lunedì 30 marzo 2009

Turchia, la strage delle ragazze 'suicide' per onore


"A Derya, 17 anni, la sentenza di morte è arrivata via sms: «Hai infangato il nostro nome — scriveva uno dei tanti zii — ora o ti uccidi o ti ammazziamo noi». A Nuran Unca, 25 anni, l'hanno detto i genitori, entrambi insegnanti. Lei ha resistito per un po', poi si è impiccata nel bagno di casa. Elif, invece, non ce l'ha fatta a togliersi la vita e ha deciso di scappare. Da otto mesi vive come una clandestina, costretta all'anonimato da un'assurda sentenza di morte emessa per aver rifiutato un matrimonio combinato. Sono solo alcuni dei tanti nomi di ragazze costrette al suicidio per motivi d'onore in Turchia. Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera, grazie alla sua età e alla legge che prevedeva forti attenuanti in casi del genere. Ma nel 2005, per avvicinarsi all'Europa, Ankara ha riformato il codice penale prevendendo l'ergastolo per il delitto d'onore. Così le famiglie sono corse ai ripari e, per non perdere due figli, hanno pensato di indurre le giovani ad uccidersi. In poco tempo le percentuali dei suicidi si sono impennate. Soprattutto nel sud-est del Paese, l'area abitata dai curdi, profondamente influenzata dall'Islam più conservatore. Batman, una cittadina grigia e polverosa di 250mila anime, vanta il triste primato di morti sospette, tanto da essere citata da Orhan Pamuk nel romanzo Neve (Einaudi) in cui un giornalista investiga sulla strana epidemia di suicidi tra le adolescenti. Ma il fenomeno dilaga ormai anche nel resto del Paese. Nella moderna Istanbul, per esempio, si conta un delitto d'onore a settimana. Sui suicidi dati certi non ce ne sono, si parla di centinaia di casi. Gli esperti sostengono che l'emigrazione dei curdi verso le grandi città porta a un'esasperazione del conflitto tra modernità e tradizione. Le teenager scoprono Mtv, i jeans stretti, le feste, l'amore. Basta un'occhiata a un ragazzo o una gonna troppo corta e il loro destino è segnato: il consiglio di famiglia si riunisce e le condanna a morte. «Questo scontro di civiltà — ha spiegato a una troupe della britannica Channel Four Vildan Yirmibesoglu, capo del dipartimento dei diritti umani a Istanbul - sta rendendo la situazione ancora peggiore. Aumenta la pressione sulle donne perché rispettino i dettami conservatori della tradizione. E, chiaramente, ci sono più tentazioni». Ogni giorno decine di giovani bussano alla porta di Ka-mer, il centro fondato nel 1997 da Nebahat Akkoc per aiutare le donne in pericolo. La sede di Diyarbakir ha le pareti color corallo e una poltrona di pelle dove le ragazze sprofondano raccontando la loro storia. L'associazione le aiuta a trovare una casa-rifugio e a rivolgersi a un tribunale. Per rendere le cose più facili è stata creata anche un'hotline, ma telefonare e denunciare la propria famiglia può diventare improponibile nella regione curda dove, secondo i dati delle Nazioni Unite, si stima che il 58% delle donne sia vittima di abusi e che il 55% sia analfabeta. Vista da qui l'Europa appare ancora più lontana." (da Monica Ricci sargentini, Turchia, la strage delle ragazze suicide 'per onore', "Corriere della Sera", 28/03/'09)

Una zampillante fontana di Martin Walser


"Dopo due ore di colloquio con Martin Walser non avete fatto un'intervista. Ne avete fatte quattro o cinque. Lo scrittore — uno dei maggiori in lingua tedesca — è uno tsunami di idee originali, sue. Tutte, in fondo, riconducibili al fatto che l'equazione «Germania uguale a senso di colpa» è errata. Senza negare nulla del passato e degli orrori nazisti, naviga fuori dalla bolla intellettuale e mediatica che inflaziona, cioè annacqua, le tragedie. Vent'anni dopo la caduta del muro di Berlino, non smette di tenersi lontano da quella che tempo fa definì, tra lo scandalo, «industria dell'Olocausto»: successi intellettuali e politici costruiti su di esso. Walser — che ha dato questa intervista al Corriere in occasione dell'uscita in Italia di un suo romanzo del 1998, Una zampillante fontana (SugarCo), ha un'idea del suo lavoro diversa dalla maggioranza degli scrittori contemporanei. Non pensa di avere una missione sociale. «Uno scrittore non può credere di avere una funzione di aiuto— dice —. Nemmeno nella crisi che stiamo attraversando. Certo, ha un'influenza, ma come migliaia di altri. Deve semplicemente fare il suo lavoro. Se qualcuno mi ringrazia perché un mio romanzo l'ha aiutato, sono contento. Ma non è il mio scopo ». E su questo, già, si potrebbero scrivere mille righe. Quando Una zampillante fontana uscì in Germania, per dire, Walser fu criticato perché il romanzo — il cui protagonista, Johann, è lo scrittore stesso negli anni che vanno dal 1932 alla fine della guerra — non parla di Auschwitz.
«Ma nei romanzi io sto vicino al protagonista — spiega — Johann non poteva sapere di Auschwitz. Il fatto è che Auschwitz, come è trattato da molti, è un'emozione tedesca, un'atmosfera ideologica riscaldata artificialmente. Un obbligo che non permette l'estetica perché manca la prospettiva ». Ci sono momenti topici, nella cultura tedesca, nei quali si affermano concetti che non hanno senso, a suo parere. La famosa frase di Theodor Adorno, «dopo Auschwitz tutta la cultura è spazzatura», secondo Walser «non ha significato: la cultura non svanisce perché nella storia avviene qualcosa difficile da spiegare. Anche il "Dio è morto" di Friedrich Nietzsche non ha significato. Io preferisco Nietzsche ad Adorno, ma devo ammettere che non ha senso: è come dire "Urrah, sono paralizzato"». Vent'anni dopo la caduta del muro di Berlino, Walser osserva che oggi molti intellettuali tedeschi si perdono per i prati perché non riescono ad avere un legame con la realtà. Chiedetegli che cosa pensa del fatto che il premio Nobel Günter Grass sostenga che l'unificazione tedesca è stata un takeover del capitalismo occidentale sulla Germania dell'Est. «Bah, bah, bah — risponde —. Devo trattenermi enormemente su questo argomento ». Ma poi non si trattiene granché: «Ancora nel novembre 1989 (quando il muro cadde, ndr) gli intellettuali con Christa Wolf e Grass volevano una confederazione con due monete, due Paesi diversi ma con un confine aperto. E chi avrebbe lavorato ancora per uno stipendio dell'Est che sarebbe stato un terzo di quello dell'Ovest? Prima che il muro cadesse, ero a Dresda e ho visto carovane di umanità che urlavano «Wir wollen raus», vogliamo uscire. Tutto il Paese era una rivoluzione e questi intellettuali arrivano e dicono che le cose si devono fare in un altro modo. Una follia». Altre duemila righe, qui, ci vorrebbero.
«Tra questi intellettuali — continua Walser — c'erano anche quelli da sempre favorevoli a due Germanie, per motivi morali e politici, a causa di Auschwitz dicevano. Ma la divisione della Germania non fu fatta per Auschwitz, fu creata dalla Guerra Fredda, dai Mitterrand e dagli Andreotti. I nostri vicini non si interessavano del fatto che la Germania fosse divisa. Anche Willy Brandt, a un certo punto, disse che non dovevamo irritare gli altri con la nostra idea di riunificazione: tutta la Spd era per la divisione. Le cose sono molto più semplici di come le raccontano alcuni intellettuali: siamo stati divisi per 40 anni e serviranno 40 anni per riunificarci. L'idea che la Germania del-l'Est e quella dell'Ovest fossero due Kulturnationen era insostenibile, serviva solo a lasciare 17 milioni di tedeschi sotto lo stalinismo». Vent'anni dopo, però, siamo nel pieno della crisi più drammatica dagli anni Trenta. Già, dice Walser, «ma non si può usare la stessa parola: quella era una catastrofe, questa è una crisi, una differenza totale». Rassicurante e ottimista. «Tra cinque anni sapremo che abbiamo avuto una crisi e che il nostro sistema ha imparato qualcosa: non è immaginabile che, a quel punto, le speculazioni finanziarie abbiano ancora la possibilità di creare tanti danni. Una crisi è come un corso serio all'università ». A suo parere, gli intellettuali e l'informazione, di destra e di sinistra, su questo argomento sono del tutto non interessanti: «Scrivono perché per loro è una grande occasione, per istinto darwinista». Ma a suo parere dalla crisi usciremo migliori: in Germania, spiega, ci sono imprese in cui sindacati e padroni si accordano per il bene dell'azienda, tipo lavoro per 37 ore e stipendio per 35. Un'altra intervista di due pagine, meriterebbe. «Oggi, di fronte alla crisi, la scelta tra Angela Merkel e Frank-Walter Steinmeier (i candidati avversari alle elezioni del prossimo settembre, ndr) è una questione di gusto, non di politica — dice —. A me piace Frau Merkel, nonostante sia corsa da Bush quando Gerhard Schröder si oppose alla guerra in Iraq. E nonostante io pensi che lei non abbia, in quanto protestante del Nord, diritto di criticare Benedetto XVI, come invece ha fatto. Per criticare Ratzinger e i suoi si devono conoscere i meccanismi e i significati del loro agire. Ratzinger è sempre stato conservatore, anche da cardinale, ma di lui e di quelli che lo circondano mi piace il modo allegro del loro credere. Avere la capacità di essere religiosi è come avere un dono musicale: non tutti l'hanno. Mi piace così tanto questa cosa e questo mondo degli angeli che nel mio prossimo romanzo voglio che gli angeli abbiano un ruolo». Altra intervista sul Papa. A proposito del suo prossimo romanzo, Walser rivela che sta pensando alla riabilitazione del «mammone», il figlio di mamma. Il termine tedesco Muttersöhnchen, negativo, lo ha trasformato in Muttersohn (che prima non esisteva), positivo. «Sarà la storia di un trentenne — dice — al quale la madre spiega di averlo concepito senza un rapporto sessuale». Già sentita, come trama: ma l'abilità dello scrittore starà nel convincere il mammone della verità dell'evento con argomenti forti, seri, credibili. E, ovviamente, anche qui si preparano mille interviste fuori dall'ortodossia tedesca dei tempi. Intanto, dalla finestra di casa, Walser guarda la neve e il sole che, assieme, si stendono sul suo lago di Costanza. Anzi, sul Bodensee suo e di Johann, il ragazzo della zampillante fontana, il quale come lui aveva una madre iscritta al partito nazista, che teneva in piedi casa, e un padre antifascista, che suonava il pianoforte." (da Danilo Taino, Martin Walser contro Gunter Grass: 'Vuole fermare la Storia, una follia', "Corriere della Sera", 28/03/'09)

