sabato 31 gennaio 2009

Qui è proibito parlare di Boris Pahor


"Trieste, vigilia della seconda guerra. La città è sotto il tallone del fascismo, che qui mostra il volto peggiore, quello della repressione 'etnica'. Come ai tedeschi nel Sudtirolo, qui viene negata la lingua a sloveni e croati, comunità definite 'allogene', dunque infide. Una giovane slovena, Ema, dolorosamente segnata dagli eventi, incontra un uomo venuto dal mare che si svela della sua stessa cultura, e le apre contemporaneamente le porte dell'amore e della lotta di resistenza. E' la trama, semplice, quasi intimistica del nuovo libro di Boris Pahor tradotto in italiano - Qui è proibito parlare (Fazi) - dopo Necropoli, dedicato alla detenzione dell'autore nei lager tedeschi. Il fuoco dei forni crematori non è che la logica conseguenza di un altro fuoco, quello appiccato dai fascisti già a partire dal 1920 alle istituzioni, ai libri e poi ai villaggi slavi resitenti all'asimilazione forzata. E' importante ricordarlo: le leggi razziali contro gli ebrei, proclamate nel 1938 non a caso a Trieste, non furono - come ebbe a dire Mussolini - 'squallida imitazione' di analoghi provvedimenti nazisti, ma un prodotto tutto italiano, fieramente rivendicato come tale dal regime. Esse ebbero il loro collaudo in questa persecuzione antislava sul confine, che precedette di ben dodici anni la 'Notte dei cristalli' in Germania. [...]" (da Paolo Rumiz, Se la lingua è clandestina, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 31/01/'09

venerdì 30 gennaio 2009

Lo specchio della Memoria di Ando Gilardi


"Si chiamava Alex, non meglio identificato ebreo di nazionalità greca, di cui si sono perdute le tracce. Stava ad Auschwitz e a lui si devono 'quattro scatti' dall'orrore. Nell'agosto 1944 riuscì a fotografare una fila di internate nude, avviate alle camere a gas. La visione emulsiona terrore. La 'sfocatura del mosso' fa sentire il tremito di chi stava scattando l'immagine. Insieme a pochissimi anonimi altri che documentarono con rudimentali macchine fotografiche nascoste l'universo concentrazionario dall'interno, Alex 'fermò' il suo angosciato sguardo. L'incomprensibile e irragionevole troppo di cui era testimone. E proprio perché troppo, fuori da ogni immaginabile, sapeva che un giorno nonsarebbe stato creduto. Quando nell'estate del 1945 una sopravvissuta di Auschwitz tornò alla propria casa, la memoria era l'unico documento dell'orrore attraversato. Cominciò a raccontare. La presero per matta. Convocata al commissariato di Pubblica Sicurezza venne
diffidata dal diffondere il panico. Se questo è un uomo di Primo Levi fu respinto da due editori. Fu supposto 'non credibile'. Tanto il racconto della donna quanto il libro di Levi erano 'narrazioni'. Prove dell'orrore aberrante, ma 'soltanto' testimonianze. Nei 'loro limiti' non facevano vedere. Poi affiorarono
le 'prove fotografiche' di quegli anonimi che erano riusciti a fermare ciò che sembrava impossibile comunicare con le parole. Delle povere prove dilettantesche. Tragica la loro aura. Ando Gilardi nel suo originale Lo specchio della memoria sostiene che le fotografie più documentarie e decisive per conoscere la verità sulle vicende umane degli ultimi cento anni non hanno firma. Non sono d'autore, ma l'estrema e forse unica traccia di sconosciuti. I 'fotografi' della Shoah riproducevano l'incomprensibile con occhi spogli ed esangui. Le fotografie di Alex e dei suoi compagni sono il rovescio dell'estetica. Scatti impietosamente inequivocabili. Esprimendo l'estremo limite dell'impossibile umano, sono le uniche immagini degne della costruzione di un'enciclopedia visiva del mondo. Sono infatti entrate in YouTube. Le testimonianze scritte e orali sono diventate le loro oracolari didascalie. Con strana e imperturbabile indifferenza scatenano gli impulsi delle nostre ancora incredule e lacerate anime." (da Giuseppe Marcenaro, In fila verso le camere a gas, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09)

Fototeca storica nazionale Ando Gilardi

Il libro della Shoah italiana di Marcello Pezzetti


"«Milano la conosco bene, la stazione di Milano anche, però quando c'hanno caricato c'hanno caricato sotto, non sopra» (Isacco Bajona)». «Da San Vittore abbiamo fatto la Stazione centrale e ci hanno portato nei sotterranei, nel buio. C'erano dei vagoni bestiame aperti con della paglia, ci hanno buttato dentro al buio». (Lina Ventura Jaffè). Partiti da Roma, Fossoli, Milano, Atene, giunti a Dachau, Bergen-Belsen, Treblinka, Auschwitz, quei vagoni arriveranno a una 'rudimentale banchina', accanto a una deviazione ferroviaria. Il binario ventuno della stazione centrale di Milano era ubicato nel sottosuolo della stazione, la meta del viaggio era una deviazione ferroviaria: probabilmente per nasconderne l''imbarazzante' verità. Fors'anche perché quella storia non può appartenere alla realtà, tant'è obbrobriosa: le sta accanto, sotto. Nei bassifondi impenetrabili di ciò che non avremo mai veramente modo di conoscere. Quel che avvenne, dentro i vagoni merci, negli interminabili giorni di viaggio, e poi all'arrivo sulla rampa, durante le selezioni, negli spogliatoi, nelle camere a gas, nelle baracche, alle adunate, nel laboratorio del dottor Mengele, dentro le ciminiere, nelle fosse comuni, tutto questo ed altro resterà in grande misura inconoscibile, per noi che ad Auschwitz (e Treblinka, Dachau, Bergen-Belsen) non siamo stati. Questa è una storia nera da cui, come ha scritto Primo Levi, è emersa qualche macchia grigia, qualche ombra appena meno scura del nero. Ma Auschwitz è inenarrabile perché sta, né più né meno, dentro le camere a gas: e di lì nessuno è uscito vivo. Chi è sopravvissuto rappresenta, e ci racconta, l'eccezione al campo della morte. E non la sua sostanza, la sua essenza, l'unica verità che ad Auschwitz pertiene: la fine. Questa inconoscibilità dello sterminio nazista contagia tutto ciò che gli sta intorno. Compromette la memoria, quasi azzera ogni possibile condivisione, razionale o emotiva che sia. Perché chi potrebbe davvero raccontarci Auschwitz non c'è, di lì non è uscito se non nel fumo dei forni crematori. Non resta dunque che ascoltare gli echi remoti di quelle voci. Le parole dei testimoni che sono tornati e hanno sfiorato quella morte, l'hanno vista vicina, onnipresente per giorni e settimane ed anni. Ma non sono finiti dentro il buco nero. L'hanno attraversato durante il viaggio, ma poi sono tornati, percorrendo all'inverso quel tragitto nel sottosuolo, da un binario nascosto al mondo fino alla deviazione ferroviaria. Alcune di quelle voci sono ora raccolte nel Libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, curato da Marcello Pezzetti, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea e direttore del futuro museo della Shoah a Roma. Sono le voci di 105 ebrei sopravvissuti alla deportazione (più di ottomilaseicento vite) dall'Italia e dal Dodecaneso, Rodi in particolare: 60 donne e 45 uomini, nati fra il 1902 e il 1939. Anzi, no. C'è una voce in più, in questo libro. E' quella di un bambino nato al collegio militare di Roma il 17 ottobre del 1943, all'indomani della grande retata in cui era caduta, fra i tanti, anche sua madre Marcella Perugia. Quel bambino, che forse non è neppure arrivato a Birkenau, non ha nome. Ma sta dentro la storia. Il libro la racconta, partendo da lontano. La vita di prima. Le leggi razziali. L'occupazione. La cattura. La prigione. Fossoli. Il viaggio. L'arrivo: ad Auschwitz, Birkenau, Dachau ... La morte che si vede e si annusa e si ascolta ovunque: la puzza di bruciato. La conta dei cadaveri nelle baracche, la mattina. Lo spioncino della camera a gas. I neonati chiusi nei sacchi di iuta e usati per il tiro a segno. Anche il liquame che chiamavano zuppa, sapeva di morte. E gli stracci che si portavano addosso. Comesi fa a raccontarla, una storia così? Con le voci, ferme o spezzate, rabbiose o disperate (ancora) dei sopravvissuti. Dentro le loro frasi, le scarne descrizioni, i ricordi impantanati nella testa e nel cuore, sotto la pelle. Sono tante voci diverse, ma è come se fosse una soltanto. Che non grida, no. Anzi. Ci parla sommessa, quasi bisbiglia. Crediamo di capirla, eppure non è così. Le siamo stranieri, noi che non siamo stati ad Auschwitz: di quelle parole cogliamo i suoni, lo sgomento che ci prende. Ma capire no, non potremo mai." (da E. L., Ritorno in treno dall'inferno, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09)

martedì 27 gennaio 2009

Storia di un amore di Antonia Grunenberg


"Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d'amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell'emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa. Il seme di questa fede incondizionata nell'entelechia dell'amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ('amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei') e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva: 'Perché l'amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all'amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l'amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell'altro'. Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino. Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l'Archivio Hannah Arendt all'Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato - Storia di un amore (Longanesi) - la storia di questo amore che fece scandalo, non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell'Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione? 'Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione. Ma un'altra era la fedeltà, un'altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo'. [...] Uno dei temi su cui riflettere è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio? 'Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arednt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. Chi sostiene che esiste l'obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone uan terza prospettiva. Con Kant e Socrate sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizz ala resistenza militare, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l'ultima capacità dell'uomo all'autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione di precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell'altro: homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell'epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali'." (da Vanna Vannuccini, Arendt Heidegger. Due amanti pieni di colpe, "La Repubblica", 27/01/'09)

Hannah, Israele e il mostro. Colloquio epistolare tra Hannah Arendt e Samuel Grafton


