martedì 30 giugno 2009

Qualcuno fermi il Premio Strega


"Allora, chi vincerà lo Strega? L'editore Elido Fazi che mi riceve nel suo ufficio romano alle spalle di piazza Fiume, sorride: parla del vincitore di quest'anno o di quello dell'anno venturo? 'Alessandro Piperno, sembra già tutto deciso'. Torniamo a quest'anno. 'Beh, per quest'anno non sarà facile, per non dire impossibile battere la macchina della Mondadori-Einaudi. A Segrate dispongono di 140 voti e di certo non se li faranno sfuggire'. Dunque vincerà Tiziano Scarpa ... 'E' molto probabile. La Fazi entra in cinquina per la prima volta e con un bel libro: di questo sono contento. Difenderemo L'ultima estate di Cesarina Vighy [...]'. Dunque giovedì sera vi difenderete. 'Non credo all'appello di Scurati che telefona a tutti per avere quello che lui chiama un voto utile, utile a lui si intende. Tra l'altro, sa che il libro della Vighy è l'unico che si vende bene insieme a quello di Andrea Vitali?'. Lo Strega, si sa, può incrementare molto bene le vendite, anche se il caso di Paolo Giordano è un po' eccezionale. 'Gli editori non possono trascurare il lato commerciale, sarebbe un controsenso. Comunque chi partecipa allo Strega sa bene quali sono le forze in campo ed è inutile fare polemiche ingenue. Sa qual è la novità delle ultime ore? Che forse può vincere Massimo Lugli, l'inviato di Repubblica. Sembra abbia più di cento voti. Comunque io sono per il voto bello, non per il voto utile. Dunque continueremo a sostenere la Vighy, ma senza fare giri di telefonate e preghiere. Mi sembrerebbe indecoroso'. Le faccio notare che non c’è Strega senza polemiche, anzi. Quest’anno si è cominciato persino prima che si aprissero i termini per le candidature, con la bordata di Mario Fortunato sulla vittoria annunciata di Del Giudice, che poi, come si sa, non si è nemmeno presentato.
'Il problema sono gli equilibri. Se addirittura già si prenota il vincitore dell’anno prossimo vuol dire che tutto è previsto in partenza'. [...] Il Booker Prize ha una giuria di critici che cambia ogni anno. 'L’importante sarebbe garantire anche a editori meno grandi di arrivare non solo in cinquina, ma magari anche di vincere. La Rimoaldi ogni tanto riusciva a combinare qualcosa, a creare, appunto, equilibri'. Quest’anno ci sono ben due editori romani, voi e la Newton Compton. Per poco non è entrato un terzo editore romano, la Minimum fax possiamo dire che ormai esiste un’editoria romana, visto che in questi giorni si autocelebra a Piazza del Popolo? E come si colloca rispetto al monopolio del nord? 'Sta un po’ succedendo quello che negli anni Venti e Trenta è capitato tra Firenze e Milano. A Roma c’è anche la e/o, c’è la Donzelli, la Voland, oltre a noi e ai marchi già ricordati. Se lei guarda i fatturati vede che c’è un terremoto geografico: molti al Nord perdono in maniera consistente mentre noi, per esempio, guadagniamo e abbiamo addirittura raddoppiato'. Grazie ai vampiri della Meyer? 'Non soltanto. La Fazi ha diverse collane che vanno bene e adesso, per esempio, stiamo pensando di puntare sui libri per ragazzi. Siamo pur sempre il paese di Pinocchio, no? Quella è un’area che mi interessa molto'. Non cercate un’altra Melissa P.? 'No. Come può immaginare dopo il successo di 100 colpi di spazzola che solo in Italia ha venduto un milione e mezzo di copie, siamo stati subissati di manoscritti pieni di sesso. Ma non ho intenzione di continuare per quella strada'. La Fazi era partita, quindici anni fa, con un cospicuo interesse per la letteratura in lingua inglese. Avete pubblicato John Fante, tra l’altro. Ora le cose sono cambiate? 'Keats rimane il mio autore prediletto, ma col tempo gli interessi editoriali si sono moltiplicati'. Cosa pensa degli scrittori italiani di oggi? 'Sono di buon livello e riscuotono interesse anche all’estero. Una volta non era cosi'. Le faccio un’ultima domanda: se lei fosse stato il direttore editoriale della Einaudi, avrebbe pubblicato il di Saramago che dà giudizi pesanti su Berlusconi? 'Sì, credo proprio di sì ... Ma pensandoci un minuto le dico che non è possibile mettersi fino a questo punto nei panni di un altro. No, preferisco non pronunciarmi. Quello che le dico, invece, è che come Fazi ho fatto all’agente di Saramago un’offerta e sarei disposto a rilevarne tutta l’opera, anche investendoci molto. Mi piace Saramago, non solo per come scrive, ma anche per quello che pensa. D’altra parte mi piacciono gli scrittori radicali, se no non avrei pubblicato Gore Vidal, che da Saramago è diversissimo, ma non meno estremo'." (da Paolo Mauri, Qualcuno fermi il Premio Strega, "La Repubblica", 30/06/'09)

Si possono fermare le idee nell'epoca di Twitter?