Giulio Einaudi, l'uomo che pensava i libri


"Il ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in una lettera che gli inviò al culmine della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell´autore passa nel regno delle ombre. Stampato il libro, ti metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai costruiti più di Balzac, sottintendeva l´amica scrittrice, assai più di Dumas padre. Puoi guardare dall´alto Gogol e Molière.
È verosimile che l´editore entrasse nello scherzo con un cenno d´assenso. Lui era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano d´altronde i numeri: un catalogo Einaudi uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione, perciò, cercare nell´aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o meno ammirative sarebbe come consultare d´un sol fiato un´enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po´ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto, ascoltava e dirigeva». Spesso Giulio - detto "il Cavaliere Esistente" per distinguerne l´imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da Italo Calvino - usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il numero della casa editrice, a Torino, fu per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno - Giulio Einaudi è figliolo di re - Giulio Einaudi non c´è per nessuno - Giulio Einaudi, mi spiace, non c´è». Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l´umanità in due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi tromboni». Corollario implicito: i primi si scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori. Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori. Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest´inclinazione quando c´era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era capace di mandare al macero montagne di copertine già stampate. Il suo amico Vittorio Foa - che aveva fra l´altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto Torino-Regina Coeli quando i fascisti li arrestarono come sovversivi nel 1935 in una retata di "einaudiani" e simili - sosteneva che lui, l´editore, «i libri non li leggeva, li annusava». Sto percorrendo la leggenda d´un uomo e di un´impresa negli anni d´oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l´inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l´esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l´egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l´ultimo decennio di vita dell´editore, già amareggiato dalle ricorrenti crisi aziendali che preludevano all´assimilazione della Einaudi nell´impero berlusconiano. Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio». Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che ha dedicato dieci anni fa un volume alla Einaudi, Pensare i libri (Bollati Boringhieri), bastò enumerare i filoni culturali, presenti nella casa editrice, che non andavano in direzione della falce e martello: dalla famosa "collana viola" a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d´oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è visto come un controrivoluzionario. Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i «suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori "storici", Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ´61. Già timido di suo, lo storico vedeva peggiorare durante queste visite la propria latente balbuzie. Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane, lo salutava di malavoglia. Lo molestava il fatto che in quella interminabile biografia Mussolini non venisse descritto come il male assoluto. «Era una cosa di pelle, non ideologica», commenta il divulgatore dell´aneddoto. Come dire che, ai propri capricci, un Capo così non si cura di reagire." (da Nello Ajello, Giulio Einaudi, l'uomo che pensava i libri, "La Repubblica", 29/03/'09)

sabato 28 marzo 2009

Giardini. Riflessioni sulla condizione umana di Robert Pogue Harrison


"Secondo molti miti di fondazione il genere umano inizia il suo percorso da un Giardino. È anche il caso del Genesi: nel quale però la storia umana propriamente detta inizia con la Cacciata, da quel Giardino. Sin dall'Origine l'umanità ha sentito il bisogno di rifugiarsi in un luogo chiuso (il greco parádeisos - «giardino» appunto - viene dal persiano pairideiza, «luogo recintato») il quale finisce, però, per apparirle soffocante. Il tranello dell'Avversario è in realtà il primo Atto Mancato: e il Frutto Proibito una trasgressione necessaria. Destino dell'umanità non era l'Eden, ma la Caduta. Questo il presupposto di Robert P. Harrison in Giardini, che coi precedenti Foreste (Garzanti 1992) e Il dominio dei morti (Fazi, 2004) compone una splendida trilogia dedicata al rapporto fondativo che il genere umano intrattiene con la Terra. Al centro del giardino verbale di Harrison c'è un'acuta lettura della Commedia: alla fine del Purgatorio, rincontrata Beatrice nella «divina foresta spessa e viva», l'everyman s'è liberato della propria Colpa (e ha riconquistato, infatti, la sua sede originaria). Ma «la storia non finisce qui». Per Harrison l'insoddisfazione di Dante per le Delizie Terrene, la pretesa di avventurarsi nel Paradiso celeste - insieme alla fuga di Ulisse dall'Isola dei Feaci e a quella dei Paladini dai giardini dell'Orlando Furioso - è tipica dell'uomo occidentale: il quale (sempre più catastroficamente nella modernità, con la coazione capitalista allo Sviluppo) è sospinto in avanti da una forza senza nome, che si alimenta da sé stessa. Il Paradiso dell'Islam - annota Harrison in pagine si capisce quanto delicate, ma assai equilibrate - è invece solo Terrestre, e suo valore supremo la Pace: la sua aggressività recente non fa che difendersi da uno stile di vita - il nostro - che anche quando si professa pacifico è improntato a una frenesia senza scampo. A contrapporsi a tale movimento distruttivo è l'archetipo del Giardino. Il Giardiniere è l'uomo della Cura, in termini heideggeriani: che Coltivando difende, cioè, Quello Che Va Difeso (un pensiero simile ispirava, negli anni Ottanta, le celebri performance di Joseph Beuys). Dopo il trauma della morte di Socrate la filosofia s'è separata dalla pòlis, con l'Accademia di Platone e il Giardino di Epicuro. È la chiave concettuale del libro: Harrison legge la separazione da una società improntata a valori che rifiutiamo, l'invito di Voltaire a «coltivare il nostro giardino», alla luce delle considerazioni sull'Umanità in tempi bui di Hannah Arendt: «La fuga dal mondo […]si può sempre giustificare finché la realtà non viene ignorata, ma è costantemente riconosciuta come ciò da cui si deve fuggire». La comunità dei giovani narratori nel Decameron di Boccaccio ci mostra la natura sociale di questo Rifugio: nel quale l'esistenza terrena prende valore dalla presenza, in negativo, dell'Inferno - la Peste - dal quale rifugge. Certo non è un caso che sia questo il tempo, non meno che infernale, in cui l'arte paradisiaca dei Giardini assume tale rilievo (ben due importanti collane le sono, da noi, espressamente dedicate: «Giardini e paesaggi», curata per Olschki da Lucia Tongiorgi Tomasi e Luigi Zangheri, e «Oltre i giardini», diretta da Manuela Pasquali per Bollati Boringhieri). Ma pare eccessiva la fiducia di Harrison nel valore salvifico del Giardino. La modernità ci ha mostrato l'altra faccia di questa metafora: nel Paradiso di Dante troviamo, a designare il nostro mondo di violenza e sopraffazione, una metafora come «l'aiuola che ci fa tanto feroci»; mentre Leopardi nello Zibaldone ha la splendida pagina del giardino della souffrance: in cui, avvicinando lo sguardo al locus amoenus, scopre un formicolare di «patimenti»: «ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio)». Decisamente meno ottimista di Harrison è un altro eccellente studioso, lo svizzero Michael Jakob (il quale per un piccolo editore di Verbania, Tararà, cura una deliziosa collana dedicata alle Montagne letterarie). Se Harrison ci dà una Filosofia del Giardino, Jakob ce ne propone la Semiotica. Il suo saggio, breve quanto acuminato, è dedicato infatti ai vari linguaggi coi quali il Giardino è stato raffigurato: dalla pittura, dal cinema e dalla fotografia. Si va dai giardini seriali di Monet e Paul Strand ai tableaux fotografici di Eugène Atget; dal giardino devastato nel Quarto potere di Orson Welles all'Eros e Thanatos del Resnais dell'Anno scorso a Marienbad, dell'Antonioni di Blow up e del Greenaway dei Misteri del giardino di Compton House, sino all'incipit folgorante di Velluto blu di Lynch (col giardino delle delizie che «leopardianamente» nasconde un inferno entomologico); per giungere ai poco rassicuranti giardini realizzati da artisti d'oggi come Derek Jarman e Ian Hamilton Finlay. Per Jakob il Giardino, al di là del suo eventuale uso «sociale», è essenzialmente Rappresentazione del Potere di un «monarca», letterale o metaforico. Eloquente la storia di come nacque il «giardino formale» di Resnais e Greenaway: il primo fu quello di Vaux-le-Vicomte che si fece costruire il ministro delle Finanze di Luigi XIV, Nicolas Fouquet. Il Re Sole, oltraggiato da quell'esibizione di sé, alla prima occasione fece imprigionare il ministro. Da quell'Augusta Invidia nacque l'idea di un Giardino simile ma ancora più sfarzoso: e fu la Reggia di Versailles. Giustamente, però, Harrison conclude il suo libro su una nota ambigua. Nel grande romanzo di Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, la figura indimenticabilmente autodistruttiva del Console Firmin vive sospesa fra l'educato giardino del vicino Quincey e il burrone, la burranca, nel quale i fascisti messicani alla fine getteranno il suo cadavere. La frase ricorrente nel libro è quella, letta su un cartello, che perseguita il Console: «LE GUSTA ESTE JARDÍN? QUE ES SUJO? EVITE QUE SUS HIJOS LO DESTRUYAN!». Assediato dall'Inferno del Mondo, l'Occidente oggi non fa altro che alzare le mura del suo Giardino. Ma la vera minaccia non sono i Barbari. Siamo noi, i figli dell'Occidente, che dall'interno stiamo devastando il Giardino dei nostri padri. Forse l'unica risposta è quella di uscire, finalmente, e spingerci Oltre il Giardino: come per primi fecero Adamo ed Eva." (da Andrea Cortellessa, Uscire dal Giardino, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/03/2009)

