lunedì 12 gennaio 2009

La piazza del diamante di Mercé Rodoreda


"Appena ho chiuso La piazza del Diamante di Mercé Rodoreda (La Nuova Frontiera), ho semplicemente pensato: ho letto un capolavoro. E mi è venuta subito la voglia di andare in libreria, comprarne dieci copie e regalarle alle persone più care, e già cercavo le parole per questa recensione, per provare a convincere quanta più gente possibile a leggere un libro come ne capitano pochi nella vita. Troppo entusiasmo, lo slancio di un minuto per un romanzo in fondo già tradotto e pubblicato in Italia altre volte nei decenni passati senza particolari riscontri, dirà qualche espertone. Ma ogni libro arriva quando deve arrivare: La piazza del Diamante fu scritto nel 1960 da un'autrice catalana famosa in tutta la Spagna ma non da noi, e adesso è il suo momento. D'altronde anche Gabriel García Márquez, citato in copertina, sentenziò: 'La Piazza del Diamante è a mio parere il romanzo più bello che sia stato pubblicato in Spagna dopo la guerra civile'. La storia è avvincente e i personaggi sono indimenticabili, ma non è per questo che il romanzo si infila come un ago o un fiore nella mente: c'è molto di più, c'è la trasparenza di una scrittura che permette di vedere oltre l'opacità delle cose fino al centro segreto della vita, ed è una scrittura che nasce da una sapienza superiore. Chi ha capito di più, scrive meglio. Chi sa, sa raccontare, perché ogni divagazione, ogni personaggio secondario, ogni piccola descrizione stringono attorno al battito del tempo, si posano sul flusso invisibile dei giorni e magicamente rendono evidente la sua forza costruttiva e distruttiva. Natalia è una giovane e bella pasticcera di Barcellona, e di lei si innamora perdutamente Quimet, un ebanista prepotente, un uomo pieno di difetti e di ossessioni. Si sposano e vanno a vivere in una casa mezza diroccata dove Colombetta, così Quimet chiamerà sempre sua moglie, partorisce due bambini e impara la sofferenza e la follia dell'esistenza. È lei la narratrice, e il suo tono è lieve, preciso, poetico, ogni evento acquista nelle sue parole un che di simbolico, come se tutto avesse un senso evidente e uno nascosto. [...] E la guerra, quella vera, arriva senza bussare. Franchisti e repubblicani iniziano a scannarsi, e tutto precipita come un macigno. Colombetta non sa giudicare, non ha una coscienza politica, sa solo che suo marito ha preso un fucile ed è partito e che ora bisogna lottare per la sopravvivenza. Le pagine in cui è costretta a consegnare a una colonia repubblicana il figlio maggiore, perché non ha più nulla da dargli da mangiare, sono un apice di strazio e commozione, in qualche modo ricordano certi episodi de La Storia di Elsa Morante. Ma il peggio e il meglio devono ancora arrivare: il marito muore in Aragona, aumentano la fame e la desolazione, la paura di non riuscire ad arrivare fino a sera. Quando la guerra finisce, Colombetta è una donna perduta, la moglie di un rosso, un'impestata da evitare. Ma in questa donna c'è tutta intera la forza istintiva e struggente della vita, e lei saprà ricominciare [...]. Ma, ripeto, tutto è nello sguardo e nei pensieri di Colombetta, una donna come tante che però sa leggere il mondo e imparare giorno dopo giorno di che sostanza è fatta la vita: di tempo che passa tra rose e rovine, spietatamente, di tempo che devasta e che a volte, se lo accogliamo senza rancore, ci rende assurdamente felici." (da Marco Lodoli, La guerra e la felicità assurda, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 03/01/'09)

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