martedì 30 marzo 2010

Persi in un vuoto di memoria


"Ogni anno, il 27 gennaio, si celebra il Giorno della Memoria, ma se la Shoah fosse avvenuta al tempo di internet, se l'ordine di Goering fosse stato scritto nel 2042 invece che nel 1942, ci sarebbe il fondatissimo rischio che, nel 2310, scomparsi tutti i testimoni, non ne rimanga più traccia. Più niente ordine di Goering sulla soluzione finale (sarebbe stata una e-mail finita chissà dove), più nessuna lista di documenti, più nessun film (rischio che dopotutto vale già per tragedie recenti: quanto dureranno le foto di Abu Ghraib, se rimangono solo su formato digitale?), più niente di niente. Non ci sarebbe stato nessun giorno della memoria, perché non si sarebbe saputo che cosa si ricordava, oppure un simile giorno, in aperta contraddizione con la sua essenza, sarebbe stato un rito misterioso, in cui si celebrava la memoria di un evento dai confini vaghi e inafferrabili. [...] Ecco perché scegliendo la memoria come tema di quest'anno, il Salone del libro di Torino ha centrato un punto cuciale. In effetti, l'umanità conosce dei momenti critici di trasformazione. Il primo è stato il passaggio dalla cultura orale alla società della scrittura, e in particolare il momento in cui in Grecia si è giunti alla alfabetizzazione diffusa, intorno al V sec. avanti Cristo. Il secondo è stato il passaggio dal manoscritto al libro, con l'invenzione dei caratteri mobili di stampa per opera di Gutenberg. Il terzo è stato il passaggio, recentissimo, a una scrittura esplosa e diffusa nel web, che diventa una vera e propria biblioteca di Babele, ma che rispetto ad essa non ha grandissime garanzie di durata.
Perdonate il catastrofismo, ma questa epoca, nella sua lussureggiante fioritura di documenti, potrebbe essere l'ultima, non per mancanza di documenti, ma proprio al contrario, per il motivo opposto. Mi spiego. Da sempre la nostra è una società della registrazione, e questo per il semplice motivo che non ci può essere società senza registrazione. Il sapere, la ricchezza, il potere, oltre che tutte le forme di rapporto sociale, richiedono delle registrazioni, il che spiega il motivo per cui la scrittura compare così presto nella storia dell'umanità, e in una funzione così cruciale: la storia ha inizio con la scrittura, basti dire che non abbiamo un solo nome proprio, dunque nessun individuo in senso proprio che ci venga dalla preistoria; e dunque la presitoria può sempre di nuovo incominciare, basta che si perdano i documenti. Ecco perché la domanda sull'avvenire della memoria è cruciale: quanto dureranno le masse di documenti che produciamo intenzionalmente e ancor più non intenzionalmente in ogni istante della nostra vita e ogni decisione della società? [...]
Mentre tutto questo avviene, in un contesto in cui nessuno sa niente perché non si ha la minima esperienza storica di una trasformazione del genere, noi beatamente riempiamo con le nostre carte i bidoni della raccolta differenziata. La fine della storia non ha fortunatamente avuto luogo per mancanza di nuovi eventi e di progresso. Sarebbe grave se si verificasse, a sorpresa, per mancanza di documenti, e che della società più documentata e documentale della storia non dovesse alla fine rimanere alcuna traccia. Potrebbe così succedere che di tutta la Comédie humaine del nostro secolo non resterà nemmeno un nome, e che sopravvivranno solo i marchi impressi sugli oggetti. Poco male, forse. Ma è anche vero che a quel punto il detto di Valery, 'noi, civiltà, ora sappiamo che siamo mortali' troverà il suo pieno significato." (da Maurizio Ferraris, Persi in un vuoto di memoria, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/04/'10)

2060: con quali fonti si farà la storia del nostro presente? (convegno su memoria storica e mondo digitale)

lunedì 29 marzo 2010

Chi difende più la qualità?


"Vale la pena essere molto chiari. Il problema non è il mercato: vendere libri non è più considerato un peccato capitale da molti anni e sono lontani i tempi in cui chi aveva successo commerciale veniva considerato qualcuno che si era venduto l'anima.
Gli scrittori sono alla ricerca di un pubblico e il pubblico è costituito da chi compra i loro romanzi, dunque la diffusione dei libri è nec essaria e nessuno teorizza più che di lettori sia meglio averne 'pochi ma buoni'.
Il problema è che, in questi anni in Italia, c'è solo il mercato. Intendo dire che non ci sono parametri di valutazione che non siano quelli delle quantità (cioè troppo spesso la qualità si misura nel numero di copie vendute e basta) e le reazioni stizzite di chi è invidioso dei re del bestseller nazionale non cambiano la sostanza delle cose perché, per fortuna, cadono nell'indifferenza generale.
Ancora di più: la verità è che oggi il ruolo della letteratura è totalmente marginale nella vita sociale e culturale di questo Paese. Certo anche nel 2010 molti aspirano a scrivere libri (compresi coloro che hanno già successo in altri ambiti della cultura e dello spettacolo: cinema, musica, etc.) come se questo costituisse un modo di accrescere il proprio prestigio intellettuale; ma allo stesso tempo i romanzi non hanno più alcuna visibilità in quanto tali, al massimo si accompagnano alla notorietà di chi li ha scritti.
Negli ultimi anni, ormai direi un paio di decenni, si contano sulla punta delle dita di una sola mano i casi di romanzi italiani che abbiano suscitato un dibattito pubblico, una riflessione collettiva, che abbiano dato vita a un confronto culturale vero.
In questo momento, anzi, l'unica eccezione che mi viene in mente è Gomorra di Roberto Saviano. Ma appunto si tratta di un'eccezione, di un caso la cui peculiarità è tale da non costituire un precedente. Eppure nel passato succedeva altro, e la discussione intorno a un testo poteva attivarsi a prescindere dal numero di copie vendute. Per questo credo che la difesa del mercato sia pleonastica: il mercato sid ifende da sè. Quello che servirebbe piuttosto è la difesa della letteratura, dle suo significato, del suo essere parte dell'identità di un Paese. Ma di questo, mi pare, non si preoccupa mai nessuno." (da Giorgio Van Straten, Chi difende più la qualità?, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/03/'10)

sabato 27 marzo 2010

Mastrocola: 'La gioia che non siamo niente'


"Niente di cui stupirsi. Paola Mastrocola è ben nota per i suoi romanzi mordaci e per le sue favole stravaganti, ma il suo esordio - prima del decollo con galline e lune - è legato alla poesia. Ora questo terzo libro poetico, La felicità del galleggiante (Guanda), a distanza di dieci anni dal secondo e quasi venti dal primo, conferma una vocazione mai sopita. Anche se per fortuna la Nota finale ci esime - con licenza accortamente dinoccolata - dall'impaccio di stabilire precise date di esecuzione.
A contare, infatti, non è tanto la certezza dei tempi e delle modalità a cui i testi appartengono, ma piuttosto la loro natura colloquiale che si muovono entro una riconoscibile filière novecentesca: da Gozzano (vedi, ad esempio, Inventare) a Caproni (vedi, tra i tanti, e L'amore per i viottoli), senza trascurare qualche montaliana inflessione (vedi, tra le altre, Ai collezionisti di piante grasse o Ultime scuse).
Paola Mastrocola gioca ad abbassare i toni, a contenere gli eccessi, a servirsi di sponde e di sordine («Ci salva / il salto repentino laterale»), a inanellare momenti e motivi inconsueti, a cogliere la quiddità di figure imprevedibilmente esemplari, a iniettare piccole e domestiche epifanie di cose, a maneggiare le parole come «palline di pane».
Res familiares, vacanze, amori, affetti, amicizie, viaggi, domande provvidamente bilanciate o intrise di leggerissima ironia («A che la mia snervante scialba / eternità di lettore?»).
Contro ogni mitologia di derive mirifiche, la seria constatazione di più modesti approdi («partiamo per tornare»), e forse più l'elogio del «rimanere» che del «partire»: «Partire è perdere il controllo / sui mutamenti, / lasciare il dominio
ad agenti ignoti, / a qualche iddio che smuova / i meccanismi immoti».
A prevalere è l'attenzione alla dimension picciola, la consapevolezza di un esistere inessenziale («La gioia che non siamo / niente»), «l'ironica sapienza»
che lega la «distrazione del pesto» o l'umiltà del rimestare la polenta (o magari la modica felicità del raccogliere funghi e sassi di mare) al «lato luminoso della luna», alla sottesa cognizione dell’«invisibile» e del «non detto», all'«indicibile mistero», alla «natura anfibia che ci salva», connettendo ogni umana presunzione al volteggiare della trottola, alla «varietà casuale/ degli eventi» o alla più modesta ed emblematica «felicità del galleggiante».
Nulla, insomma, che possa far pensare a distillati sapienziali, ma piuttosto un filo di meditazione che attraversa le «occasioni» in un'accorta e orchestrata strategia di rime, di virgole, di giochi di parola, in cui si mostra (e ritmicamente s’inarca) l'ingenuo e dantesco desiderio «di significar la cosa»: prosa «narrativa» del mondo della poesia, che tuttavia non si può dire «di che cosa parla / perché non parla: suona, / e semmai / procede per immagini sconnesse».
Tutto questo per significare la lezione di un’ironica e amorosa partita che (sia pure «ad ora incerta») vale ancora e sempre la pena di giocare". (da Giovanni Tesio, La gioia che non siamo niente, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/03/'10)