mercoledì 25 marzo 2009

L'invenzione dell'isteria di Georges Didi-Huberman


"Nel 1862 Jean-Martin Charcot diventa direttore dell'ospedale psichiatrico di Parigi, la Salpêtrière, dove si trovano ricoverate tra 4000-5000 donne. In questo luogo il medico francese «scoprirà» l'isteria, o meglio, l'inventerà negli anni a seguire, come intitola il suo saggio Georges Didi-Huberman. L'isteria è una nevrosi dai quadri clinici molto differenti, conosciuta prima ancora della nascita della moderna psicologia, e della stessa psicoanalisi, fondata su una sorta d'irritabilità, cambiamento d'umore, crisi e agitazioni del corpo. Ippocrate la riteneva propria della donna; la parola stessa, isteria, viene dal greco e indica l'utero, e si riteneva causata dal cattivo funzionamento dell'organo femminile. Charcot separa le ricoverate affette da questa nevrosi, o almeno ritenute tali, e le include in una sezione apposita del suo manicomio, che diviene, rispetto al resto del reclusorio, un purgatorio; là eserciterà la sua ossessiva osservazione. Ogni martedì tiene lezione mostrando al pubblico dei suoi ascoltatori - medici, studenti, curiosi - i casi che va scoprendo. Tra loro uno straordinario, forse il più importante di tutto il suo «catalogo»: Augustine. Si tratta di una giovane, ricoverata a quindici anni per una serie di sintomi classificati come isterici, e poi rimasta a lungo nel reclusorio. Augustine è il soggetto principale, o meglio, il più interessante dei pazienti che servono a Charcot per «inventare» l'isteria moderna, di cui ci restano le straordinarie immagini. Il principale strumento che lo psichiatra usa per osservare e commentare la malattia, i suoi variegati segni, è la fotografia. Questa è la grande invenzione di Charcot: l'uso del mezzo fotografico che gli consente di tramandare sino a noi l'insieme delle sue teorie; oltre i libri, le lezioni, i resoconti, le biografie, la fotografia diviene la forma stessa dell'isteria. Mostrare quello che si vede, così come lo si vede? Questo si
domanda Didi-Huberman, e si risponde che l'immagine è il problema principale di questa malattia che nel frattempo è divenuta un luogo comune nelle nevrosi contemporanee, tanto da farci pensare che sia un fenomeno diffusissimo, qualcosa che riguarda persino i comportamenti sociali: vere e proprie epidemie che si diffondono in momenti particolari nella collettività. Forse non è un caso che un altro indagatore, Alphonse Bertillon, nel medesimo periodo, abbia messo a punto un sistema per classificare e schedare mediante la fotografia i criminali e i recidivi; membro del corpo della polizia parigina, egli è l'inventore delle schede segnaletiche esempio eccellente di schedatura e classificazione della popolazione. Le istantanee di Charcot sembrano offrire una certezza che supera quella stessa dell'occhio umano, così da oggettivare una scienza, la medicina, fondata sul colpo d'occhio, sulla lettura visiva dei sintomi. Il libro dello storico dell'arte francese L’invenzione dell’isteria (Marietti) mette in luce come la malattia individuata dal medico presuppone una «messa in scena»: le donne-attrici la rappresentano sul palcoscenico della Salpêtrière, mentre i medici-spettatori la guardano seduti in platea. Charcot ne è il regista. L'idea che muove questo studio è in effetti quella della visione di Charcot come «artista», ovvero creatore di una malattia che è fondata sulle espressioni del corpo, i gesti, i movimenti, le smorfie e i contorcimenti, una sorta di danza magica, di cui l'osservatore clinico sembra il suscitatore e il destinatario.
Forse l'isteria non esiste? Didi-Huberman non si preoccupa di smentire o confermare Charcot; gli interessa piuttosto mettere in luce, come sottolineano nella prefazione Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, l'aspetto estetico, la «forma» dell'isteria stessa. Ed è proprio questa chiave che ci permette di passare dalle pagine del libro alla realtà stessa, quella che viviamo oggi, di guardarla attraverso il racconto di Didi-Huberman. La nostra società sembra dedita in ogni suo aspetto all'elemento estetico, non tanto o non solo il bello, quanto l'estetico sotto ogni aspetto, kitsch compreso. L'estetizzazione della vita quotidiana è un evento incontrovertibile della contemporaneità, che pratica, spesso senza rendersene conto, un vero e proprio culto della forma. Non solo la moda o il design, la pubblicità o il costume, ma ogni lato della nostra vita sembra intonato alla ricerca della «forma». Inoltre, ci muoviamo all'interno di un teatro dell'esistenza di cui non cogliamo quasi mai l'esistenza. Come il protagonista di The Truman Show, siamo dentro uno spettacolo di cui recitiamo al medesimo tempo la parte di osservati e di osservatori, attori e registi degli altri e di noi stessi. L'occhio domina sovrano, mediante l'uso di differenti tecnologie della visione e dell'osservazione. In questo contesto, l'isteria resta ancora, insieme al suo opposto - il sonnambulismo catatonico, come mostrava lo stesso Charcot -, una delle nevrosi più diffuse. L'eccitabilità e la passività sono oggi i ritmi bipolari che scandiscono gli eventi della nostra stessa società" (da Marco Belpoliti, Va in scena Augustine Madame Isteria, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/03/'09)

martedì 24 marzo 2009

Eugenio Borgna: "Una famiglia stregata dalla morte"


"Il dolore di vivere - nei libri di Eugenio Borgna - assume spesso volti indimenticabili, la sua conoscenza delle esperienze psicotiche rimanda ai grandi testi della filosofia e della letteratura, soprattutto della poesia. Ne Le intermittenze del cuore (titolo proustiano per un saggio uscito anni fa da Feltrinelli), Borgna ha scritto diffusamente della "smania di morire" di Sylvia Plath e di come - attraverso i suoi scritti - si colgano gli abissi più terrificanti della vita psichica. Borgna è primario emerito di psichiatria all´Ospedale maggiore di Novara. Ma qui è anche da fine conoscitore della Plath che parla del figlio della poetessa, di Nicholas Hughes: suicida come la madre. Si potrebbe ipotizzare una "coazione a ripetere" nella drammatica conclusione di un´esistenza segnata dalla solitudine e dalla depressione. Oppure fare ricorso al modello imitativo che spesso caratterizza le condotte suicidarie. «Intanto - dice Borgna - non sappiamo se si possa attribuire al figlio della Plath una qualche psicopatologia. Sappiamo invece che Nicholas aveva solo un anno quando ha perso sua madre e che ha potuto conoscerla solo attraverso le poesie, le lettere, i diari o anche quel romanzo - La campana di vetro - in cui la Plath descrive la catastrofica esperienza dell´elettroshock praticato senza anestesia ... Sono scritti riempiti di deliri, allucinazioni, angosce, paure, disperazioni. Testimoniano di un nocciolo psicotico più forte di ogni altra possibilità di vita, di una assoluta volontà di morire. Sono testi che avranno costituito una tragica forma di richiamo - sia pure per un lungo tratto respinto o almeno arginato - verso un´identificazione profonda e radicale con il destino della madre». Borgna non parla dunque tanto di mimesi, di un processo di imitazione, quanto proprio di immedesimazione - di meccanismi di natura inconscia che possono entrare in gioco all´interno di un gruppo familiare. Tanto più se si pensa al ruolo complesso e ambiguo di Ted Hughes, l´uomo che favorisce il suicidio di Sylvia Plath e determina quello della sua nuova compagna, Assia Wevill. Un padre che Nicholas difficilmente avrà mai perdonato. «Evitiamo invece - conclude Borgna - quel corto circuito per cui ogni esperienza psicotica si trasmetterebbe ereditariamente: una tesi inaccettabile e scientificamente falsa. Di Nicholas Hughes, del suo destino stregato dalla morte, colpisce piuttosto l´equivalenza psicologica e umana con la solitudine radicale della madre ... E anche quel modo determinato, maschile, di togliersi la vita, impiccandosi. Senza lasciare alcuna breccia alla speranza, cancellata dai morsi di un malessere stratificato nel tempo a cui alla fine si è abbandonato»." (da Luciana Sica, Una famiglia stregata dalla morte, "La Repubblica", 24/03/'09)