"Censura? Nell'epoca di Internet, di Facebook, You Tube, Twitter e Flickr, si può ancora parlare di regimi che impongono la censura all'informazione? No, non si può. Troppe cose sono cambiate negli ultimi vent'anni, sino a far crollare le barriere che circondavano i paesi dove veniva praticata la censura. Oggi si possono infatti espellere giornalisti stranieri, si può terremotare il Web, togliere campo ai cellulari e agli sms: ma tutto questo non impedirà lo scorrere di un impetuoso fiume di informazioni che il regime censorio avrebbe voluto bloccare. Sia pure limitata notizie contenute in messaggi di soli 140 caratteri, sia pure attraverso poche frasi strozzate dei testimoni, la verità su quanto sta accadendo in un Paese sottoposto a censura inonda adesso i continenti, l'Universo. La giunta militare birmana è forse riuscita ad arginare le immagini dei bonzi bastonati a morte dalla sua soldataglia? Il torvo silenzio dei media russi ha impedito che tutto il mondo sapesse delle circostanze oscure, garvide di sospetti sul coinvolgimento del potere, in cui s'ammazzano i giornalsiti a mosca? I corrispondenti dei giornali inglesi sbattuti in carcere, i computer sequestrati all'opposizione, hanno forse consentito a Mugabe di nascondere in questi anni l'agonia dello Zimbabwe? E Teheran è sotto i nostri occhi. L'Iran non è la Birmania o lo Zimbabwe, dispone di esperti informatici non meno capaci di quelli occidentali, e infatti il regime è riuscito negli ultimi giorni a chiudere qualche falla, a restringere il flusso delle informazioni in uscita sul Web. ma intanto, quel che dovevamo sapere, vedere, comprendere, lo abbiamo saputo, visto, capito. E il volto insanguinato di Neda Agha-Soltan, la ragazza uccisa dalla polizia degli ayatollah, è ormai simbolo della nuova epoca. L'epoca del tramopnto delle censure. È vero, i regimi autoritari impiegheranno mezzi sempre più sofisticati, altre strategie informatiche, per far calare una nuova cappa di silenzio sui propri misfatti. Ma nelle case, curvi sui Pc, migliaia di giovani geniali adotteranno contromosse, tecniche mai usate, invenzioni mirabolanti per aprire ancora una volta un varco nel muro della censura. E dunque, salvo che non s´arrivi al sequestro di tutti, non uno escluso, i computers e i cellulari del paese dove si vorrebbe mantenere la censura, una massa d´informazioni continuerà a spandersi ovunque nel mondo. In Cina, da settimane, i bloggers lanciano infatti sul Web la loro sfida contro le autorità: «Tutti i vostri tentativi di manipolare gli accessi a Internet, finiranno nella pattumiera della storia».
Non era così una generazione addietro, quando ancora esistevano i censori. Nei tanti paesi allora sottoposti a censura i censori erano una frangia della piccola borghesia, modestamente ma non miseramente pagati, e con un certo sentimento del proprio ruolo nell´apparato del potere. Era gente che aveva fatto studi superiori, appreso le lingue straniere, e che riceveva disposizioni da molto in alto (i servizi di sicurezza, e a volte gli stessi governi) sulle informazioni che potevano uscire dal paese e quelle che invece andavano imbrigliate. Certo: più scassato era il regime e più inadeguati, incompetenti, erano i censori. Nel Medio Oriente arabo, i più preparati (e per il giornalista straniero, quindi, più temibili) erano i siriani. Volti impenetrabili, modi urbani ma gelidi, buona conoscenza delle lingue. Scostanti ma capaci erano anche gli iracheni. E i più sprovveduti, a volte patetici per l‘inadeguatezza, erano gli egiziani, che le lingue le conoscevano in modo approssimativo e ai quali erano giunte disposizioni in stile egiziano, cioè confuse, contraddittorie. Essi cercavano perciò di rimediare alle loro lacune e incertezze adottando maniere burbere, toni perentori, col giornalista straniero che porgeva trepido il suo articolo dattiloscritto, aspettando il timbro che gli avrebbe permesso di recarlo all´ufficio postale e trasmetterlo per telegramma o telescrivente.
«Lei qui cancellate», diceva uno di loro nella palazzina della televisione dove c´era l´ufficio di censura. «Scusi», chiedeva rispettoso il giornalista, «perché dovrei cancellare?». «Perché voi dice che posizione del presidente Nasser è ambivalenta, e questa è offesa al presidente Nasser». O un´altra volta: «Che vuol dire sonnecchiare?». «Vuol dire», rispondeva il giornalista, «stare quasi dormendo». «E lei dite che poliziotti egiziani dormono dinanzi palazzo governo? No, io non metto timbro per trasmettere ...».
Rozza, quasi infantile, quella censura era tuttavia difficilmente valicabile. Non funzionava sempre, infatti, come nel Congo di Mobutu alla fine dei Sessanta o nella Nigeria della guerra col Biafra, l´uso della mancia. Lì, nel palazzo delle Poste di Kinshasa o al Press Office di Lagos, non c´erano inciampi se si consegnava – spillata all´ultimo foglio dell´articolo – una banconota di medio taglio. Il censore faceva anzi strada verso la telescrivente, s´inchinava cordiale («Bonsoir monsieur, à demain», o a Lagos «Bye bye, sir») e il telescriventista capiva così che anche lui poteva aspirare a una mancia. I più compresi della funzione erano i vietnamiti ad Hanoi e Saigon nell´´85,quando i giornalisti stranieri tornarono per la prima volta dopo dieci anni dalla vittoria comunista. Conoscevano il francese, non l´italiano, ma erano così occhiuti e scrupolosi nello spulciare il testo che coglievano quasi sempre le discrepanze tra le due lingue. E se una discrepanza c´era, subito intingevano la penna nel calamaio per cancellare l´intero capoverso. Mentre i più comici risultarono forse i greci nel ´67, dopo il colpo di Stato dei colonnelli. Quella volta la censura veniva praticata direttamente durante le telefonate dei giornalisti dagli alberghi di Atene ai loro giornali. Succedeva così che dopo la più banale e inoffensiva delle frasi si sentisse di colpo una voce sdegnata («Lei offende il popolo greco»),cui seguiva la caduta della comunicazione. E per riaverla bisognava quindi penare con i centralini dell´albergo, sinché non si risentiva la voce del censore: «Adesso non dica più bugie». Un mestiere finito come tanti mestieri d´un tempo. La zattera cui s´afferravano fette di borghesia intellettuale per spuntare uno stipendio, affondata per sempre. I giornali non vengono più stampati con l´inchiostro, i censori hanno adesso i camici bianchi dei tecnici dell´informatica, e la censura è quasi soltanto un ricordo." (da Sandro Viola, Censura: si possono fermare le idee nell'epoca di Twitter?, "La Repubblica", 30/06/'09)

lunedì 29 giugno 2009

Il ladro di anime


"Cosa diavolo possiamo metterci "in più"? Con le librerie sovraffollate da decine di novità al giorno, la domanda è diventata ossessione per chiunque, autore o editore, tenga un romanzo a battesimo. Perché da "quell'extra" può dipendere il successo sul mercato. "In più", Il ladro di anime di Sebastian Fitzek, 500mila copie vendute in Germania e pubblicato ora in Italia dal piccolo editore Elliot (anche nella convinzione dei grandi che un best seller tedesco da noi capita ogni morte di papa) ha un post-it: cinque centimetri per quattro, giallo standard, appiccicato una a una su 15mila copie di tiratura, tra pagina 288 e 289.
Quando il lettore se lo trova davanti al naso, dovrebbe ormai essere pronto ad abboccare: per arrivare fin lì è passato attraverso gli spaventi e gli incubi a ripetizione di uno psychothriller senza risparmio, figlio di atmosfere alla Stephen King (omaggiato a pagina 186), che si dipana per un'interminabile notte della vigilia di Natale in una clinica psichiatrica berlinese isolata da una tempesta di neve. Chiusi lì dentro, tre pazienti con vari squilibri, due infermieri e due dottori sospetti giocano a un sanguinoso acchiapparello con un serial killer psicopatico che ipnotizza le sue vittime fino alla morte apparente irreversibile, seminando indovinelli macabri per rendere più appassionante la caccia.
Sembra un videogame? Fuochino. Perché in realtà il videogame (per gli esperti, più esattamente l'"Alternate reality game") sta solo per cominciare: sul post-it giallo c'è un indirizzo e-mail, scrivendo al quale si ottiene la parola d'ordine per entrare in un sito dove Fitzek e una squadra di informatici hanno allestito una clinica della morte virtuale. E lì la sfida al killer, tra nuove paure e indovinelli sempre più difficili, continua. Funziona, il complicato meccanismo di "fidelizzazione"? In Germania lo ha fatto così bene che Fitzek è diventato un fenomeno dell'anno (è appena uscito il suo nuovo titolo, Splitter) e inventato un sottogenere: il neuro-romanzo dove l'arcicattivo manipola la mente tanto delle vittime che dei lettori, mentre decine di blog dissertano sulla possibilità di nascondere ordini post-ipnotici tra le righe di un romanzo. Ma qualcosa di simile, nel campo del marketing librario, ha cominciato a succedere con una certa frequenza negli Stati Uniti, anche se ogni caso fa un po' storia a sé. Il primo è stato quasi due anni fa Thirteen reasons why, romanzo per "young adults" di Jay Asher sul suicidio della sedicenne Hannah Baker, che si è lasciata dietro tredici audiocassette di accuse ai compagni di scuola. Abbastanza scabroso e d'attualità da finire in qualche settimana in classifica, ma soprattutto da far venire all'editore Razorbill, marchio di Penguin group, l'idea di una campagna pubblicitaria che ha invaso YouTube: video con un registratore che recita i messaggi post-mortem della ragazzina con la voce dell'attrice Olivia Thirlby (quella che faceva la migliore amica della protagonista in Juno). Risultato: 158 mila copie vendute e ritorno trionfale in classifica, al terzo posto.
Più vicina al caso Fitzek e già un passo oltre YouTube, la carriera di best seller di Cathy's book, giallo per teen ager sulla scomparsa dell'adolescente Cathy, che i lettori sono stati invitati a rintracciare attraverso un "Alternate Reality Game" che inizia su internet ma continua nella vita concreta: si può chiamare telefono della casa di Cathy per far domande su particolari utili all'indagine, lasciare messaggi e dar consigli agli amici che nel libro la stanno cercando. In breve, 1000 giocatori on line, settimo posto tra i best seller del New York Times, un sequel nel 2008 e un terzo episodio, Cathy's Ring, uscito da poche settimane. Ultimo caso, di questo mese, Personal effects: Dark art di J. C. Hutchins, thriller sovrannaturale su un sensitivo che forse vede delitti o forse li commette con la mente, garantito come ispirato "un terzo a Dottor House, un terzo a CSI, e un terzo a X-Files", copertina imbottita di numeri di telefono da comporre, cartoline da scrutare per carpire indizi e indirizzo del più perfezionato (finora) alternate reality game in campo.
Un modo di costruire sul web una sorta di sequel, come fa il cinema, così come, tra i modi per promuovere un libro, c'è anche quello di anticipare il primo capitolo (una sorta di prequel), distribuendolo gratuitamente. Per far affezionare i lettori e invogliarli all'acquisto dell'opera completa. L'ultimo caso, il più clamoroso, è quello di Zia Mame di Patrick Dennis: l'Adelphi ha distribuito 10mila libretti con il primo capitolo in librerie e locali. In una settimana il libro è già arrivato a 20mila copie. La Bompiani l'ha fatto con Il lupo di Joe Smith allegando ad alcune riviste. E l'aveva fatto anche Fazi con Mia sorella è una foca monaca di Frascella. Ma qui il marketing si ferma alla carta.
Ciò che distingue Il ladro di anime di Fitzek dai predecessori, è tuttavia un dettaglio non trascurabile: giurano gli editori tedesco e italiano che se funziona è perché non è stato inventato a tavolino dai maghi dell'informatica, ma è cresciuto da solo, con la sola spinta del post-it. All'inizio dietro c'era appena un risponditore automatico che sfornava indovinelli aggiuntivi a quelli del libro, poi la quantità di mail arrivate si è fatta così imponente, e YouTube così pieno di filmati realizzati spontaneamente dai fan, che la casa editrice Droemersche si è convinta a investire nel game. Per dire che anche l'alternate reality game più sofisticato sotto sotto ha qualcosa del vecchio gioco dell'oca: sondando le ragioni del suo successo arrivi alla casella "torna all'inizio", e all'inizio c'è l'antico passaparola, l'araba fenice dell'editoria di tutti i tempi.
Simone Caltabellotta, l'editor di Elliot che ha comprato Fitzek, non se lo nasconde: "Speriamo che scatti. Pronti anche noi a incrementare l'impegno on-line man mano che le vendite procedono, passando magari dal game nel sito tedesco a una versione tutta italiana". Intanto, per propiziare l'incantesimo, sono partiti con blitz di sapore situazionista: venerdì in una ventina di librerie in sei città si sono presentate coppie di figuranti vestite da psichiatra e paziente, per distribuire post-it gialli e inviti alla lettura. Nelle principali città tedesche, Fitzek l'anno scorso lo faceva di persona, presentandosi sporco di sangue finto e fasciato da una camicia di forza, su una sedia a rotelle spinta da nerboruti infermieri. Roba da far passare per timido Federico Moccia, che in questi giorni per lanciare il suo nuovo Scusa ma ti voglio sposare (Rizzoli) invita on line i fan a partecipare a "feste di nozze" in discoteca a Roma, Bari e Milano." (da Maurizio Bono, Benvenuti nel reality book, "La Repubblica", 29/06/'09)

