lunedì 30 marzo 2009

Giulio Einaudi, l'uomo che pensava i libri


"Il ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in una lettera che gli inviò al culmine della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell´autore passa nel regno delle ombre. Stampato il libro, ti metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai costruiti più di Balzac, sottintendeva l´amica scrittrice, assai più di Dumas padre. Puoi guardare dall´alto Gogol e Molière.
È verosimile che l´editore entrasse nello scherzo con un cenno d´assenso. Lui era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano d´altronde i numeri: un catalogo Einaudi uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione, perciò, cercare nell´aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o meno ammirative sarebbe come consultare d´un sol fiato un´enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po´ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto, ascoltava e dirigeva». Spesso Giulio - detto "il Cavaliere Esistente" per distinguerne l´imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da Italo Calvino - usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il numero della casa editrice, a Torino, fu per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno - Giulio Einaudi è figliolo di re - Giulio Einaudi non c´è per nessuno - Giulio Einaudi, mi spiace, non c´è». Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l´umanità in due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi tromboni». Corollario implicito: i primi si scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori. Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori. Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest´inclinazione quando c´era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era capace di mandare al macero montagne di copertine già stampate. Il suo amico Vittorio Foa - che aveva fra l´altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto Torino-Regina Coeli quando i fascisti li arrestarono come sovversivi nel 1935 in una retata di "einaudiani" e simili - sosteneva che lui, l´editore, «i libri non li leggeva, li annusava». Sto percorrendo la leggenda d´un uomo e di un´impresa negli anni d´oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l´inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l´esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l´egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l´ultimo decennio di vita dell´editore, già amareggiato dalle ricorrenti crisi aziendali che preludevano all´assimilazione della Einaudi nell´impero berlusconiano. Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio». Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che ha dedicato dieci anni fa un volume alla Einaudi, Pensare i libri (Bollati Boringhieri), bastò enumerare i filoni culturali, presenti nella casa editrice, che non andavano in direzione della falce e martello: dalla famosa "collana viola" a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d´oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è visto come un controrivoluzionario. Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i «suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori "storici", Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ´61. Già timido di suo, lo storico vedeva peggiorare durante queste visite la propria latente balbuzie. Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane, lo salutava di malavoglia. Lo molestava il fatto che in quella interminabile biografia Mussolini non venisse descritto come il male assoluto. «Era una cosa di pelle, non ideologica», commenta il divulgatore dell´aneddoto. Come dire che, ai propri capricci, un Capo così non si cura di reagire." (da Nello Ajello, Giulio Einaudi, l'uomo che pensava i libri, "La Repubblica", 29/03/'09)

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