Sylvia Plath. Il fantasma di una madre


"Quarantasei anni dopo il suicido della madre, la poetessa Sylvia Plath, Nicholas Hughes si è impiccato nella sua casa in Alaska. Da anni combatteva contro la depressione. Aveva lasciato la cattedra di Scienze oceaniche all´università di Fairbanks per mettere su una fabbrica di ceramiche. Nicholas Hughes era nato 47 anni fa dal matrimonio fra la Plath e Ted Hughes, anche lui poeta. Non era sposato e non aveva figli. Si è ucciso il 16 marzo scorso, ma la notizia è stata diffusa l´altro ieri sul "Times" dalla sorella Frieda. Sylvia Plath si uccise nel 1963 con il gas. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes, Assia Wevill, si tolse la vita allo stesso modo e morì anche la figlioletta della coppia. Sul poeta britannico cadde la colpa di aver spinto entrambe le donne al suicidio con i suoi adulteri. La sua versione dei fatti fu raccontata poco prima della morte, nel 1998, in Lettere di compleanno. Il figlio della grande poetessa viveva in Alaska. Quando la madre si tolse la vita aveva solo un anno. Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile. Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell´Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un´innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda. Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com´è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l´hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all´indomani del ritrovamento del cadavere, l´11 febbraio 1963. Si parlò di pene d´amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un´altra donna. Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d´ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno. Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all´altare. All´inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteratura i due fanno avanti e indietro tra l´America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappatelle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un´altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. L´accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell´autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un´ultima poesia e infila la testa nel forno. La tragedia ha un´assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L´ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d´amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce».
Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /... la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un´automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici. L´amante del marito, l´amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos´è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l´eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d´inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto»." (da Tommaso Pincio, Sylvia Plath. Il fantasma di una madre, "La Repubblica", 24/03/'09)

lunedì 23 marzo 2009

Peccati capitali di Aviad Kleinberg


"Il peccato è fuori moda. Per usare un eufemismo - quanto mai inadeguato al contesto -, ha perso consistenza. Nella vita comune, la sfera religiosa è sempre più sbiadita (oppure vira verso l'oltranzismo) e d'altro canto l'universo laico, teoricamente indifferente ai canoni della fede, il peccato non sa proprio come gestirlo. Pensare che, come dice giustamente Aviad Kleinberg, storico israeliano di cui ora il melangolo manda in libreria Peccati Capitali (peccato, ops ... per qualche caduta nella resa italiana di termini ebraici), ci confrontiamo continuamente con il vizio. Fa parte della vita di tutti, seppure in misura e proporzioni sempre variabili. Il punto dunque è: in un presente così scardinato come il nostro, che fare di questa irrimediabile pochezza umana? Non esiste ovviamente una risposta univoca. Forse non esiste risposta che tenga e anche qualora la si trovasse, sarebbe inutile. E' lecito pensare che avrebbero volentieri sottoscritto questo scetticismo condito di rassegnazione anche Adamo ed Eva. Che magari avevano ancora tutto o quasi da imparare, ma in fatto di peccati (giustappunto ...) non sono secondi a nessuno. Anzi, indiscutibilmente «originali». Tuttavia, è doveroso precisare che la storia di quella fatale caduta è ancora tutta da vedersi, e lascia adito a una vastità quasi inesauribile di letture, interpretazioni, giudizi. Mettiamola così: Eva aveva tutto il diritto di non sapere, di ignorare la proibizione calata dal cielo a chiare lettere. Quando Dio ingiunge al neonato Adamo (che poi in ebraico significa genericamente «uomo», come a dire che nessuno è escluso) di mangiare quel che gli pare, tranne quel frutto là, Eva è ancora da venire. Assente più che giustificata, dal momento che nessuno l'ha già creata. Comunque siano andate le cose, di lì in poi la storia è più o meno chiara. Per il cristianesimo, ogni individuo nasce con addosso il fardello di quel peccato originario, e la vita non è altro che un faticoso, impervio, per lo più fallito percorso di riscatto. Attraverso la fede ma soprattutto le opere, si rende possibile (ma a duro prezzo) l'affrancamento dalla tara che ci portiamo in quel DNA non genetico bensì etico. Biblico. Religioso. Lo si può chiamar come si vuole, ma innegabile resta la sua invadenza. Per l'ebraismo però, e anche per l'islam, il discorso non è propriamente in questi termini. L'errore della prima coppia non depriva noi. E' «soltanto» (si fa per dire) un'ammonizione. Il preludio a una storia imperfetta. Del resto, l'esercizio della morale deve presupporre la disponibilità del libero arbitrio, che l'idea di peccato originale, cioè congenito, inevitabilmente scalfisce. Solo potendo scegliere, compiere il bene è un merito e peccare diventa una colpa. Eppure, tutte le fedi galleggiano sull'evidenza che l'umanità nasce debole, vocata a fallire. Aviad Kleinberg affronta la questione non da poco con un tono nuovo. Moderno e spregiudicato, nel senso che è libero dai pregiudizi: onestà non da poco, in un campo minato come questo. E per di più, è armato di una grande competenza in materia, da studioso di teologia cristiana. Ebreo e israeliano. Una condizione dunque in bilico, ideale per guardare ai tradizionali vizi capitali con un occhio nuovo, di particolare riguardo: accidia, invidia, lussuria, gola, avarizia, ira, superbia. E ipocrisia come apparato finale ... Due sono gli aspetti di questa salutare schiettezza nell'approccio. Il primo deriva dall'assunto che il vizio è parte integrante della nostra «normalità». Anche di chi scrive e che, nel caso di Kleinberg, non esita ad ammettere che l'argomento è così spinoso ed endemico da escludere la possibilità di un approccio distaccato. Su un terreno come questo, in parole povere, non si può non cadere nell'autobiografico. Quando si parla di queste cose, ognuno di noi ha qualcosa da raccontare, e lo storico non esita a chiamarsi dentro. Ma al tempo stesso egli cerca un contatto «disinteressato» con la materia, prova a non militare, non tirare l'acqua al mulino di nessuna confessione, nessun sistema morale. Il risultato è una affascinante narrazione dentro le umane passioni, anche e soprattutto le più scomode." (da Elena Loewenthal, Lo scetticismo cancella la colpa, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/03/'09)

Ermanno Detti: "Ormai si esagera, le alternative esistono"


"Ermanno Detti è tra gli studiosi che hanno osservato con maggior incisività di argomentazioni l'affermarsi, il dilagare e il perdurare del fenomeno Fantasy e, da «resistente al genere», è insofferente all'inerzia omologante degli editori. Giornalista e scrittore, tiene corsi e seminari sulla letteratura giovanile presso le università di Roma Tre e di Bressanone e dirige Il Pepeverde, letture e letterature per ragazzi, un osservatorio frequentato dagli operatori del settore. Il Fantasy continua a dominare la scena commercial-editoriale, complice il persistente favore dei ragazzi: sono a loro volta piallati nell'omologazione? «Guai a non assecondare i gusti dei ragazzi, se c'è una richiesta di Fantasy gli editori fanno bene a investire nel genere. Mi sembra però si sia perso il senso della misura, difatti con troppo Fantasy i lettori giovani sono addirittura diminuiti! Viene da pensare che altri libri di spessore continuino a scomparire sotto la montagna di pagine con draghi ed elfi e che i tanti ragazzi che non amano questo genere abbiano alzato le mani, arrendendosi al dominatore». Ma il Fantasy è solo pattume? «Del buon Fantasy lo si trova ma la produzione è per lo più scadente, raccattata in fretta e furia sull'onda del successo di Harry Potter, e delude i lettori. E' successo e succede per rincorrere il best seller, abbandonando di conseguenza una produzione almeno dignitosa che negli anni passati aveva invece fatto crescere la passione per la lettura». Che segnali arrivano dai lettori della sua rivista "Il Pepeverde"? «Arriva un segnale preciso: il Fantasy è al capolinea. Spero comunque che il meglio di questo genere resti, da Tolkien e Lewis ai pochi autori contemporanei di livello, per intenderci. E che intanto riemerga finalmente la letteratura di generi diversi, classica e moderna. Si profilano interessi alternativi? «Nei giovani adulti sembra affermarsi il romanzo "impegnato". Non quello con finalità didascaliche o a tema - bullismo, droga, ecologia -, né quello "intellettuale" che passa sulla testa dei lettori, ma le storie che sottendono alla trama questioni di grande rilevanza umana e civile. Penso ai successi di autori quali Jerry Spinelli, Marie-Aude Murail, Ally Kennen, Anne-Laure Boundoux. Ma pure gli autori italiani sono bravi, quando presentano opere storiche o esaltano i valori umani come fanno Giulio Levi e Vivian Lamarque in belle storie, che narrano grandi passioni e slanci emozionanti impersonati da eroi puliti e schietti, raccontati con una leggerezza farcita di ironia, allegria e vitalità. Ai giovani bisogna proporre pagine da divorare, terribilmente coinvolgenti, se vogliamo avere dei lettori permanenti: il "vizio di leggere", se si prende, è un vizio vero!». Però intanto hanno successo i libri di evasione tipo, appunto, il Fantasy. «Non demonizziamoli. La mente ha bisogno di nutrirsi di cibi diversi e per i ragazzi occorrono proposte variegate, evasione compresa, e una guida a conoscere - dico conoscere - opere diverse: un compito fondamentale degli insegnanti, dei bibliotecari e dei genitori. Perché nell'arredo della cameretta dei figli non prevedono intanto, come "ospite irrinunciabile", una libreria da riempire con giornalini, fumetti, videogiochi e addirittura con certi libri?». E se volessimo indicare un imbucato, alla grande abbuffata del Fantasy? «Direi senz'altro l'Avventura, un genere poco visitato benché accolto con molto favore dalla critica e dal pubblico»." (da Ferdinando Albertazzi, Ormai si esagera, le alternative esistono, "TuttoLibri", 21/03/'09)