Se il serial killer ti ruba l'anima (Repubblica.it)

Lontano di Goffredo Parise


"Per pura ispirazione, in un parossismo di selettività e nostalgia di vita, Goffredo Parise scrisse quasi senza accorgersene fra il 1982 e il 1983, pochi anni prima di morire, uno dei suoi libri migliori, forse il più enigmatico e magnetico. Con il titolo Lontano (che sul «Corriere della Sera» contrassegnava questa serie di elzeviri) il libro uscì da Avagliano nel 2002: ora ricompare da Adelphi, sempre accompagnato da un degno e congruo saggio di Silvio Perrella, Vita breve di un nichilista felice. Era felice Parise? Era nichilista? Si potrebbe dire il contrario: era infelice e pieno di passione e di fede per la vita «così com'è». Ma anche rovesciando la formula le cose non cambiano. In Parise il nichilismo era al servizio della felicità: e la felicità, essendo imprendibile e rara, mostra quanto raro e sfuggente sia anche quel nichilismo (o estetismo) che la rende possibile. I due termini-limite evocati da Perrella devono avere comunque una loro parentela se compaiono in una definizione, direi buddhistica, di Gottfried Benn: «Nihilismus ist ein Glücksgefühl», il nichilismo è un senso di gioia. Percepiamo i momenti della vita come assoluti solo quando siamo capaci di fare vuoto intorno, di sentire che prima e dopo c'è una specie di nulla. In queste indefinibili prose brevi di Parise, racconti o elzeviri, schegge di esistenza, allegorie poetiche o microsaggi di memoria autobiografica, si sente la pienezza di certi esseri, vicende o circostanze, e si sente il vuoto che ne annuncia l'apparizione. Come Lettere luterane per Pasolini e Palomar per Calvino, così le prose di Lontano sono il testamento letterario di Parise. Anche il furore giudiziale di Pasolini e la disperazione cognitiva di Calvino venivano da lontano: nascevano da un sentimento della distanza, del dopo, della fine, del non più. Ma la loro scrittura era costruita su nervature intellettualistiche di genere politico o filosofico. Pasolini agiva da moralista: il suo io parlava al centro della vita sociale e per categorie sociologiche. Calvino procedeva come un naturalista: il suo io fingeva di sparire, era uno strumento da lucidare e focalizzare perché restasse sempre efficiente e trasparente. Sia in Lettere luterane che in Palomar chi scrive riduce se stesso alle sole funzioni necessarie per scrivere. Parise invece, guardando da lontano, non opera nessuna riduzione polemista o cognitivista della sua psiche: nella sua selettività resta pienamente vivo e conserva un'incalcolabile varietà di attitudini emotive e percettive, così personali e oscillanti da restare irriducibili a qualunque funzione comunicativa o teorica. In Parise la condensazione formale non limita ma accentua, esaspera, moltiplica sia la pluralità che la singolarità delle forme viventi. Anche Parise, come Calvino, pensa da naturalista, fisiologo e osservatore di ecosistemi. Ma spia queste singolarità e pluralità per scopi completamente suoi. Sembra sempre che scriva più per se stesso che per il lettore. Ma scrive: e il lettore legge sperimentando un tipo di partecipazione insolita, perché ha sempre l'impressione di entrare un po' abusivamente nei monologhi dello scrittore, come un narratore entra «non visto» nei monologhi di un personaggio. Tutto ciò che Parise ci racconta sembra essere la rivelazione di misteri e segreti che riguardano simultaneamente la sua vita intima e quella di esseri del tutto lontani da lui, ognuno chiuso nella sua monade o in un microcosmo regolato dalle più capricciose, inimmaginabili combinazioni chimiche di tempo e di luogo, di forma e materia. Quello di Parise è «un mondo di individui» che ci fanno dimenticare la loro appartenenza a qualunque genere, specie e categoria sociale.
Con i Sillabari, come partendo da zero, Parise riscoprì il mondo come un'ontologia pluralistica, un insieme fantasmagorico di schegge di esistenza, ruotanti senza un centro identificabile. Ma Lontano va oltre i Sillabari. Non si tratta più di racconti veri e propri. Lo svolgimento narrativo si contrae in sequenze paraboliche e poetiche di immagini. La cosa che qui interessa Parise, al contrario che nei Sillabari, non è la vita comune ma quella dei più singolari individui, vita che riassume in tre pagine e consegna a un'eternità e a una gloria incomprensibili al mondo. Celebra casi unici, esistenze che chiunque ha dimenticato o nessuno ha visto, nelle quali tutto si è bruciato in una sola stagione, in un solo gesto, in passioni esclusive e indecifrabili, nell'unicum di un odore, di una luce, di un'ora del giorno.
La più tipica caratteristica dei Sillabari, che Perrella definisce «istinto percettivo fatto di rapidità felice e disperata insieme», torna in Lontano complicandosi e condensandosi. La sintassi semplificante e vocale dei Sillabari ora è sparita. Parise preferisce inoltrarsi nei labirinti e nelle minuscole giungle dei suoi microcosmi rendendo altrettanto folta e labirintica la sua sintassi piena di irregolarità e sorprese. In Lontano ogni mondo è stipato e gremito, un gomitolo di misteri e di piccole estasi. Siamo più vicini a prose poetico-saggistiche come quelle di Montale (nella Farfalla di Dinard) che alla narrativa. E come Montale, qui Parise è «fisico e metafisico»: va a caccia di luoghi e momenti in cui il sensibile sconfina nell'extrasensoriale e la materia si mette a vibrare sprigionando l'odore, il sapore o la forma di qualcosa che costringe a sospettare e ipotizzare il «divino». In queste esplorazioni e ricerche Parise torna dovunque è stato. Si sposta da una parte all'altra della sua geografia e storia personale, dall'infanzia e giovinezza nel Veneto ai più lontani e diversi paesi del mondo: ora siamo a Vicenza, ora a Venezia con Truman Capote e Marilyn Monroe, ora sulle Dolomiti, ora nella Repubblica di Salò, nella Cina comunista, nella Cuba di Castro, a New York, a Parigi, nel Sud-Est asiatico. Ora a Padova, in un piccolo cimitero ebraico che è anche «un vero Eden», un minuscolo giardino «carico di pere, d'uva e mele», che nessuno conosce e dove il confine che divide i vivi dai morti è invisibile. Il centro dell'universo, purché ignorato, Parise può incontrarlo dovunque e dovunque possiamo aprire «un cancelletto non più grande di una botola», dove si passa da un di qua a un di là senza quasi notarlo, senza che sia ormai chiaro dove siamo e perché." (da Alfonso Berardinelli, La metafisica di Goffredo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/06/'09)