Questo libraio è un vero detective


"Due librai si aggirano per la Parigi di fine Ottocento, spalleggiati validamente dal loro bizzoso commesso, e fra un’edizione antica e l’ultimo romanzo di successo risolvono sanguinosi delitti. Lo fanno da parecchi anni, perché la serie delle sorelle Liliane Korb e Laurence Levèfre, nome d’arte collettivo Claude Izner e tra le altre cose ex bouquinistes sulle rive della Senna, va avanti di anni. In Italia è arrivata al quinto episodio, Il rilegatore di Batignolles, appena uscito, come i precedenti per le Edizioni Nord, giusto in tempo per l’appuntamento con i trent’anni del Nome della rosa, uscito nel 1980.
Non parla di abbazie medioevali, ma per molti aspetti ricorda proprio i gusti letterari di Umberto Eco: a parte il giallo che si costruisce intorno a una traccia di libri, e si dipana grazie ad essi, c’è il gusto storico per la ricostruzione d’ambiente, l’amore dichiarato per il feuilleton, il gioco sottile delle citazioni e un leggera ironia che pervade episodi e personaggi. Questa volta Victor Legris, il libraio protagonista, è molto restio a gettarsi nell’indagini, perché ha promesso all’amata Taša, artista russa di rara bellezza, di non immischiarsi mai più in delitti e ammazzamenti, rischiando la pelle. Ma c’è il suo Watson, il commesso Pignot, giovane piacente seppure un po’ gobbo, grande ritagliatore di giornali e autore di romanzi giallo-gotici, che non gli dà tregua. E c’è il padre adottivo, e socio, l’elegantissimo giapponese Kenji Mori, che non si sa come ma all’ultimo momento trova sempre la traccia decisiva.
Fra molti turbamenti sentimentali e complicati intrecci amorosi, i tre avranno ragione di una serie di omicidi che affondano le loro radici nella strage della Comune di Parigi, vent’anni prima. In questo caso, una delle tracce importanti è costituita da un prezioso manoscritto persiano, scomparso nel rogo di una legatoria e riapparso alla Biblioteca Nazionale. Ma in generale la vera protagonista è la libreria, microcosmo spesso esilarante dove fra clienti insopportabili, dame querule e grandi scrittori come Anatole France, celebre bibliofilo e frequentatore abituale, nessun mistero resiste per più di duecento pagine. Non c’è commissariato che tenga: la libreria è il motore di qualsiasi indagine.
Il principio non vale solo per Izner: anzi, sui banconi reali dei nostri librai ne fioriscono parecchie di immaginarie, come se ci fosse stato una sorta di passaparola fra scrittori ed editori. C’è per esempio quella, ancora parigina ma contemporanea, fondata in Rue Dupuytren - sempre nel Quartiere Latino: anzi, in quella stessa via succede qualcosa, più d’un secolo prima, anche a Pignot - da due simpatici visionari della buona letteratura. L’ha inventata la francese Laurence Cossé in La libreria del buon romanzo (Au bon roman) - che le edizioni e/o) pubblicano il 7 aprile -, ed è il cuore d’una vicenda basata sul culto della buona letteratura: la sfida di vendere solo romanzi buoni o molto buoni scatena una lotta sorda, con attentati, minacce, scrittori visitati da brutti ceffi, campagne di stampa di oscura provenienza. Anche qui bisognerà capire da dove viene il pericolo, e non sarà facile nonostante l’aiuto di un commissario amante delle buone letture.
La Cossé metta in scena lo scontro fra due idee diverse di mercato editoriale, opponendo alle megalibrerie e ai bestseller il sogno, piuttosto diffuso, di vendere solo i libri che si amano. E nel romanzo, che dopo un’ottima partenza diventa forse prolisso, gli elenchi degli autori prediletti saranno magari poco sorprendenti, ma certo contengono un discreto omaggio all’Italia, e in particolare a Fruttero e Lucentini (grazie di cuore). La trama «gialla» si perde un po’, alla fine, e diventa quasi sociologica.
Non così avviene al «Papiro» di Belgrado, dove i lettori che passano lunghe ore sprofondati nelle poltrone di un libreria ancora una volta votata alla qualità, muoiono come mosche, e per cause inspiegabili. Anche in questo caso l’enigma è difficilissimo, e Zoran Zivkovic, l’autore di L’ultimo libro (TEA), si pone esplicitamente il problema se la soluzione vada cercata in Umberto Eco. Una arcigna anatomopatologa si chiede «se qui abbiamo a che fare con qualcuno che sta imitando Il nome della rosa»: ma proprio nel finale l’ispettore che conduce le indagini (bibliofilo e innamorato) si convince che la causa delle morti improvvise non può essere un volume avvelenato. C’è ben altro, e si tratta di una faccenda squisitamente letteraria, suggerita dal titolo stesso. Il finale, metaletterario, è un po’ deludente. I libri sui libri sono maledettamente difficili, e corrono rischi notevoli: per esempio quello che il proclamato amore per la letteratura «alta» (il termine è di Zivkovic) resti appunto un proclama, estraneo al testo. Il loro è un percorso pieno di trappole, che solo il baldo Victor Legris (il libraio di Izner), sorridente e noncurante, evita alla brava.
A ben guardare, però, c’è anche un nuovo investigatore palermitano, Enzo Baiamonte, che dimostra l’acume necessario, in Il libro di legno di Gian Mauro Costa, edito da Sellerio: bazzica assai poco le librerie, ma deve recuperare cinque volumi mancanti dalla biblioteca di un professore passato a miglior vita. In quei titoli c’è la chiave di un enigma che lui all’inizio nemmeno sospetta, e a poco a poco, in una Palermo torrida, coloratissima, odorosa e naturalmente mafiosa gli si fa sempre più chiaro. L’idea di Eco (e delle Mille e una notte, e di Dumas) trova una inedita, non irrilevante riformulazione: dal libro che uccide al libro che arresta, incarcera, incatena. E forse salva la vita." (da Mario Baudino, Questo libraio è un vero detective, "La Stampa", 27/03/'10)

L'iPhone macchina del tempo


"Il nuovo che avanza, il vecchio che non arretra. A Londra capita, così racconta il Guardian, di imbattersi in passanti con il naso affondato non in un libro ma in un iPhone. Camminano, per esempio, in Brick Lane, nella East London, ma contemporaneamente sono in un libro di Monica Ali. O, viceversa, dalla lettura del romanzo sono approdati alla strada reale. C'è infatti una nuova applicazione per il telefonino, che guida attraverso la città così come è stata descritta nei romanzi. Si chiama «Get London Reading», e crea un bel cortocircuito nel tempo e nello spazio: sei qui e ora, nel traffico del marzo 2010, ma sei anche altrove, in un'altra epoca, fra le pagine di questo o quel libro.
Per la serie il vecchio che avanza, invece: domani lo scrittore Philip Pullman parteciperà sotto scorta all'Oxford Literary Festival. Ha ricevuto molte lettere di minaccia per il suo nuovo libro The Good Man Jesus and the Scoundrel Christ, nel quale sostiene che un uomo di nome Gesù è vissuto duemila anni fa, mentre Cristo il figlio di Dio è un'invenzione dell'apostolo Paolo. Pullman la prende con humour: chi gli scrive lo condanna alla dannazione eterna, ma per fortuna, dice, «non ha il potere di mandarmi all'inferno». Oltre alla quantità e alla virulenza delle minacce, però, c'è qualcos'altro che preoccupa: il libro condannato al rogo eterno non è ancora uscito.
Il passato, il futuro. Il ministro della cultura Margaret Hodge è fiera delle biblioteche britanniche «con più sedi di McDonald's o di Boots, e più visitatori dei negozi del West End londinese, la rete delle biblioteche pubbliche è un trionfo di infrastruttura e brand», ma si slancia verso il futuro: internet gratis per tutti, apertura domenicale, e-books gratuiti.
E che cosa c'è di nuovo, o di vecchio, in classifica? In una settimana di vendite in calo, 61 Hours di Lee Child ha venduto 26.247 copie in tre giorni, ma è al primo posto soltanto perché Stieg Larsson ha smerciato 33.862 copie ma di due libri diversi. Solar, il nuovo romanzo sui cambiamenti climatici di Ian McEwan, non se l'è cavata male: è secondo nella narrativa, e con le sue 14.176 copie è il libro di McEwan che vende meglio da molti anni a questa parte. Un bel cambiamento climatico, per lui." (da Giovanna Zucconi, L'iPhone macchina del tempo, "La Stampa", 26/03/'10)