sabato 21 marzo 2009

Skellig di David Almond



Bologna Children's Book Fair

"Skellig è uno dei libri per bambini più belli che siano mai stati scritti. Uno dei migliori esempi di quello che può fare ed essere la letteratura per l'infanzia. Creato da David Almond, autore inglese di rara profondità e delicatezza esce nel 1998 in Gran Bretagna. Approda in Italia poco dopo grazie all'acume e all'attenzione di Francesca Lazzarato, che negli anni in cui fu attiva come editor presso la Mondadori Ragazzi regalò alla casa editrice i migliori titoli del suo catalogo. Un catalogo ora in gran parte smantellato e inviato al macero. Benissimo ha fatto Salani a ripescare dal pozzo in cui tutto sparisce questo titolo che andrebbe collocato nello scaffale dei libri che non tramontano. La storia è narrata con una profondità, una sincerità ed una pietas nei confronti dei propri protagonisti che, dei tanti libri da cui leggo brani ai miei studenti di letteratura per l'infanzia all'università, questo non riesco a prenderlo in mano, perché non posso leggerlo senza che la voce mi si spezzi, inaspettatamente ed in punti in cui non necessariamente qualcosa di eclatante accade. In effetti il romanzo è il contrario di un romanzo d'azione: è fatto tutto di piccolissimi spunti e soprassalti minimi. Ci sono libri che si presentano come così intimi che la loro dimensione ideale è quella della lettura muta e solitaria, libri che a leggerli ad alta voce sembra quasi di profanarli, tanto sono discrete, impalpabili e segrete le cose che vogliono raccontare. Per esempio la storia di un dolore infantile. Michael si sente più solo che mai, nella grande casa in cui si è appena trasferito, una casa estranea e tutta da sistemare, con genitori cari ma assenti perché troppo presi dall'angoscia per quella sorellina appena nata che non sembra poter sopravvivere ad una malformazione al cuore. E in questo stato emotivo di abbandono, paura e afflizione trova nel vecchio e pericolante garage del giardino in cui non dovrebbe entrare una strana creatura che fino alla fine rimarrà un mistero per lui, per la piccola amica che è l'unica persona a vederla oltre a Michael, e per il lettore. Sembra un barbone, scorbutico e malato, che non si riesce ad alzare. Ma ha qualcosa dietro le spalle, sulla schiena, che da sopra il cappotto Michael riesce a sentire. Il bambino è attratto da questo essere e lo vuole smuovere, aiutare, forse salvare. Non potendo agire sugli altri aspetti angosciosi della sua esistenza, trasferisce sullo strano personaggio la propria voglia di contribuire a fare andare le cose bene, e si oppone con ostinazione al suo evidente volersi lasciare andare. Inizierà a portargli cibo ed aspirine, e con Mina, la straordinaria bambina sua nuova vicina che passa il proprio tempo sugli alberi, a metà tra le scimmie e gli uccelli di cui conosce nidi ed abitudini, riusciranno a trascinarlo fino alla soffitta di una casa abbandonata, nella quale nidificano i gufi. Da lì, le vicende della creatura che si rivela effettivamente alata si mescolano con quelle della neonata, forse solo nella mente e nei sogni di Michael, fino alla svolta finale. In maniera estremamente fluida, elegante, sorprendente, la storia si riempie di riferimenti a William Blake e a Charles Darwin, due grandi personalità opposte ma uguali nell'avere sviluppato rispettivamente visioni poetiche e teorie scientifiche sulla solo illusoria fissità della specie umana. Che si è piuttosto trasformata, è stata altro e potrà cambiare, mentre si mescolano nella testa dei bambini nozioni scolastiche, motti familiari e concezioni popolari che vedono per esempio nelle scapole i resti di antiche ali. Per cui si rendono indistinguibili uomini, uccelli e angeli, o meglio uccelli, angeli e bambini, dato che sono soltanto i bambini a poter vedere quello che tra gli adulti solo i più sensibili e i più dotati riusciranno a dimostrare: che siamo parte di un Tutto che non coincide col nostro sapere e con la nostra vita di ogni giorno, ma col quale dobbiamo sintonizzarci per poter dare a questi un senso più profondo. Come tutti i classici, Skellig è un romanzo insieme attuale e fuori dal tempo. Un romanzo in cui non si cerca di ammiccare ai lettori attraverso un'ambientazione, una situazione, un linguaggio che siano lo specchio immediato e perfetto del loro tran tran quotidiano, la riproduzione ostentata della loro vita e dei loro problemi di tutti i giorni, ma che non prova nemmeno a trasportarli in mondi altri e lontani, quali vorrebbero essere tutti gli universi paralleli identici e prevedibili propri di tanto fantasy. Almond ha fatto sua, se mai, la lezione della grande Letteratura Fantastica, quella dei Romantici dell'Ottocento come E.T.A. Hoffmann, che ben sapevano come fosse la nostra stessa realtà, però perturbantemente trasfigurata, lo scenario ideale dell'arte e la dimensione che più nel profondo ci può colpire, stupire, coinvolgere e segnare, aprendoci la mente. Non c'è un Qui in cui tutto si spiega, si riconosce ed è dato, o un Altrove dove tutto è magicamente possibile e strano, ma un mondo, il nostro, di cui fa parte anche quanto ci sfugge, non è «normale» e non si comprende. E questo mondo, che contiene insieme noi e tutto quanto non siamo noi e non ci appartiene, è un mondo meraviglioso proprio perché in esso ogni cosa convive e si intreccia nei più misteriosi modi. Che restano fino in fondo tali: sentiti, intuiti, còlti a qualche livello, ma mai fino in fondo esplicitati, disvelati o spiegati dalla storia che pure continuamente vi allude. Questo aspetto del contatto sempre possibile con qualcosa che va al di là dell'ordinario, della presenza, Qui, di Altro, di un'isola che non c'è, accanto alla nursery dove dormono i bambini, di dimensioni in cui si viene trasportati da governanti molto speciali, al di là della soglia di casa, di una natura che sembra dotata di magia, in giardini segreti che aspettano solo di essere trovati, pervade la miglior letteratura per l'infanzia e tutta l'opera di questo autore. Lo si ritrova, potente, quasi in se stesso protagonista, anche negli altri suoi romanzi, soprattutto ne Il grande gioco (Mondadori, fuori catalogo) e il perfetto dosaggio di dicibile ed indicibile, di espresso e di evocato, di dati di fatto e sogni, emozioni e visioni fa di Skellig il grande libro che tanti, altrove, hanno riconosciuto. Mentre da noi ha rischiato di andare perduto." (da Giorgia Grilli, Con romanzi così i ragazzi volano, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/03/'09)

La morte del prossimo di Luigi Zoja


"Prima scena. La cassiera del supermercato tiene lo sguardo fisso davanti a sé, poi lo abbassa verso la macchina con cui legge i codici a barre dei prodotti. Il cliente le allunga una banconota da 500 euro; la donna fa segno di no con la testa. Aspetta che il cliente le dia un taglio più piccolo. Intanto continua a guardare altrove. Seconda scena. Lo scompartimento del treno, un tempo una piccola stanza dentro il vagone, retaggio del tempo in cui le carrozze erano trainate da cavalli, è colmo di persone. Molti indossano le cuffie dell’iPod, altri sono chini sul computer oppure stanno telefonando al cellulare. Questi sono solo due esempi di quella che lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja definisce nel suo nuovo libro La morte del prossimo (Einaudi), un evento che sembra segnare le società occidentali globalizzate. La parola greca che indica il «prossimo» è plesíos, letteralmente: «l’altro che ci sta vicino», ovvero la persona che senti, che vedi, che puoi toccare. Il doppio comandamento su cui si è retta per millenni la civiltà ebraico-cristiana, ama Dio e ama il prossimo come te stesso, è diventato difficile rispettare. Non solo perché, come ha sanzionato il XIX secolo, Dio è morto - l’annuncio nicciano è diventato regola pratica per milioni di persone nel corso dell’ultimo secolo -, ma anche perché l’ampliarsi delle dimensioni del mondo rende sempre più problematico sapere chi è davvero il nostro «prossimo». Se la capacità di immedesimarsi nell’altro è stata una delle poche certezze degli uomini occidentali, scrive Henning Ritter in Sventura lontana. Saggio sulla compassione (Adelphi), l’empatia appare ora al tramonto mentre proprio i nuovi mezzi tecnologici rendono sempre più stretto il mondo stesso, avvicinandoci le immagini della sofferenza, portandole ogni giorno nelle nostre case. Lo scrittore Witold Gombrowitz racconta in uno dei suoi diari di aver scorto un giorno su una spiaggia francese degli scarabei rovesciati all’insù, che il sole stava arrostendo, e di aver cercato di rimetterli nella giusta posizione: un insetto, poi un altro, e un altro ancora. Ma la spiaggia appare pullulante di animaletti, e Gombrowitz si rende conto dell’impossibilità a salvarli tutti. Che fare? Ritter ricorda un passo di Papà Goriot di Balzac in cui si narra un apologo: cosa faresti se potessi uccidere un mandarino in Cina con la sola forza della volontà, e diventare ricco? Il problema di stabilire un’etica della vicinanza, e insieme di un’etica della lontananza, è diventato decisivo. Secondo Zoja il circolo vizioso a cui assistiamo è quello del saldarsi dell’indifferenza per il vicino, effetto non secondario delle società di massa, e la scomparsa dei valori tradizionali, così che la morale dell’amore - fondamentale nel cristianesimo - diventa di fatto impossibile per mancanza d’oggetto. E tuttavia, con un curioso feed-back, accade che la prevalenza della lontananza e la mediazione della tecnica nei rapporti interpersonali - si pensi a Facebook e a Messenger - faccia rinascere un bisogno di intimità, ma in forme complicate, persino contorte e perverse.
Il bisogno di vicinanza negli adolescenti, ma anche nei giovani adulti, spesso si traveste, dice Zoja, di sessualità, o di altri impulsi formalmente permessi. L’occhio, a cui era affidato il compito del contatto con il prossimo, è ora divenuto un produttore di distanza sia attraverso il «palco» - vero totem dello spettacolo come della politica - sia attraverso il monitor. Forse non è un caso che l’invidia sia divenuta uno dei motori della vita sociale, esibita e usata come un vero e proprio propellente nelle relazioni pubbliche e private. Come ricordava qualche giorno fa su queste pagine Antonio Scurati, la televisione è fondata proprio sull’invidia. Invidiare è la base stessa del glamour, come ha indicato John Berger in Questione di sguardi (il Saggiatore): «la felicità di essere invidiati è glamour. Essere invidiati è una forma solitaria di rassicurazione». La spettatrice-compratrice «deve invidiare se stessa per ciò che diventerà se compra il prodotto». Negli Stati Uniti, poi, la maggior parte di cause civili ha un solo destinatario: il vicino. Ai bambini si dà sempre meno il permesso di far visita o giocare con chi vive accanto a noi. La presenza umana appare ancora indispensabile, proprio perché ci sia un rito con trionfatori e perdenti; mentre ciò che non è più indispensabile è appunto il prossimo. Quanto di questo è attribuibile ai nuovi mezzi di comunicazione? Secondo Manuel Castells, il sociologo catalano, teorico dei media, il computer e i sistemi di comunicazione non isolano gli individui, ciascuno davanti al suo visore, ma al contrario accrescono la comunicazione, la cui forma prevalente è la democrazia orizzontale. Sarebbe invece la generazione più vecchia, estranea alle nuove tecnologie, cresciuta nella tradizionale cultura umanistica, a tradire un grave imbarazzo di fronte a tutto questo. Zoja appare più scettico, anche se concorda con un fatto con i blog, con la virtualità degli incontri in Internet, si è arrestata l’allontanamento dall’altro che ha caratterizzato il XX secolo. Il prossimo era diventato sempre più una notizia e sempre meno un sentimento, scrive, tuttavia noi soffriamo di una tragica privazione sensoriale del prossimo. Ciò che merita «la nostra compassione, e richiederebbe il nostro amore, è sempre più evidente, ma anche sempre più lontano e sempre più astratto». Da sempre la distanza è stata un ostacolo all’amore, il quale esige la prossimità che lo vivifica. Come si fa ad amare senza conoscere direttamente? L’amore virtuale è ancora amore?" (da Marco Belpoliti, Ignora il prossimo tuo, "La Stampa", 21/03/'09)