Il paradosso di Kindle


"Una delle notizie più sorprendenti uscite dall'intensa e interessante giornata di Editech, la manifestazione organizzata dall'Aie e dedicata all'editoria e all'innovazione tecnologica, l'ha fornita Madeline McIntosh, direttore di Amazon per l'Europa. E' questa: non solo il Kindle - il nuovo dispositivo portatile di Amazon che consente di leggere su uno schermo tascabile libri, giornali e blog - del quale è stata lanciata in questi mesi una nuova versione (e da pochissimo una con un formato di schermo leggermente più grande) inizia a farsi strada, ma produce un 'effetto' imprevisto. Stando alle dichiarazioni della McIntosh, 'i clienti che sono passati al Kindle, continuano a comprare lo stesso numero di libri che acquistavano prima, in formato cartaceo. Cioè, se uno comprava dieci libri, dopo essersi dotato del Kindle continua a comprare dieci libri in formato cartaceo e ne aggiunge sedici in versione digitale'. Ancora: 'per i titoli disponibili nei due formati, il 35% del totale sono vendite Kindle'. Fidiamoci. Anche perché sulle cifre reali, la compagnia di Jeff Bezos (84 milioni di account attivi, presente in sette nazioni: il Kindle, che costa 359 dollari, è disponibile solo per il mercato americano e non sembra, per ora, che sia prevista a breve l'apertura di una 'filiale' italiana del sito della società) è sempre molto parca. Per esempio, non verrà rivelato il numero di copie vendute del Kindle, cosa che lascia abbastanza perplessi gli analisti. Anzi: secondo Bezos 'non rivelare i numeri - ha detto a una assemblea dei soci - ci assicura un certo vantaggio competitivo sui concorrenti'. Secondo alcuni sarebbero 300 mila i Kindle venduti nel primo trimestre 2009 e dovrebbero superare il milione entro l'anno. Del resto, Amazon non ha fatto molta pubblicità al nuovo prodotto e dice che le vendite stanno arrivando per passaparola. Vedremo. In ogni caso, il mercato degli e-book (anche qui le cifre non sono proprio solidissime) rappresenterebbe il 2% del mercato americano (fatturato al netto degli sconti) del libro, secondo quanto detto a Editech da Michael Healy del Book Industry Study Group. Per Healy sui 40 miliardi circa del mercato americano l'e-book vale oggi 793 milioni di dollari, mentre l'audio-book raggiunge il miliardo di dollari (pesando per il 2,5%). E dunque valori tutto sommato piccoli, sebbene facciano pensare quelli relativi alla dinamicità di questo segmento. Al punto che il giro d'affari all'ingrosso dell'e-book, del solo mese di aprile 2009, si attesta negli Stati Uniti su un +228% (dato IDPF) rispetto allo stesso mese dello scorso anno e che nel 2008 la crescita è stata del 68,4%. In Italia l'e-book rappresenta un peso inferiore allo 0,03% sul mercato complessivo del libro. Il che non deve ingannare: la carta resisterà bene e ancora a lungo, ma c'è una generazione di lettori che verrà che sarà sempre più abituata a parole 'stampate' su schermi digitali. Perché trascurarla?" (da Stefano Salis, Il paradosso di Kindle, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/06/'09)

sabato 27 giugno 2009

Una storia della lettura di Alberto Manguel


"Alberto Manguel, romanziere, saggista e traduttore, sta finalmente avendo, anche qui da noi in Italia, il giusto riconoscimento che pienamente merita. infatti, tra il 2005 e il 2009, sono apparsi ben nove suoi titoli. Tutti, indifferentemente, da leggere e conservare, per poter gustare la sua rara capacità di saper mescolare saggio, racconto, erudizione, pura invenzione. Ora, per Feltrinelli, è uscito Una storia della lettura (precedentemente pubblicato da Mondadori nel 1997) nell'eccellente versione dell'indimenticato Gianni Guadalupi, suo amico e sodale fin dai tempi di quell'incredibile avventura 'ai confini della realtà' che fu Il manuale dei luoghi fantastici, di cui attendiamo con ansia una nuova edizione (aggiornata fino a Harry Potter compreso) da parte di Archinto. E' un viaggio questo, - imperdibile per qualsiasi lettore, e del tutto 'personale' e a volte dissacrante - tra gli angoli più bui o più luminosi, più divertenti o misteriosi della scrittura, in compagnia di Virgilio e Shakespeare, di Borges e Virginia Woolf, di Plinio e Colette, di Dante e Socrate. Scritto con appassionata 'leggerezza', ma frutto di un'erudizione a dir poco impressionante, Una storia della lettura è, come ha scritto George Steiner sul New Yorker, una vera e propria 'lettera d'amore' al miracolo del leggere." (da Paolo Collo, Lettera d'amore per la lettura, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 27/06/'09)