Mercato letterario: la chiave è l'accesso


"Corsi e ricorsi senza fine ... Ancora sull'opposizione tra cultura di massa e cultura elitaria, col sottinteso da tutte le parti che la prima sia di destra e la seconda di sinistra? Ma nella società piccolo-borghese di massa e globalizzata hanno ancora senso queste dispute? Nessuno più, da anni, lancerebbe polemiche fatue coem quelle che si ebebro ai tempi di La Storia della Morante, né alcuno contesta la funzione di certa narrativa d'intrattenimento. E quando la vita, privata e pubblica, è pesante come una prigione, si ha anche il diritto di evadere, lo diceva già Oreste Del Buono, per il quale esistevano soltanto libri belli o libri brutti. E il grandissimo Dickens non pubblicava forse i suoi romanzi a puntate sui giornali a larga diffusione? Oggi nessuno mette in discussione il mercato: e come si potrebbe, visto che tutto e tutti siamo venduti al consumo, paesaggio compreso? Quello che è in questione oggi è un'altra cosa, semmai, cioè il diritto d'accesso al mercato. E' questo il nodo. Come può il prodotto (sia pure sui generis come il libro) commercialmente più debole (perché più impegnativo alla lettura per forma o contenuto, perché meno televisivo, perché marginale rispetto al gusto main stream e per chissà quanti altri motivi) diventare visibile sui banconi o sui giornali, per quanti ancora leggono le cosiddette pagine culturali? Quanto le grandi catene librarie decidono gli ordini da un unico centro basandosi su calcoli statistici? Quando chi entra in una grande libreria è pilotato tra pile e pilette e superfici espositive che incessantemente lo rimandano allo stesso titolo o allo stesso genere di libro? Quando nelle case editrici il bestseller è considerato non più un titolo fortunato che per una speciale costellazione di circostanze, non tutte pianificabili preventivamente, scala le classifiche e si installa stabilmente ai primi posti, ma quasi un genere 'letterario' a se stante e che per ovvi motivi va perseguito a ogni costo? E di conseguenza quando il marketing prevale sull'editoria? E i tempi lunghi, ma sicuri, del catalogo vengono considerati un costo anziché una risorsa?
E quando il pubblico, ormai privo di segnalazioni critiche perché sono quasi scomparse dai giornali, è indotto a orientarsi sulle classifiche dei più venduti, come se quantità e qualità dovessero per forza coincidere? Nel mercato d'antan ben disegnato da Federica Manzon ciascuno può piazzare la sua bancarella; ma è su mercati di questo tipo che vende oggi l'industria, compresa quella culturale?" (da Gianandrea Piccioli, La chiave è l'accesso, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/03/'10)

venerdì 26 marzo 2010

Così la filosofia spiega i miti d'oggi. C’è Platone dietro il pop


"«Perché parlare di tragico pare filosofico e parlare di comico no? Perché si può andare in cattedra con un libro su Heidegger e non con un libro sulla pornografia? Perché i miti sembrano una gran cosa e le barzellette no? Ed è così da sempre, o dipende da una involuzione moderna della filosofia?». Tempo fa, con questa incalzante serie di interrogativi, Maurizio Ferraris, Ugo Perone e Alberto Voltolini hanno introdotto un ciclo di incontri torinesi dedicato alla Filosofia Pop. Affermatasi ormai da vari anni in area angloamericana (ma sulle tracce dello strutturalismo), questa tendenza mira ad applicare gli strumenti della tradizione speculativa a esempi di cultura popolare, un po´ sul genere dei Miti d´oggi di Roland Barthes. Lo ha spiegato bene la studiosa statunitense Avital Ronell, affermando che, se Aristotele scrivesse adesso, si occuperebbe di soap opera.
L´idea di fondo della filosofia pop, insomma, è che non c´è niente di intoccabile: nulla di tanto alto da non poter essere criticato, nulla di così basso da non meritare una considerazione filosofica. Da qui l´idea di affrontare sia temi classici in forma non convenzionale, sia temi che hanno piena dignità teorica, ma che per qualche motivo sembrano marginali.
Grande fortuna ha avuto a tale riguardo il volume Matrix e la Filosofia (a cura di William Irwin e Vincenzo Cicero, Bompiani), dedicato a quel film dei fratelli Wachowski che fra l´altro, nel 2003, fu oggetto di un convegno nel segno di Platone cui parteciparono lo stesso Ferraris, Giulio Giorello, Diego Marconi e Carlo Sini. Sulla stessa linea si colloca il recente Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola, a cura di Armando Massarenti (Laterza), che affronta alcune cruciali domande filosofiche basandosi su altrettante sceneggiature per il cinema. Tuttavia, chi si è più concentrato su questo filone di ricerca è stato forse Simone Regazzoni, prima con Harry Potter e la filosofia (Il nuovo melangolo), poi con La filosofia di Lost (Ponte alle Grazie), infine con un testo appena uscito a sua cura con il titolo Pop filosofia (Il nuovo melangolo). Gli undici capitoli del libro spaziano dall´analisi della pop music di Michael Jackson a quella della fiction televisiva italiana e straniera, passando attraverso l´esame di un film come Mucchio selvaggio di Sam Peckimpah.
Il lettore è avvisato: il gioco consisterà nel sottoporre prodotti di consumo al vaglio critico, per osservarne la configurazione, il funzionamento, l´ideologia sottaciuta. Non a caso, l´intera operazione si colloca nel solco di quanto scrisse Peter Sloterdijk: «Noi non dobbiamo essere titubanti nel pensare oltre i confini dell´attività accademica. La crisi complessiva dei nostri giorni dovrebbe spingere la filosofia che si è rinchiusa nel grembo delle università ad abbandonare il suo nascondiglio».
Vediamo allora come procede questa opera di smontaggio. Mettendo da parte alcuni saggi meno immediati per il lettore-spettatore italiano (che forse non sempre conosce certe serie televisive come Mad men, o certe graphic novel quali Asterios Polyp), cominciamo da Sex and the City. Nelle loro sedute di autocoscienza post-moderne, spiega Francesca R. Recchia Luciani, le quattro protagoniste femminili non fanno che cercare il senso della propria esperienza. Inoltre la modalità interrogativa con cui la giornalista Carrie avvia ogni suo articolo (mettendo così in moto il plot che caratterizza ogni singolo episodio), si mostra come un esercizio eminentemente filosofico. La sua è una vera e propria indagine di antropologia sessuale, e come tale viene esaminata dalla studiosa, vuoi ricorrendo alla riflessione offerta da Michel Foucault, Giorgio Agamben o Jean-Luc Nancy, vuoi accostandola ad alcuni esiti dell´arte contemporanea (Jeff Koons, Tracey Emin, Sophie Calle).
I nomi di Foucault e Agamben, insieme a quelli di Gilles Deleuze e Paolo Virno, tornano anche nell´esame di Romanzo criminale, il romanzo di Giancarlo De Cataldo in cui Lorenzo Fabbri scorge una autentica "cartografia politica" della forma-Stato e in genere della società di controllo. Con una specie di lunga zoomata, le vicende della banda della Magliana finiscono per incrociare le più sofisticate meditazioni sui dispositivi di repressione, tracciando un nero ritratto dell´Italia del secondo dopoguerra. Qualcosa di analogo si verifica anche nel saggio di Giulio Itzcovich sulla versione inglese del Grande fratello, mentre il saggio del collettivo Wu Ming 1 sul film 300 di Zack Snyder propone un´apertura differente.
Attraverso il concetto di "tecnicizzazione del mito" formulato da Furio Jesi, la pellicola finisce per svelare la sua natura sostanzialmente banalizzata, caratterizzata da una serie di falsificazioni storiche. Una volta superato lo sconcerto che nasce dallo squilibrio fra l´oggetto studiato e il mezzo impiegato nella sua analisi, prestazioni critiche tanto brillanti e acute portano a dire che la Pop filosofia ha vinto la sua scommessa. Tuttavia, sarebbe più giusto affermare che la sua funzione, per quanto utile come esercizio di decifrazione, appare decisamente secondaria rispetto a quella dell´elaborazione teorica vera e propria. Ben venga questo tipo di ricerche, a patto però di tenere ben distinte le due fasi del processo speculativo: una cosa è applicare uno strumento ai più diversi aspetti della cultura di massa, un´altra, assai più complessa, riuscire a forgiarlo." (da Valerio Magrelli, Così la filosofia spiega i miti d'oggi. C’è Platone dietro il pop, "La Repubblica", 26/03/'10)

Saviano: 'Così le parole cambiano il mondo'


"Spesso mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all'estero - che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l'anno e di dominare territori vastissimi?
È complicato dare una sola risposta e, in verità, l'unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l'autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati. Quel che spaventa è che qualcuno possa d'improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita. Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti.
Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l'attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l'opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell'ordine. Poi, dopo più di vent'anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all'epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista. È successo per molte persone. [...]
Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. "Come mai sei arrivato a tante persone?" In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. "Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?". Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.
Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.
Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L'Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l'Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.
La storia dell'antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare. La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.
La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola.
Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com'è possibile? "Perché so", spiega lui "che almeno con la morte non potrà più essere diffamata". Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l'una o l'altra. Se hai la vita non hai l'autorevolezza, se hai l'autorevolezza non hai la vita.
Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.
So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come "parola usata da molti", "parola contro il potere". Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade. Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l'uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.
Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.
Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.
Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.
Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l'abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l'anticamorrista.
L'elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.
Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C'è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: 'Ma perché corri?' E lui rispose: 'Perché io corro? ... perché tu ti sei fermato?'.
Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: '... e perché tu non racconti?'." (da Roberto Saviano, Così le parole cambiano il mondo, "La Repubblica", 25/03/'10; anticipazione dal nuovo libro di Saviano, La parola contro la camorra, Einaudi)

mercoledì 24 marzo 2010

Boyne: "Stevenson o Dickens, ragazzi, leggete i classici"