venerdì 20 marzo 2009

Fischi nel buio, con delitto


"L'immaginario ferroviario, in letteratura, entra pressoché immediatamente. Nel 1825 viene inaugurata in Inghilterra la prima linea, la Stockton-Darlington, e i poeti romantici si dividono subito fra il partito degli entusiasti modernisti e quello degli avversatori elegiaci, che rimpiangono la purezza del paesaggio sconvolto dalla strada ferrata, dal suo rumore e dal tanfo («st'invenzione è tutt'opera infernale!», proclama il Belli). Se in poesia ci si può limitare al Carducci dell'Inno a Satana, 1863 (ma alla fine tornerà sul tema, con tutt'altro spirito, nella bellissima Alla stazione in una mattina d'inverno, il cui clima sospeso verrà ripreso da un celebre mottetto delle Occasioni di Montale: «Addii, fischi nel buio, cenni, tosse »), al formidabile Walt Whitman di A una locomotiva d'inverno (1874) e al Blaise Cendrars della Prosa della Transiberiana (1913) - ma non dimentichiamo, lo stesso anno, l'allucinato emblema di O carro vuoto sul binario morto, nei Frammenti lirici di Clemente Rèbora - la narrativa ferroviaria è impressionante per quantità e qualità. In una pagina del '69 del suo Diario, Guido Morselli invitava a scrivere una storia della «dimensione ferroviaria nella letteratura europea». È la sfida che ha raccolto, nel '93, Remo Ceserani nel suo ricchissimo Treni di carta (ora Bollati Boringhieri, pp. 304, e 22.10), al quale due anni dopo s'è aggiunto il volume dei suoi allievi Pierluigi Pellini, Marina Polacco e Paolo Zanotti (Strade ferrate, Nistri-Lischi). Curioso (ma già fuori commercio), nel 2003, il breve Trenità di Giuseppe Antonelli (pendolare su Cassino come Magrelli), che ha per sottotitolo Elogio dei tempi morti. Naturalmente incompleto l'elenco che segue: dallo spettrale Segnalatore di Dickens (1866, raccolto da Calvino nei Racconti fantastici dell'Ottocento) allo stesso malizioso Calvino dell'Avventura di un soldato (negli Amori difficili, 1970); dai poco noti Romanzo in vapore di Collodi (1856) e Meno di un giorno di Camillo Boito (1883) allo splendido sferragliare di coscienza di Corto viaggio sentimentale di Svevo (1926); dalla Casa a vapore di Verne (1880) all'incredibile, analitico La bestia umana di Zola (1890); da Fantasticheria di Verga (in Vita nei campi, 1878) a Una giornata di Pirandello (1936); dal dolente Polemiche e pace nel direttissimo di Gadda (nel Castello di Udine, 1934) all'allegorico Tunnel di Dürrenmatt (1952); da Un increscioso incidente di Joyce (in Gente di Dublino, 1914) agli episodi ferroviari contenuti in All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust (1918) e nella Montagna incantata di Mann (1924); dalla topicissima morte dell'Anna Karenina di Tolstoj (1877) al non meno struggente, ancorché diversamente tale, Compimento dell'amore di Musil (in Incontri, 1911); dalla psichica Modificazione di Michel Butor (1957) all'epica Tregua di Primo Levi (1963), sino a Mosca-Petuški di Venedikt Erofeev (1977): viaggio non viaggio che mette capo a questa tradizione in modo esilarante. Un vero e proprio sottogenere, poi, è il giallo ferroviario. È stato spiegato come il vagone senza vie d'uscita ne sia set strutturalmente ideale; ma andrà aggiunto che, se i gialli spesso si consumano in treno, il loro lettore trarrà un frisson supplementare dalla loro ambientazione, appunto, ferroviaria (da Conan Doyle a Patricia Highsmith, da Graham Greene a Simenon, senza dimenticare l'esemplare Assassinio sull'Orient-Express di Agatha Christie, 1934). Del resto ogni stazione ferroviaria, specie le grandi «cattedrali» costruite nel XIX secolo, ha un che di spettrale e minaccioso. Se ne accorse tra i primi il Walter Benjamin di Infanzia berlinese, e tale sensazione ha portato sino alla vertigine il W. G. Sebald di Austerlitz (dove il titolo allude non alla battaglia napoleonica ma alla stazione parigina, appunto, che ne prese il nome)." (da Andrea Cortellessa, Fischi nel buio, con delitto, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/03/'09)

La vicevita di Valerio Magrelli


"Quello che ogni giorno un pendolare passa sul treno è un tempo morto: come si usa dire con esattezza brutale quanto inapparente. Scrive Valerio Magrelli nella sua deliziosa La vicevita fresca di stampa (che si aggiunge, volutamente senza mai citarla, all'imponente letteratura «a vapore» qui sotto riassunta): «La nostra vita pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere [...]. Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita». Una vita a metà (o una «mezza morte», appunto, per dirla con Savinio). Quello in treno, per chi se ne serve tutti i giorni, nulla conserva del timore o dell'eccitazione del «viaggio» d’antan: è un circuito che si ripete noiosamente sempre uguale nonché, purtroppo, sempre diverso: costellato com'è di microdisagi, microincidenti, microdisavventure di tutti i tipi. Ogni giorno ce ne capita una: sino a lentissimamente disintegrarci. Per difendersi da questo bradisismo corporeo e nervoso, i pendolari adottano gli stratagemmi più fantasiosi; ma l'entropia sottile che corrode la loro vita, proprio come la lima del poeta, presto o tardi li riduce in polvere. Lo sapeva Kafka: fanno più spavento mille punture di zanzara che un colpo di sciabola. Nel tempo in cui il treno simboleggiava l'irruzione - traumatica, euforizzante, spesso le due cose insieme -della sciabola-modernità nella nostra vita, ciò che si vedeva dal finestrino era in grado di trasformare radicalmente le categorie di tempo e spazio. In una lettera alla moglie scriveva Victor Hugo nel 1837: «La velocità è inaudita. I fiori ai bordi del campo non sono più dei fiori, sono invece delle macchie o meglio dei raggi rossi o bianchi». Quella velocità «inaudita» non doveva in realtà superare, allora, i cinquanta all'ora; ma bastava, come si vede, a prefigurare Monet o Kandinskij. Si pensi poi al terrore destato negli spettatori da una delle primissime riprese cinematografiche dei fratelli Lumière (appunto L’arrivo del treno, 1896). Trauma per eccellenza, sino a circa mezzo secolo fa, l'Incidente ferroviario. Non che non se ne verifichino più, ma l'Incidente per antonomasia è da tempo divenuto quello aereo (col rilancio spettacolare dell'11 settembre). In treno avvenivano svolte radicali: s'intrecciavano affari, amicizie e amori, complotti, delitti e misfatti. Si pensi all'immaginario cinematografico, da Von Sternberg a Hitchcock. Oggi invece il treno è, al limite, protesi dell'ufficio. Del primo Mission: Impossibile di De Palma resta nella memoria la scena in cui la spia smanettona (l'icastico nero Ving Rhames) ordisce il «colpo» dal cablatissimo laptop che ha portato con sé sull'Alta Velocità in cui, nel frattempo, ne succedono di tutti i colori. Ancora sino al capo d'opera del «nouveau roman», La modificazione di Michel Butor, nel percorso da Parigi a Roma il tempo bastava per un cambiamento, appunto, di portata radicale. Oggi invece la pratica che abbiamo del treno lo fa assomigliare sempre più ai trenini giocattolo dell'infanzia, legati a un circuito sempre uguale (un «orbitare domestico», lo definisce Magrelli). Il che non toglie che, forse per la memoria culturale e letteraria che si porta dietro (basti pensare alla Shoah, della quale il treno piombato è divenuto emblema), esso porti in questa annoiata quotidianità una sfumatura perturbante e quasi minacciosa, come in un quadro di René Magritte (La durée poignardée, 1938): nel quale dal camino di un innocuo interno borghese all'improvviso spunta un piccolo treno che tuttavia, fumando, dimostra di non essere affatto un giocattolo. Per questo in treno comunque si presta attenzione: ai nostri compagni di viaggio o, specchiandoci nel finestrino, a noi stessi. Oggi però, annota Magrelli, col diffondersi del modello Eurostar, sta sparendo un luogo antico (e letterariamente assai connotato, appunto) come lo scompartimento: mediante il quale «per molto tempo, il treno è stato il solo mezzo di trasporto che [...] favorisse il coagularsi di piccole comunità nate dal caso». Il treno era - e tale resta, appunto, solo nelle linee periferiche usate dai pendolari - luogo deputato agli incontri. Fuggevoli, magari decisivi. Il momento in cui un gruppo di pendolari sale sulla carrozza dalla quale ne scende un altro viene fotografato da Magrelli, nella sua prosa più lirica, ungarettianamente: «Loro si avviano, noi li sostituiamo, in un mesto commercio di respiri». Commuters, si dice in inglese. La vita, quella, non cambia più. Al limite si scambia: che è dire quasi il contrario." (da Andrea Cortellessa, Ma viaggiare in treno non è più un frisson, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/03/'09)

