venerdì 30 gennaio 2009

Il libro della Shoah italiana di Marcello Pezzetti


"«Milano la conosco bene, la stazione di Milano anche, però quando c'hanno caricato c'hanno caricato sotto, non sopra» (Isacco Bajona)». «Da San Vittore abbiamo fatto la Stazione centrale e ci hanno portato nei sotterranei, nel buio. C'erano dei vagoni bestiame aperti con della paglia, ci hanno buttato dentro al buio». (Lina Ventura Jaffè). Partiti da Roma, Fossoli, Milano, Atene, giunti a Dachau, Bergen-Belsen, Treblinka, Auschwitz, quei vagoni arriveranno a una 'rudimentale banchina', accanto a una deviazione ferroviaria. Il binario ventuno della stazione centrale di Milano era ubicato nel sottosuolo della stazione, la meta del viaggio era una deviazione ferroviaria: probabilmente per nasconderne l''imbarazzante' verità. Fors'anche perché quella storia non può appartenere alla realtà, tant'è obbrobriosa: le sta accanto, sotto. Nei bassifondi impenetrabili di ciò che non avremo mai veramente modo di conoscere. Quel che avvenne, dentro i vagoni merci, negli interminabili giorni di viaggio, e poi all'arrivo sulla rampa, durante le selezioni, negli spogliatoi, nelle camere a gas, nelle baracche, alle adunate, nel laboratorio del dottor Mengele, dentro le ciminiere, nelle fosse comuni, tutto questo ed altro resterà in grande misura inconoscibile, per noi che ad Auschwitz (e Treblinka, Dachau, Bergen-Belsen) non siamo stati. Questa è una storia nera da cui, come ha scritto Primo Levi, è emersa qualche macchia grigia, qualche ombra appena meno scura del nero. Ma Auschwitz è inenarrabile perché sta, né più né meno, dentro le camere a gas: e di lì nessuno è uscito vivo. Chi è sopravvissuto rappresenta, e ci racconta, l'eccezione al campo della morte. E non la sua sostanza, la sua essenza, l'unica verità che ad Auschwitz pertiene: la fine. Questa inconoscibilità dello sterminio nazista contagia tutto ciò che gli sta intorno. Compromette la memoria, quasi azzera ogni possibile condivisione, razionale o emotiva che sia. Perché chi potrebbe davvero raccontarci Auschwitz non c'è, di lì non è uscito se non nel fumo dei forni crematori. Non resta dunque che ascoltare gli echi remoti di quelle voci. Le parole dei testimoni che sono tornati e hanno sfiorato quella morte, l'hanno vista vicina, onnipresente per giorni e settimane ed anni. Ma non sono finiti dentro il buco nero. L'hanno attraversato durante il viaggio, ma poi sono tornati, percorrendo all'inverso quel tragitto nel sottosuolo, da un binario nascosto al mondo fino alla deviazione ferroviaria. Alcune di quelle voci sono ora raccolte nel Libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, curato da Marcello Pezzetti, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea e direttore del futuro museo della Shoah a Roma. Sono le voci di 105 ebrei sopravvissuti alla deportazione (più di ottomilaseicento vite) dall'Italia e dal Dodecaneso, Rodi in particolare: 60 donne e 45 uomini, nati fra il 1902 e il 1939. Anzi, no. C'è una voce in più, in questo libro. E' quella di un bambino nato al collegio militare di Roma il 17 ottobre del 1943, all'indomani della grande retata in cui era caduta, fra i tanti, anche sua madre Marcella Perugia. Quel bambino, che forse non è neppure arrivato a Birkenau, non ha nome. Ma sta dentro la storia. Il libro la racconta, partendo da lontano. La vita di prima. Le leggi razziali. L'occupazione. La cattura. La prigione. Fossoli. Il viaggio. L'arrivo: ad Auschwitz, Birkenau, Dachau ... La morte che si vede e si annusa e si ascolta ovunque: la puzza di bruciato. La conta dei cadaveri nelle baracche, la mattina. Lo spioncino della camera a gas. I neonati chiusi nei sacchi di iuta e usati per il tiro a segno. Anche il liquame che chiamavano zuppa, sapeva di morte. E gli stracci che si portavano addosso. Comesi fa a raccontarla, una storia così? Con le voci, ferme o spezzate, rabbiose o disperate (ancora) dei sopravvissuti. Dentro le loro frasi, le scarne descrizioni, i ricordi impantanati nella testa e nel cuore, sotto la pelle. Sono tante voci diverse, ma è come se fosse una soltanto. Che non grida, no. Anzi. Ci parla sommessa, quasi bisbiglia. Crediamo di capirla, eppure non è così. Le siamo stranieri, noi che non siamo stati ad Auschwitz: di quelle parole cogliamo i suoni, lo sgomento che ci prende. Ma capire no, non potremo mai." (da E. L., Ritorno in treno dall'inferno, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09)

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