"«Tutte le famiglie felici si assomigliano. Ogni famiglia infelice invece lo è a modo suo». Quando si ricorda a John Boyne il celebre incipit di Anna Karenina, lo scrittore vi riconosce lo spirito del suo nuovo lavoro: «Sì, il senso di La sfida (Rizzoli) è questo. Io ho voluto raccontare una famiglia normale che improvvisamente cade a pezzi per una sfortunata evenienza. Dopo l'incidente della madre, niente sarà più come prima». Solo silenzi, incomprensioni, solitudini. Se sul piano della letterarietà le vite famigliari senza increspature possono essere molto noiose, quelle sciagurate risultano molto più avvincenti. E l'ultimo romanzo per ragazzi di Boyne - autore irlandese prossimo alla quarantina, studi letterari al Trinity College - presenta la stessa grazia narrativa del suo fortunato racconto Il bambino con il pigiama a righe.
Non c'è mai enfasi nelle opere di Boyne. La forza d'urto delle sue storie scaturisce sempre da una sorvegliata costruzione narrativa, capace di condurre fin dentro l'abisso senza che il lettore se ne accorga o possa opporre resistenza. E l'abisso può avere il volto del più grande crimine novecentesco, come accade nel racconto ambientato ad Auschwitz, oppure nascondersi in più dimessi interni domestici, come capita in La sfida, il breve romanzo appena tradotto in Italia (Rizzoli, traduzione di Stefania Di Mella).
Ospite della Bookfair bolognese - dove ieri è stato conferito il premio Andersen allo scrittore David Almond e alla illustratrice Jutta Bauer - Boyne confessa di scrivere per i ragazzi solo quando ha "una buona idea". Ed è stata "una buona idea" a cambiargli la vita. Un filo spinato e due bambini che conversano, al di qua e al di là di un recinto. La storia di Bruno e Shmuel - il primo figlio del comandante di Auschwitz, il secondo un bambino ebreo polacco prigioniero del lager - ha emozionato lettori di trentadue paesi, vendendo quasi cinque milioni di copie (in Italia prima Fabbri, poi Rizzoli). La traduzione cinematografica del Bambino con il pigiama a righe, per la regia di Mark Herman, ha avuto l'effetto di amplificarne il successo. «Tutto è partito da quella immagine così forte», racconta Boyne. «Un'idea troppo ingombrante perché la potessi ignorare. Così cominciai a fantasticare sul percorso che aveva condotto i due bambini nel campo di concentramento, cosa potessero raccontarsi nei loro incontri quotidiani, fino all'epilogo drammatico». L'amicizia tra i due bambini si chiude nel penultimo capitolo, quando Bruno decide di superare il filo spinato, indossa il pigiama a righe che gli ha portato Shmuel e comincia a esplorare il mondo al di là del recinto. Naturalmente non trova niente di quello che s'era immaginato, non gli adulti sulle sedie a dondolo, né i bambini che giocano a squadre. Solo occhi infossati e teste rasate. Finché con Shmuel viene sospinto dentro un locale soffocante, a tenuta stagna. La porta che si chiude, le due mani strette, poi il buio.
Un «epilogo necessario», dice Boyne. «Non credo che la storia avrebbe avuto la stessa intensità senza la morte di Bruno e Shmuel. Quando il lettore entra con loro nella camera a gas, è invaso da una sofferenza atroce. Per me è importante che il romanzo abbia un finale così dolorosamente vero. Non ci fu il lieto fine per la grande maggioranza dei bambini di Auschwitz. È giusto che non ci sia neppure per i lettori, specie per quelli più giovani».
Se si richiama l'assonanza tra Il bambino con il pigiama a righe e La vita è bella - in entrambi i racconti è il lager visto con gli occhi di un ragazzino - lo scrittore irlandese liquida un pò infastidito: «Ricordo di aver provato sentimenti ambivalenti per quel film, specie verso il finale che considero un pò disonesto, quando il figlio ritrova la madre: non era questo il modo in cui finivano le storie nel lager». Il suo racconto evoca il fruscio di pagine lette, fin da ragazzo ha studiato la letteratura dedicata all'Olocausto. «Ero molto giovane quando presi in mano per la prima volta le pagine autobiografiche di Primo Levi, Elie Wiesel e di altri grandi testimoni. L'emozione fu molto forte, e anche le domande rimaste senza una risposta». Quando presenta il libro ai ragazzi, «in molti fanno un confronto con i pregiudizi e con l'odio che ancora lacerano il mondo». Un gioco di rimandi tra il presente e il passato che Boyne incoraggia, perché in fondo - dice - ha scritto Il bambino anche per svegliare le giovani coscienze.
C'è un vezzo che contraddistingue i suoi racconti: i suoi protagonisti leggono sempre autori classici. Bruno, il figlio del comandante nazista, tenta di mitigare il grigiore di Auschwitz con l'Isola del tesoro, mentre Danny in La sfida si addormenta con David Copperfield. «Da bambino leggevo molto», dice Boyne, «dunque metto sempre dei romanzi in mano ai miei giovani personaggi. Mi addolora vedere quanto poco leggano i bambini di oggi. Sono stato profondamente influenzato da Dickens, da lui ho imparato il meccanismo dell'avventura e dell'esplorazione. Il mio piccolo Danny emula le gesta di Copperfield, un orfano che deve trovare la sua strada nel mondo: Danny non è un orfano, ma è come se lo fosse, e nel corso di una sola estate diventa adulto. In fondo è un Copperfield contemporaneo: riesce a trovare dentro di sé quello spirito eroico che Dickens sa ben rappresentare nei suoi personaggi»." (da Simonetta Fiori, Boyne: 'Stevenson o Dickens, ragazzi, leggete i classici', "La Repubblica", 24/03/'10)

