lunedì 30 aprile 2012

Alte tirature

"Duole dirlo, ma l'incipit di Alte tirature - La grande narrativa d'intrattenimento italiana di Vittorio Spinazzola non è incoraggiante. Nella prima pagina compaiono l'una dopo l'altra le seguenti espressioni: «valore emblematico», «immaginario collettivo», «ambiguamente ammiccante» e «segnale forte». Del resto qualche nube di perplessità si addensava già sull'indice dove, in fila dopo Melissa P. e Moccia, compariva Saviano. Gomorra narrativa di intrattenimento? Intrattenimento, entertainment, la camorra di Casal di Principe? Mah ... Duole, dicevamo, e duole in particolar modo perché, superate queste irritazioni epidermiche, al lavoro di Spinazzola va riconosciuto il grande merito di avventurarsi in solitudine e con sprezzo del pericolo sull'accidentato terreno della narrativa di intrattenimento. E lì giunto, di avanzare tranquillamente con i robusti scarponi e il passo cadenzato del professore. Che, fuor di metafora, vuol dire dissezionare con metodicità - come se fossero Le confessioni di un ottuagenario o la Gerusalemme liberata - Fantozzi e Porci con le ali, Un uomo della Fallaci, le opere di Sveva Casati Modignani e le Formiche di Gino e Michele, il Cuore della Tamaro e il Jack frusciante di Brizzi, le opere di Camilleri e Faletti, per chiudere, come si è visto, con Melissa P., Moccia e Saviano. Una compagnia assai eterogenea, si dirà. Non senza ragione. A tenerla insieme, la compagnia, c'è un dato di fatto evidente, il comune successo di vendita, l'essere tutti dei bestseller. Una caratteristica richiamata nel titolo con l'imprudente dizione Alte tirature, che rievoca il bon mot di Luciano Mauri «grazie per le magnifiche rese», rese che sono spesso il corollario delle alte tirature. Meglio alte vendite dunque, ma insomma sempre un riferimento quantitativo. Ora la quantità, anche se non gode di buona stampa, è una cosa seria, molto seria. Non solo perché è concupita apertamente dagli editori e segretamente dagli autori, specie quelli più high brow, ma perché è una categoria aristotelica e deve essere maneggiata con cura. Se si ragiona in termini di quantità bisogna considerare tutte le quantità, non solo quelle dei libri ritenuti in partenza inferiori per confermare così, tautologicamente, l'equazione quantità uguale inferiorità. Quindi, se questo è il criterio, va applicato senza preventive (e assai discutibili, come si e' visto nel caso di Saviano) distinzioni di genere e senza opporre italiani e stranieri. Perché la quantità riflette il giudizio del pubblico, al quale interessa il libro e non il fatto che sia italiano o straniero. E dunque bisognerà includere, anche restando ai soli italiani, Il nome della rosa e soprattutto La Storia di Elsa Morante, capolavoro letterario certamente, ma anche primo caso di marketing davvero aggressivo nella storia libraria d'Italia, quando Einaudi comperò di domenica l'ultima pagina del Corriere e la lasciò tutta bianca salvo in mezzo, piccola, la copertina. E perché non parlare del Gattopardo e del Dottor Zivago? Il punto è che, saltando come il camoscio carducciano sulle vette di vendita per un arco di tempo sufficientemente lungo, si disegna un profilo che è una vera e propria storia del gusto, ricca di sorprese e molto, molto interessante. E si vede anche come la dimensione fisica del successo sia cambiata nel tempo, passando dall'ordine di grandezza delle centomila copie degli anni Ottanta al milione degli anni Duemila. Fenomeno che attende ancora una spiegazione convincente. Tutt'altra musica se si parla di generi e di narrativa di genere. Innanzitutto perché in non pochi casi la collocazione sotto la voce intrattenimento è un gesto - che cela in realtà un giudizio - del critico e non riflette certo l'intenzione dell'autore. Difficile che la Fallaci, la Tamaro, Brizzi e fors'anche Moccia pensassero di fare con i loro romanzi opera di intrattenimento. Per certo non lo pensava Saviano. E poi perché andando a vedere che cosa c'è, secondo Spinazzola, dentro il vasto contenitore dell'intrattenimento si scoprono oggetti disparati. Per cominciare due generi autoctoni, italianissimi. Il primo, da Porci con le ali a Melissa P, è quello che ruota intorno al sesso, meglio se