Leaving Las Vegas di John O'Brien


"LA PRINCIPALE ESPERIENZA DELL'UOMO
"Credo che l’unica vera esperienza dell’essere umano sia la sconfitta", disse una volta Leonard Cohen. "Occasionalmente conosciamo un trionfo, raramente solleviamo la testa per salutare una vittoria. La vita è sconfitta, impotenza, ma non annullamento". Sconfitta, impotenza. A quindici anni dalla sua morte, John O'Brien torna in Italia con una riedizione di Via da Las Vegas, originariamente tradotto da Feltrinelli nel 1994. Il romanzo narra una storia semplicissima nella sua bellezza: il breve amore fra una prostituta, Sera, e un alcolista allo stadio terminale, Ben. Sullo sfondo, la Las Vegas di fine anni Ottanta: con i suoi neon, i suoi bar, i suoi casinò, le sue camere in affitto e i suoi motel a basso prezzo. Preparato da due capitoli dedicati a ognuno dei protagonisti — dove assistiamo alla vita quotidiana di una donna e un uomo ridotti ai minimi termini — l'incontro in sé non ha quasi nulla di speciale. Accade e passa, fra bevute colossali e timidi tentativi di salvezza, fino alla morte del protagonista maschile. Perché dunque ricordare un libro del genere, che rischia di sommarsi ai tanti che parlano di disperazione?
NIENTE SALVEZZA, SOLTANTO AMORE
Per un motivo ben preciso. Il rischio di ogni racconto che fa propria la filosofia della sconfitta, è senz'altro l'estetizzazione. C'è qualcosa di straziante e bellissimo nella marea di falliti che O'Brien evoca — puttane, giocatori d'azzardo, protettori, e il flusso di perdigiorno che attraversa i bar di Los Angeles e Las Vegas. C'è qualcosa di quasi classico nella tentata e mancata redenzione reciproca fra un alcolista e una prostituta. Ma questa "più lucente corona di angeli", come la chiamava Rick Moody, rischia di brillare solo di luce riflessa se manca una buona dose di realismo. In altri termini, con una materia simile il passo verso la retorica è molto breve. Ma è per questo che il libro di O'Brien è unico. Perché ciò che preserva la forza emotiva delle sue righe, nonostante la cura maniacale dello stile e il talento straordinario per la descrizione, è proprio la sua verità.
"Niente trucchi", diceva Carver, e O'Brien legge questo vangelo con una sorta di innocenza disperata. Ben, l'alcolista radicale, non vuole essere affatto essere salvato dall'angelo-Sera. Vuole semplicemente l'oblio. Dice infatti al suo amore: "Non devi mai dirmi di smettere di bere", e Sera promette di non farlo. Non c'è catarsi nel mondo plumbeo della dipendenza: O'Brien è troppo cosciente per concedere speranza all'amore, e questo non per facile cinismo. Ma semplicemente perché tale è la realtà dei fatti. Chi beve vuole solo bere, e l'angelo serve solo ad accendere una fiamma. È quanto basta, nella filosofia della sconfitta, a dimostrare che non tutto è vano sulla terra. Gli istanti di felicità vissuti da Sera e Ben valgono quanto un'intera vita: due anime perdute possono non esserlo, quantomeno, l'una per l'altra.
CIELI SENZA STELLE
Flash forward. Nel 1994 O'Brien vende i diritti del suo libro a Hollywood. Da quando il cinema ha fatto la comparsa sulla terra, questo è il modo più spiccio per diventare famosi e sistemarsi come scrittori. Due settimane dopo, John si suicida. Torturato dall'alcol come il suo protagonista e uomo tragicamente irrisolto, si spara nello stesso anno in cui si spara Kurt Cobain. Ha trentaquattro anni e non lascia lettere. Il film è un successo. Premio Oscar per Nicolas Cage, trasforma un romanzo uscito per una piccola casa editrice in qualcosa di planetario, pur rimanendo a modo suo "alternativo". Ma nonostante Cage (e soprattutto una Elisabeth Shue in stato di grazia), si tratta di un risultato piuttosto caricaturale. Fin dall'inizio si ha l'impressione che tutto sia in qualche modo troppo "hollywoodiano". Appunto troppo estetizzato per essere vero. Le immagini restituiscono sempre qualcosa di straordinario: danno l'idea di una tragedia che non potrebbe accadere mai davvero. Basta pensare alla scena di Ben che cerca di sedurre al registratore la cassiera della banca, mentre tre comparse lo guardano fra il divertito e l'inorridito. Niente di simile potrebbe accadere nel romanzo. Non così. Perché la grandezza di O'Brien è stata proprio questa: rendere l'incontro fra una prostituta e un alcolizzato come qualcosa che potrebbe tranquillamente accadere al nostro fianco. Come qualcosa di normale: e dunque così straziante.
JOHN HA AVUTO L'ULTIMA PAROLA
"Alla fine Sera ritorna al letto di Al, stavolta nuda, e scopre che la propria indifferenza è cresciuta, la propria diffidenza è emersa del tutto, la propria arrendevolezza si è fatta divorante, come un cancro ormai cresciuto. Lo fa entrare dentro di sé come se fosse un cliente; forse il più grosso, il più cattivo cliente-padrone di tutti i tempi, ma comunque un cliente". Uno scrittore, in fondo, si dovrebbe giudicare solo per ciò che ha scritto — e poco importa se quanto ha scritto si riflette perversamente nella sua esistenza o nella sua stessa fine. E un autore capace di stringere terrore e solitudine in frasi come queste dovrebbe essere ricordato a lungo. Eppure, nella bellissima Postfazione al libro, la sorella dell'autore racconta: "Per me non c'è chiusura nella morte di John, che ormai se n'è andato da quindici anni. Mi legano impossibilmente a lui un milione di pioli nella doppia elica di una molecola di DNA. A momenti alterni, sono furiosa con lui perché ha abbandonato la lotta e ci ha lasciato, poi gli perdono con affetto quella fuga dalla sua prigione di alcol e dolore. Vado da un estremo all'altro nello spazio di una frase, di un respiro, di un unico punto nel tempo. E il punto è quello di John. Qualsiasi cosa io scriva sul suo lavoro, John ha avuto l'ultima parola". Alla fine delle parole, alla fine anche di una recensione, ecco quanto resta. Come in ogni storia davvero tragica, quello che rimane sotto le coltri della bellezza non è stupore né rammarico, né tantomeno la retorica dell'artista morto giovane e tormentato. Per John O'Brien, cantore suicida del dolore, in fondo rimane solo dolore." (Giorgio Fontana, Leaving Las Vegas: torna John O'Brien, "Il Sole 24 Ore", 25/06/'09)

venerdì 26 giugno 2009

Il bambino che sognava la fine del mondo di Antonio Scurati


"Un angelo con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Lo sguardo fisso, rivolto al passato; un'immane catastrofe accumula rovine ai suoi piedi. Senza tregua. Lui vorrebbe trattenersi, destare i morti, ricomporre l'infranto. Ma le sue ali dispiegate, impigliate in una tempesta che spira dal paradiso, lo spingono verso il futuro, cui volge le spalle. La tempesta è ciò che un tempo chiamavano progresso, l'angelo è l'angelo della storia di Walter Benjamin. La narrativa contemporanea deve, forse, chiedersi: che ne è stato di quell'angelo nuovo? Stando a Francois Hartog, le società pensano il rapporto tra passato, presente e futuro in modi diversi. Nella nostra, dopo che fino agli anni '60 ha prevalso un orientamento al futuro, è subentrato il 'presentismo', un regime di storicità caratterizzato dall'egemonia del presente. Il che pone la domanda: come si racconta il presente quando non c'è che quello? La letteratura - quell'idea nata con l'età moderna votandosi al culto degli antichi e alla promessa, mai mantenuta, dei posteri - deve oggi accorciare le distanze. Si vede spinta nella zona di contatto con il presente. Tutto il passato sembra averci dimenticati e il futuro non dura più a lungo. Impazienza assoluta. Giù per questa china, la narrativa contemporanea diventa narrativa del contemporaneo. Entrano, allora, in crisi le poetiche dello scarto otto-novecentesche. Il secolo della Storia, radicalmente futurista si era imposto di scartare a ogni costo e a tutto campo: dal linguaggio ordinario, dall'ideologia dominante, dal tempo presente. Ma l'obbligo di aderenza impone, oggi, la fuoriuscita da quel'idea moderna di contemporaneità. Tanto dal'inattualità nicciana quanto dalla negatività adorniana. Insomma, il Ventesimo è stato, nelle arti, nel pensiero e in letteratura, un secolo di sistematico smarcamento. Il Ventunesimo si apre all'insegna del marcamento a uomo, asfissiato e asfissiante, sul presente. Personalmente, avverto questo 'presentismo' declinarsi in 'cronachismo'. Sotto la pressione dei linguaggi mediatici, l'orizzonte ampio della Storia e delle sue storie si frantuma in cronaca di un oggi assoluto, e perciò deprivato della possibilità di entrare in un racconto più grande, sia esso magari anche un racconto del Male. Il risultato è un triste cronicizzarsi dell'esistenza, individuale e collettiva. La vita, se letta nelle pagine dei giornali o vista in tv, scade a teatro di fattacci e fatterelli. Finisce con l'apparirci come una malattia inguaribile di lungo decorso. Un'illusione che per dare prova di autenticità si cala sempre più nei toni crudi, nel sangue, nello sperma, rimesta nel torbido, nel triviale, nel sozzo. Ogni giorno un delitto e un delitto al giorno. Questa la regola della miopia cronachistica. E non si tratta di un 'ritorno alla realtà'. Sul modello degli spettacoli gladiatori, il mondo della comunicazione trionfante è qualcosa di finto che per essere creduto ha bisogno di un eccesso di realtà. La nostra maggiore, obbligata aderenza al reale è, insomma, del tipo del cerotto sulla ferita. Fino alla cauterizzazione dello spirito, fino all'indifferenza e alla cecità assolute. Nella mia pratica di scrittore, ho sempre alternato romanzi storico - epici a romanzi scritti in un corpo a corpo con la cronaca. Sono, per me, due fasi di oscillazione di uno stesso pendolo impazzito. Con il mio ultimo libro, Il bambino che sognava la fine del mondo, ho preso i frantumi di molti delitti narrati, in modo slegato e disperso, dalle cronache di questi anni e ci ho costruito un racconto d'invenzione che li ricapitolasse tutti in un'unica figura discernibile del Male. Per farlo ho perfino utilizzato molti articoli di commento che avevo scritto, non senza disagio, per "La Stampa". E' stato il mio tentativo di sfuggire alla prigione della cronaca seguendo il consiglio di Genet: per sottrarti all'orrore, sprofondaci dentro. Ma è stato anche un modo di mettere in pratica tre principi di una narrazione del contemporaneo. Esercitare un'intelligenza delle superfici (divenire superficiali per profondità; atterrirsi, come astronauti in ricognizione lunare, allineando l'occhio alla superficie desolata e scabra dell'immediato). Stabilire un rapporto di vicinato con il proprio qui e ora (non necessariamente di buon vicinato; si tratta, anzi, di una rivalità mimetica, di scendere sul suo terreno, rischiando risposte parzialmente isomorfe; di farsi sotto, come in una bagarre pugilistica, per piazzare il proprio colpo). Sapersi prigionieri di una bolla di immanenza (e non più quella della concezione postmoderna del linguaggio come prigione di segni ma quella di un tempo senza vie di uscita). [...]" (da Antonio Scurati, La letteratura al tempo della cronaca, "La Repubblica", 26/06/'09)