Tre secondi


"Ci sono thriller che funzionano come orologi. L'ultimo bestseller in arrivo dalla Svezia fin dal titolo aspira al cronometro. Tre secondi (Einaudi) è il tempo che impiega un colpo sparato da lontano con un fucile di precisione per andare a bersaglio. Ma anche il tempo che ha un detenuto braccato come spia dai killer della cella accanto, in un carcere di massima sicurezza, per reagire salvandosi la vita. Tre secondi bastano comunque a chi incontra per la prima volta gli autori per capire 'chi è chi' nella coppia Roslund & Hellstrom, uno per quindici anni giornalista tv di punta del canale culturale, l'altro per una decina dentro e fuori dla carcere per aggressioni, droga, alcool, furti e in seguito fondatore di un'associazione volontaria per il recupero degli ex detenuti.
La realtà non supera l'immaginazione: Anders Roslund è proprio il quarantenne biondo con gli occhiali tondi, eleganza casual e sguardo acuto che prende in mano la situazione («Abbiamo la macchina qui davanti, facciamo un giro nei luoghi del romanzo»). Borge Hellström è l'omone col cranio rasato, due mani come pale e un grande sense of humour («Sono grosso ma non mi spiacerebbe se scrivesse "grande scrittore"») che si incastra al volante ridendo: «Tranquillo, sono pienamente riabilitato, ho la patente e perfino il porto d'armi, per andare a caccia».
Insieme, hanno aggiunto ancora un gradino (nove mesi nei primi dieci posti in classifica dei libri svedesi più venduti, i due premi nazionali maggiori per la crime story) nella scalinata imponente che disegna l'ascesa della letteratura scandinava all'olimpo mondiale dei polizieschi.
Per riepilogare, cinque anni fa il ciclone Millennium di Stieg Larsson (Marsilio), che tra la primavera 2008 e quella dell'anno scorso è stato lo scrittore più letto in Europa. Poi, oltre ai giallisti di lungo ed eccellente corso - Mankell (Marsilio), Nesser, Persson, Nesbo, Holt, Marklund - e alla novità Lackberg (Marsilio), il filone thriller dell'avvocato Jens Lapidus con la trilogia di Stoccolma nera, L'ipnotista della coppia Alexander Ahndoril-Alexandra Coelho in arte Lars Kepler e ora il duo Roslund & Hellström.
Se visto da lontano il boom sorprende, da vicino stimola riflessioni oltre l'editoria. Roslund si dà tre spiegazioni: «La prima è che in Svezia abbiamo sviluppato un'attenzione fortissima per l'aspetto criminale esattamente dalle 23,30 del 28 febbraio 1986, quando uno sconosciuto sparò a Olof Palme mentre tornava dal cinema nella casa che vede lì al 37 di Vasterlanggatan». La seconda ragione è che a elaborare quello shock non poteva che pensarci la letteratura gialla: «Gli scrittori non di genere all'epoca avevano abbandonato i temi sociali per rovelli più interiori. Così noi siamo tutti figli del primo poliziesco svedese, quello di Per Wahlöö e Maj Sjöwall, mia cara amica e la prima a rappresentare, col marito, già negli anni Sessanta, il lato oscuro della nostra società attraverso gli occhi del loro commissario Beck».
Persa l'innocenza, di lati oscuri la Svezia ha poi scoperto d'averne tanti: Larsson indaga su intrighi di spie russe, finanza corrotta e neonazisti, Lapidus su gang di spacciatori, Kepler su violenze in famiglia, i primi libri di Roslund e Hellström (tre usciti negli anni scorsi anche in italiano, con poca eco, da Cairo editore) su pedofilia, tratta di ragazze lituane, bambini di strada clandestini nei sotterranei di Stoccolma, come fosse Bucarest. Tre secondi parte dal traffico di droga gestito dalla mafia polacca e approda alla critica dell'uso disinvolto di informatori criminali da parte della giustizia svedese, passando per i guasti del sistema carcerario. In un recente talk show la numero uno dei socialdemocratici Mona Sahlin, che a settembre cercherà di riprendersi la maggioranza persa nel 2006, l'ha citato («Il nostro voto l'ha conquistato di sicuro»), mostrando di prendere i temi posti dal thriller sociale molto sul serio. E questa è la terza spiegazione del boom per Roslund: «Sarebbe impensabile in Sudamerica o in paesi dove la criminalità organizzata s'intreccia allo Stato. Qui in Svezia mafie, corruzione, storture della legalità, sono realtà vicine, ma per fortuna scandalizzano ancora».
La teoria della "giusta distanza" non spiega tutti i best seller "criminali" (quanta Italia sarà alla giusta distanza da Gomorra?) ma fa capire come mai tra magistrati, opinion leader e poliziotti la popolarità di Roslund e Hellström è alle stelle. Un salto con loro al quartier generale della polizia a Stoccolma frutta una visita senza formalità alle stanze dove nella finzione lavora il commissario Ewert Grens (ma in Tre secondi il vero protagonista è il delinquente Piet Hoffman, ingaggiato come spia da governo e servizi segreti, all'insaputa del poliziotto). E poco più tardi anche un membro dell'Accademia svedese, al tavolo accanto nel ristorante ben scelto, saluta affabile le star del momento.
Tre secondi non ha molte chance di guadagnare ai suoi autori il Nobel, ma non è il suo scopo: «È al 50 per cento realtà e al 50 per cento di fiction, la ricetta migliore per appassionare il lettore a temi che in un saggio non affronterebbe», dice Roslund. Sarà che il 50 per cento di fiction non si tira indietro di fronte a nulla: suspense, doppie vite, esplosioni, piani meticolosi di sopravvivenza e fuga che imprevedibilmente funzionano, un pò come nei migliori James Bond. E un ritmo forsennato da action movie, tanto che se ne farà un film coprodotto in America.
Ma come scrivono, insieme, autori così diversi? «Spiacenti, è una delle due domande (l'altra è la trama del prossimo romanzo) a cui non rispondiamo mai. I libri sono di tutti e due e basta. Troppe coppie di scrittori si sono divise per aver detto troppo». Hellstrom brontola: «Alla regola mi sono rassegnato da poco, sono abituato a parlare di me senza remore, ho imparato a farlo agli incontri degli alcolisti anonimi, e mi ha salvato la vita». Racconta invece come si sono conosciuti: «Nel '98 Anders girava un documentario per la tv sul Kris, l'associazione di aiuto agli ex detenuti ora copiata in diversi paesi». Roslund: «Borge aveva una tale conoscenza diretta del mondo criminale che ci ha fatto venire l'idea di scriverci dei romanzi». Nel frattempo il documentario ha vinto un premio negli Usa. Hellstrom: «Buffo, non ho potuto ritirarlo perché coi miei precedenti non mi danno il visto. C'è andato un amico che ha la doppia cittadinanza. E un curriculum peggio del mio»." (da Maurizio Bono, Larsson e i suoi fratelli, "La Repubblica", 24/03/'10)

Gianrico Carofiglio - Libri come


"La domanda non è: come mai un giorno un pubblico ministero abbia deciso di fare lo scrittore. La domanda è piuttosto: come mai un ragazzino che da grande voleva fare lo scrittore si sia trovato invece a fare il magistrato e, per molti anni, fino a un'età ampiamente adulta, non abbia scritto un solo rigo. La risposta – o almeno una delle risposte – è: paura. Paura di provarci davvero e scoprire di non essere capace. Per via di quella paura ho cercato – e naturalmente trovato – ogni sorta di espedienti e diversivi per rinviare il momento della verità. E in un certo senso anche fare il magistrato – un lavoro che poi mi è piaciuto e che ho amato tantissimo – è stato una specie di gigantesco diversivo. Poi, dai diversivi sono passato a caute, inconsapevoli manovre di avvicinamento. Per esempio scrivendo saggi sulle tecniche del l'interrogatorio, veri e propri manuali per addetti ai lavori. In realtà, in quel maneggio solo apparentemente tecnico di storie processuali, dietro il paravento del manuale, c'era già, ben nascosta, tutta la mia voglia di raccontare. Ma questo l'ho capito davvero solo molto più tardi.
C'è un momento che probabilmente segnò una svolta decisiva: dopo due libri, editi con Giuffrè, lo stesso editore mi aveva chiesto di scrivere un manuale pratico che illustrasse l'applicazione di moduli psicologici e retorici all'indagine e al processo penale. Dopo aver prodotto faticosamente una sessantina di pagine mi resi conto che non avevo davvero voglia di scrivere quel libro. Mi chiesi: «È davvero questo che vuoi fare?». Mi risposi che in realtà avevo voglia di fare altro e forse si stava avvicinando il momento in cui non avrei potuto ulteriormente rinviare. Ricordo con precisione di aver percepito che stavo per passare dalla fase della vita in cui si dice «un giorno farò lo scrittore» alla fase in cui si dice: «Avrei voluto fare lo scrittore». Come tutte le percezioni che hanno a che fare con il trascorrere irrimediabile del tempo, non fu una sensazione piacevole.
Sei mesi dopo cominciai a scrivere quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo. Intendiamoci. Ci avevo provato tante volte, prima. Ogni due, tre anni mi veniva un'idea per una storia, costruivo uno schema, prendevo appunti, leggevo manuali di scrittura creativa per darmi coraggio. Poi buttavo giù tre o quattro pagine, mi accorgevo che non erano buone – non sono mai buone, le prime pagine, ma allora non conoscevo il meccanismo – pensavo che il momento non era arrivato e smettevo.
Poi accadde una cosa che per me è tuttora inspiegabile. Il 5 o il 6 settembre del 2000 cominciai a scrivere, continuai a farlo per nove mesi, tutti i giorni, e il 5 o il 6 maggio dell'anno dopo il romanzo era finito. Quel romanzo – che si sarebbe intitolato Testimone inconsapevole (Sellerio) – è stato scritto con una determinazione e, direi, una sorta di misteriosa sicurezza che non ho mai più ritrovato scrivendo gli altri libri. Mi chiudevo in mansarda tutte le sere, di ritorno dall'ufficio e dicevo: «Vado a lavorare». Che, per un non-scrittore quale io ero, è un'affermazione quantomeno bizzarra.
Quel libro è stato scritto con tecnica cinematografica, e anche questo è un dato interessante, credo. Allude a una consapevolezza tecnica del tutto assurda per uno che non aveva mai scritto non dico un romanzo, ma nemmeno un racconto. Quando parlo di tecnica cinematografica intendo dire che scrivevo parti del romanzo come se girassi scene di un film, senza quasi nessuna relazione con la sequenza finale della storia. Alla fine, come si fa per i film, ho effettuato il montaggio e il romanzo ha preso la sua forma finale, come per una sorta di magia. È un metodo che continuo a utilizzare, ma non mi è mai più accaduto di praticarlo con la stessa lucida consapevolezza di quella prima volta.
***
Una storia, sia essa destinata a diventare un romanzo o un racconto, comincia, per me, contemporaneamente alla visione del suo finale e alla nascita del suo protagonista. Anzi direi: almeno dei suoi due protagonisti principali. Questa fase precede di molto l'inizio della scrittura vera e propria. Per settimane o anche mesi cerco di capire chi sono questi personaggi e perché devono muoversi verso quel finale. Di regola non ci riesco. In realtà l'unico modo per cominciare a capire chi siano questi personaggi e per quale ragione questa storia chiede di essere raccontata, è cominciare a scrivere. Thomas Mann diceva che lo scrittore è una persona per la quale scrivere è più difficile che per le altre. Credo sia vero.
Comincio a scrivere sul serio solo quando – oppresso dal senso di colpa – percepisco il pauroso avvicinarsi della data di scadenza per la consegna. In questo senso, la tendenza patologica alla procrastinazione che in più casi ho attribuito al personaggio di Guido Guerrieri è un connotato del tutto autobiografico. Quando alla fine comincio a scrivere, attraverso una prima fase frenetica e alluvionale. Lavoro senza regole, mi interrompo in continuazione, butto giù frasi che spesso non stanno in piedi, aggiungo appunti tra le righe, con caratteri diversi. Insomma, un manicomio. Quando ho generato questo ammasso di parole, del quale solo vagamente si intuisce un disegno, so che lì dentro è nascosta la mia storia e che la vera scrittura sta per cominciare. Michelangelo diceva che in ogni blocco di granito è prigioniera una statua e che il compito dello scultore è di liberarla. Allo stesso modo in quei blocchi di parole sono imprigionate storie e personaggi che attendono anche loro di essere liberati. In questo senso la scrittura, proprio come la scultura, è arte del togliere. Parole, frasi, paragrafi, a volte interi capitoli. Senza pietà, perché spesso è proprio quello che ci piace di più, cioè che soddisfa il nostro narcisismo, che impedisce alla storia e ai personaggi di liberarsi completamente. Capisco, un poco, chi sono i personaggi e di cosa parla la storia soltanto dopo questa operazione, che a volte è quasi divertente e liberatoria, altre volte è decisamente dolorosa.
***
Credo che lo scrivere abbia essenzialmente a che fare con la paura, sia un nuotare sott'acqua trattenendo il fiato o un vero e proprio negoziato con le ombre, secondo le bellissime definizioni rispettivamente di Scott Fitzgerald e di Margaret Atwood.
È come percorrere una stanza buia alla ricerca di un'uscita che non sei mai sicuro di trovare. Cerchi di abituare lo sguardo all'oscurità, urti, inciampi, ti fai male e soprattutto, momento dopo momento, scopri che le cose non sono mai come le immaginavi. E intorno a te, invisibili e reali, le ombre, a volte inquietanti, altre volte stranamente cordiali. Con loro, comunque, devi venire a patti se vuoi raggiungere incolume l'uscita. Ci sono cose che ti aiutano in questo viaggio nel buio e in questo negoziato con le ombre. Gli altri libri per esempio, da usare come piccole torce per fendere almeno un poco l'oscurità.
Eliot ha detto che gli scrittori immaturi imitano, quelli maturi rubano. Non so se sono uno scrittore maturo, ma certamente mi piace rubare dagli altri autori.
Mi piace citare per far procedere nascostamente la storia o per descrivere obliquamente i personaggi. Ecco: l'obliquità dello sguardo è, secondo me, una delle caratteristiche della buona scrittura, e le citazioni ben fatte sono un modo per generarla. In questo senso scrivere e leggere sono atti di partecipazione a un grande, sterminato dialogo collettivo. Una rete immensa in cui è tutto impigliato: le storie, i personaggi, gli autori del passato, quelli del presente, i lettori. E le ombre, naturalmente. Placate, almeno per un poco." (da Gianrico Carofiglio, Tecnica del colpo di penna, "Il Sole 24 Ore", 21/03/'10. L'articolo anticipa in buona parte i contenuti della lezione magistrale, «Come scrivo i miei libri», che lo scrittore barese terrà nel corso del Festival Libri Come (Auditorium di Roma dal 25 al 28 marzo), giovedì 25 alle 21. Il festival, nato da un'idea di Marino Sinibaldi e organizzato dalla Fondazione Musica per Roma, si articola in sezioni quali «Scrivere Come» (dedicata agli interventi e alle confessioni degli autori), «Pubblicare Come», incontri, analisi e approfondimenti riservate alla produzione, distribuzione e vendita dei libri, «Leggere come», grandi lettori raccontano al pubblico la loro esperienza di divoratori di libri.)

