sabato 27 marzo 2010

Mastrocola: 'La gioia che non siamo niente'


"Niente di cui stupirsi. Paola Mastrocola è ben nota per i suoi romanzi mordaci e per le sue favole stravaganti, ma il suo esordio - prima del decollo con galline e lune - è legato alla poesia. Ora questo terzo libro poetico, La felicità del galleggiante (Guanda), a distanza di dieci anni dal secondo e quasi venti dal primo, conferma una vocazione mai sopita. Anche se per fortuna la Nota finale ci esime - con licenza accortamente dinoccolata - dall'impaccio di stabilire precise date di esecuzione.
A contare, infatti, non è tanto la certezza dei tempi e delle modalità a cui i testi appartengono, ma piuttosto la loro natura colloquiale che si muovono entro una riconoscibile filière novecentesca: da Gozzano (vedi, ad esempio, Inventare) a Caproni (vedi, tra i tanti, e L'amore per i viottoli), senza trascurare qualche montaliana inflessione (vedi, tra le altre, Ai collezionisti di piante grasse o Ultime scuse).
Paola Mastrocola gioca ad abbassare i toni, a contenere gli eccessi, a servirsi di sponde e di sordine («Ci salva / il salto repentino laterale»), a inanellare momenti e motivi inconsueti, a cogliere la quiddità di figure imprevedibilmente esemplari, a iniettare piccole e domestiche epifanie di cose, a maneggiare le parole come «palline di pane».
Res familiares, vacanze, amori, affetti, amicizie, viaggi, domande provvidamente bilanciate o intrise di leggerissima ironia («A che la mia snervante scialba / eternità di lettore?»).
Contro ogni mitologia di derive mirifiche, la seria constatazione di più modesti approdi («partiamo per tornare»), e forse più l'elogio del «rimanere» che del «partire»: «Partire è perdere il controllo / sui mutamenti, / lasciare il dominio
ad agenti ignoti, / a qualche iddio che smuova / i meccanismi immoti».
A prevalere è l'attenzione alla dimension picciola, la consapevolezza di un esistere inessenziale («La gioia che non siamo / niente»), «l'ironica sapienza»
che lega la «distrazione del pesto» o l'umiltà del rimestare la polenta (o magari la modica felicità del raccogliere funghi e sassi di mare) al «lato luminoso della luna», alla sottesa cognizione dell’«invisibile» e del «non detto», all'«indicibile mistero», alla «natura anfibia che ci salva», connettendo ogni umana presunzione al volteggiare della trottola, alla «varietà casuale/ degli eventi» o alla più modesta ed emblematica «felicità del galleggiante».
Nulla, insomma, che possa far pensare a distillati sapienziali, ma piuttosto un filo di meditazione che attraversa le «occasioni» in un'accorta e orchestrata strategia di rime, di virgole, di giochi di parola, in cui si mostra (e ritmicamente s’inarca) l'ingenuo e dantesco desiderio «di significar la cosa»: prosa «narrativa» del mondo della poesia, che tuttavia non si può dire «di che cosa parla / perché non parla: suona, / e semmai / procede per immagini sconnesse».
Tutto questo per significare la lezione di un’ironica e amorosa partita che (sia pure «ad ora incerta») vale ancora e sempre la pena di giocare". (da Giovanni Tesio, La gioia che non siamo niente, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/03/'10)

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