"Il 19 settembre 1963 Hannah Arendt ricevette una lettera da Samuel Grafton in cui questi la informava che la rivista Look aveva commissionato 'uno studio sulle reazioni incredibilmente interessanti causate dal suo libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme'. Nella sua missiva Grafton diceva alla Arendt che 'sperava fosse così gentile da rispondere ad alcune sue domande per poi successivamente svilupparle in un'intervista' e aggiungeva di non considerarle 'in alcun modo un interrogatorio'. Il giorno seguente Hannah Arendt rispose: 'la ringrazio per la sua lettera e sono assolutamente d'accordo a rispondere alle Sue domande'. Sono anch'io, come lei, uno scrittore che cerca la verità. Mi sembra che le reazioni al suo libro costituiscano un importante fenomeno politico che necessita di essere analizzato. In quest'ottica mi sono segnato le seguenti domande: ritiene che le reazioni al suo testo gettino nuova luce sulle tensioni della vita e della politica ebraiche? Se è così, cosa rivelano? 'Non ho una risposta definitiva alla sua domanda. La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro "passato irrisolto" (die unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l'ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico'. Quali ritiene siano le cause reali della reazione violenta di chi ha attaccato il suo libro? 'Una causa importante mi pare sia stata l'impressione che io abbia attaccato l'establishment ebraico, perché non solo ho messo in evidenza il ruolo del consiglio ebraico durante la soluzione finale, ma ho anche mostrato come i membri di questo consiglio non fossero solamente dei "traditori". In altre parole, poiché il processo ha toccato il ruolo della leadership ebraica durante la soluzione finale e io ho riportato questi avvenimenti, tutte le attuali organizzazioni ebraiche e i loro capi hanno pensato di essere sotto attacco. Quanto è accaduto, a mio parere, è stato lo sforzo concordato e organizzato di creare un'"immagine" e di sostituire questa al libro che ho scritto'. Sulla base di quelle reazioni lei cambierebbe qualcosa se dovesse iniziare ora a scrivere il libro? Non per blandire i critici, ma perché quelle reazioni le hanno mostrato una suscettibilità da parte di alcuni ebrei che l'ha sorpresa e di cui ora vorrebbe tenere conto? 'Non sono stata sorpresa dalla "suscettibilità di alcuni ebrei" e siccome io stessa sono ebrea penso di avere tutte le ragioni per non esserne allarmata; penso che sia contrario all'onore della nostra professione - "uno scrittore…che cerca la verità" - tenere conto di cose del genere. Comunque la violenza e soprattutto l'unanimità dell'opinione pubblica tra gli ebrei organizzati (ci sono poche eccezioni) invero mi ha sorpreso. Concludo che non ho solo urtato delle "suscettibilità", ma interessi consolidati e di questo prima non ero a conoscenza. Mi posso solo chiedere: cambierei forse qualcosa alla luce di questa campagna politica? La risposta è: la mia unica alternativa sarebbe stata quella di rimanere completamente in silenzio; una volta però cominciato a scrivere, sono stata obbligata a raccontare tutta la verità, così come l'ho vista'.
Secondo lei cosa avrebbero potuto fare gli ebrei in Europa per resistere con più forza? Se, come lei dice, i nazisti celarono gli scopi dei trasporti verso i campi di concentramento arrivando a mascherare un centro di sterminio come una stazione ferroviaria, allora forse che gli ebrei sono stati vittime di un inganno piuttosto che del tradimento dei loro capi? In quale momento i leader delle loro comunità avrebbero dovuto dire "smettete di collaborare e lottate!"? 'Perché dei funzionari ebrei collaborarono? Non ci fu mai un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire, per usare la sua espressione, "smettete di collaborare e lottate!". La resistenza - che vi fu, ma ebbe un ruolo molto piccolo - significava solo: non vogliamo quel tipo di morte, vogliamo morire con onore. Ma il problema della collaborazione è ozioso. Certamente vi fu un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire: non dobbiamo più collaborare, dovremmo sparire. Un tale momento potrebbe essere stato quello in cui essi, pienamente informati di cosa significava la deportazione, ricevettero dai nazisti la richiesta di preparare le liste di deportazione. I nazisti diedero loro il numero e le categorie di persone che dovevano essere mandate nei centri di sterminio, ma chi poi ci andò e a chi venne invece data una possibilità di sopravvivenza fu deciso dalle autorità ebraiche. In altre parole, in quel particolare momento chi collaborò fu padrone della vita e della morte. Riesce a immaginare cosa significa questo in pratica? Pensi a Theresienstadt, dove ogni dettaglio della vita quotidiana era nelle mani dei capi ebraici. In quanto alle giustificazioni per una tale linea di condotta, ve ne furono molte in Germania. Era piuttosto diffuso il pensare: (a) se qualcuno di noi deve morire, è meglio che lo decidiamo noi anziché i nazisti. Non sono d'accordo. Sarebbe stato infinitamente migliore lasciare che i nazisti sbrigassero da sé i propri affari omicidi. (b) Con cento vittime ne possiamo salvare mille. Questo mi sembra come l'ultima versione del sacrificio umano: prendi sette vergini e sacrificale per placare l'ira degli dei. Questo non è il mio credo religioso, e certamente non è la fede dell'ebraismo. Infine, la teoria del male minore: agiamo noi affinché non vi siano uomini peggiori a prendere i nostri posti; facciamo brutte cose per prevenirne di peggiori'.
Eichmann, pur con il ruolo limitato che lei gli attribuisce, non avrebbe potuto causare in condizioni di guerra ritardi e confusione nei trasporti se avesse voluto salvare anche solo qualche vita? Il non averlo voluto non basta forse a renderlo un mostro secondo ogni accezione del termine? 'Non penso che Eichmann avrebbe potuto sabotare i suoi ordini anche se avesse voluto (una volta fece qualcosa del genere, come scrissi). Ma avrebbe potuto dimettersi e non gli sarebbe accaduto nulla se non un arresto della sua carriera. Di certo fece del suo meglio, come ho detto molte volte, per eseguire quello che gli venne richiesto. Se la sua devozione al compito è sufficiente per chiamarlo un mostro, allora lei deve concludere che la maggior parte dei tedeschi sotto Hitler furono dei "mostri". Non penso di aver minimizzato alcunché. Ho solo raccontato cosa avrebbe potuto fare e cosa no, quali erano le sue competenze. Il processo, poi seguito dal giudizio della Corte Suprema, agì come se sul banco dell'imputato ci fossero Heydrich o addirittura Hitler, non Eichmann. Questo fu assurdo. Non fui io a sminuire il ruolo di Eichmann, bensì l'evidenza dei fatti'. Lei pensa che gli ebrei nel complesso abbiamo imparato qualcosa dall'esperienza di Hitler? 'Non ho dubbi sul fatto che l'esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del "carattere nazionale", per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future'." (da Hannah, Israele e il mostro, "Il Sole 24 Ore", 25/01/'09)

lunedì 26 gennaio 2009

Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento di Anna Foa


"Tre sono le 'generazioni' narrative nella letteratura della Shoah, spiega David Bidussa in Dopo l’ultimo testimone (Einaudi). La prima è quella della scrittura intesa come pura testimonianza: affidare alla pagina 'per non dimenticare'. Vi è poi la memoria di riflessione, che si tormenta intorno alla domanda 'Come è stato possibile Auschwitz?'. La terza prova di scrittura è anch'essa una ineludibile, eppure cieca interrogazione: si può 'uscire da Auschwitz?'. Sul filo di queste distinzioni, Bidussa affida al lettore un bilancio - certo provvisorio ma non per questo meno significativo - di quanto è stato scritto e di che cosa ancora resta da dire intorno alla Shoah. Nella filigrana di questa riflessione critica si legge l'ingiunzione di Elie Wiesel: 'Voi volete capire? Non c'è più nulla da capire. Voi volete sapere? Non c'è più nulla da sapere. Non è giocando con le parole e con i morti che potrete capire e sapere'. E' davvero possibile Ripensare l’Olocausto, come dice il titolo del saggio di Yehuda Bauer (Baldini Castoldi Dalai)? Lo storico israeliano offre qui una rassegna analitica di studi, ricerche e metodologie intorno a questo campo della storia. La domanda, però, resta irrisolta. S'infrange contro il muro dell'insensatezza. Come, perché è successo? Quand'anche fossero scoperchiati tutti gli archivi e portata alla luce ogni evidenza documentaria, Auschwitz continuerebbe a restare un mistero. Un tormento dell'umanità. A tale proposito, giustamente Bidussa osserva che il 27 gennaio 'non è il giorno dell'identità ebraica'. Per nulla. 'Il Giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell'Europa'. In un certo senso, il giorno della memoria appartiene più agli altri che agli ebrei. Far propria, interiorizzarla, 'digerire' la memoria, spetta non tanto a chi vi ha messo le vittime, piuttosto al resto del mondo che dentro quella storia è vissuto e che l'ha ricevuta in eredità dal proprio passato. Questo assunto è indirettamente dimostrato da un libro importante, per metodo e contenuti. S'intitola Diaspora, è una Storia degli ebrei nel Novecento, l'ha scritto Anna Foa per Laterza. Si tratta innanzitutto di un appassionante excursus che parte dall'ultimo ventennio del XIX secolo e accompagna l'esperienza ebraica fino ai tempi più recenti. Malgrado le impervietà di una storia sparsa ai quattro angoli del mondo, che sfugge a ogni possibile canone interpretativo nel suo altalenare fra integrazione e isolamento, il libro ha un andamento straordinariamente coerente. Non si perde mai il filo di questa storia, anche quando essa spazia con velocità fulminea dallo shtetl russo alla fattoria in Palestina, da Freud a rav Kook. Addentrandosi nelle grandi questioni ebraiche del Novecento, il lettore coglie attraverso l'indagine storica il capovolgimento di senso che la parola 'diaspora' subisce. Anche se si è scordato di leggere l'introduzione in cui Foa ben chiarisce tale processo: 'Ciò che cambia, in realtà, non è la valenza simbolica in sé, che ha sempre gravato sugli ebrei dalla nascita del cristianesimo in poi, ma il fatto che essa sia ora divenuta un'espressione autonoma del mondo ebraico, una forma di autorappresentazione in positivo ...'. Il mondo ebraico del ‘900, tanto in diaspora quanto al suo ritorno in terra d'Israele, è caratterizzato da una straordinaria 'creatività e attività'. L'incontro con l'emancipazione, il confronto finalmente libero e aperto con il mondo 'altro', innesca per il popolo ebraico una straordinaria stagione di fertilità storica e intellettuale. Insieme alla propria valenza simbolica, i figli d'Israele prendono in mano il proprio destino, rimasto per millenni ostaggio della storia altrui. Questa è la grande rivoluzione dell'esperienza ebraica nel ‘900, che passa per la psicoanalisi e il sionismo, la filosofia e la musica: la parola 'modernità' assume qui una pregnanza davvero particolare. Che ingigantisce anche, però, la sostanza del paradosso: accanto a questa accezione ebraica della modernità, così densa e multiforme, si staglia infatti il progetto del 'più radicale degli annullamenti'. Quando il popolo ebraico diventa padrone del proprio destino e capovolge la maledizione della diaspora trasformandola in qualche cosa di radicalmente diverso, lo sterminio nazista prova a cancellare, e molto distrugge. L'analisi di Anna Foa aiuta a dipanarsi in questo dilemma. Dimostra lucidamente quanto la Shoah, che pure tutto travolge, sia qualcosa di 'alieno' all'esperienza ebraica, a quella sua ricchezza e complessità di cui il ‘900 è testimone non meno che dell'orrore" (da Elena Loewenthal, Auschwitz è il tormento di tutti, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09)