Accabadora di Michela Murgia


"Si può ragionare anche così intorno alla letteratura italiana dei nostri giorni. Le occorrerebbe uno sguardo presbite per raggiungere o, almeno, sfiorare la riva. Là dove guardare, vedere lontano, significa - alla lettera - andare à rebours, scavare nel tempo, calare il secchio nel pozzo. Quando sussisteva l’identità geografica e storica, rispetto all’odierno apolide errare. Non si tratta di essere ossessionati dalle tradizioni e dalla storia, come lamenta un musicista di Ishiguro. Ma l’ambizione di approdare a un mondo, sia pure in fieri, e di riconoscerlo, questo sì. Come il Renzo manzoniano, a cui «il lume del crepuscolo fece vedere il paese d’intorno». Il paese è Soreni, in Sardegna (immaginario il paese, reale la Sardegna degli Anni Cinquanta, ammantata di un atavismo su cui già incombevano o volteggiavano i tempi moderni: i jeans, la televisione, il tailleur pied-de-poule a insidiare le lunghe gonne e lo scialle sulle spalle ...). Il lume lo regge Michela Murgia, trentasettenne, originaria di Cabras, al secondo passaggio einaudiano dopo aver modellato Undici percorsi nell’isola che non si vede, il primitivismo che sfarina i paesaggi di cartapesta, spezzetta le cartoline, cestina le megalomanie hollywoodiane. Voce tra le voci che l’isola ha nelle ultime stagioni allevato, Michela Murgia. Ma con un timbro nitido, al riparo del vento imitatorio. Stilisticamente, almeno (e per esempio), la sua officina è assai lontana dalla Barbagia di Salvatore Niffoi. La lingua che cuce Accabadora non è oracolare (o, se lo è, lo è carsicamente), né le si chiede lo spasimo del mimetismo, l’avvoltolamento smisurato nei suoni indigeni. L’accabadora - una sarta, Bonaria Urrai - è la parca che nottetempo recide il filo della vita con un filo di fumo, mai, o quasi, dubitando «di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto». Una figura mitica tra le diverse di Michela Murgia (come Chicchinu Bastíu, il vecchio cieco che «sentiva nell’aria l’odore dell’uva pronta a far mosto»), una «musa notturna» di Esiodo, un traghetto acheronteo verso il luogo dei «senza nome». Non c’è peccato nel suo agire, è al di là del bene e del male, semplicemente spalanca la via alla dignità che è il medicamentoso oblio di sé. Di metafora felice in grano sapienziale, verso «le implicanze oscene della verità» avanza Accabadora. Perché, infine, Maria, fillus de anima, figlia adottiva di Tzia Bonaria, vedova di un promesso sposo morto in guerra, capirà quale creatura fatale l’aveva accolta. Inseguendo quindi un’ulteriore vita come bambinaia a Torino, là, dove «nessuno si sarebbe preso la briga di disegnare strade così dritte, se non avesse avuto molta paura», meritando la confidenza di un terribile segreto che la restituirà alla Sardegna. D’altronde, si interrogherà, interrogherà: «Me ne sono andata mai?». Al capezzale di Bonaria Urria colpita da «un’ittus», Maria si scoprirà - diverrà - carnalmente «fillus», aureolata dalla verità (dalla necessità) «che ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno». Leggi scritte e leggi non scritte (come il sofocleo dare sepoltura): un’altalena, una tenzone, una casistica millenaria, sino ad Accabadora. «Quel che deve avvenire - come sapeva (e rispondeva) lo scrittore e giurista Salvatore Satta, conterraneo di Michela Murgia -, avviene senza rimedio, senza che Dio ci possa fare nulla». Si vorrà forse credere che siano onnipotenti, onniscienti, i codici umani?" (da Bruno Quaranta, Verso l'Aldilà con la Tzia sarda, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/06/'09)

mercoledì 24 giugno 2009

Le emozioni ferite di Eugenio Borgna


"Le penombre della malinconia, le angosce senza oggetto, il sentimento della nostalgia, le ossessioni della colpa, le ferite dell´ansia, i rimpianti, le attese, le intermittenze del cuore: sono i temi - sempre uguali e sempre diversi - che ama trattare Eugenio Borgna, con una sua cifra personalissima. Nel capitolo più sorprendente del suo nuovo libro - Le emozioni ferite (Feltrinelli) - l´autore si avventura invece in un territorio del tutto inedito rispetto al suo abituale lavoro di introspezione, e più in generale pochissimo esplorato, scavando nell´esperienza improvvisa e fragilissima della gioia. Da sempre molto si è pensato e si è scritto sulla condizione della felicità, ma non sull´immediatezza e sull´intemporalità della gioia che brucia in un istante, "nel presente del presente agostiniano", o anche - scriveva in una lettera Rilke - «La felicità ha il suo contrario nell´infelicità, la gioia non ha contrario, per questo è il più puro dei sentimenti».
È Borgna a ricorrere alle citazioni, e nelle sue pagine si affastellano, ma l´uso che ne fa non è mai vanesio. Per restituire il "nocciolo metafisico" dell´esperienza emozionale della gioia è al Diario di Etty Hillesum che rimanda, a un documento straordinario pubblicato da Adelphi negli anni Ottanta. L´autrice olandese, uccisa ad Auschwitz, ha scritto pagine segnate da quella che Borgna definisce "la nostalgia dell´infinito", sempre interna all´emozione della gioia. Anche in un campo di concentramento, Etty è misteriosamente capace di viverla, sorretta da una sua incredibile forza intima: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l´ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così». Del resto "le emozioni ferite" non sono soltanto quelle enigmatiche e apparentemente indecifrabili della vita psicopatologica ma anche quelle della più normale quotidianità, tenute però spesso segrete: sono comunque stati d´animo che chiedono di essere compresi e riconosciuti, dimensioni essenziali della condizione umana, anche forme e modalità della conoscenza - secondo il pensiero moderno.
In questo suo nuovo scavo nell´interiorità, Borgna insiste molto sull´aspetto temporale di ogni singola emozione, di ogni movimento dell´anima. Scrive: «Quando si parla di tempo non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell´orologio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto: il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell´attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell´ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell´ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente». A metà tra il saggistico e il letterario, tra il rigore dell´analisi e il virtuosismo del linguaggio, Le emozioni ferite di Eugenio Borgna sembrano il nuovo tassello di un´opera che si presenta sempre più coerente al suo interno, quasi un corpus unico, seppure aperto, un viaggio a tappe nei paesaggi della vita interiore, nei significati profondi della malattia e in certi nuclei psicotici della normalità - nelle condizioni comuni dell´esistenza umana che sfuggono alle classificazioni diagnostiche. Alla soglia dei settantanove anni, ancora "primario emerito" dell´Ospedale Maggiore di Novara e libero docente all´università di Milano, Borgna non ha mai smesso di coniugare certe sue personali inquietudini con i gusti intellettuali dell´umanista idiosincratico all´algore degli specialismi - conoscendo Proust e Tolstoj, Sylvia Plath e Antonia Pozzi, Heidegger e Lévinas almeno quanto Jaspers e Binswanger. Non si tratta solo di un suo modo di pensare il dolore psichico, ma anche di un suo modo di stare al mondo, ed è in questo connubio che si rintraccia l´assoluta singolarità della scrittura di Borgna, così ostile al grigiore dei tecnicismi, quel piacere di esprimersi in un linguaggio apertamente metaforico, capace di restituire l´intensità degli affetti. Oltre alla competenza professionale dello psichiatra, si coglie la sensibilità acutissima di un uomo estraneo alle varianti intellettuali del cinismo: è intatta la sua passione per l´umanità più sofferente, non si è affatto arresa al disincanto e neppure alle sciatterie culturali di quella psichiatria "organicista", oggi dominante, che lui non esita a definire barbara." (da Luciana Sica, Il tempo della gioia e quello della felicità, "La Repubblica", 24/06/'09)