Come nasce un libro? La parola alla I Festa della lettura (Il Sole 24 Ore)

lunedì 22 marzo 2010

Letteratura: per favore, niente snobismi


"Il mio mestiere è: leggere romanzi e racconti in dattiloscritto, e segnalare quelli che mi smebrano interessanti all'editore che mipaga lo stipendio. Ricevo due o tre plichi al giorno, e due o tre giorni la settimana mi metto lì, leggo, sfoglio - ho deciso che a tutti sono dovute la lettura di trenta pagine e una sfogliata - e, il più delle volte, butto via. Sui mille e passa dattiloscritti che leggo ogni anno, mediamente una decina scarsa sono interessanti (il che non significa: pubblicabili). Gli altri no. Gli altri sono spesso ingenui, spesso brutti, spesso velleitari, non di rado orrendi.
Detto questo - e l'ho detto per chiarire che so che cosa è la produzione letteraria non pubblicata - ho avuto un senso di fastidio leggendo nel Domenicale del 14 marzo, i pezzi di Filippo Tuena, Diego Marani e Paolo Albani. Mi dà fastidio in generale l'ironia esercitata da chi sta dentro nei confronti di chi sta fuori; e mi dà ancor più fastidio il manicheismo.
L'articolo di Marani è tutto costruito su contrapposizioni: 'Accanto ai romanzi che segnano un'epoca e che hanno sempre qualcosa da dire si vendono quelli che si consumano in un pomeriggio'; 'Quel che fa la differenza sta nella capacità del lettore di distinguere un'opera letteraria di valore universale da un divertimento superficiale ed effimero'; il 'lavoro che richiede la scrittura di un'opera letteraria' non ha nulla a che fare, 'nulla di paragonabile', con 'un bel romanzo giallo, spigliato e accattivante'. E così via. Certo, si concede che, per ricrearsi, il lettore possa consumare anche 'scrittura popolare' accanto a quella 'elevata': ma, per carità, riconoscendone il 'diverso valore'. Scrivere un'opera letteraria, stando a Marani, è una cosa tremenda: 'C'è di mezzo il sentire, il calarsi a scavare nel pozzo del proprio animo e ritornare in superficie un attimo prima di soffocare per l'angoscia ma stringendo fra le mani la parola che ci mancava'; peccato che una frase come questa, con le sue immagini cliché, abbia proprio il sapore - sarò schizzinoso - della cattiva letteratura. [...] La vitalità di una letteratura è fatta, al contrario di quel che sembrano pensare Marani, Tuena e Albani - ciascuno dice il suo pensiero in modo diverso, ma mi pare che sia un unico pensiero - di tutta la produzione letteraria. Il conte Alessandro Manzoni non sarebbe sceso da cavallo, abbandonando inni e tragedie, per scrivere un romanzo, se il romanzo, questo genere letterario così disprezzato, così corruttivo, così popolare, così di basso livello da essere considerato roba per le donne, non si fosse nel frattempo imposto nel consumo dei lettori dell'epoca. Ripeto: nel consumo.
Certo: sono altri tempi, i nostri. Certo, oggi esiste un'industria editoriale, oggi esiste la televisione, etc. E sarebbe stupido confondere le diversità - di specie e di valore - e parlare della produzione letteraria (o, se vi piace: editoriale) come di un ammasso indistinto dove tutto vale ugualmente. Ma mi pare altrettanto stupido tentare di costruire muraglie e torri attorno a un'ipotetica cittadella della vera letteratura, e di rifilare agli aspiranti scrittori un'idea di vera letteratura che era già scaduta, a occhio e croce, ai tempi della belle époque." (da Giulio Mozzi, Per favore, niente snobismi, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/03/'10)