La città di Armin Greder


"Alberto Savinio scrisse un libro per raccontare quella che definiva la 'tragedia dell'infanzia', un libro in cui si opponeva ai bamboleggiamenti che soffocano i bambini. Sapeva le ragioni per cui ogni infanzia è pervasa da una totalizzante tragedia, conosceva l'ansia del tinello, l'angoscia del terrazzino, l'infido e tetro mistero della 'camera dei bambini'. La tragedia di cui parla Savinio è fatta di domande improvvise a cui nessuno potrebbe rispondere se venissero espresse: ogni bambino che viene al mondo è uno straniero in terra straniera, è giuridicamente un clandestino che sa di esserlo. Kenneth Grahame racconta di un gruppo di bambini che chiamano 'Olimpii' i loro adulti, perché nelle pagine di ogni 'mitologia per i bambini', gli dei appaiono come esseri bizzarri e astiosi, stralunati, inconcludenti e permalosi. Un mondo indecifrabile, tutto già fatto prima, tutto preesistente, tutto combinato in assenza di quel clandestino che è arrivato dopo, non ha documenti, non parla quella lingua e quando tenta di parlarla si vede rifilare strane espressioni demenziali come 'pappina', 'ruttino', 'nanna', che sembrano create per depistarlo verso una psichiatria della culla o una piccola nursery concentrazionaria. Anche Armin Greder - nella sua fiaba La città (Orecchio acerbo) -, come Savinio, usa i due linguaggi, quello delle parole e quello delle figure, ma soprattutto riesce a condensare, in un linguaggio solo e unico, gli apporti volutamente deformanti e nebbiosi di una specie di Eterno Espressionismo dove l'ansia, l'inconoscibile, il definitivo approccio con le cose ultime, come la morte, le ossa, la sepoltura, la fuga, trovano una ricomposizione suadente e perentoria. È questo l'orizzonte tematico - ovvero quello del doppio linguaggio - a cui approda, per salvarsi, anche l'infanzia, con la sua tragedia. Si è spesso discusso sul fatto di adottare o meno Halloween, festa ritenuta a torto colonizzante mentre è radicalmente e sentitamente nostra: ogni bambino (proprio come il bambino Kipling) porta con sé un osso e uno straccio, ogni bambino vorrebbe compiere il suo inevitabile tragitto pedagogico, dal Conte Dracula al Professor Piaget, ogni bambino sa che la morte non si esorcizza perché è parte della vita. E certo Greder possiede tutte queste consapevolezze. Le fiabe tanatologiche, mortuarie, crudeli, orrorifiche sono detestate dalla Pedagogia fin dai tempi di Platone, ma l'astio sapienziale dei pedagogisti si è storicamente sfogato, nella sua lucida interezza, contro le novelle raccontate da Regina Marcucci nel podere di Farneta, in Casentino. E certo i professori in cattedra, i Baron Samedi della didattica, non hanno mai potuto accettare neppure i titoli - non il contenuto - di quelle fiabe, perché La fidanzata dello scheletro, Il cero umano, Il barbagianni del diavolo, La morte di messer Cione aprono orizzonti pericolosamente infidi. Mia madre è morta nel novembre del 1944, mentre vivevo, a cinque anni di età, tra le nevi della Linea Gotica. Ebbi solo il conforto che ogni giorno mi offrì, nella sua canonica, il severissimo Arciprete di Savigno, alto, imponente, colto, inflessibile. Con Monsignor Minelli, io che sapevo già leggere, guardavo le figure di un immenso martirologio dei cattolici, ragionando sulle ragioni della loro capacità di resistere e sulle non ragioni dei loro efferati carnefici. Poi, nel 1961, maestro di ruolo al terzo anno di insegnamento, ebbi una quarta classe composta quasi interamente di orfani che vivevano in un poverissimo collegio situato nel territorio del Circolo Didattico a cui apparteneva la scuola. Ricordavo il novembre del '44, ero ancora amico di Monsignor Minelli, inconsapevolmente meditavo sull'edizione einaudiana delle novelle casentinesi che avrei poi fatta uscire tredici anni dopo. Orfano con gli orfani, trovai un territorio didattico che valeva per me e per loro: quello della linoleografia, nerissimo ambito espressivo in cui gli incubi sono sottoposti ad esorcismo, sono costretti, gli incubi, a farsi conoscere, a lasciarsi decifrare, a vuotare il sacco (quello di Kipling), a sottoporsi alle regole della decifrazione gutenberghiana. Ma, lo dico molto sinceramente, se avessi avuto allora La città di Armin Greder, avrei avuto davvero il sussidio didattico che a me serviva. Perché in questa fiaba dolente e salvifica, in questo testo che condensa e fa compenetrare parole e figure, ci sono gli echi di una tregenda che parlava, e parla, a me e a loro. Come ha scritto giustamente Stephen King, non si fugge dall'incubo, ma lo si contempla, e quando lo si è guardato, con la luce della conoscenza, si definisce un nuovo rapporto. Ciascuno di noi, in certe occasioni della propria vita, si trova a camminare con un sacco di ossa sulle spalle, ciascuno di noi cerca un camposanto in cui praticare una decente, onorevole sepoltura. Ciascuno di noi trova tre o quattro porte chiuse e sa di avere in mano la giusta chiavettina per aprire quella porta. Tutti abbiamo letto Virginia Woolf, così sappiamo che le porte chiuse si devono sempre aprire. Però la chiavettina è sempre insanguinata. Chissà se può aprire anche la porta della casetta che ha il tetto di marzapane." (da Antonio Faeti, Contemplare l'incubo salva i bambini, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09; sdalla postfazione di Faeti alla fiaba illustrata di Armin Greder)

L'isola di Armin Greder

"Memoria sul web a rischio": allarme della biblioteca inglese


"La memoria dell'umanità rischia di scomparire in un gigantesco 'buco nero': tutte le informazioni e le comunicazioni, pubbliche e private, contenute da Internet, che non vengono 'salvate' ed archiviate. A lanciare l'allarme è Lynne Brindley, direttrice della British Library, la biblioteca nazionale del Regno Unito, secondo la quale c'è il rischio che una quantità di dati e notizie sul nostro tempo, affidati al web, vadano perduti mano a mano che certi siti chiudono o che la tecnologia in cui sono custodite le informazioni diventa obsoleta. 'Basti pensare a migliaia di fotografie ed email che giacciono nei computer di ognuno di noi', afferma Lynne Brindley in un articolo sull'"Observer" di Londra. 'Pochi le archiviano in modo da conservarle per sempre, cosicché per coloro che verranno dopo di noi sarà più difficile studiare la nostra era. Per gli storici sarà una tragedia'. Per questa ragione la British Library ha fondato un dipartimento dedicato alla raccolta di tutti questi materiali digitali: email, messaggini telefonici, immagini depositate su computer, per archiviarle esattamente allo stesso modo in cui archivia libri, giornali, documenti, mappe, lettere private. Il governo britannico ha lanciato un programma analogo presso gli Archivi di Stato a Kew, dove d'ora in poi verranno custodite quotidianamente tutte le informazioni trasmesse attraverso email e messaggini da pubblici funzionari. La British Library incoraggia i cittadini a immagazzinare volontariamente le proprie memorie digitali ed esorta altre biblioteche pubbliche, in Gran Bretagna e all'estero, a fare la stessa cosa. 'Altrimenti', conclude la Brindley nell'articolo sull'"Observer", 'gli storici e i cittadini del futuro troveranno un buco nero sulla conoscenza di base di quello che accadeva nel 21esimo secolo'. Tra gli esempi citati dalla direttrice della British Library sulla graduale scomparsa di informazioni digitali, c'è il fatto che, il giorno dopo l'inaugurazione della presidente di Barack Obama, ogni traccia di George W. Bush è sparita dal sito ufficiale della Casa Bianca. Allo stesso modo, oltre 150 siti riguardanti le Olimpiadi del 2000 a Sidney, sono svaniti istantaneamente al termine dei Giochi. 'E' la memoria delle nazioni che se ne va', ammonisce Lynne Brindley. Paradossalmente, mentre un antico documento scritto su carta di papiro può essere preservato per sempre da un museo o da una biblioteca, molti aspetti dell'informazione digitale, una volta cancellato un sito o diventato obsoleta una tecnologia, diventano irrecuperabili. Ma creare un archivio digitale che comprenda, a futura memoria, tutto quello che passa sul web, non è facile o è addirittura impossibile. Soltanto in Gran Bretagna, per esempio, oggi esistono 8 milioni di siti Internet, e crescono al ritmo del 20 per cento l'anno. Perciò occorre essere selettivi, suggerisce la Brindley: 'Oggi il mondo produce molta più informazione di una volta, e non è necessario conservarla tutta'. Ma resta il problema di come distinguere tra il chiacchiericcio insignificante della rete e le testimonianze che possono trasmettere alle future generazioni lo spirito di un'epoca." (da Enrico Franceschini, "Memoria sul web a rischio": allarme della biblioteca inglese, "La Repubblica", 25/01/'09)