giovanile, meglio ancora se adolescenziale. Genere questo di buone prospettive nel nostro paese cattolico, dove il peccato ha fascino, ma non grandezza e finisce sempre per identificarsi con quella tal cosa. Il secondo è il genere, anch'esso peculiarmente italiano, del grottesco politico e sociale, rappresentato qui da Fantozzi, ma che ha il suo più illustre precedente in Don Camillo. Figli entrambi - Don Camillo e Fantozzi - del geniaccio editoriale di Angelo Rizzoli senior, inventore di una sorta di missile a tre stadi. Il primo dei quali è una svelta rubrichetta tenuta su Candido da Guareschi e sull'Europeo da Villaggio; il secondo è la raccolta in volume delle rubrichette e dunque la loro trasformazione in libro unitario, con immenso successo, anche internazionale (le sofisticatissime Editions du Seuil si fecero in realtà le ossa su Don Camillo); il terzo è il film, sempre dal grand'uomo (in veste qui di Cineriz), prodotto,e anche qui baciato dalla fortuna. Per non dire che con Fantozzi si aggiunse un quarto stadio, quando il cumenda (così era chiamato) dopo il rifiuto di Tognazzi e Manfredi, convinse l'autore stesso, Villaggio, a diventare anche l'attore e a chiudere il cerchio. Trasfigurando così Fantozzi in un archetipo eterno e universale. Ma le dolenti note per la letteratura italiana di intrattenimento vengono dai generi più classici e non tanto da quelli femminili, dove la Sveva Casati Modignani considerata da Spinazzola regge dignitosamente il confronto con le sue simili internazionali dalla Steel, alla Krantz, anche se non forse alla Pilcher. Quanto da quelli maschili. Qui a partire dagli anni Settanta e ad opera principalmente di autori anglosassoni si è verificata una vera e propria rivoluzione. Si è alzato, nettamente, il livello qualitativo (e qui la qualità è un fatto, concreto e misurabile) e soprattutto questi libri, che erano considerati di quarta categoria, sono stati posti editorialmente parlando in prima fila, hanno guadagnato le luci della ribalta. In Italia, dopo lo smacco del Padrino rifiutato da tutti i grandi editori, il profeta dell'intrattenimento alto fu Mario Spagnol, specie nella sua stagione rizzoliana, quando affiancò al capolavoro assoluto - La talpa di John le Carré - gli ottimi L'Azteco, Radici e molti altri. Wilbur Smith l'avrebbe invece scoperto più tardi, nel periodo longanesiano. Ma il primo a cercare la sistematicità in questo settore, alla fine degli anni Settanta fu Vittorio Di Giuro, per Bompiani, presto superato però dall'asso del genere, Giancarlo Bonacina di Mondadori, che in poco più di un decennio allineò nella sua formidabile scuderia quasi tutti gli autori maggiori con i loro libri inaugurali di nuovi sottogeneri: Ken Follett, Scott Turow, Martin Cruz Smith, John Grisham, Thomas Harris, Robert Harris, Peter Hoeg, Patricia Cornwell, oltre allo stesso le Carré, a P. D. James e al preesistente Forsyth. Dei veramente grandi rimasero fuori solo Michael Chrichton e Stephen King. Ora, la peculiarità della produzione italiana è che da noi l'intrattenimento alto non si è in sostanza mai visto. In parte - in gran parte - perché la vocazione (o aspirazione) letteraria ha finito per essere più forte, per esercitare un'invincibile attrazione gravitazionale. Così è stato ed è per Lucarelli, per Carofiglio, per De Cataldo, per Carlotto. Ma persino Il nome della rosa, che per un verso è l'unica vera e grande gloria italiana dell'intrattenimento, l'opera inaugurale di un nuovo e fortunatissimo genere, la detective story di cultura, per un altro è una sperimentazione letteraria estrema. In altra parte perché molta produzione italiana di genere è rimasta legata a modelli più classici, precedenti la rivoluzione dell'intrattenimento alto. Così è per lo stesso Camilleri, dove la macchina narrativa - da lui pazientemente smontata e rimontata più volte nelle sceneggiature televisive - è quella di Maigret, ma il succo dei libri è tutto nell'invenzione di una lingua, un parasiciliano ironico e sorridente. Insomma, l'intrattenimento alto - solido e ben fatto - è forse il termometro che meglio misura la cultura diffusa, quella non degli intellettuali di professione, ma della gente comune, educata e incivilita. Sarà per questo che da noi latita e langue. Sarà per questo che qui noi siamo decisamente meno bravi." (da Gian Arturo Ferrari, L'arte dell'intrattenimento, "La Repubblica", 23/04/'12)