martedì 23 giugno 2009

Banville: "Noi scrittori uccisi da Foucault"


"'Che importa chi sta parlando?' E' la domanda che, in modo irritante, pone uno dei moribondi narratori di Beckett e il fatto che io non riesca a ricordarmi chi sia costituisce forse parte della risposta. In chiusura di Le parole e le cose Michel Foucault, notoriamente, riformulò la domanda durante le esequie - certamente premature - per la 'morte', in generale, dell'autore. Se Beckett avesse conosciuto, cosa che probabilmente avvenne, l'opera di Foucault, avrebbe di certo approvato con grande entusiasmo la campagna, in un certo qual modo sinistra, dell'intellettuale francese per l'annichilimento dell'autorità del romanziere, o del poeta - o in verità dovremmo presumere, del filosofo-autorità sul proprio lavoro. Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un ‘chi’ bensì un ‘cosa’. Secondo Foucault, non si tratta dell’autore che parla o scrive ciò che scrive, ma è il linguaggio stesso, con tutti i suoi echi e riverberi, i suoi sibili e ululati proveniente dall’oscura foresta del passato. Noi non sappiamo cosa diciamo quando parliamo, perché in realtà non parliamo, bensì veniamo parlati, e quello che noi pensiamo come un discorso razionale non è altro che un confuso barcollare nel sottobosco che i millenni di utilizzo hanno depositato sul suolo della foresta. La selva oscura di Dante è una boscaglia di parole logore nella quale non ci svegliamo mai totalmente. La campagna del ventesimo secolo per declassare lo scrittore da creatore a strumento, da padrone del linguaggio, come Oscar Wilde lo intese, a suo schiavo, fu fortemente osteggiata da molti critici e accademici, specialmente in Inghilterra, dove la teoria è criticata e i neo Giacobini della cultura francese godono di una considerazione che è un miscuglio di disprezzo, paura e risentito divertimento. Fu il silenzio degli innocenti, comunque, a essere notevole. La maggior parte degli scrittori - ovvero gli scrittori creativi, come veniamo chiamati - si sottrassero al dibattito. Come mai, perché non protestammo mentre Foucault e i suoi compari cercavano di mandarci al macello? Credo si trattasse del fatto che sentivamo, con fastidio, ma con un certo sollievo, che il nostro segreto era stato scoperto, che la nostra essenziale non-esistenza, la nostra inesistente essenza, era venuta alla luce. Qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all´opera. Il direttore del programma, anch´egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è ?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all´improvviso mi sembrò l´unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c´è nessun John Banville». In quel momento non capii del tutto che cosa intendessi. Certamente, e voi potete vederlo, esiste un John Banville, ed è il povero forcuto essere umano che si alza al mattino, si veste, fa colazione, si avventura fuori nel mondo quotidiano, che ha opinioni e va a votare alle elezioni, che ama i suoi bambini e che un giorno morirà. Ma quel John Banville non è lo stesso il cui nome appare sul dorso dei suoi libri. Non si tratta del John Banville che sogna una storia e la popola di personaggi. Non è il John Banville che se ne sta tutto il giorno seduto alla scrivania a lavorare sulle parole. Quell´altro, misterioso, John Banville è, in un parola, invisibile.
Più avanti nel documentario Rte – il cui titolo, a ogni modo, e non in maniera insignificante, era Essere John Banville – c´è una divertente e illuminante sequenza di stregoneria tecnica che mi vede seduto alla scrivania, ipoteticamente immerso nel lavoro, mentre allo stesso tempo un altro me, identico a quello seduto, gira per lo studio intento a prendersi cura delle piante di casa con un innaffiatore. È una bella metafora e illustra in modo arguto una delle tematiche principali che io e il regista seguimmo per tutto il programma – lo stesso tema, ovviamente, che sto trattando qui oggi, cioè, il tema della duplicità dello scrittore.
Quando faccio letture in pubblico o partecipo a prestigiose manifestazioni come questa, e incontro faccia a faccia alcuni dei miei lettori, mi sembra di cogliere nei loro occhi il sorgere di uno sguardo di leggero disappunto, di insoddisfazione. È come se la persona per la quale erano venuti, nella speranza di incontrarla, non si fosse presentata. È come se il John Banville dinanzi a loro, quello che cerca di fare del suo meglio per essere non solo cortese, ma anche plausibile, non fosse, in qualche modo, il John Banville che pensavano di conoscere dalle pagine dei miei libri. E hanno ragione – non è la stessa persona. Quel John Banville, gli voglio dire, quello che scrive le storie che loro ammirano, esiste solo quando questo John Banville si siede alla mia scrivania ogni mattina e impugna la mia penna, e cessa di esistere quando, giunta la sera, poso la penna.
Che relazione esiste tra questi due, lo scrittore che è visibile davanti a voi adesso e l´altro che se ne sta invisibile accanto a me? Tutti sperimentiamo questo dualismo, o qualcosa di molto simile, quando alla sera ci sdraiamo a letto per dormire. Per un po´ l´occupante si gira e si rigira, mentre con la mente ripercorre gli avvenimenti della giornata, preoccupato per gli errori e i misfatti e celebrando i piccoli trionfi. In breve, comunque, si leva da lui l´ectoplasmico altro, quello sognante, che prende il controllo e parte per uno sfrenato giro di piacere notturno, fatto di sgommate lungo tornanti, immersioni a profondità impossibili, svolazzando anche per aria, a volte, mentre figure bizzarramente familiari lo salutano e si prendono gioco di lui, oppure si gettano sul suo cammino facendo capriole e piangendo. Poi arriva il mattino e il suono stridulo della sveglia; il dormiente si sveglia e la sua vampiresca versione notturna si rintana ancora una volta nella cripta, nell´attesa di un altro crepuscolo. Quello che sogna, quello che scrive: sono cugini di primo grado se non, in realtà, fratelli gemelli. E ora, sebbene io non sia sicuro chi di noi stia parlando, Banville e io vi porgiamo il nostro evanescente saluto di congedo e diventiamo ... invisibili." (da John Banville, Noi scrittori uccisi da Foucault, "La Repubblica", 23/06/'09)