sabato 20 marzo 2010

Libri per bambini ma non libri minori


"Ritorna la Fiera del libro per ragazzi di Bologna, e forse si dovrebbe usare questa occasione come spunto per riflettere, in termini generali, su dove sta andando, in Italia, la letteratura per l’infanzia. Soffre, questa letteratura, da sempre di una forte emarginazione nella considerazione generale, e io, che la studio e la insegno come disciplina all'università, mi batto con passione per dimostrare quanto sia sbagliato il pregiudizio che la vuole una letteratura minore, mostrando come al suo interno si trovino capolavori assoluti che proprio e solo perché sono stati scritti «per bambini» sono potuti nascere, e come, anche al di là dei capolavori, essa contenga libri belli e bellissimi, nonché unici (si pensi per esempio allo spazio dato al suo interno all'illustrazione) nell’ambito di tutta la letteratura.
Però, da un po’ di tempo a questa parte, mi pongo con più dubbi di fronte a quella che per me era stata una premessa indiscutibile: cioè che la letteratura per l'infanzia è uno scrigno, semplicemente poco frequentato, e dunque poco noto, di tesori. Entrare in una libreria qualunque (non le specializzate, troppo poche, con un’offerta meditata) e dirigermi nello spazio per bambini e ragazzi è diventata una sofferenza per il panorama che a colpo d’occhio si presenta, fatto di un’insostenibile bruttezza e sciatteria, e per la ricerca sempre più vana di titoli e storie non banali, non sciocche, non fra loro tutte uguali. Pochi i titoli solitari, pubblicati perché valgono, molte invece le collane pensate con una formula che si ripete inesorabile. Ai bambini il calcio e alle bambine la danza, con una grafica e delle copertine raccapriccianti, da chiedersi se non si sia diffusa una forma di sadismo o comunque di disprezzo, nei confronti dell’infanzia. Si notano sempre più nomi italiani, tra gli autori e gli illustratori di romanzi e romanzetti, di serie o fuori collana, e dispiace constatare che la scelta è evidentemente dovuta ai costi minori, da parte dell’editore (che così risparmia sull’acquisto dei diritti e sulla traduzione), e non alla scoperta di reali talenti nostrani.
Tutto sembra realizzato al ribasso, tutto ha un sapore mestamente amatoriale, e all’estremo opposto, in un’esagerazione altrettanto lontana dalla letteratura per l’infanzia in sé, si realizzano prodotti ingegneristicamente sofisticati, pop-up a effetti speciali plurimi, spettacolari oggetti di carta, più che libri, più che storie, grazie alle quali crescere. Delle grandi case editrici non riesco a salvare quasi niente, Mondadori ha fatto una scelta totalmente commerciale; EL e Piemme hanno adottato un visivo che su tutta la linea - a parte qualcosa del re-illustrato Rodari - va dal brutto al non avvincente; resta a galla Rizzoli per i classici BUR e per l'unica collana per adolescenti minimamente seria (pur priva di titoli davvero memorabili); mentre Salani, oltre al merito di contenere i vecchi «Istrici», è l'unica casa editrice che continua a fare scelte dignitose e ammirevoli, pagando l'inevitabile debito col Fantasy con una delle sue serie, ma mostrandosi interessata poi anche a ripescare autori e ripristinare titoli diversi, particolari, unici, che in questo panorama omologato erano divenuti introvabili.
Qualche bella scelta, sempre all’insegna della differenza rispetto alle mode più imperanti, negli ultimissimi anni l’hanno fatta San Paolo e Giunti, portandoci autori come La Fombelle, Bondoux, Di Camillo, Murail e ora un controverso titolo di Lois Lowry, The Giver. Il donatore.
Sono però le piccole case editrici nell’ambito in particolare degli albi illustrati, in questo periodo storico, le presenze più significative, interessanti, sperimentali, coraggiose del mondo dei libri per bambini. Babalibri e Ippocampo traducono libri belli e importanti, soprattutto dalla Francia, Il Castoro pesca artisti come Emily Gravett e Brian Wildsmith dal mondo britannico, Il Gioco di Leggere nasce per portare in Italia capolavori di altri paesi che non erano ancora giunti fino a noi, Donzelli acquista albi stupendi e recupera vecchie fiabe illustrate presentandole con una cura filologica eccezionale.
E Orecchio acerbo e i Topi Pittori fanno, con raro zelo, libri propri, lavorando in tutte le fasi insieme ad autori e illustratori, mostrando di avere un progetto editoriale serio, e di puntare molto alto. Entrambe sono presenti con albi meravigliosi in questa fiera.
A loro vanno la nostra attenzione, il nostro plauso, l'incoraggiamento e un ringraziamento, perché se non fosse per i loro libri lo scoramento di chi entra in libreria sarebbe pressoché totale, forse anche fatale - tale da far dire che ha ragione chi ritiene i libri per bambini prodotti minori, banali, incapaci di dire qualcosa di profondo, sulla vita e sul mondo. Poiché tra gli altri motivi per spiegare lo sfacelo, parlando, si sente addurre quello indubbio della crisi finanziaria, che non consente grosse spese, che costringe a tagliare costi, che spinge a realizzare libri più scadenti, avrei una modesta proposta da fare agli editori, per il bene dei libri e dei lettori: fate meno libri, tutti quanti, eliminate collane insulse, pubblicate meno titoli, ma fate in modo che, quelli che escono, siano quelli che davvero, onestamente, anche a voi piacciono." (da Giorgia Grilli, Libri per bambini ma non libri minori, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/03/'10)

How Fiction Works


"I romanzieri dovrebbero ringraziare Flaubert come i poeti ringraziano la primavera: con lui tutto rinasce. C’è davvero un’epoca pre- e un’epoca post-Flaubert. Fu lui a fissare una volta per tutte ciò che, per la maggior parte dei lettori e degli scrittori, è la narrazione realista moderna, e la sua influenza è quasi troppo familiare per essere visibile. A malapena notiamo, nella buona prosa, che essa caldeggia il dettaglio eloquente e brillante; che privilegia un alto grado di osservazione visiva; che mantiene una compostezza asentimentale e sa indietreggiare, come un bravo valletto, di fronte al commento superfluo; che giudica il bene e il male con neutralità; che cerca la verità, anche a costo di disgustarci; e che le impronte dell’autore su tutto ciò sono, paradossalmente, rintracciabili ma non visibili. Potete trovare l’uno o l’altro di questi caratteri in Defoe o Austen o Balzac, ma in nessuno li troverete tutti fino all’arrivo di Flaubert.

La letteratura si differenzia dalla vita in questo: che la vita è piena di dettagli in modo amorfo, e raramente ci guida verso di essi, mentre la letteratura ci insegna a notare: a notare, per esempio, come spesso mia madre si strofini le labbra appena prima di darmi un bacio; che il diesel al minimo di un taxi londinese fa un rumore da trapano; che le vecchie giacche di cuoio mostrano striature bianche simili alle strisce di grasso delle fette di carne; come la neve fresca «scricchioli» sotto i piedi; come le braccia di un neonato siano così grasse da sembrare legate con lo spago (be’, gli altri sono miei, ma quest’ultimo esempio viene da Tolstoj!).
Questo tutoraggio è dialettico. La letteratura ci rende migliori osservatori della vita; noi mettiamo in pratica l’insegnamento nella vita stessa; in tal modo diventiamo più bravi a notare i dettagli quando leggiamo; così impariamo a leggere sempre meglio la vita. E via di questo passo. Basta insegnare letteratura per rendersi conto che la maggior parte dei giovani lettori è costituita da osservatori mediocri. I miei stessi vecchi libri, sfrenatamente annotati vent’anni fa, da studente, mi dicono che allora usavo sottolineare, in cerca di approvazione, dettagli e immagini e metafore che oggi mi appaiono banalissimi, mentre passavo tranquillamente sopra a cose che mi sembrano oggi meravigliose. Noi cresciamo, come lettori, e a vent’anni si è relativamente vergini. Non si è ancora letto abbastanza perché la letteratura ci abbia insegnato a leggere davvero la letteratura.

Riguardo i dettagli nella narrativa confesso un’ambivalenza. Li assaporo, li consumo, li medito. Difficilmente passa giorno senza che ritorni con la mente alla descrizione del sigaro del signor Rappaport in Bellow: «Il bianco fantasma della foglia con tutte le sue venature e un più tenue afrore». Ma troppi dettagli mi soffocano e una tradizione tipicamente postflaubertiana ne fa, ho l’impressione, un feticcio: mi sembra che la deferenza iperestetica verso i dettagli acuisca, in forma leggermente diversa, quella tensione fra autore e personaggio che abbiamo già esplorato. Se è possibile narrare la storia del romanzo come lo sviluppo dello stile indiretto libero, è possibile narrarla anche come l’ascesa del dettaglio. Facciamo fatica a ricordare quanto a lungo la narrativa è stata schiava degli ideali neoclassici, che favorivano la formula e l’imitazione piuttosto che l’individuale e l’originale. Naturalmente, il dettaglio originale e individuale non può mai essere soppresso: Pope e Defoe e anche Fielding sono pieni di ciò che Blake chiamava «minuti particolari». Ma è impossibile immaginare un romanziere dire nel 1770 quello che Flaubert disse a Maupassant nel 1870: «In ogni cosa c’è un lato inesplorato, perché siamo abituati a servirci degli occhi solo con il ricordo di ciò che è stato pensato prima di noi su quello che ora guardiamo. La minima cosa contiene un punto d’ignoto».

Anni fa, mia moglie e io eravamo a un concerto della violinista Nadja Salerno-Sonnenberg. Durante un pacato ma difficile archeggio, lei aggrottò la fronte. Non si trattava della solita estatica smorfia del virtuoso: era l’espressione di un’irritazione improvvisa. Mia moglie e io ne demmo, nello stesso momento, due letture del tutto diverse. Più tardi Claire mi disse: «Ha aggrottato la fronte perché non stava eseguendo quel pezzo abbastanza bene». Io ho ribattuto: «No, ha aggrottato la fronte perché il pubblico faceva rumore».
Un buon romanziere avrebbe lasciato quella fronte aggrottarsi senza aggiungere nulla, e non avrebbe aggiunto nulla neanche ai nostri rivelatori commenti: che bisogno c’è di annegare nelle spiegazioni una scenetta così? Un dettaglio come questo, che ci presenta un personaggio ma si rifiuta di spiegarlo, ci rende scrittori, oltre che lettori; ci fa divenire quasi cocreatori dell’esistenza del personaggio." (da James Wood, Il bel romanzo vive di dettagli, "La Stampa", 19/03/'10, trad. di Massimo Parizzi. E’ in uscita da Mondadori il saggio di James Wood Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori (How Fiction Works, Picador). James Wood, membro della redazione del New Yorker, docente di letteratura inglese e americana ad Harvard, si misura con i suoi preferiti, fra i critici del ’900 - Šklovskij e Barthes - e con una effervescente mole di esempi, citazioni e confronti, dai classici dell’'800 ai bestsellers del ‘900, compone una personalissima e antiaccademica guida alla lettura: «In queste pagine - scrive - cerco di porre alcune domande chiave sull’arte della narrativa. Il realismo è realistico? Quando definiamo una metafora riuscita? Che cos’è un personaggio? Quando l’uso dei dettagli ci appare geniale? Che cos’è il punto di vista e come funziona? Che cosa significa immedesimarsi? Perché i romanzi e i racconti ci “prendono”?». Anticipiamo qui alcuni passi dai capitoli «Flaubert e la narrativa moderna» e «Dettagli».)