sabato 21 aprile 2012

I Sillabari di Nanni Moretti

"A leggerli oggi sembra incredibile ma nei primi anni Settanta i Sillabari di Goffredo Parise furono al centro di furibonde polemiche. Le storie contenute nel libro e il suo autore furono accusati di disimpegno, forse anche di diserzione, addirittura di frivolezza, peccato capitale nell’Italia engagé che aveva preso il posto dell’Italia yéyé del decennio precedente. E Parise rinfocolò il dibattito dichiarando provocatoriamente che lui amava lo stile di vita rappresentato dal Ritz, il glorioso albergo parigino. Gli dettero del venduto alla borghesia. Chi allora polemizzava aveva torto (sempre chi polemizza ha torto). Quei racconti (ma la loro definizione migliore è di Cesare Garboli: «romanzi virtuali»), scritti a partire dal 1971 sul «Corriere della Sera» in ordine alfabetico (dalla A di Amore alla S di Solitudine, la lettera che segnò di colpo la fine dell’ispirazione), erano solo e soltanto dei capolavori, storie che raccontavano, una alla volta, un sentimento e rifuggivano dai tempi che correvano per cercare un altro tempo. I grandi libri sono grandi perché hanno una voce, la voce inconfondibile e unica di chi sta raccontando. Può essere la voce di un american boy che ha problemi di crescita (come l’Holden di Salinger) o quella di Dio (nella Bibbia o nel Corano, certo, ma anche — non fatevi fuorviare dal forte accento russo — in Guerra e pace). La voce dei Sillabari pensavo che fosse la voce (a volte quasi una vocetta, a causa della dolce pronuncia veneta) di un uomo ormai cinquantenne, molto poeta e vagamente teppista (per posa ma anche per istinto di ribellione). La voce di «un uomo che amava la sua vita e quella degli altri, comunque fosse, ma non si guardava mai allo specchio», però un giorno «uscendo dal bagno si vide un attimo e gli bastò quell’attimo per capire tutto». La voce, cioè, di Goffredo Parise (nato a Vicenza, morto a Treviso nel 1986 ad appena 57 anni). Mi sbagliavo. L’abbecedario parisiano ha anche un’altra voce. Una voce di ragazzo che sembra sempre sul punto di spezzarsi, con una leggera velatura di isteria adolescenziale. La voce di Nanni Moretti. Il regista ha infatti inciso (credo che sia la parola giusta, perché ogni capitolo dei Sillabari è come una canzone) un audiolibro con il capolavoro di Parise. E questa sua lettura, pur nella estrema umiltà con cui la prestazione è stata fornita, ha dato molto al libro (così come credo, da quanto ho avvertito nella sua dizione, che Parise abbia dato molto a lui). Finito di ascoltare (una decina di ore) Parise letto da Moretti, mi sono sentito commosso e incuriosito. La commozione l’ho tenuta per me. La curiosità l’ho girata a Nanni Moretti per chiedergli un po’ di cose intorno a questo singolare (ed eccellente) audiolibro. Il regista, reduce da «giornate un po’ faticose», appena tornato a Roma, negli uffici della Sacher, la sua casa cinematografica, dopo un soggiorno newyorkese, ha accettato pur mettendo le mani avanti per timore di usurpare lo spazio che è di Parise. «Va bene, ma sarò telegrafico». La prima curiosità riguarda come è nata l’idea. Nelmodo più normale: «La casa editrice Emons mi ha chiesto se volevo leggere un libro e io ho subito pensato ai Sillabari di Parise». Tutto qui? Tutto qui. Tale è l’intensità e la confidenza (familiarità, starei per dire) con cui il regista legge i Sillabari da far presupporre una frequentazione, una conoscenza con l’autore. «Parise non l’ho mai conosciuto di persona». Però un rapporto tra i due c’è stato. «Qualche anno fa mi è capitato di rileggere con stupore un pezzo che Parise scrisse per il “Corriere della Sera” su Ecce Bombo (c’era ancora la “terza pagina”). A quei tempi, parlo del ’78, non gli avevo dato la giusta importanza, ero stato un po’ distratto, forse ero troppo abituato a leggere cose positive sul mio film». L’articolo di cui parla Moretti fu pubblicato il 15 aprile con il titolo «”Ecce Bombo” e l’aria del ’68». Ed è un bellissimo articolo (ma questa non è una notizia: Parise scriveva solo pezzi