Internet Archive

Una Germania di inchiostri al femminile


"Sarà un caso, ma la letteratura tedesca uscita ultimamente in Italia è tutta al femminile. La scrittura è donna: dentro vi convivono molte anime e almeno due generazioni con prospettive diverse ma analoga attenzione ai destini individuali oltre le ideologie e i terremoti della storia. Scrittrici come Christa Wolf e Julia Franck, Judith Hermann, Katja Lange-Müller o Silke Scheuermann parlano del passato e del presente, evocano gli slanci dell'amore o gli spazi vuoti dell'esistenza, a tutte le latitudini, fra vecchio e nuovo mondo, natura e cultura, accarezzando l'eterna speranza di una vita più autentica e umana. Lo fanno nel breve giro del racconto, magari divagando in chiave autobiografica, come la Wolf nel volume Con uno sguardo diverso (e/o) o con il robusto romanzo familiare, La strega di mezzogiorno (Le Lettere), della Franck. Mentre i giovani e malinconici personaggi dei racconti della Hermann, Nient'altro che fantasmi (Socrates), non hanno punti di riferimento: guardano al futuro e vedono il buio, sognano rapporti che si dileguano come l'ombra fuggevole del tempo. La Hermann è una scrittrice di silenzi, ironica e disincantata, che scivola sotto la superficie delle cose e delle emozioni. I vari Magnus, Jakob, Micha, Sarah, Raoul, Jonina delle sue storie sono personaggi invecchiati ancor prima di crescere, vittime di sterili nostalgie, di rassegnazione e stanchezza. Figli della globalizzazione, girano per il mondo cercando inutilmente di colmare il vuoto di una vita avara di esperienze. Amori impossibili, luoghi estremi in cui vibra una magica tensione, figure improbabili come la cacciatrice di fantasmi popolano questi racconti lontani da ogni complessità epica e psicologica. Qui è Raymond Carver il nume tutelare; nell'affresco della Franck che abbraccia i decenni tra la prima guerra mondiale e la disfatta del 1945, c'è invece la struttura ribaltata del romanzo di formazione, il metabolismo della tragedia tedesca e le sue aberrazioni. Julia Franck, già al suo quarto romanzo, berlinese come la Hermann e sua coetanea (sono ambedue del 1970), è la figura più interessante di questa generazione capace di far rivivere, sempre un po' ai limiti del kitsch, nel microcosmo di storie femminili il destino di un intero Paese. La strega di mezzogiorno è opera ambiziosa con una cornice storica debole e convenzionale. Lodevole tuttavia è il tentativo di disegnare un'epoca: sullo sfondo la provincia tedesca e gli anni ruggenti della Berlino weimariana fra eccessi e miseria, tensioni sociali e violenze politiche. Ma è la parabola della protagonista Helene a dare intensità e vigore al libro, le sue speranze e disillusioni, il silenzio che l'avvolge e la sofferenza che ne rende arido il cuore. Un matrimonio che è un inferno, poi la nascita del figlio Peter, la solitudine e la guerra. E infine, fuggendo da Stettino, la decisione di abbandonare il figlioletto alla stazione. Un'esperienza sconvolgente, annunciata nel prologo, che trasmette tensione a ogni pagina e spalanca abissi su un'aberrazione individuale nell'insania collettiva. Donne forti, risolute, appassionate, sempre pronte a rischiare sia nei drammi di ieri che nella torbida quotidianità dell'oggi: è un altro dei possibili identikit ricavato da L'agnello cattivo (Neri Pozza), il romanzo della Lange-Müller, nata a Berlino est nel 1951 e di là fuggita nel 1984, una storia d'amore fra Soja, che vive di lavori saltuari nella parte ovest della città, e Harry, giovane tossico ed ex detenuto. Siamo nel 1987, il Muro divide ancora la città che qui, come già in parte nelle altre scrittrici, è luogo quasi simbolico di ogni tragedia collettiva e individuale. Soja racconta quando Harry è già morto, vittima della droga e dell'Aids. Rivive momenti di forte attrazione fisica e di distruzione sottolineando, con linguaggio disinvolto e ironico, la problematicità e l'instabilità di ogni affetto in situazioni estreme. Dietro si intravede, anche nel romanzo della Scheuermann, L'ora tra il cane e il lupo (Voland), il disorientamento di un'intera società che non riesce più a coniugare nel segno della speranza un rapporto solidale e sincero come quello fra due sorelle che si rincontrano dopo anni scoprendo tristi verità. Non è facile risvegliare tenerezza e gioia nella prosa del mondo. Per questo occorre abbeverarsi alla saggezza di chi ha fatto molta strada come la quasi ottantenne Christa Wolf. Nei suoi racconti vita privata ed esperienza storica sono sotto controllo. Lo sguardo autobiografico ripercorre con ironia il lungo ménage con il marito o si sofferma sul tema del dolore: senza traumi, con un' affettuosa riconoscenza verso la vita. E anche pensando al passato, durante il soggiorno americano, la Wolf si affaccia su anni difficili ma ricchi di fermenti, di lotte e valori condivisi che hanno rafforzato la consapevolezza del soggetto che scrive. Che ora siano le donne a scrivere, sempre più spesso, non è cosa da poco. E' un segnale di speranza, un gesto che parla di futuro." (da Luigi Forte, Una Germania di inchiostri al femminile, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09)

sabato 24 gennaio 2009

Revolutionary Road di Richard Yates


"Esaltato dalla critica del suo tempo come l'erede naturale di Fitzgerald (secondo Kurt Vonnegut 'Revolutionary Road era Il grande Gatsby della mia generazione'), autore di culto poi dimenticato quando era ancora in vita, Richard Yates è ora in libreria con un suo bel libro del 1976, Easter Parade (minimun fax) e, assieme, con il suo capolavoro Revolutionary Road. 'Scrittore per scrittori', come scrive Richard Ford nella bella prefazione pubblicata in occasione della prima riedizione del romanzo, nel 2001, a quarant'anni dalla sua prima uscita, ma anche avvincente scrittore per lettori, Yates ci dà con Revolutionary Road un capolavoro crudele. Crudele nei confronti dei suoi personaggi, che analizza e nomotizza con partecipazione ma con l'implacabile freddezza di un chirurgo. E puntuale: il libro reinventa in una 'fabula' costruita a partire da frammenti di realtà tutto ciò che in quegli anni osservavano sociologi come David Riesman (La folla solitaria) o William H. Whyte (L'uomo dell'organizzazione). Concentrando il tutto sotto un titolo trionfale e ingannevole. Perché Revolutionary Road sembra annunciare la via alla rivoluzione delle proprie vite che vorrebbero mettere in atto April e Frank Wheeler, la giovane e bella coppia che vive in una graziosa comunità-dormitorio del Connecticut e che sogna una esistenza diversa. Ma Revolutionary Road, in realtà, è solo il loro indirizzo, memoria della rivoluzione americana del 1776. [...] Il vero problema è che i Wheeler non lo sanno ma non si amano. Condividono la stessa nevrosi e la stessa ambizione, i bambini e l'alcool, qualche scappatella umiliante e insignificante, il senso di superiorità nei confronti del mondo circostante e la grazia sociale della gente ben educata. Ma per risolvere i loro problemi non possono pensare che all'altrove ... Nel 1961, annota Ford, il romanzo di Yates è sembrato 'un atto d'accusa particolarmente corrosivo nei confronti della "soluzione" suburbana del dopoguerra'. Lo è anche oggi. Non è certo un caso se Sam Mendes, che ha fatto a pezzi con American Beauty la Suburbialand contemporanea, lo ha scelto per farne un film. Ma Revolutionary Road è molto di più: un libro duro e comico, tragico e satirico, sul velleitarismo, sugli uomini dal vestito grigio e le donne che si illudono di dare un senso diverso alla loro vita gregaria attraverso ambizioni illusorie. Fino a una conclusione terribilmente cruda, costruita contro il lettore da uno scrittore che rifiuta lo happy ending consolatorio, che ha un orecchio finissimo e sensibile al bla bla, che costruisce una prosa di secchezza perfetta." (da Irene Bignardi, L'american dream fatto a pezzi, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 24/01/'09)

venerdì 23 gennaio 2009

Almanacco del bibliofilo


"Si può recensire oggi, quasi fosse fresco di stampa, un libro vecchio di ottanta, novant'anni, o anche uscito da un mucchio di secoli? Si può farlo: a patto che ci assistano la voglia e l'estro di scherzarci su. Ne verrà fuori, appunto, un'esibizione divertente: dote che va riconosciuta all'esperimento con il quale si misura l'Almanacco del bibliofilo che le Edizioni Rovello stanno per pubblicare: dal Cantico dei cantici alle Avventure di Pinocchio, dall'Elogio della follia di Erasmo a una serie di autori e titoli meno proverbiali, i collaboratori del volume hanno sottoosto al lettore diciotto testi-sfottò. Esemplare in questo senso, è la recensione di Umberto Eco all'Ulisse di James Joyce. Lo scrittore la leggerà oggi, alle 18, nella sala Weil della Biblioteca Trivulziana al Castello Sforzesco, dove il libro sarà presentato al pubblico milanese. Ci mancava anche Ulisse s'intitola questa pièce - come altro chiamarla? - di Eco. Il tono è di chi esplora una novità, e lo fa con scrupolo professionale, aria pensosa e frequenti accessi di sdegno. L'autore immagina di misurarsi, fra gli Anni Venti e Trenta, con qualcosa che a fatica può sembrargli un libro, ma che, di pagina in pagina, gli dà l'impressione di oscillare tra la follia e il sabotaggio, lo sberleffo e la cattiva azione, la sfida e il delirio. A insaporire la mascherata emerge l'impegno quasi maniacale con il quale Eco si è dato a studiare - riuscendo a riprodurlo 'dal vero' - il linguaggio medio della critica in tempi di esaltazione nazionale, con connessa esterofobia. Naturalmente, non uno dei giudizi espressi su Joyce in questo sfogo simil-critico gli appartiene: si tratta di un collage di rilievi ed invettive ricopiati da riviste e 'terze pagine' d'epoca. Brani di prosa, che risalgono a scrittori anche rinomati - Piovene e Malaparte, Vittorini e Brancati, Marinetti e Carlo Linati, per citarne qualcuno - componendo, nella rivisitazione che egli ne fa, un insieme che sarebbe disgustoso se non fosse così deliberatamente ilare. [...]" (da Nello Ajello, Eco, scherzo d'autore dedicato a James Joyce, "La Repubblica", 23/01/'09)

