titolo Mundus Novus, sono solo alcuni esempi di questo ricco filone. Altri se ne aggiungono: trattati di musica, di medicina, di ginnastica.

Ma forse a comunicare l'idea di un originale anticonformismo è il soprattutto il consenso commerciale che arrise alla produzione galante, e in molti casi estrosamente oscena, di Pietro Aretino, in una località come la Dominante, dove per tradizione la censura pochissimo attecchiva. Il poeta rappresentò un'autentica delizia sia per i bibliofili che per i patiti dell'Eros. Con gli inviti al piacere che racchiudevano, i Sonetti lussuriosi dovevano essere per molti una lettura da comodino.

Nella Serenissima, che lo accoglie per quasi un trentennio, dal 1527 fino alla morte, lo scapestrato autore dei Ragionamenti diventa una sorta di attrazione turistica, al punto che in quest'Alba dei libri viene eletto a fondatore della genìa degli scrittori-divi. Tiziano gli farà un ritratto e lo definirà «condottiero della letteratura». Sebastiano del Piombo e Iacopo Sansovino saranno suoi unanimi amici. L'imperatore Carlo V lo proteggerà. Anche questo è stata la Serenissima nella sua stagione d'oro, prima che gli interdetti pontifici, sempre più frequenti in epoca di Controriforma, non si impegnino a vietarne le mattane.
Ma qui s'affaccia un'altra storia, con tanti sorrisi in meno." (da Nello Ajello, L'invenzione della lettura. Quando Venezia fabbricava bestseller, "La Repubblica", 02/02/'12)