bellissimi), molto lusinghiero nei confronti del giovane Moretti, allora agli esordi (aveva girato solo Io sono un autarchico e una parodia dei Promessi sposi). Parise paragona Moretti a Moravia, a Ermanno Olmi (Il posto «è il fratello più vecchio di Ecce Bombo»), a Buñuel. E gli riconosce una dote inedita in Italia: «L’humour che, come tutti sanno, è il contrario e ben più efficace e allegro e vitale contrappeso del comico, ahimè triste, pessimistico ed eterno retaggio del nostro Paese». Se lì per lì Moretti snobbò le lodi di Parise, col tempo ha saputo ricambiare facendo dei Sillabari una sorta di talismano. «Senz’altro è il libro che più ho regalato nella mia vita (gli altri sono i libri di Natalia Ginzburg e Narratori delle pianure di Gianni Celati). Non so spiegare perché, ma mi sembra che i Sillabari abbiano la stessa malia e la stessa grazia di Heimat 2, un film in tredici episodi di Edgar Reitz, che con i suoi personaggi e la sua ambientazione nella Monaco degli anni 60 catturava allo stesso modo lo spettatore». Chiedo a Moretti di abbozzare una playlist degli scrittori italiani da lui amati in maniera particolare così per capire i suoi gusti in materia. «Ho gusti abbastanza classici: Calvino, Sciascia, Rigoni Stern, Bianciardi, Fenoglio più di Pavese… E poi, ma stiamo parlando di quarant’anni fa e comunque non di un narratore, Franco Fortini. Ricordo ancora i suoi pezzi sul Manifesto. Poco tempo fa ho riaperto un suo vecchio libro, Verifica dei poteri. Sono andato subito a rileggere i pezzi che avevo a suo tempo sottolineato, ma ormai non capivo più niente». Torniamo a Parise (di corsa) e alle indicazioni di regia che Moretti ha dato a se stesso come lettore dei Sillabari. «Mi sembra che alle volte, leggendo, gli attori sovrappongano ai testi un eccesso di interpretazione. Io ho semplicemente cercato di far risuonare le parole e il tono di Parise. Alle volte certi ruoli si possono interpretare in un preciso momento, non prima e non dopo. Ora, senza farla troppo tragica, mi sembrava arrivato per me il momento giusto per leggere e capire meglio quel libro». Si sente una fortissima sintonia tra Moretti e Parise, qualcosa di speciale. Per dire la cosa più facile e divertente, c’è una battuta dello scrittore, a proposito di un classico dolce austriaco di cui un personaggio è molto goloso, «I politici… cosa sanno loro del kipferl?», che suona quasi più morettiana che parisiana e fa venire in mente gli onori tributati dal regista alla Nutella e alla Sachertorte. Oppure quel pensiero che coglie uno dei personaggi mentre guarda uno stormo di fischioni che vola alto nel cielo («Che vita collettiva e solenne, come quella dei vescovi in San Pietro con le loro mitre e i loro canti»), un pensiero che sarebbe stato benissimo nella sceneggiatura di Habemus papam. Per cui ascoltando la lettura dei Sillabari spesso ci si chiede se è più parisiano Moretti o più morettiano Parise. Ma forse mi sto allargando troppo perché il regista su questo piano non mi segue, nemmeno telegraficamente. Meglio cambiare argomento. Una delle magie dei Sillabari è che sembrano più attuali adesso di quando furono scritti. Come se oggi più che mai, e in Italia più che in ogni altro posto, avessimo bisogno di un abbecedario per mettere in ordine (alfabetico) i sentimenti. Moretti concorda e va oltre. «Sì,mettere in ordine — e conoscere — i sentimenti, vivendoli magari in modo meno esteriore. Ma anche ricominciare a parlare di principi e di valori (per poi essere subito accusati, naturalmente, di “moralismo”)». Tra tutti i sentimenti che Parise racconta ce n’è uno che lui chiama «un sentimento italiano senza nome». Lo prova uno dei suoi personaggi e ne è commosso fino alle lacrime. L’uomo stila anche una lista delle meraviglie italiane che ispirano quel sentimento italiano senza nome: «La grotta sottomarina dei Faraglioni, le trippe del ristorante Troja di Firenze, il film La dolce vita». E, in un’altra pagina, Parise parla di un particolare tipo di genio italiano («ma non di tutti gli italiani »). Quel genio «di muoversi, di camminare e di sorridere che è come bagnato dal mare Mediterraneo. Il sole dell’Adriatico fa molto ma non è come il Mediterraneo nei corpi e nelle movenze delle persone