La scelta della chiarezza di Francoise Carasso


"'La chiarezza come partito preso ha sospinto l´intera esistenza di Primo Levi, ricca di lucidità e chiaroveggenza. Amava guardare il mondo: sentirlo, comprenderlo. Guai, però, a parlare di facoltà profetiche. Sapeva che nessuno può prevedere il futuro. E non si propose mai come profeta o modello, nozioni che aborriva. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, scrive che bisogna diffidare di chi crede di possedere la verità'. Questo, secondo la filosofa francese Françoise Carasso, è il cuore dell´opera di Levi: la volontà di dare forma all´informe, il cammino che scansa zone oscure, l´idea di procedere con la scansione limpida e netta di uno scienziato, perché 'lo scrittore ha gli stessi doveri dell´uomo di scienza. Levi, che era un chimico, rifiutò sempre la cesura tra cultura scientifica e letteraria'.
Esperta di filosofia della scienza e docente universitaria a Orléans e a Parigi, la Carasso si è applicata molto allo studio della vita e della produzione di Levi, curando tra l´altro un´edizione commentata di Se questo è un uomo per gli studenti liceali francesi. Nel sobrio e luminoso saggio Primo Levi. Le parti pris de la clarté, appena uscito in Italia col titolo La scelta della chiarezza (Einaudi), affronta l´universo dello scrittore nella prospettiva della 'norma di trasparenza' che egli s´impose, facendone una delle ragioni del suo fertile umanesimo. Che cosa l´ha catturata di Primo Levi? 'La simpatia e il calore dell´essere umano, che non ho mai conosciuto, ma che per me è come una presenza familiare. Levi dà l´impressione di capire qualcosa di fondamentale sulla resistenza umana. E la modestia che esprime scrivendo trasmette la sua unicità. È umanamente ben radicato nella sua opera, ma al tempo stesso sa cancellarsi, sparire. Ciò che mi ha spinto a scrivere su di lui sono state le modalità della sua morte, scioccanti. Si parlò di suicidio, un atto che Levi mostrò sempre di disapprovare. Detestava l´oscurità della scrittura di Paul Célan, al quale rimproverò con violenza d´essersi suicidato. Come se tra il buio dello stile di Célan e il suo suicidio ci fosse stato un nesso. Invece Levi cercava luce: sempre. Anche nei territori più dolorosi dell´essere. Per questo mi è incomprensibile quel suo gesto finale'. Si può definire il 'messaggio' complessivo di Levi senza il rischio del semplicismo? 'Anche questo termine, "messaggio", non gli sarebbe piaciuto. Quello che più conta nella sua opera è proprio la chiarezza. Dire le cose come stanno senza abbellimenti. Non fare idoli delle persone eroiche, non condannare chi compie azioni abominevoli. Non confondere le vittime con i carnefici, ma sapere che possiamo diventare tutti carnefici. Levi sa dircelo con forza e semplicità. E con amore per la vita'. Da cosa è testimoniato quest´amore? 'Dal suo gusto della scienza. Dal suo piacere d´esserci e capire quanto lo circonda. Basta leggere un libro splendido come Il sistema periodico per percepirlo. Levi soffrì molto, ma nella consapevolezza che far parte del mondo è essenziale. Non si può caderne fuori'." (da Leonetta Bentivoglio, Quel testimone che tutti devono leggere, "La Repubblica", 23/01/'09)

L'editore di cultura non esiste più


"Ereditare gli imperi congiunti di Luciano Mauri, il leggendario padrone delle Messaggerie, e di Mario Spagnol, il dominus storico della Longanesi, si può dire un privilegio. Ma anche un onere, con due numi tutelari di quel calibro. Presidente e amministratore delegato del terzo gruppo editoriale italiano, che oggi vanta 130 milioni di fatturato e 10 milioni di copie l'anno vendute, Stefano Mauri non si scompone troppo, e non solo perché divide le decisioni con un co-amministratore, Luigi Spagnol. 'Io cito spesso suo padre — sorride Stefano — e lui cita spesso il mio, ma è molto diverso da me per fortuna, così abbiamo di che discutere'. Mauri ricorda che nell'88, tornato da un master sull'editoria negli Stati Uniti, si trovò a dover scegliere tra un bell'ufficio con segretaria nella distribuzione, il settore in cui dominava la sua famiglia, e l'ufficio marketing di Longanesi, una casa editrice prestigiosa ma che allora non navigava in ottime acque. Fu suo padre Luciano a consigliargli: 'Noi di distribuzione sappiamo già tutto, di editoria non più. Vai da Spagnol che è il migliore'. Ora Stefano commenta: 'Mi piace pensare di avere appreso da Spagnol, tra le altre cose, quel che lo zio Val aveva seminato'. Zio Val è Valentino Bompiani, parentela acquisita con i Mauri per via della sorella. 'Poi più avanti — prosegue Stefano —, quando ci fu l'occasione di assumere un incarico di gestione che era stato lasciato dal braccio destro di Spagnol, contro il parere di mio padre lo presi. E feci bene'. A tal punto che oggi, dopo un decennio di responsabilità al vertice, non esita troppo a far valere le proprie credenziali: 'Fu la prima volta che risanai e rilanciai una casa editrice, ricollocandola sul mercato. Successivamente trovai il modo di rifarlo con tante case editrici diverse e trovando ogni volta una via diversa per ottenere il risultato'. Con dieci direzioni editoriali da coordinare. La fierezza è riassunta nei numeri (oggi il fatturato è decuplicato), ma anche nelle scelte. Mauri non nasconde la sua passione per la narrativa: 'Soprattutto quella commerciale', precisa. E tra le recenti acquisizioni volute in prima persona ricorda La cattedrale del mare dell'avvocato spagnolo Ildefonso Falcones e Figlia del silenzio di Kim Edwards (Garzanti). E l'ultimo arrivato, Il suggeritore di Donato Carrisi, già in classifica. 'I grandi bestseller degli ultimi anni, Harry Potter e Il Codice da Vinci — dice — sono generi tradizionali: una fiabona e un giallo storico, ma hanno maggiore ricchezza e intensità di idee rispetto a quelli del passato'. Anche gli italiani hanno capito che bisogna restare fedeli ai generi tradizionali: 'Dopo Camilleri, c'è una nuova generazione di scrittori consapevoli della nozione dell'entertainment per il lettore comune. Questo ha ampliato il pubblico, tant'è vero che negli ultimi anni dietro la Rowling e Dan Brown in classifica troviamo gli italiani: Camilleri, Vitali, Carofiglio, Ammaniti ...'. Che ne direbbe Spagnol? 'Spagnol diceva che le angosce dell'uomo moderno le trovava più facilmente in tanti thriller americani che nella narrativa ombelicale italiana'. Ma il fiuto del mostro sacro Spagnol resta ineguagliabile? 'Il suo fiuto era aiutato dalla schiettezza e dall'efficienza. E poi per lui gli autori erano sacrosanti, erano la fonte creativa'. Papà Luciano era su un altro fronte: 'Concretezza economica soprattutto'. L'assenza di realismo economico è il rimprovero rivolto di solito a quella che un tempo veniva chiamata l'editoria di cultura, un'entità oggi tendenzialmente in declino. Un argomento su cui Mauri sembra avere idee molto chiare: 'Oggi non esiste l'editore di cultura puro: tutti, grandi e piccoli, mescolano il sacro e il profano sia pure con dosaggi e soprattutto con vesti diverse. Ci sono editori dall'aspetto molto serio e austero che fanno spesso e volentieri delle escursioni nei libri più commerciali e viceversa. Le due aspirazioni di tutti sono: trovare il nuovo bestseller e assicurarsi il futuro premio Nobel'. Sugli editori apparentemente seri, meglio non indagare. A proposito del Nobel, va detto che l'Accademia di Stoccolma ultimamente non sembra garantire il meglio: 'Già, con le recenti esperienze ...', sorride Mauri.
Se dal mondo della produzione passiamo al mondo dei librai, e cioè a quelli che da oltre vent'anni sono gli interlocutori dei famosi Seminari veneziani voluti dalla famiglia Mauri, il cambiamento è persino più visibile. I megastore Feltrinelli, per esempio, ne sono il segno più visibile: 'Hanno portato a una spersonalizzazione e in più il cliente deve trovare da sé quel che desidera. Non c'è più un libraio a cui chiedere un consiglio ... Ma sono spazi più accessibili e moderni'.
Fatto sta che oggi più dei consigli dei critici o del libraio conta il passaparola, parolina magica con cui si spiegano tanti successi: 'Funziona quando un libro ha superato la soglia delle cinquantamila copie: all'editore tocca impegnarsi perché si superi questa quota, oltre la quale può scattare una trasmissione di comunicazione tra pari. E quando poi di un libro te ne parla il benzinaio o la segretaria, a quel punto se non lo leggi sei tagliato fuori. Però non dimentichiamo che già quindici anni fa il 40 per cento dei lettori diceva di seguire i consigli degli amici'. E adesso gli amici sono tutti collegati a Internet, quindi il gioco è più facile: 'Oggi è internet che orienta il gusto, perché si comunica in modo molto veloce il parere del lettore senza nessuna mediazione. La voce corre in fretta, e così se nell'80 le 60 mila copie di Wilbur Smith erano un grande successo, oggi lo sono le 300 mila copie'. E mettiamoci in più la televisione: 'Un passaggio da Fabio Fazio decuplica le vendite nella settimana successiva, il libro va nei supermercati e negli autogrill, compare in classifica e la classifica, si sa, condiziona il libraio e il lettore'. E l'editore non è mai condizionato? 'Altroché. Oggi attraverso sistemi molto elaborati come Nielsen possiamo vedere in diretta il corso delle vendite'. Un circolo virtuoso o vizioso? 'Internet, il passaparola e le classifiche si concentrano su pochi bestseller. Ricordo che zio Val una volta alla Scuola dei Librai di Venezia disse: "ora si consultano i computer per sapere se un libro vende. Io ho un metodo ancora più infallibile". Prese una margherita che stava sul tavolo e cominciò a staccare i petali: "vende, non vende, vende, non vende" ...'." (da Paolo Di Stefano, L'editore di cultura non esiste più, "Corriere della Sera", 23/01/'09)

giovedì 22 gennaio 2009

Viaggio nella Memoria - Binario 21


Nella ricorrenza del Giorno della Memoria, presso la Biblioteca di Garlasco, dal 26 al 31 gennaio 2009 sarà presente la mostra "Viaggio nella memoria - Binario 21", realizzata da Associazione Figli della Shoah, con il contributo di Fondo Internazionale di assistenza alle vittime del nazismo, Unione Europea, Conference on Jewish Material Claims Against Germany, Regione Lombardia. Orario di apertura della mostra: dal 26 al 31 gennaio, LUNEDI’ /MERCOLEDI’/VENERDI’ 9 – 12 e 15 – 18; MARTEDI’ e SABATO 9 - 12.