venerdì 19 marzo 2010

Fieri di leggere


"Basterebbero dieci milioni di euro dallo Stato per intraprendere tra i bambini una campagna quinquennale di promozione della lettura che darebbe frutti sicuri». Lo diceva Gian Arturo Ferrari, da gran capo della Mondadori. Adesso, neopresidente del Centro per il Libro e la Lettura, ribadisce, nel primo dei 7 punti del suo progetto: «Il focus è stato individuato nei bambini e ragazzi sotto i 14 anni (4,7 milioni), il cui mercato in Italia è fortemente arretrato, fanalino di coda dopo Spagna e Francia».
Concordi molte voci del settore dove peraltro si lavora con assoluta competenza-passione. «Aderisco alle posizioni di Ferrari, individuando purtroppo nella scuola la prima responsabile di questa situazione». Lo dice una pioniera come Grazia Gotti, occupatissima in questa vigilia della Fiera di Bologna dove si festeggeranno i dieci anni del programma Fieri di leggere nato per iniziativa sua e di alcune collaboratrici, con l’appoggio di enti locali e, fondamentale, della Giannino Stoppani, ormai storica libreria e editrice per ragazzi fondata nel 1983 dalla stessa Gotti con Tiziana Roversi, Silvana Sola, Giampaola Tartarini, tutte ex allieve di Antonio Faeti.
Impegnata nell’Accademia Drosselmeier che, dal 2003 con il nome del celebre personaggio dello «Schiaccianoci», è Centro studi e Scuola di formazione, e nel frequentatissimo blog «Zazienews», per la Gotti «Fieri di leggere» è l’occasione per portare la lettura fuori dalle mura cittadine. In senso letterale: eventi, mostre, novità, autori, illustratori, impegnati, ad ogni primavera, sul territorio e molto oltre i giorni della Fiera in librerie (specie le indipendenti, punto centrale di ogni iniziativa di cultura), biblioteche, circoli. Se dieci anni fa i ragazzi leggevano di più, gli insegnanti nel complesso erano più preparati e «c’era più allegria -commenta la Gotti- oggi, nonostante il generale e conclamato disastro del nostro Paese, stiamo raggiungendo concretamente nel nostro settore uno dei traguardi più ambiti, la capacità di fare rete, anche sul piano nazionale». Un’avventura difficile quanto affascinante la cui molla «è pedagogica: ovvero principalmente politica». Ci pensino i «signori» di Roma che tengono nel cassetto da decenni la legge del libro ..." (da Mirella Appiotti, Da dieci anni Fieri di leggere, "La Stampa", 19/03/'10)

giovedì 18 marzo 2010

Sono nata il ventuno a primavera


"Il prossimo 21 marzo, primo giorno di primavera sarebbe stato il settantanovesimo compleanno della poetessa Alda Merini. Le quattro figlie Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta hanno voluto ricordare il compleanno della loro madre con la realizzazione di un nuovo sito ufficiale. Il sito prende in considerazione il percorso artistico, la biografia, gli incontri con figure importanti della letteratura italiana, ma ciò che lo rende particolare è il racconto della vita della poetessa attraverso gli occhi delle figlie. Con fotografie, versi ma soprattutto attraverso una verità toccante e autentica di una madre che non potè stare vicino alle sue figlie in alcuni momenti della sua vita con il dolore e la gioia di una madre, la volontà di amarle fino alla fine senza mai rinnegare il suo passato e la sua storia.
LA GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA - E la Giornata Mondiale della Poesia, che si celebra il 21 marzo anche a Milano, sarà quest'anno dedicata proprio alla Merini, scomparsa nel novembre scorso. L'assessorato alla Cultura del Comune di Milano ha organizzato una serie di iniziative in ricordo della poetessa. Tra le manifestazioni, lo scoprimento di una targa in via Ripa di Porta Ticinese 47, nella casa in cui abitò. Nella targa si legge: 'Ad Alda Merini. Nell'intimità dei misteri del mondo'. Nel pomeriggio nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, Valentina Cortese interpreterà il Magnificat di Alda Merini e in serata al Teatro Dal Verme è previsto il recital 'Una piccola ape furibonda'.
«LA DIFESA DI BARBARA ...» - Alda Merini parlava spesso delle figlie con estrema lucidità e sincerità arrivando persino a farsi delle critiche e delle domande che spesso la tormentavano. Una volta Barbara era a casa di sua madre: non stava bene e stava aspettando il medico. Pochi minuti più tardi arrivò un signore da Verona con una troupe televisiva deciso a tutti i costi a intervistarla al di là dello stato fisico di Alda Merini. Barbara nel piccolo salotto gli disse: «Ma se mia madre fosse stata un semplice donna anziana con la febbre sarebbe comunque venuto da Verona a trovarla?». La figlia difendeva e proteggeva l’aspetto umano e dolce di sua madre da un sottobosco che ogni giorno chiedeva e voleva sempre qualcosa da lei.
DONNA DI QUARTIERE - Visitando questo nuovo sito ufficiale si scoprono persone che hanno davvero voluto bene a questa donna che amava il suo Naviglio, le sue botteghe, i suoi aneddoti di persone normali e sconosciute, i suoi soprannomi, le sue risate e le sue sigarette senza filtro. Le quattro figlie della poetessa hanno saputo cogliere la parte più bella di questa donna, l’autenticità e la forza interiore verso la vita senza citazioni, senza presentazioni e senza tutto ciò che detestava la poetessa stessa. Era donna di quartiere che amava le sue figlie prima ancora dei suoi splendidi versi." (da Andrae Salvatici, Alda, le sue figlie e il nuovo sito, "Corriere della Sera", 17/03/'10)

lunedì 15 marzo 2010

I lettori vogliono qualità?


"L'analisi di Federica Manzon sul mercato letterario e le sue imperscrutabili dinamiche, pubblicata domenica scorsa e che condivido in gran parte, è però falsata a mio avviso da un vizio di fondo, quello di mescolare elementi che non hanno nulla in comune, come ad esempio mercato e valore letterario di un'opera. Federica Manzon ha ragione quando dice in sostanza che un libro che vende ha comunque un valore. Sbaglia quando sostiene che questo faccia di ogni libro che vende un'opera letteraria. Nel mercato che così efficacemente descrive nel suo articolo, Federica Manzon dimentica di dire che si vende di tutto, dalle verdure ai gioielli, dal pollame ai tessuti. Lo stesso succede nel mercato letterario. Accanto ai romanzi che segnano un'epoca e che hanno sempre qualcosa da dire si vendono quelli che si consumano in un pomeriggio. Il libro è un po' come il cinema. Non si può paragonare l'ispettore Colombo ai film di Yasujiro Ozu e la popolarità del primo, pure godibilissimo, non aumenta il suo valore inesorabilmente limitato. Allo stesso modo in letteratura non si può paragonare John Grisham a Gabriel Garcìa Màrquez. Il primo è un fumetto senza immagini, divertente ed efficace, ma solo un fumetto che si ripone e si dimentica. Il secondo è un'opera letteraria, che si ricorda e si va a rileggere. Quel che fa la differenza sta nella capacità del lettore di distinguere un'opera letteraria di valore universale da un divertimento superficiale ed effimero. Questo è il vero problema del mercato letterario italiano. In Italia oggi il lettore non è più abituato alla profondità e all'astrazione. La maggioranza degli italiani che ancora leggono, cercano nel libro quel che cercano in televisione: un divertimento facile per passare un paio d'ore. Molto spesso chi legge Grisham non riuscirebbe a leggere Màrquez o Sàbato. Anche se sempre di musica si tratta, un concerto di Sostakovic è diverso da un valzer di Casadei. Ma non c'è bisogno di essere un critico musicale per riuscire ad apprezzare entrambi nei loro distinti contesti e trarre da ognuno quel che ha da dare. Allo stesso modo nella narrativa, il lettore dovrebbe essere in grado di apprezzare sia la scrittura elevata che quella popolare, riconoscendone il diverso valore. Il lettore italiano invece molto spesso non è più in grado di passare dall'uno all'altro genere. Quel che il lettore italiano ha disimparato soprattutto è il rapporto con la parola scritta. La strapotenza dell'immagine lo condiziona al punto che anche fra le pagine di un libro il lettore italiano cerca l'immediatezza televisiva e la sua leggerezza.[...] A questo modo di trattare la lettura chiaramente contribuisce anche il mercato, sfornando libri come se fossero riviste che restano in libreria poche settimane e poi scompaiono. Anche qui, nulla di male finché si abbia la consapevolezza della differenza e nel mercato ideale di Federica Manzon non si pretenda di pagare un mobile d'antiquariato come un truciolato. Si è consapevoli del lavoro che richiede la scrittura di un'opera letteraria e anche magari della sua traduzione? Non basta il tempo, basta il mestiere, non l'estro e neanche l'ispirazione. C'è di mezzo il sentire, il calarsi a scavare nel pozzo del proprio animo e ritornare in superficie un attimo prima di soffocare per l'angoscia ma stringendo fra le mani la parola che ci mancava. Così felici e disperati che quasi viene da piangere quando la si mette accanto alle altre con la trepidazione, la speranza che anche il lettore senta l'inesprimibile infinità che ci è passata accanto per un attimo e che ci accaniamo a provare di raccontare [...]" (da Diego Marani, I lettori vogliono qualità?, "Il Sole 24 Ore Domenica", 14/03/'10)