mercoledì 18 marzo 2009

Libri segreti di Andrea Cortellessa


"Un certo luogo comune vuole che oggi ci siano pochi validi narratori, nel nostro Paese, ma personalmente sono uso a reagire contro una simile asserzione additando una schiera multiforme di giovani talenti impegnati nel romanzo. In realtà, la carestia riguarda un'altra figura del fronte letterario, quella del critico, non so se questo dipenda da avverse congiunzioni stellari, o più semplicemente dall'essere venuto meno lo strumento in cui i talenti in erba della critica si facevano le ossa, la rivista, rara di numeri, ma preziosi, votati a scavi in profondità. Al suo posto ci sono i pezzi sempre più brevi della grande stampa, ma soprattutto chi si muove nelle lettere è impaziente, mira subito al risultato tangibile, al prodotto narrativo di larga diffusione, saltando a piedi pari le pazienti vigili e consumate nel lavorio critico-filologico. Tutto questo per dire che una personalità come il quarantenne Andrea Cortellessa spicca nel vuoto, trovando ben pochi compagni di strada, e la sua raccolta recente, Libri segreti (Le Lettere), lo sta a dimostrare, apparendo come una palestra in cui il giovane candidato alla leadership nel settore si è fatto le unghie sul sacro corpo dei maggiori, partendo da una dichiarazione perentoria, essere stato Gianfranco Contini il miglior esponente della critica del Novecento, magari appaiato, sul fronte dell'arte, da Roberto Longhi. E dunque, nulla di più logico che l'adepto vada a smontare i meccanismi dei due per impadronirsene. Nelle loro indagini essi erano capaci di sorprendere il punto «segreto», l'ombelico attorno a cui si costituiva l'intero sistema dello scrittore o del pittore studiato, e lì portavano un magistrale colpo di karaté. La similitudine volutamente rozza vuole proprio essere un omaggio al loro metodo, che sapeva mescolare a meraviglia l'uso di un vocabolario culto e sofisticato a vocaboli dotati invece di una piena fisicità. Una specie di doccia fredda, una congiunzione ossimorica che Cortellessa, per parte sua, riprende con bella sicurezza. Magari, in quest'ottica, risulta alquanto inutile perdere tempo col troppo discorsivo Emilio Cecchi, un campione da cui il Nostro sembrerebbe decisamente scostarsi. Invece un limite del discorso critico di Contini, e anche di Longhi, stava nel diffidare di apporti di specie filosofica, mentre nella panoplia del Nostro entrano anche questi strumenti. In effetti il primato che accorda a Contini risulta poi nella pratica temperato dal riconoscimento che va a Luciano Anceschi, il grande patron della neoavanguardia, nutrito di fermenti filosofici, non per nulla incentrati attorno alla fenomenologia. Andando poi a vedere come Cortellessa porta i suoi colpi di karaté sui punti critici, o «segreti» dei testi esaminati, ecco un magistrale intervento su Alfredo Giuliani, ricondotto a una parola-chiave, di lampante brutalità materialista, il «rompimento». Giuliani, alla testa dei Novissimi, rompe l'andamento placido e sornione del flusso di parole, spezza i ritmi sintattici. In proposito può valere un accostamento a quanto era già avvenuto nelle arti visive, in cui le avanguardie, col Dadaismo in testa, avevano smesso di rappresentare, ma prendevano frammenti del reale e le gettavano sulla scena «tali e quali», ready-made, per dirla con Duchamp. Un altro punto «segreto» su cui Cortellessa va a colpire con acume continiano, è quella curiosa soluzione di continuità che ha interessato la produzione narrativa di Gianni Celati. Questo autore, in una prima fase, si era affidato alle risorse del comico (Le avventure del Guizzardi), filtrando l'intera esperienza di vita attraverso gli occhi e i sensi di un giovinastro un po' già di testa, portato naturalmente a dar luogo a tante gags. Ma era un'impostazione troppo unilaterale, troppo monologica, occorreva sospendere il giudizio, ripartire con criteri più mobili e oscillanti, disseminati a raggiera verso altre zone di esperienza. Per maturare questa svolta tanto l'autore, Celati, quanto il suo esegeta si danno a un'utile sbornia di letture filosofiche, in cui entrano Bachtin, Foucault, Derrida, Melandri. E' la ricognizione testuale a infliggere la ferita, ma poi il metodo la allarga e la rende comprensibile." (da Renato Barilli, Affrontare i testi a colpi di karaté, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/03/'09)

De Sanctis: scrivere e agire per fare l'Italia


Fondazione De Sanctis

"Francesco De Sanctis, tutto sommato, non necessita oggi di particolari inviti
alla lettura. Il suo piglio, il suo genio, la sua veemenza, i suoi apoftegmi, le sue sciabolate fulminee, i suoi adagia sono irresistibili oggi come cento anni fa. Potremmo chiederci se e come e perché leggere oggi Enrico Nencioni o addirittura Giosuè Carducci, i suoi detrattori di allora. De Sanctis no, lo leggiamo. E grazie a lui, critico militante per eccellenza ci chiediamo innanzitutto: a che serve, oggi, La nostra letteratura? A che servirà? Se De Sanctis avesse ragione, e il suo Hegel avesse ragione, il nostro Paese, tanto problematico oggi, domani sarebbe progredito in una «coscienza sempre più chiara di sé» e in «una maggiore realtà». Lo spirito ha Le sue leggi e anche il male - la somma degli attuali mali italiani che abbiamo sotto gli occhi - è, secondo queste leggi, un fenomeno necessario dello spirito «nella sua esplicazione». In effetti, l'ottimismo di De Sanctis sembrerebbe oggi essere messo duramente alla prova, insieme all'idea stessa dell'avanzare della coscienza unitaria nazionale. Che direbbe De Sanctis, oggi, del suo Sud? Della sua Napoli? D'altra parte, tutto il meraviglioso romanzo della Storia della letteratura italiana non è che un suggerimento, una prefigurazione, un impulso verso un fine: «In questo momento che scrivo le campane suonano a distesa, e annunciano l'entrata degli italiani a Roma»: scrivere e agire, come ci dice questa pagina, sono la stessa cosa e «tempi più umani e civili» (nel suono di quelle campane) sono continuamente e infallibilmente davanti a noi. L'ideale di De Sanctis non è affatto, come pure si è argomentato, «una sorta di umanesimo in cui l'arte abbia un ruolo subordinato», quanto un mondo in cui l'opera d'arte stessa sia principio di umanità e rinnovato senso morale. Ancora oggi, tra i formalisti e gli impressionisti più irriducibili, De Sanctis conserva molti nemici giurati. Ma la letteratura non è tutto: non è una religione, né un orizzonte al di là del quale cadremmo nel nulla, né un Dio, né un unico fine. Una letteratura priva di un fine fuori di sé per De Sanctis non è che ozio o meglio, come diceva lui: «inezie laboriose», buone per «cervelli oziosi e vaghi di sciarade». Ogni grande letteratura, per essere tale, non soltanto deve caricarsi dell'elettricità del mondo e delle cose vive, ma anche determinare un progresso, una civiltà. Lo diceva Gramsci con ogni chiarezza: De Sanctis, come nessun altro, nel suo lavoro ha unito il sogno di «un nuovo umanesimo, la critica del costume e delle concezioni del mondo, e la critica estetica». La letteratura che è essenzialmente libertà «serve» dunque a qualcosa: è a servizio dell'emancipazione e dell'unità dei popoli. D'altra parte, lo Stato laico emancipato dalla teocrazia e la libertà intellettuale o di coscienza nel senso moderno sono mete raggiunte o raggiungibili solo recentemente. Quando Machiavelli si batteva per la libertà, cioè per la «partecipazione de' cittadini al governo», l'Italia, scrive De Sanctis, era il popolo «meno serio del mondo». Vedere «l'ingegno appiè della ricchezza» era un'immagine straziante. Ed ora questo «basso», questo «peggio», questo «buffonesco» italiani «appiè della ricchezza», se De Sanctis avesse ragione, non torneranno mai più. Ma invece? Non siamo noi oggi nel punto stesso in cui De Sanctis ha lasciato il suo Machiavelli? Che ne è dello spirito e del suo progredire? Dove sono fuggite la coscienza unitaria nazionale e la letteratura che la rispecchierebbe? Tra i grandi interpreti di De Sanctis, Gianfranco Contini a proposito della Storia parlava d'una concezione teologica o «emanatistica» della letteratura, in cui ogni testo si integra necessariamente nel successivo, appartiene a una continuità evolutiva, come necessariamente ogni uomo vivo appartiene e opera per il progresso di tutta l'umanità. Carlo Dionisotti distingueva: da una parte la struttura unitaria del nostro Paese, «che nell'età nostra era giunta a fare così trista prova di sé», dall'altra un capolavoro, la Storia di De Sanctis, che «splendidamente rappresentava l'istanza unitaria del Risorgimento». Tanto Contini quanto Dionisotti, ci dicono che l'immagine «imminente» dell'Italia è il motore e l'effetto poetico generale presente in ogni pagina della Storia. Tutt'altro che desanctisiani «politicamente», e non vedendo nessuna «continua realizzazione degli ideali umani» nella storia dell'umanità, entrambi ammirano la prosa inquieta del professore napoletano: il «passo innanzi» che egli compie, solo, con le sole sue forze, cioè la letteratura, le parole, verso il nuovo e il meglio. Ma infine: «il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico», scrive De Sanctis a proposito del Metastasio: non è così oggi? Non sono perdutamente gettati all'inseguimento del pubblico romanzieri come Baricco, Tamaro, Umberto Eco (peraltro tecnicamente imparagonabili al Metastasio)? Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell'imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi." (Girogio Ficara, De Sanctis: scrivere e agire per fare l'Italia, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/03/'09)

Giovanni De Luna: "Il pensiero è sempre più leggero"