martedì 20 gennaio 2009

Uomini d'Irlanda di William Trevor


"'Jhumpa Lahiri dice che i libri di William Trevor le hanno cambiato la vita'. Il protagonista di questo miracolo, cambiare la vita a qualcuno, ascolta con attenzione. Ma si capisce che non è convinto. Anche se forse non è la prima volta che qualcuno gli riferisce che un altro scrittore tiene sempre vicino a sé i suoi racconti, quasi sotto il cuscino, come se le parole potessero attraversare le piume ed entrare nella mente durante il sonno. Il sogno di quando eravamo bambini. L'autrice di Una nuova terra ha confessato che 'nelle rare occasioni in cui si sente soddisfatta di se stessa' quei libri le ricordano quanto abbia 'ancora da imparare'. Un'altra donna che ha scelto l'America per trovare una patria alla sua scrittura, la cinese Yiyun Li, lo inserisce tra i mostri sacri che le hanno ispirato Mille anni di preghiere (Einaudi). [...] 'No, non credo - risponde Trevor - che un libro possa cambiare la vita. Sono le relazioni, le coincidenze, il caso a cambiarti. Amo il caso, anche perché la letteratura è così intimamente legata al caso. Quasi tutto nella mia vita di scrittore è stato significativamente determinato dal caso, che per me ha un valore maggiore di quanto sappia spiegare'. [...] A fianco del frontespizio di Cheating at Canasta (che arriva in Italia, pubblicato da Guanda, con il titolo Uomini d'Irlanda) il lungo elenco delle sue opere: in tutto tredici romanzi e undici raccolte di racconti, escluso questo, il più nuovo. [...]" (da Paolo Lepri, E' il caso che cambia la vita, "Corriere della Sera", 17/01

Schulz's Beethoven: Schroeder's Muse


"Che Schroeder, il bambino-pianista dei Peanuts amico di Charlie Brown, fosse ossessioanto da Beethoven era cosa nota. Ora si scopre che gli spartiti disegnati da Schulz nelle sue strisce sono proprio quelli delle opere del musicista tedesco, dalla Patetica alla Sonata n. 11. Una mostra in California - Schulz's Beethoven: Schroeder's Muse - (Charles M. Schulz Museum) svela il collegamento tra le storie di Schulz e i brani di Beethoven. E i curatori spiegano: 'Per capire davvero il fumetto si deve ascoltare la musica'. In una striscia dei Peanuts della metà degli anni Cinquanta, Charlie Brown nella prima vignetta si avvicina a Schroeder che è seduto davanti a un impianto stereo per adulti, con l'orecchio incollato all'altoparlante: 'Sh! Sto ascoltando la Nona di Beethoven!' gli dice Schroeder. Charlie Brown osserva l'abbigliamento dell'amico e interloquisce: 'Con un cappotto indosso?'. Schroedere si accosta ancor più all'altoparlante e risponde: 'Il primo movimento è talmente bello da farmi venire i brividi'. Nel mondo dei Peanuts, Schroeder è il fanatico sfigato, appassionato di musica e ossessionato da Beethoven, che perde la pazienza ogni volta che Lucy lo interrompe mentre suona il pianoforte e che quando gioca come ricevitore nelle aprtite di baseball chiede il time-out per mettere a parte di stramberie da vero compositore il lanciatore. Eppure, i musicologi e gli esperti hannos coperto che c'è molto di più di una semplice battuta nella passione per la musica di Beethoven da parte di Charles Schulz. 'Se non si legge la musica, se non si identificano i brani degli spartiti nelle varie strisce si perde parte del loro significato' afferma William Meredith, direttore dell'Ira F. Brilliant Center for Beethoven Studies all'Università statale San Josè, in California, che ha studiato centinaia di strisce dei Peanuts dedicate alla musica di Beethoven. [...]" (da April Dembosky, Peanuts. Il pianista Schulz suonava un vero Beethoven, "La Repubblica", 17/01/'09)

lunedì 19 gennaio 2009

Primo Levi: "Io, scampato al lager per poterlo raccontare"


"'Marco, vieni, c´è Primo Levi al telefono ...'. Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell´aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l´intervista inedita che Repubblica propone qui accanto. Trent´anni dopo, l´autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore. Un lavoro affidato alla direzione dello storico Fabio Levi che procede silenziosamente, con quello stesso stile schivo e riservato che caratterizzò la vita dello scrittore e - dopo la sua morte l´11 aprile del 1987 - quella dei suoi eredi, la vedova e i figli. Ma nelle scuole di Torino e del mondo l´opera di Levi assume oggi, mentre ci si prepara alle iniziative per il Giorno della Memoria, un nuovo significato.
È alla letteratura, infatti, ma anche al cinema, alla musica, al teatro che si affida il ricordo della Shoah, ora che i testimoni in grado di parlarne diventano sempre più rari. Il 26 gennaio a Torino Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera del Libro, ne parlerà alla giornata di studi promossa dalla comunità ebraica, con un intervento dedicato proprio allo scrittore torinese: 'Primo Levi sapeva benissimo che la memoria da sola non basta, perché la memoria a suo modo è una scrittura, anzi, una ri-scrittura continua che si allontana ogni volta dal ricordo originale. La memoria è un materiale tra i tanti, e come è spiegato magistralmente ne I sommersi e i salvati, va sottoposta a un vaglio stringente, a verifiche, controprove documentarie. Solo così, facendone oggetto di un´attività di laboratorio rigorosa e continua, può essere utilea unavera antropologia della banalità del male'.
Anche per questo l´intervista inedita ritrovata da Viglino ha un valore speciale, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di raccoglierla. 'La lettura di Se questo è un uomo mi aveva sconvolto - racconta Viglino, oggi giudice al Tribunale di sorveglianza di Torino -. Così, avevo dedicato a Levi la tesina che ognuno doveva preparare per l´esame finale. Ma una zia, a mia insaputa, ne fece una copia e la diede a una vicina di casa lontana parente dello scrittore. Quel compito da liceale arrivò fino a lui, gli piacque e mi telefonò. Ancora oggi, trent´anni dopo, mi commuovo pensando a quella semplicità, uno scrittore famoso che chiama un ragazzo sconosciuto'. Al telefono, Levi chiede a Viglino: 'C´è qualcosa che posso fare per te? Qualcosa che ti farebbe piacere?', e l´altro non esita: 'Vorrei incontrarla'. 'Mi invitò per il giorno dopo nella sua casa di corso Re Umberto (è l´appartamento alla Crocetta, dove Levi visse fino al giorno della morte, ndr), alle nove di sera. Mi fece accomodare sul vecchio sofà del suo studio, una piccola stanza piena di libri. Ero emozionato, febbricitante, quasi non osavo chiedergli di poter usare il registratore, ma per fortuna trovai il coraggio. Ora la sua voce - che era bellissima - è ancora lì, in una cassetta C90 da un´ora e mezza che non ho mai riascoltato dopo il lavoro fatto per scrivere l´intervista: ho paura che il nastro sia diventato fragile e possa rompersi. Passammo insieme tutta la serata, molte cose sul nastro non sono rimaste ...'. 'Per trent´anni - conclude Viglino - quelle pagine scritte a macchina sono rimaste nel cassetto della mia scrivania di casa, non le ho mostrate quasi a nessuno perché ne ero geloso, ogni tanto andavo a rileggerle. Ma forse sono stato egoista, ed è venuto il momento di condividerle'." (da Vera Schiavazzi, L'infaticabule laboratorio della memoria, "La Repubblica", 18/01/'09)

sabato 17 gennaio 2009

Le due ragazze con gli occhi verdi di Giorgio Montefoschi

Vento di Roma (G. Montefoschi)
Era tramontana. Non troppo forte: la prima
d’autunno.
Durò, come sempre a Roma, tre giorni. Il
primo, servì a ripulire completamente il
cielo: dal Monte Sorate alle spiagge
deserte di Fregene e di Ostia; dai Colli
Albani agli archi bruni dell’antico
acquedotto che, insieme ai filari dei pini, attraversa la
campagna verso sud. Il secondo, obbligò i condomini
di via Adeliade Ristori - i Sarti e gli Angeli - ad
accendere il riscaldamento un’ora prima al mattino e
a prolungarlo la sera fino alle otto. Il terzo, illuse gli
amanti dell’inverno. Poi, il vento a poco a poco calò,
scomparve; una leggera nuvolaglia venne dal mare e,
cominciando dai quartieri periferici della Garbatella,
della Magliana e dell’Eur, velò l’azzurro; nessuno
pensò più di usare il cappotto.
Solo Giulia continuava ad aver freddo, benché l’orario
del riscaldamento, in accordo col piano di sopra, fosse
rimasto quello della tramontana.


