martedì 27 gennaio 2009

Hannah, Israele e il mostro. Colloquio epistolare tra Hannah Arendt e Samuel Grafton


"Il 19 settembre 1963 Hannah Arendt ricevette una lettera da Samuel Grafton in cui questi la informava che la rivista Look aveva commissionato 'uno studio sulle reazioni incredibilmente interessanti causate dal suo libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme'. Nella sua missiva Grafton diceva alla Arendt che 'sperava fosse così gentile da rispondere ad alcune sue domande per poi successivamente svilupparle in un'intervista' e aggiungeva di non considerarle 'in alcun modo un interrogatorio'. Il giorno seguente Hannah Arendt rispose: 'la ringrazio per la sua lettera e sono assolutamente d'accordo a rispondere alle Sue domande'. Sono anch'io, come lei, uno scrittore che cerca la verità. Mi sembra che le reazioni al suo libro costituiscano un importante fenomeno politico che necessita di essere analizzato. In quest'ottica mi sono segnato le seguenti domande: ritiene che le reazioni al suo testo gettino nuova luce sulle tensioni della vita e della politica ebraiche? Se è così, cosa rivelano? 'Non ho una risposta definitiva alla sua domanda. La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro "passato irrisolto" (die unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l'ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico'. Quali ritiene siano le cause reali della reazione violenta di chi ha attaccato il suo libro? 'Una causa importante mi pare sia stata l'impressione che io abbia attaccato l'establishment ebraico, perché non solo ho messo in evidenza il ruolo del consiglio ebraico durante la soluzione finale, ma ho anche mostrato come i membri di questo consiglio non fossero solamente dei "traditori". In altre parole, poiché il processo ha toccato il ruolo della leadership ebraica durante la soluzione finale e io ho riportato questi avvenimenti, tutte le attuali organizzazioni ebraiche e i loro capi hanno pensato di essere sotto attacco. Quanto è accaduto, a mio parere, è stato lo sforzo concordato e organizzato di creare un'"immagine" e di sostituire questa al libro che ho scritto'. Sulla base di quelle reazioni lei cambierebbe qualcosa se dovesse iniziare ora a scrivere il libro? Non per blandire i critici, ma perché quelle reazioni le hanno mostrato una suscettibilità da parte di alcuni ebrei che l'ha sorpresa e di cui ora vorrebbe tenere conto? 'Non sono stata sorpresa dalla "suscettibilità di alcuni ebrei" e siccome io stessa sono ebrea penso di avere tutte le ragioni per non esserne allarmata; penso che sia contrario all'onore della nostra professione - "uno scrittore…che cerca la verità" - tenere conto di cose del genere. Comunque la violenza e soprattutto l'unanimità dell'opinione pubblica tra gli ebrei organizzati (ci sono poche eccezioni) invero mi ha sorpreso. Concludo che non ho solo urtato delle "suscettibilità", ma interessi consolidati e di questo prima non ero a conoscenza. Mi posso solo chiedere: cambierei forse qualcosa alla luce di questa campagna politica? La risposta è: la mia unica alternativa sarebbe stata quella di rimanere completamente in silenzio; una volta però cominciato a scrivere, sono stata obbligata a raccontare tutta la verità, così come l'ho vista'.
Secondo lei cosa avrebbero potuto fare gli ebrei in Europa per resistere con più forza? Se, come lei dice, i nazisti celarono gli scopi dei trasporti verso i campi di concentramento arrivando a mascherare un centro di sterminio come una stazione ferroviaria, allora forse che gli ebrei sono stati vittime di un inganno piuttosto che del tradimento dei loro capi? In quale momento i leader delle loro comunità avrebbero dovuto dire "smettete di collaborare e lottate!"? 'Perché dei funzionari ebrei collaborarono? Non ci fu mai un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire, per usare la sua espressione, "smettete di collaborare e lottate!". La resistenza - che vi fu, ma ebbe un ruolo molto piccolo - significava solo: non vogliamo quel tipo di morte, vogliamo morire con onore. Ma il problema della collaborazione è ozioso. Certamente vi fu un momento in cui i capi ebraici avrebbero potuto dire: non dobbiamo più collaborare, dovremmo sparire. Un tale momento potrebbe essere stato quello in cui essi, pienamente informati di cosa significava la deportazione, ricevettero dai nazisti la richiesta di preparare le liste di deportazione. I nazisti diedero loro il numero e le categorie di persone che dovevano essere mandate nei centri di sterminio, ma chi poi ci andò e a chi venne invece data una possibilità di sopravvivenza fu deciso dalle autorità ebraiche. In altre parole, in quel particolare momento chi collaborò fu padrone della vita e della morte. Riesce a immaginare cosa significa questo in pratica? Pensi a Theresienstadt, dove ogni dettaglio della vita quotidiana era nelle mani dei capi ebraici. In quanto alle giustificazioni per una tale linea di condotta, ve ne furono molte in Germania. Era piuttosto diffuso il pensare: (a) se qualcuno di noi deve morire, è meglio che lo decidiamo noi anziché i nazisti. Non sono d'accordo. Sarebbe stato infinitamente migliore lasciare che i nazisti sbrigassero da sé i propri affari omicidi. (b) Con cento vittime ne possiamo salvare mille. Questo mi sembra come l'ultima versione del sacrificio umano: prendi sette vergini e sacrificale per placare l'ira degli dei. Questo non è il mio credo religioso, e certamente non è la fede dell'ebraismo. Infine, la teoria del male minore: agiamo noi affinché non vi siano uomini peggiori a prendere i nostri posti; facciamo brutte cose per prevenirne di peggiori'.
Eichmann, pur con il ruolo limitato che lei gli attribuisce, non avrebbe potuto causare in condizioni di guerra ritardi e confusione nei trasporti se avesse voluto salvare anche solo qualche vita? Il non averlo voluto non basta forse a renderlo un mostro secondo ogni accezione del termine? 'Non penso che Eichmann avrebbe potuto sabotare i suoi ordini anche se avesse voluto (una volta fece qualcosa del genere, come scrissi). Ma avrebbe potuto dimettersi e non gli sarebbe accaduto nulla se non un arresto della sua carriera. Di certo fece del suo meglio, come ho detto molte volte, per eseguire quello che gli venne richiesto. Se la sua devozione al compito è sufficiente per chiamarlo un mostro, allora lei deve concludere che la maggior parte dei tedeschi sotto Hitler furono dei "mostri". Non penso di aver minimizzato alcunché. Ho solo raccontato cosa avrebbe potuto fare e cosa no, quali erano le sue competenze. Il processo, poi seguito dal giudizio della Corte Suprema, agì come se sul banco dell'imputato ci fossero Heydrich o addirittura Hitler, non Eichmann. Questo fu assurdo. Non fui io a sminuire il ruolo di Eichmann, bensì l'evidenza dei fatti'. Lei pensa che gli ebrei nel complesso abbiamo imparato qualcosa dall'esperienza di Hitler? 'Non ho dubbi sul fatto che l'esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del "carattere nazionale", per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future'." (da Hannah, Israele e il mostro, "Il Sole 24 Ore", 25/01/'09)

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