martedì 13 gennaio 2009

Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah


"«Cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi il mio dolore e tutto quello che vedo intorno a me». Così, in un giorno imprecisato della Seconda guerra mondiale, il figlio di una coppia di contadini ebrei della Galizia si rivolgeva ai genitori, dall'interno del Lager di Pustków, infilando la lettera nel recinto di filo spinato del campo. «So che non esco vivo da qui. Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, cari fratelli e piango ...». È questa soltanto una (neppure la più straziante) del centinaio di Lettere dalla Shoah pubblicate ora da Laterza, nel mese del Giorno della Memoria. Si tratta dell'edizione italiana di una raccolta uscita anni fa in Israele per cura dell'istituto Yad Vashem: una strana raccolta, meritoria nelle intenzioni, effettivamente memorabile nei contenuti, ma incredibilmente confusa nei criteri di presentazione, cui neppure la scrupolosa versione italiana — dove gli originali sono stati tradotti da tredici lingue, quasi l'intero campionario di idiomi della diaspora ebraica — può rimediare con efficacia. Il che non impedisce al libro di valere, lettera per lettera, voce per voce, come il più diretto possibile degli accessi all'inferno della Shoah. «Cari sorella e cognato, vi scrivo della nostra disgraziata morte». Qualunque sia l'autore di ciascuna di queste missive (non sempre si è riusciti a identificarli), ci troviamo dentro una costellazione letteraria che le molte tragedie del Novecento hanno reso sin troppo familiare: appunto, il 'genere' delle ultime lettere di condannati a morte. Percezione della fine imminente, inquietudine per la sorte dei familiari, fierezza di sé davanti all'infamia del nemico, consegne morali ai figli, rifugio nella fede o investimento sull'idea: nonostante l'incomparabile enormità storica della Soluzione finale, il campionario di temi presenti nelle Lettere dalla Shoah riflette la gamma di altre raccolte consimili, siano le ultime lettere dalla Resistenza italiana ed europea, o le ultime lettere dalla repubblica di Salò, o anche, al limite, le ultime lettere della Wehrmacht da Stalingrado. Ma proprio l'enormità storica della Soluzione finale — lo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa, uomini donne vecchi bambini — conferisce alle ultime lettere dalla Shoah qualcosa di unico. Per l'inaudita sua natura, il programma nazista mosse infatti, in extremis, la penna non soltanto di maschi in età di combattere, militari o militanti, ma anche di anziani, di ragazzi, e soprattutto di donne. Sicché per la prima volta nella storia terribile di questo genere letterario, le voci femminili si sentono qui almeno altrettanto delle voci maschili. Dall'oltretomba della Shoah parlano anche le mogli, parlano le madri e le figlie, parlano le nipoti e le nonne. E senza posa si interrogano sullo spettacolo mai visto che avevano sotto gli occhi, nei ghetti di Polonia come nei villaggi di Lituania, nei boschi d'Ucraina come nelle campagne di Boemia: la condanna a morte non dell'uno o dell'altro combattente di una causa, ma di tutti gli appartenenti a un'etnia; il massacro paziente e sistematico di un popolo intero. «Oggi vediamo come il mondo appare senza ebrei». Le ultime lettere dalla Shoah furono scritte in circostanze estreme. Raramente sono documenti prodotti dal residuo di antichi rituali guerreschi, messaggi autorizzati dal nemico alla vigilia dell'esecuzione di un condannato. Il più delle volte, sono frammenti di carta rimessi dai rastrellati alla pietà di passanti sconosciuti, sono iscrizioni sulle pareti di sinagoghe diroccate, sono graffiti sui muri nelle fabbriche del lavoro coatto, sono fogli interrati nelle rovine dei ghetti, sono biglietti lanciati dai treni in movimento verso Auschwitz. Ciò che contribuisce a spiegare, forse, un ulteriore carattere distintivo di queste lettere: l'appello dei morituri — insistito, implacato, biblico — affinché sui tedeschi (e sui loro volenterosi collaboratori polacchi, ucraini, bielorussi, lituani) fosse fatta vendetta. «Ricordatevi quello che ci ha fatto Amalek. Ricordatelo e (...) trasmettetelo come una volontà divina alle generazioni future»: in articulo mortis, vittime della Soluzione finale hanno parlato con le parole della Torah, aggrappandosi al Dio della vendetta. Una madre, Zlatke, al marito Moshe fortunosamente fuggito in America: «L'unica cosa che potete fare per noi è la vendetta sui nostri assassini. Poca cosa la vendetta su di loro». Un giovane, Asher, alla sorella Rivka scappata in Israele: «Tu e i tuoi figli, sappiate vendicare il nostro incolpevole sangue ebraico versato ... uccidete ( dei tedeschi) chi vi viene a portata di mano. Nessuna differenza, uomini, donne, bambini, giacché con noi si è fatto lo stesso. (...) Devono dunque i vostri cuori solo bramare vendetta, vendetta, vendetta». Siano uomini o siano donne, certi condannati a morte della Shoah sembrano non chiedere altro che questo: vendetta, vendetta, vendetta. Mushiya: «Avete l'obbligo di vendicarci ». Melech: «Esorto tutti gli ebrei che saranno ancora vivi dopo la guerra: vendicateci in tutti i modi e in ogni occasione che avrete! ». Fanja: «Fratelli di ogni paese, vendicateci ». Devorah: «Dopo la guerra ricordatevi di vendicare vostra sorella, a cui non è stato concesso di rivedervi ancora una volta». Natke: «Ricorda solo di vendicarci, se potrai». Eliezer: «Fratelli miei, siamo noi quelli a cui è stato assegnato un dovere sacro, e questo dovere è la vendetta». Esther: «Sorelle e fratelli, vendicateci dei nostri assassini». Gina: «Vai in guerra e vendica tua moglie e il tuo unico figlio». Feivish: «Abbiamo una sola richiesta, ed è la vendetta». Quasi settant'anni dopo, che fare della spaventosa litania che accompagnò derelitti ebrei d'Europa nel loro cammino verso la fossa (ancora Eliezer, un rabbino polacco: «Io stesso ho udito centinaia di volte i martiri che ho visto — ero costretto a farlo — mentre rendevano l'anima a Dio in santità e purezza, e le loro ultime parole erano: "Fratelli nostri, ricordate, vendicateci, vendicate il nostro sangue"»)? Questa litania sulla vendetta basta forse per rimettere in discussione la migliore storiografia, che ha sottolineato piuttosto la dimensione intrinsecamente narrativa — documentaria, testamentaria, lapidaria — della «letteratura» della Shoah ( La vendetta è il racconto, secondo il titolo di un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo)?
Ovviamente, non basta. Ma la litania sulla vendetta ci dice pur sempre una cosa importante riguardo all'impatto storico della Shoah sopra l'anima dell'ebraismo. Agli ebrei sopravvissuti, gli ebrei sterminati chiesero di vivere un futuro diverso da tanto, da troppo passato: non un futuro da agnelli, ma un futuro da leoni.
E lo chiesero, in particolare, ai fratelli approdati nella 'Terra', in Palestina: «Che la vendetta contro i nostri nemici sia molto grande e condotta dal popolo di Israele». Dopo l'orrore della Soluzione finale, nulla poteva, né doveva, essere più come prima." (da Sergio Luzzatto, L'ultimo grido dalla Shoah «Siate leoni e non agnelli». La missione affidata ai posteri dagli ebrei morenti, "Corriere della Sera", 13/01/'09)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il semble que vous soyez un expert dans ce domaine, vos remarques sont tres interessantes, merci.

- Daniel