"Leggendo Le due ragazze con gli occhi verdi di Giorgio Montefoschi sei preso, più ancora che altre volte, da un effetto di spiazzamento. I casi di una facoltosa famiglia borghese, sul consueto sfondo di Roma, ci vengono raccontati con una minuta attenzione a particolari che si direbbero insignificanti, dall’arredo domestico al cibo portato in tavola, agli abiti indossati e dismessi, fino alle ore puntualmente scandite dall’orologio e alla mappa di una città disegnata con l’affollamento indistinto di uno stradario. Insieme al passaggio delle stagioni che, oltre a sommuovere liricamente la scrittura di Montefoschi, adempiono tuttavia alla funzione di collante e trovano una simpatetica corrispondenza con i personaggi. Per il resto, stupiscono il ritegno e l’elusività nell’espressione dei sentimenti e soprattutto l’assenza di ogni riferimento a ciò che accade nel mondo, sia cronaca o storia, in un arco di tempo non indifferente che va dal 1956 al l998. Ne deriva, al di là delle molte aperture sul mare che si affaccia sulla pianura pontina o sulle montagne dell’Alto Adige, un senso di soffocamento. Non ne appare consapevole il protagonista Pietro Guidi, che dalla prima giovinezza alla maturità si direbbe dedito al suo contrastato amore per Laura, la vera 'ragazza dagli occhi verdi', non destituita da occasionali controfigure. E’ una passione totalizzante, in cui l’accesa, tormentosa sensualità sembra contendere con il presagio di una lontananza che, provocata in realtà dal matrimonio di Laura, troverà un esito estremo nella sua morte. Come spesso succede nei romanzi di Montefoschi, affiorano a tratti indizi di una storia che potrebbe essere diversa e che insinuano in una vicenda segnata da neghittosità e torpore morale, il senso di un diverso atteggiamento verso la vita. Mi sembra già di avvertirlo nella lezione impartita dal nonno a Pietro adolescente (un rapporto tra il vecchio e il ragazzo che detta a Montefoschi le pagine più commosse e riuscite). Quando nonno Giulio gli legge l’Odissea, e alla sua domanda risponde che Ulisse ama, più della seduttiva Calipso, la moglie Penelope. Più avanti nel tempo, Pietro, che è diventato sceneggiatore di cinema e tv, scopre nelle pagine di Kipling, nel legame tra Kim e il monaco indiano una storia che lo riguarda. 'Ricordati - dice il vecchio al momento della separazione - che ogni Desiderio è Illusione, ed è un nuovo legame con la Ruota. Ora varca i Cancelli del Sapere'. E’ la volta poi di un 'trattamento' di Lolita, che induce Pietro a riflettere sull’amore deluso che l’eroe di Nabokov ha provato in prima istanza per Annabel: 'Se il vero amore è quello non consumato e perduto per sempre e Lolita è soltanto una pallida incarnazione, un riflesso di questo amore, possiamo arrischiarci a dire che Lolita è un romanzo platonico, dunque per nulla scandaloso?'. Questi affioramenti 'virtuosi' mettiamoli insieme alla decisione ultima di Laura, al suo sofferto commiato da Pietro: 'Un donna sposata con due figli e un marito che le vuole bene non può e non deve comportarsi come mi sono comportata io. La felicità non conta: non è obbligatorio essere felici sempre'. Sono parole che sembrano andare incontro al disagio manifestato cripticamente da Pietro, chiamandolo a temperare una esaltazione amorosa che si risolve in possessivo egoismo. Se è giusta la mia lettura del romanzo, Montefoschi si ingegna di conferire spessore a quello che resta tuttavia un fragile, epidermico eroe. Senza osare, forse per una inconsapevole complicità, un più limpido affondo stilistico e morale." (da Lorenzo Mondo, Com'è fragile l'amore borghese, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/01/'09)

Italia de profundis di Giuseppe Genna


"Arriverà un futuro di ridistribuzione degli equilibri etici e morali, ci auguriamo. Non si può affondare in eterno proclamando ottimismo. Non si può vivere solo di outlet e veline, calciatori e cinepanettoni, vacanze da sballo e cellulari a orgasmo garantito. Non si può. Almeno è questo, che - flebilmente - speriamo. E in questo futuro - anche questo ci auguriamo - qualcuno si renderà forse conto che l'Italia vera di questi anni l'ha raccontata, la sta raccontando, Giuseppe Genna. In tutta solitudine, se si escludono alcune belle incursioni di Scurati piuttosto che di Montesano, Ammaniti, Moresco e pochi altri. Il masochismo autofagocitante con cui Genna spala letame dall'italica quotidianità, è quasi esemplare. Vittima e artefice dei suoi furori assoluti, questo scrittore unico, assordante, narcisista e autolesionista, va delineando con sapiente confusione il ritratto di un Paese in disarmo, regredito ai riti tribali di una sopravvivenza all'insegna di un fittizio tutto-compreso, dove l'illusione di essere calati in un perenne divertimentificio non lascia più spazio ai pensieri concreti del malessere e del disagio. Basta non pensarci, sostiene chi ci governa. Giuseppe Genna dà il meglio di sé quando affonda il bisturi nei mali incurabili del Belpaese. Libri come Nel nome di Ishmael e Dies Irae, che avrebbero dovuto caratterizzare stagioni letterarie, sono stati liquidati come un thriller fantapolitico e una deprimente analisi autocelebrativa. In classifica, intanto, svettavano i lucchetti. Così ci pare necessario, quasi urgente, segnalare questo Italia De Profundis (Minimum Fax) che si riallaccia, con marcata autointrospezione, al discorso fluviale del nostro più impietoso narratore-anatomopatologo. L'autore è Giuseppe Genna, il protagonista è Giuseppe Genna, un uomo - uno scrittore, un numero, un'entità - che calpesta l'italico suolo domandandosi - ma forse nemmeno, forse è solo fangosa constatazione - dove siamo arrivati nella nostra corsa verso il nulla. La follia collettiva nasce in anni non remoti e dilaga, ci soffoca, deride le velleità dei pochi nostalgici della vita semplice e di termini obsoleti come onestà e fiducia. Dall'introspezione privata - la drammatica morte del padre, l'iniziazione tardiva all'eroina - al delirio finale di una vacanza d'agosto in un villaggio turistico di Cefalù, il romanzo - se è lecito definirlo tale - raccoglie in sé i germi di una devastazione collettiva al momento insanabile. Il tumore che ha consumato il padre del narratore si è esteso all'intero paese, ma l'atmosfera che regna è quella di un'isteria contagiosa che mette a tacere la realtà, il tempo che passa e soprattutto il tempo che resta. Chi siamo, dove andiamo. Non importa più a nessuno, ci sarà sempre qualche villaggio vacanze da sballo dove imitatori di mezza tacca imitano l'umanità sbracata che imita se stessa. Una perversione degenerativa e contagiosa, in cui solo chi ha soldi e potere ha il diritto di esistere. Giuseppe Genna recita un convinto e convincente De Profundis battendo tutte le tappe di un calvario tanto assurdo da risultare quasi un antidoto al dolore di perdersi. L'inquietudine dell'uomo moraviano o pasoliniano è diventata feroce dis-appartenenza a un Paese che implode nei suoi vizi eterni, suffragato da uno tsunami mediatico in grado di annichilire i residui barlumi di coscienza. Mentre qualcuno, da lassù, sogghigna. Per questo ci auguriamo che qualcosa cambi, ma come chiedendo un miracolo tra la folla di Lourdes. Perché non accada che, tra le rovine fumanti di questa italica spazzatura, rimanga un solo lettore, nel lecito silenzio di ogni dopo-catastrofe, a sfogliare queste pagine, come il profetico, inascoltato memoir di un tempo che fu." (da Sergio Pent, De Profundis per il Bel Paese, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/01/'09)

Piergiorgio Odifreddi: "Il labirinto dell'universo. Quel che resta ancora da decifrare"