veramente italiane». Tutto ciò è bellissimo e non ci sono domande da fare a proposito. Se non una, quasi straziante, e della quale non si vorrebbe nemmeno sapere la risposta: il sentimento e il genio italiani di cui scrive Parise esistono ancora? E la risposta di cui si ha paura è quella che dà Moretti: «Parise scriveva quei racconti in un’altra Italia. Forse quel sentimento è legato a un’idea di società e a un Paese che non c’è più. Un Paese spezzato da tutte le parti e in cui a fatica i cittadini si sentono parte di una comunità». Ma forse il sentimento decisivo che ispira il libro è il sentimento della brevità della vita. Se ne parla continuamente, si avverte in ogni sospiro dei personaggi. Lo si riscontra nella malinconia del crepuscolo che colpisce la bambina ricca in vacanza nella colonia dei bambini poveri. Lo si trova, struggente in maniera quasi insopportabile, nella storia (un po’ hemingwaiana) dell’uomo infilato dentro una botte per cacciare folaghe nella laguna, il quale sogna, per consolarsi appunto della brevità della vita, di comprarsi un Purdey, un fucile di precisione costosissimo. E qui, in questo desiderio quasi capriccioso di avere un Purdey, si può apprezzare in pieno la particolare, acuminatissima, disperata, ironia di Parise. Moretti la coglie benissimo con adeguate sfumature di tono nella sua lettura del racconto. Gli chiedo se pensa anche lui che il sentimento della brevità della vita sia la maggior fonte di ispirazione (e disperazione) dei Sillabari. Ma il regista mi spiazza con una ipotesi più ottimista della mia: «Forse la maggiore fonte di ispirazione di Parise è la scoperta di quelle sorprese che possono confermare la forza della vita, un critico direbbe le “epifanie” della vita». È arrivato, era inevitabile, il momento di parlare di cinema. Ci sono moltissimi film possibili nei Sillabari. C’è un tragico film su Salò, con il repubblichino Ico (elegantissimo e crudele) che viene fucilato e lui pensa che sia tutto uno scherzo. C’è il film di Bruno, un vedovo di quarant’anni, operaio in un mobilificio, che, per la prima volta nella sua vita, va in vacanza in camping al mare (di Jesolo), e poi ritorna d’inverno sul luogo del diletto estivo e ha la sensazione che il camping e la gente che lì ha incontrato (compresa una ragazza con la quale forse ...), non ci siano mai stati. La filmabilità di Parise (che fu anche sceneggiatore) non è sfuggita ovviamente al regista: «Alcuni racconti sono veri e propri cortometraggi, altri possono essere spunti e soggetti per film, altri ancora sono delle vere e proprie scene, e questi sono forse i momenti che con più precisione fanno pensare al cinema, per esempio gli sciatori nel racconto Amicizia». A proposito di film, forse scopro l’acqua calda, ma sin dal primo momento in cui ho cominciato ad ascoltare l’audiolibromi è venuto in mente America oggi, il film che Altman trasse in maniera magistrale dai racconti di Carver. Magari (la butto lì) Moretti potrebbe fare un film sui Sillabari. «In questi termini, non ci ho mai pensato. Quel libro è stato spesso un riferimento per poi provare a immaginare altro,ma senza mai trovare la chiave giusta. Vent’anni fa avevo pensato a un mio personale Sillabario, fatto di tanti pezzetti brevi, era un tentativo di pamphlet politico-morale che non mi convinceva e allora lasciai perdere». Quando uno legge i Sillabari finisce per identificarsi con quanto è raccontato. La prima a notarlo fu Natalia Ginzburg. Come se leggendo questo libro ognuno scrivesse la propria autobiografia sentimentale. È capitato anche a Moretti? «Diciamo che ti viene voglia di pensare alla tua autobiografia sentimentale»." (da Antonio D'Orrico, I Sillabari di Nanni Moretti, "Corriere della Sera")

martedì 10 aprile 2012

Google e Facebook, il Grande Fratello non previsto da Orwell. Sorvegliati e contenti


"Un uomo lungimirante, questo Eric Blair, meglio noto con lo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi totalitari se ne intendeva, assai prima che il termine entrasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel 1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontravano a Teheran, già vedeva profilarsi l'antagonismo tra le superpotenze e la guerra fredda.
Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale Orwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il futuro che vedeva all'orizzonte non gli piaceva. Dipinse il panorama infernale di un regno del terrore nel bel mezzo dell'Europa, che in un futuro non lontano avrebbe perfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito unico ai comandi di un "Grande Fratello"; una "neolingua" ideata per capovolgere il significato delle parole; l'abolizione della sfera privata; un regime di sorveglianza a 360 gradi, rieducazione e lavaggio del cervello dell'intera popolazione, e infine un'onnipotente polizia segreta per soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione, con la tortura, i campi di concentramento e l'assassinio.
Fortunatamente quella profezia non si è avverata, almeno per quanto attiene alla nostra parte del globo: con essa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso.
Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che per ottenere almeno in parte quel risultato - e in particolare un sistema di sorveglianza a tutto campo - non c'era bisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo anche all'interno di un sistema democratico, senza l'uso della violenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti.
Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etienne de la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su questo tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, non pago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suo tempo, l'autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze di chi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli - scriveva - a subire questa piaga, o anzi a farsi male da sé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sarebbero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende alla sua miseria, o addirittura la insegue ... Non crediate che un uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchi all'amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allettare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po' di miele in bocca».
Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fare con la figura del monarca unico, personalmente identificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne de la Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell, la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il dominio di un sistema simile a quello descritto da Max Weber negli anni Venti del secolo scorso.
«L'organizzazione burocratica, con le sue professionalità e specializzazioni, la separazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti d'obbedienza in base a una scala gerarchica, sta portando avanti, di concerto con la morta macchina, l'edificazione della struttura, di quel futuro assoggettamento, nel quale forse un giorno gli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totale impotenza, come i fellah dell'antico Stato egizio, se per essi l'unico e ultimo valore in base al quale si decida la natura e l'amministrazione dei loro affari sarà un buon sistema - buono e razionale in senso puramente burocratico - di tutela, rifornimento e gestione. Perché in questo la burocrazia è incomparabilmente più efficiente di qualsiasi altra struttura di dominio».
Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggettamento sarebbe stata «dura come l'acciaio»: ma per quanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber si era sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è trasformata in un abitacolo relativamente confortevole, qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pareti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi felpati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i loro principali obiettivi strategici - sorveglianza a tutto campo e abolizione della sfera privata - senza far rumore. Ricorrono al manganello solo quando proprio non c'è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi; non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamare manager o commissari, e non operano più in caserme, bensì in uffici con l'aria condizionata. Nell'espletamento dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai residenti garantiscono la sicurezza, l'assistenza, il comfort e i consumi. Perciò possono contare sulla tacita approvazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protetti premeranno con zelo un pulsante invisibile con la scritta «mi piace».
Anche su un altro punto l'analisi di Weber appare oggi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza e capacità d'azione dello Stato. Se a noi questa fiducia viene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati, braccati dai mercati finanziari globali, ma anche perché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washington sarebbero in grado di garantire da soli il controllo totale della popolazione; e ciò semplicemente perché i loro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri.
Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con i progressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendono dal "mondo economico", cioè dalle corporation dell'informatica. Solo se le due parti procedono fianco a fianco - i governi da un lato, e dall'altro imprese come Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook - la presa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge il massimo dell'efficacia. È comunque chiaro che in questa fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche è quello del partner più debole, dato che solo le corporation dispongono delle competenze indispensabili, del capitale e della necessaria manovalanza: informatici, ingegneri, programmatori di software, hacker, matematici e crittografi.
Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Stasi avrebbero neppure lontanamente immaginato i mezzi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti telecamere di sorveglianza, il controllo automatizzato dei telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari ad alta definizione, i profili di movimento superdettagliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto; programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, memorizzati in banche dati di sconfinata capienza.
L'ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenticato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle megaimprese risale al lontano 1983 - un anno prima della data che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell. Un censimento relativamente innocuo suscitò allora un certo allarme, e le denunce di molti cittadini furono accolte dalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karlsruhe condannarono l'iniziativa del governo, ma istituirono una nuova legge costituzionale sull'"autodeterminazione informatica", a tutela della personalità. Una sentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno ne ha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popolazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono impotenti, e da tempo hanno gettato la spugna.
Su un punto invece - quello dell'evoluzione linguistica - George Orwell ha colto nel segno: la "neolingua" da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficiale della sociologia. La Costituzione non piace ai cosiddetti servizi. Distinguerli dai criminali informatici è tutt'altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto altro non sono che una card elettronica di censimento delle malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasi hacker. E quanto ai social network, fanno leva sull'esibizionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà.
Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il contante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con le corporation, metta in campo un impegno coerente per abolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito, client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefonia e chip) di prossima introduzione. L'obiettivo non potrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianza capillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono interessati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio online, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un altro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo della materialità del denaro, ridotto a una serie di dati manipolabili a piacimento.
Al solo scopo di completare il quadro daremo infine uno sguardo a un settore collaterale, segnalando i tentativi in atto di abolire i diritti d'autore.
Il copyright è una conquista recente, che risale al Diciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura di libri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.
All'improvviso, il romanzo divenne un prodotto di massa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle tiraturee sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fonte di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avuto molto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi denominato print, è diventato un modello di fine serie per le maggiori case editrici. Le quali considerano ormai il copyright come un ostacolo, con grande giubilo delle avanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l'obbligo di pagare un prezzo per ciò che l'industria informatica definisce content è comunque assurdo. D'ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare e bloggare a piacimento.
Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai il tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni - lo stesso ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre un testo su pergamena o carta deacidificata rimane perfettamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche di un millennio, i media elettronici devono essere riversati con una certa frequenza per non diventare inservibili dopo soli dieci o vent'anni: un dato che ovviamente collima con lo spirito dei loro inventori.
L'abolizione del libro stampato non è peraltro un'idea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da Ray Bradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che ne descrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. In quel racconto utopistico, il possesso di un libro è considerato un crimine e punito con la pena di morte. Nelle loro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esagerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro favore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Bradbury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente, per saperne di più col senno di poi non c'è bisogno di essere un genio.
A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda, inevitabile come l'amen in chiesa: possibile che non ci sia qualche elemento positivo? La risposta è facile, visto e di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenuto grazie alla nostra volontaria servitù non ha richiesto spargimenti di sangue. I «residui del passato» non sono stati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, ma continuano a esistere. E ciò per un motivo evidente: la tolleranza dei nostri sorveglianti si basa su un semplice calcolo costi/benefici. Sarebbe troppo dispendioso tentare di stanare gli ultimi refrattari, di sopprimere una piccola minoranza caparbia, che per puro e semplice puntiglio si oppone al fato digitale. Ecco perché ci si accontenta di una sorveglianza al 95%. Dunque, non è il caso di farci prendere dal panico: anche perché il restante 5% equivale pur sempre a quattro milioni di persone. E così anche in futuro, chi proprio non potrà farne a meno, potrà continuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, e restare relativamente inosservato." (da Hans Magnus Enzensberger, Google e Facebook, il Grande Fratello non previsto da Orwell. Sorvegliati e contenti, "La Repubblica", 08/04/'12)