"Andrea Romano via dall'Einaudi, Francesco Cataluccio via dalla Bollati Boringhieri. In questi primi mesi del 2009 l'editoria torinese è stata investita da un piccolo terremoto il cui epicentro si ritrova nella saggistica, un filone a cui entrambe le case editrici hanno affidato per anni il loro fascino e la loro credibilità culturale. Questi avvicendamenti appartengono ormai alla normalità di un mondo che ha perso tutti i suoi monumentali riferimenti del passato. Figure come quelle di Sergio Piccioni e Tristano Codignola per La Nuova Italia, Giulio Bollati e Alfredo Salsano per la Bollati Boringhieri, per non parlare di leader carismatici come Giulio Einaudi o Livio Garzanti, erano pilastri inamovibili che garantivano una continuità rassicurante per i collaboratori e anche per gli autori. Non è più così, da un pezzo, e lentamente ci si sta abituando a una sorta di permanente instabilità. Inoltre, le due vicende hanno risvolti personali e aziendali assolutamente specifici. Il fatto però che si riferiscano entrambe a figure centrali per la saggistica (e in particolare di quella storica) si presta a qualche considerazione complessiva. La cultura accademica continua incessantemente a produrre ricerche corpose e scientificamente ineccepibili. Una volta queste ricerche transitavano praticamente senza soluzione di continuità dal mondo universitario a quello editoriale e poi al mercato. Basti pensare alla mitica collana rossa della Feltrinelli o a interi pezzi del catalogo Einaudi degli Anni '70. Oggi no. Quel transito si è interrotto e quelle ricerche si fermano nelle collane universitarie, nell'editoria a pagamento, nelle pubblicazioni degli atti dei convegni o di dispense stampate in vista dei concorsi. Perfino Il Mulino, una delle più solide roccaforti di una saggistica 'pesante', sembra voler fare qualche concessione alla 'leggerezza' del mercato, a partire dalla 'ristrutturazione' in questo senso dell'omonima rivista. Il successo del revisionismo ha fatto scuola. Migliaia e migliaia di copie vendute di libri che programmaticamente rifiutano di fornire le 'prove' delle loro argomentazioni, si affidano a modelli narrativi (lo pseudo romanzo o il finto dialogo) che nascondono l'inconsistenza delle tesi storiografiche proposte, si sottraggono al confronto con la verità (o con la verosimiglianza), per inseguire i clamori del successo mediatico e obbiettivi immediatamente e squisitamente politici. A questo si aggiunge la frattura che si è consumata tra il mondo della politica e quello della cultura accademica, quella storica in particolare. La storia non appartiene più ai percorsi di formazione della nostra classe politica. Parliamo innanzitutto della sinistra che sull'«affidamento alla Storia» ha costruito tutta intera la sua identità novecentesca: non è un caso che i primi due segretari del Pd abbiano scritto due romanzi. Alle prove di scrittura di Veltroni e Franceschini, si affianca una stagione memorialistica francamente precoce, che ha coinvolto gli ancora 'giovani' segretari dei Ds e del Pds, (Occhetto, D'Alema, Fassino), alle prese con un discorso autobiografico segnato da un compiacimento forse eccessivo visto i risultati conseguiti. Niente a che vedere, per intenderci, con il registro epico, pure venato di rimpianti e nostalgie, dei due libri di Giorgio Amendola (Una scelta di vita, 1976 e Un'isola, 1980). Gli stessi carteggi sul Pci e la Resistenza, pubblicati da Longo e Amendola, e quelli sulla formazione del gruppo dirigente del Pci, curati da Togliatti, appartengono ormai ad altri orizzonti politici, ad altre spinte culturali, e, anche, ad altre 'piante uomo'. La storia è uscita dal bagaglio culturale dei politici e non c'è più quel 'bisogno di storia' che fu all'origine del boom editoriale degli Anni 70. Non ci si percepisce più nella storia, non ci si percepisce più all'interno di quel circuito virtuoso tra passato, presente e futuro, in cui si studiava il passato per capire il presente e progettare il futuro. Ora il passato è muto, il futuro spaventa, tutto è schiacciato su un presente abnorme, dilatato e siamo immersi in uno 'spirito del tempo' segnato da un sapere appiattito sulla semplificazione, sul rifiuto della complessità, su una sorta di approccio 'usa e getta' alla cultura che produce un senso comune affollato di stereotipi, per una conoscenza senza spessore, facile da consumare e dimenticare. Ma se è così, dove trovare gli antidoti se non nella cultura stessa? Non sarà certamente la politica a fermare quella deriva, che anzi asseconda e coltiva in un esplicito gioco di 'rispecchiamento'. Con un po' di coraggio e di orgoglio, uscendo dalla vecchia abitudine di scambiare i gusti dei politici con quelli del lettori, il mondo dell'editoria potrebbe invece riscoprire nella saggistica 'pesante' una risorsa inaspettata, riproponendo un profilo alto del sapere e rispondendo - autonomamente - a una sollecitazione di impegno civile." (da Giovanni De Luna, Il pensiero è sempre più leggero, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/03/'09)

martedì 17 marzo 2009

Napoli chiama Italia. Quali idee per una città in tempesta


"Goffredo Fofi mi aspetta nella redazione della sua rivista "Lo straniero" a due passi da piazza del Popolo (la sede è quella della casa editrice Contrasto). E' molto indaffarato e sta preparando il nuovo numero dove figurerà un saggio dimenticato di Gianpaolo Dossena su Alce Nero ('bravissimo a incrociare Tex Willer e Hegel'). Non c'è bisogno di fargli nessuna domanda: otto mesi fa si è dimesso dal consiglio di amministrazione della Fondazione Campania dei Festival che organizza il Festival Teatro Italiano, ma la notizia è diventata pubblica da poco. 'Di per sé è una notizia senza nessuna importanza: quanti si dimettono da un cda? Ma adesso tutti mi cercano per commentare l'evento e io me lo spiego in un modo solo: Napoli è al centro di una tempesta e tuti sono contro tutti, non si fa altro che spettegolare. [...]'. Lei si è fatto da parte dicendo più o meno: qui non sono utile, non saprei cosa fare. Sono in pochi a fare gesti del genere ... 'Sono un minoritario per vocazione e certe esperienze fatte a Napoli per me sono state di grande importanza, come il teatro a Scampia. Un'operazione dal basso di grande interesse. si sono creati dei corridoi che hanno portato, ad esempio, per qualch emese ir agazzi di Scampia a Porto Marghera o altrove e i pistoiesi, i veneziani a Scampia. C'erano adeguati finanziamenti e si è potuto fare un lavoro teatral-pedagogico. Sarà che io ho fatto il maestro elementare e alla fine ho sempre un istinto pedagogico. Del resto a invitarmi è stata Rachele Furfaro che ho conosciuto proprio come pedagogista, dirige una scuola elementare privata all'avanguardia, e con la quale ho lavorato. Mi sembrava giusto far qualcosa per Napoli ormai dannata tra la camorra e la monnezza'. Non sapevo che avesse fatto il maestro. Ci sono esempi illustri tra gli intellettuali in questo senso: Sciascia per tutti. 'Anche Fernando Bandini: l'ho scoperto non molto tempo fa'. Fare scuola è qualcosa di molto concreto, anche gli insegnanti si mmuovono tra mille difficoltà. 'Non vorrei commentare Baricco e il dibattito che ne è seguito. Intanto i soldi sono finiti e con i soldi c'era la possibilità di tenere buona una generazione, magari creando anche qualche illusione sulla possibilità di tutti di poter fare qualunque cosa. [...]'. Torniamo alla vocazione minoritaria: lei dirige riviste come "Lo Straniero" e se andiamo all'indietro negli anni possiamo risalire fino ai mitici "Quaderni piacentini" di cui tra l'altro minimum fax ha appena pubblicato un'antologia. Oggi la cultura sceglie invece le paizze, i festival abbondano ... 'Fofi mi guarda perplesso: 'Senta, torniamo alle illusioni di cui dicevo prima: oggi tutti vogliono scrivere, cantare, recitare: è una specie di karaoke generale. Siamo ossessionati ormai da tempo da una chiacchiera infinita, dalla creatività di massa, come se non ci fosse più nessuna scala di valori, nessun discorso di selezione per quel che riguarda l'arte [...]'. Ho visto che sull'ultimo numero dello "Straniero" lei ha pubblicato due lettere di Fortini: una sui palestinesi e l'altra sui giornali e sui giornalisti. Certi problemi nodali non cambiano, ma torniamo ai festival: stava epr dire qualcosa. 'Stavo per dire che in questi anni abbiamo assistito a uno show impressionante, che poi alla fine mi fa l'effetto di un grande carnevale. Mantova e Torino con tutti i pregi che hanno sono un grande carnevale e poi ci sono il carnevale della religione e quello della scienza e via seguitando. Mi angoscia molto l'abbandono delle nuove generazioni - in questo senso Baricco ha detto una cosa giusta - e il mancato rinnovamento della scuola. Come vede viene sempre fuori il maestro elementare anche se io il maestro l'ho fatto poco e in situazioni di marginalità'. [...] Ma non c'è il rischio che a occuparsi delle piccole cose si lasci poi tutto il resto a quella sorta di pedagogo universale che è la tv, non c'è il rischio di sparire in una nicchia per quanto confortevole sia? 'Lo so, non è un'impresa facile. Se si pensa che anche l'editoria, la grande editoria, è ossessionata dalla merce e dai consumi, può far sorridere che un gruppo di venticinquenni costruisca una rivista. Ma è solo mantenendo il controllo di quello che si fa che si può sperare di ottenere qualcosa. Si ricorda di quel film di Comencini Mio Dio come sono caduta in basso? Beh, dovremmo cominciare a risalire, per quanto è possibile. Ma sappiamo tutti che sarà un'impresa'. Mentre ci salutiamo Fofi mi regala il primo numero della rivista 'di arte e di cronache', "Suole di vento". In apertura una citazione dal dialogo di Uccellacci e uccellini. E in exergo la scritta 'Dove va l'umanità? Boh'." (da Paolo Mauri, Napoli chiama Italia. Quali idee per una città in tempesta, "La Repubblica", 16/03/'09)