"Quale popolo, o quale cultura, non ha avuto la pretesa di spiegare l´intero universo? Ma quale popolo, o quale cultura, ha avuto gli strumenti per farlo? Gli antichi si sono dovuti accontentare della poesia, e agli albori del pensiero occidentale gli Ionici e gli Eleatici si cimentarono in svariati poemi invariabilmente intitolati Sulla natura, iniziando una tradizione che continuò coi fisici posteriori, da Empedocle e Anassagora a Democrito ed Epicuro, e culminò nel De rerum natura di Lucrezio. Nonostante le loro grandiose visioni letterarie, indotte dai loro frammenti o dedotte dai loro canti, quei poemi lasciarono la natura delle cose velata come la ninfa Calipso, in attesa di essere svelata da strumenti più perspicaci delle parole. Dal telescopio, ad esempio, che esattamente quattrocento anni fa, nella primavera del 1609, Galileo puntò verso il cielo per ricavarne le visioni annunciate l´anno seguente nel Sidereus Nuncius. O dal microscopio, che fu invece Robert Hooke a usare in maniera analoga per ottenere visioni altrettanto sorprendenti del microcosmo, annunciate a loro volta nel 1665 dalla sua Micrografia. Naturalmente, gli strumenti sono necessari per espandere i sensi oltre le loro limitatissime estensioni, e renderli più adeguati all´osservazione dell´universo in grande e in piccolo. Ma le osservazioni non sono sufficienti per descrivere, e meno che mai per spiegare, ciò che viene osservato: è necessario sostenerle ed esprimerle con un pensiero e un linguaggio adeguati, spesso di nuovo conio. Un esempio superficiale sono appunto le parole 'telescopio' e 'microscopio', che suggeriscono direttamente la visione (skopein) lontana (tele) o in piccolo (micro) permessa da quegli strumenti: esse furono inventate da due membri dell´Accademia dei Lincei, rispettivamente Giovanni Demisiani nel 1611 e Johann Faber nel 1625, per sostituire gli inadeguati termini 'cannone' (o 'cannocchiale') e 'occhiolino' usati da Galileo. Un esempio profondo sono invece i concetti e i risultati della nuova matematica del Seicento, principalmente la geometria analitica di Cartesio e l´analisi infinitesimale di Leibniz e Newton, che permisero a quest´ultimo di organizzare le osservazioni e le intuizioni di Galileo e di Keplero in una coerente teoria meccanica, codificata nel 1687 nei monumentali Principi matematici della filosofia naturale: un´opera che, fin dal suo programmatico titolo, affida al linguaggio matematico il compito di descrivere il pensiero sulla natura.
L´idea non era nuova, perché già Pitagora aveva intuito il legame fondamentale tra natura e matematica. Ma per lui il rapporto era indiretto e veniva mediato dalla musica, i cui rapporti armonici potevano essere da un lato descritti da rapporti numerici, e dall´altro generati da rapporti fisici: nel senso, ad esempio, in cui un intervallo di ottava corrisponde al suono di due corde di lunghezza una doppia dell´altra, o di due martelli di peso uno doppio dell´altro. Le metafore fondamentali del pitagorismo si rifanno dunque alla musica, e cantano l´Armonia del Mondo o la Musica delle Sfere. Fu Galileo a introdurre nel 1623, in una famosa pagina del Saggiatore, una metafora nuova e più consona allo spirito della nuova scienza: l´immagine, cioè, della matematica come linguaggio in cui è scritto 'questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l´Universo)'. Un´immagine, questa, che è singolarmente simmetrica, persino nella struttura tipografica, a quella altrettanto famosa di Borges nell´apertura del suo racconto La Biblioteca di Babele: 'L´universo (che altri chiama la Biblioteca)'. Nei suoi quattro secoli di vita, la scienza moderna si è impegnata a fondo nella decifrazione del grande libro della Natura, armata degli strumenti tecnologici e matematici che le permettono di leggerlo e di comprenderlo. E ha raggiunto successi memorabili, coronati nell´Ottocento dall´elettromagnetismo di Maxwell e l´evoluzionismo di Darwin, e nel Novecento dalla relatività di Einstein, la meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger, la quantoelettrodinamica di Feynman, Schwinger e Tomonaga, l´unificazione elettrodebole di Glashow, Salam e Weinberg, la quantocromodinamica di Gross e Wilczek, la scoperta della struttura del Dna di Watson e Crick, la decodifica del codice genetico di Nirenberg e la sequenziazione del genoma umano di Collins e Venter. Anzi, le comprensioni globali e di dettaglio sono state così profonde, e le loro ricadute tecnologiche e culturali così diffuse, che la nostra può a buon diritto esser definita l´Era della Scienza. Semmai, viene da chiedersi che cosa rimanga ancora da decifrare e da capire, prima di poter chiudere il grande libro e riporlo nello scaffale. E la risposta potrebbe essere, in ordine decrescente di grandiosità: i tre grandi problemi dell´origine dell´Universo, della vita e della coscienza. Non sorprendentemente, questi sono esattamente i tre momenti sui quali si concentra l´interesse degli spiriti religiosi, che si accontentano al riguardo dell´uniforme pseudospiegazione dell´intervento divino: 'pseudo', perché in fondo postulare che Dio è la causa di qualcosa non è altro che un modo diverso di dire che non sappiamo quale ne sia la causa, e non aggiunge assolutamente nulla di preciso e utile alla sua conoscenza. Anche se, come notò Russell nell´Introduzione alla filosofia matematica, 'postulare ciò che desideriamo ha molti vantaggi: gli stessi del furto nei confronti del lavoro onesto'. La scienza non si accontenta, dunque, e continua il suo onesto lavoro verso la soluzione di quei tre problemi, che appare sempre più a portata di mano. L´origine dell´Universo attende la formulazione definitiva della Teoria del Tutto, in grado di coniugare la cosmologia relativistica e l´atomismo quantistico, e il suo miglior candidato sembra essere la popolare teoria delle stringhe di Witten.
Sull´origine della vita non c´è una proposta che goda di un analogo consenso, ma l´esistenza di molte alternative dimostra che il problema è maturo per una soluzione. Tra l´altro, proprio lo scorso 8 gennaio Tracey Lincoln e Gerald Joyce hanno pubblicato su Science l´annuncio della scoperta di enzimi dell´Rna che si replicano autonomamente: un esempio di qualcosa che non è ancora vita, ma ne ha già alcune proprietà tipiche. Quanto all´origine della coscienza, la relativa novità delle neuroscienze e dell´informatica lascia prevedere un cammino ancora lungo, ma già promettente. E tutti insieme questi sviluppi permettono agli scienziati di continuare a professare il motto del grande matematico David Hilbert, che sta inciso sulla sua tomba: Wir müssen wissen, Wir werden wissen, 'Dobbiamo sapere, e sapremo'." (Piergiorgio Odifreddi, Il labirinto dell'universo. Quel che resta ancora da decifrare, "La Repubblica", 17/01/'09; dal discorso che Odifreddi terrà domani al Festival delle Scienze di Roma)

venerdì 16 gennaio 2009

L'uomo artigiano di Richard Sennett


"Faussone, operaio specializzato, monta gru in giro per il mondo. È un personaggio di fantasia, protagonista del celebre racconto di Primo Levi, La chiave a stella, ma è anche un personaggio realmente esistito, almeno nel 1978, quando il libro uscì. Levi, chimico, ex direttore di una fabbrica di vernici, aveva scritto una lode al lavoro ben fatto: 'L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità in terra'. Subito dopo la pubblicazione del volume il quotidiano Lotta continua ricevette molte lettere di dissenso: com'era possibile che l’autore di Se questo è un uomo potesse fare una simile affermazione? Dominava allora l’operaio-massa, privo di qualifiche specifiche, asservito alla catena di montaggio, come il protagonista della Classe operaia va in paradiso interpretato da Gian Maria Volontè. Negli Anni Settanta il lavoro alienato era quello manuale, quello non alienato corrispondeva al lavoro intellettuale svolto, ad esempio, in ufficio o nella scuola. Ora le cose sembrano rovesciate, o almeno così appare nelle parole pronunciate dal ministro Brunetta e riportate dai quotidiani qualche giorno fa: 'il tornitore della Ferrari ha il sorriso e la dignità di dire al figlio il lavoro che fa, l'impiegato al catasto o il professore no'. Il lavoro che una volta si sarebbe definito 'di concetto' è diventato qualcosa di cui vergognarsi, mentre il lavoro manuale, soprattutto se eseguito in uno dei templi della meccanica, è invece motivo d'orgoglio?
Davvero le cose stanno così? Richard Sennett, uno dei maggiori sociologi viventi, pubblica ora un libro quanto mai attuale: L’uomo artigiano (Feltrinelli), una riflessione sul buon lavoro oggi, fatto con arte, sapienza manuale e intelligenza. Il suo punto di partenza è la distinzione tra l’animal laborans e l’homo faber, introdotta dalla sua maestra, la filosofa Hannah Arendt. Il primo è l’essere umano simile a una bestia da soma, la persona che fatica, condannata alla routine; il secondo è la figura dell’uomo e della donna che fanno un altro genere di lavoro: l’artefice, il creatore. Sennett pensa che questa distinzione sia sbagliata in quanto l’animale umano è un animal laborans capace di pensiero, indipendentemente dal fatto che svolga un lavoro manuale o intellettuale. Per il sociologo americano nel fare sono contenuti pensiero e sentimento; l’artigiano non è tanto il falegname, il liutaio, il fabbro, oppure il progettista di programmi informatici, quanto chi mette un impegno personale nelle cose che fa. L’abilità tecnica, scrive, è stata scissa dall’immaginazione e l’orgoglio per il proprio lavoro trattato come un lusso. In perfetto accordo con Levi - mai citato nel libro -, descrive l’artigiano come colui che è ancorato alla realtà tangibile e prova soddisfazione per il lavoro svolto, così che la ricompensa emotiva appare la molla per raggiungere l’abilità necessaria in ogni tipo di lavoro. Se il termine «maestria» sembra rimandare ai maestri artigiani del Medioevo e del Rinascimento, una realtà tramontata dopo l'avvento della società industriale, Sennett propone una nuova definizione del termine: maestria è 'il desiderio di svolgere bene il lavoro per se stesso'. Questo tipo d'attività riguarda sia il medico come il meccanico, l’informatico come l’artista, ma anche quella di genitori. Spesso, scrive, le condizioni sociali ed economiche ostacolano la disciplina e l’impegno del bravo artigiano; la scuola a volte non riesce a fornire gli strumenti necessari e i luoghi di lavoro non valorizzano come dovrebbero l'aspirazione alla qualità. Inoltre, vengono proposti criteri oggettivi di eccellenza in conflitto tra loro: 'Il desiderio di svolgere bene un compito, per il piacere che questo comporta, può essere ostacolato dalla pressione alla competitività, dalla frustrazione e dall’ossessività'. Sennett fa un esempio interessante: il National Health Service, il Servizio sanitario nazionale inglese. Negli ultimi anni i suoi dirigenti hanno usato nuovi criteri per valutare come il personale medico e paramedico svolge il proprio lavoro: quanti pazienti vengono assistiti, in quanto tempo i pazienti hanno accesso alle cure, e con quanta tempestività sono prescritte le visite specialistiche. Si tratta di misure quantitative del corretto modo per fornire assistenza sanitaria, per quanto il loro scopo rimanga quello di servire in modo più umano i pazienti. Studi condotti in Europa occidentale confermano la convinzione che le abilità professionali di questi operatori - artigiani della sanità -, nel trattare i pazienti, vengano frustrate dalla pressione ad adeguarsi a parametri istituzionali. Sennett sostiene che per fare un buon lavoro bisogna 'avere curiosità per ciò che è ambiguo': imparare dall’ambiguità. L’infermiere ad esempio - ma anche i programmers di Linux, aggiunge - si muove in una zona di confine tra risoluzione e individuazione dei problemi, ragion per cui, prestando ascolto alle chiacchiere di un vecchietto, l’infermiere può cogliere qua e là indizi utili sulla sua malattia che potrebbero non essere previsti in una check list diagnostica. Nel lavoro artigianale, scrive il sociologo, la motivazione conta più del talento, e la sua riuscita dipende dalla capacità di organizzare l’ossessività. Tutte le abilità, anche quelle più astratte, nascono come pratiche corporee, mentre l’intelligenza tecnica si sviluppa attraverso l’immaginazione. Oggi ben poche istituzioni si pongono come fine quello di produrre lavoratori felici. La felicità è stata spostata nella sfera del consumo. Inoltre, la new economy ha distrutto le forme tradizionali di ricompensa, dalla gratificazione psicologica a quella economica. La ricchezza destinata ai dipendenti di livello intermedio è rimasta stagnante nell’ultima generazione, mentre quella di coloro che stanno ai vertici è salita alle stelle. Nel 1974 in un’azienda americana un dirigente guadagnava trenta volte in più del lavoratore medio, oggi quattrocento volte di più. Può continuare la quantità ad essere il sistema di valutazione della qualità? E lo stipendio del professore della scuola media di Usmate più basso di quello del tornitore di Maranello?" (da Marco Belpoliti, Un saggio del sociologo Sennett riabilita la figura dell’artigiano, "La Stampa", 15/01/'09)