lunedì 22 giugno 2009

Psichiatra contro reduce



"Amaro, crudo da far male. E una scrittura aspra, che indispettisce e al tempo stesso cattura. A immagine e somiglianza dell’autore, che al solo guardarlo in faccia mette apprensione. Un look, c’è da supporre, studiato a tavolino, benché l’inglese Tim Willocks non ne abbia bisogno: medico, produttore cinematografico, sceneggiatore e scrittore con i controfiocchi. Come conferma Bad City Blues (Cairo). Un titolo peraltro di scarso richiamo, che si è portato dietro una lettura a scoppio ritardato. Sbagliato, perché questo lavoro – visionario, crudele, erotico – non mancherà di catturare il lettore. A fronte di una trama forte che vede, nel Sud degli States, uno psichiatra a caccia di uno psicopatico, ex leggenda ai tempi del Vietnam. L’obiettivo è quello di ucciderlo. Anche se si tratta di suo fratello.
Proseguiamo con La Voce del male (Nord), un romanzo 'imperdibile' (lo dice Lee Child, uno che se ne intende) firmato da Chris Mooney, quanto mai abile nell’imbastire un canovaccio che trasuda suspense. Partendo dall’omicidio di due ragazze che, a prima vista, nulla hanno in comune. Salvo l’assassino. E poi niente indizi, se non una statuetta della Vergine Maria, sulla quale dovrà far di conto l’agente della scientifica incaricata delle indagini. A complicare le cose ci si metterà di mezzo un ex profiler dell’Fbi, ambiguo, perverso, nonché pluriricercato. E siamo solo agli inizi ...
Dall’India alla Scozia, grazie a Stuart MacBride, quanto mai abile nell’usare la penna alla stregua di un machete, nel nutrire le sue 'invenzioni' di raccapricciante ferocia, nel far soffrire di insonnia i suoi fan. Tutto questo e altro ancora ne La casa delle anime morte (Newton Compton), un concentrato – senza entrare nel merito – di cattiveria narrativa.
A questo punto giochiamo in casa. Con il prolifico Luigi Guicciardi, abile anfitrione di un’altra storia modenese, nella quale rimette in scena il collaudato commissario Cataldo, questa volta alle prese con l’efferato assassinio di una lucciola, ben presto seguito da quello di una prof., a sua volta orribilmente seviziata. Quale filo conduttore unisce il mondo della prostituzione a quello di un liceo? Cosa può scatenare una simile furia omicida? Leggere per capire La Belva (Hobby & Work), un lavoro misurato e coinvolgente al tempo stesso.
A sua volta, per gli amanti dei thriller storici, Alfredo Colitto ambienta da par suo Cuore di ferro (Piemme) nella Bologna del 1311. Risultato? Un romanzo gradevole e ben costruito dove a tenere banco è 'un giovane templare coinvolto in un feroce omicidio; un medico pronto a sfidare l’Inquisizione per il bene della scienza; una formula alchemica dai poteri sovrannaturali'.
Onore al merito, infine, a Tonino Benacquista, francese di origini italiane, e al suo avvincente Ancora Malavita (Ponte alle Grazie); alla collaudata Charlotte Link con L’ultima traccia (Corbaccio) e al debuttante Roberto De Luca, maresciallo capo presso il Tribunale di Bologna, con Insospettabili Ombre (Pendragon). Senza dimenticare l’inglese Clifford Witting, scomparso nel 1968, del quale Polillo propone Ipotesi per un delitto. Un ritorno al passato che profuma di nuovo." (da Mauro Castelli, Psichiatra contro reduce, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/06/'09)

L'ultima crociata di Bradbury: "Così torno a salvare i libri"


"L'uomo che vuole salvare i libri, a ottantanove anni non ha ancora terminato la sua missione. Ray Bradbury, uno dei più grandi scrittori di fantascienza, autore di Fahrenheit 451 - in cui il protagonista, assieme ad altri 'resistenti', combatte per salvare i libri dalla distruzione imposta da un regime dittatoriale - ha deciso di vestire i panni di Montag e di provare a difendere dalla chiusura la H. P. Wright Library nella contea di Ventura, in California, la cui esistenza come quella di altre biblioteche pubbliche, è minacciata dai tagli di budget. E lo farà andando di persona nella sala della biblioteca per un incontro con il pubblico, che pagherà 25 dollari per assistere all'evento. 'Non potevo non partecipare', dice lo scrittore dalla sua casa californiana, 'la mia vita è fatta di libri, senza i libri io non avrei avuto una vita. E senza biblioteche pubbliche non avrei fatto lo scrittore'. Bradbury è cresciuto tra i libri, ha imaparato a conoscere il mondo tra le righe dei romanzi e dei saggi che leggeva da ragazzo, e ha immaginato il futuro tra i corridoi delle biblioteche. 'Mi piacerebbe incoraggiare i ragazzi a entrare nelle biblioteche, sono il posto più importante di ogni comunità. La tv ci vuole far credere che siamo tutti ricchi, ma non è così: molte famiglie non ce la fanno a garantire un'istruzione adeguata ai propri figli e in soccorso ci sono solo le biblioteche. Io ne sono la prova vivente. Quando avevo 18 anni, avevo finito il liceo e la mia famiglia non aveva denaro. Non potevo andare al college, andai in una biblioteca. Lo feci tre volte alla settimana, per dieci anni. Quando a 28 ani pubblicai il mio primo libro ne portai due copie a quella biblioteca pubblica'. La H. P. Wright deve trovare circa 200.000 dollari per evitare la chiusura, e l'evento con Bradbury potrebbe rimettere in sesto, almeno per un po', le finanze della struttura. 'Faccio questo tipo di incontri nelle biblioteche quando posso', ha detto al quotidiano della contea di Ventura, 'parlo ai bambini e ai ragazzi, provo a spiegare loro che senza libri non si vive bene. Ma che si può ancora vivere con poco internet e con poca tv. I genitori dovrebbero dire agli insegnanti nelle scuole, "smettete di usare i computer, mettete dei libri nelle mani di mio figlio"'. Bradbury non ha mai nascosto la sua antipatia per alcune delle forme della tecnologia moderna. 'Non tutta, in realtà. Molte cose sono utili, i computer servono in molte cose. Ma internet non ha significato. Non è una cosa reale come un libro. Yahoo voleva mettere un mio libro online. Mi hanno chiamato alcune settimane fa. Li ho mandati al diavolo'. La battaglia per la difesa dei libri ha guidato tutta la vita di Bradbury, e richiama naturalmente alla memoria Fahrenheit 451: 'E' un libro ancora attuale', dice Bradbury, 'ci sono molti Paesi del mondo dove esiste la censura e non c'è libertà di parola. Avevo 31 anni quando Hitler faceva bruciare i libri, ricordo quello che faceva Stalin. Ci sono ancora troppi posti dove i libri non vengono pubblicati o vengono bruciati." (da Ernesto Assante, 'Così torno a salvare i libri', l'ultima crociata di Bradbury, "La Repubblica", 21/06/'09)

A Literary Legend Fights for a Local Library (NYTimes.com)

Naufragi. Immagini romantiche della disperazione di Esperanza Guillén Marcos


"La nave è ferita, sfondata, immobilizzata da lastre di ghiaccio preistorico, forse è sconquassata da secoli, forse è stata morsa da marosi pietrificati un attimo fa, forse si è conservata nella frantumazione del gelo dai primordi della Creazione, o forse si sta spaccando ora negli occhi che guardano affascinati e atterriti: così appare il naufragio sublime che il pittore romantico Caspar David Friedrich dipinse due secoli fa e chiamò Mare di ghiaccio. Le immagini di Friedrich, insieme a quelle dei naufragi infuocati e tempestosi di Delacroix, e Géricault, e Turner, tornano in un bellissimo e agile libro di Esperanza Guillén Marcos pubblicato da Bollati Boringhieri: Naufragi. Immagini romantiche della disperazione. La Guillén parte dall´idea di Sublime in Kant per leggere nei naufragi in mare l´idea romantica di disfatta eroica, la figura avventurosa di un´esperienza del viaggio e del pericolo supremo che ossessionò i Romantici da Byron a Hugo. Ma la figura del naufragio è antichissima, e ambigua fin dalle origini.
In Mesopotamia, due millenni prima di Cristo, nel poema di Gilgamesh, il diluvio universale è una tempesta in cui i mari inferi salgono a galla e distruggono tutto tranne il battello di Gilgamesh, che sopravvive per ricostruire il mondo. Ma mille anni dopo, nella Grecia di Omero, il naufragio che sbatte Ulisse nudo davanti a Nausicaa è già diventato una metafora: Ulisse, lo scampato, non ricostruisce niente, racconta solo una storia.
Nell´epoca in cui i naufragi erano una realtà quotidiana, tra Cristoforo Colombo e il Colonialismo, l´affondamento di una nave e la morte di tutti tranne uno sembra assumere un senso positivo. È grazie a un naufragio che Robinson Crusoe scopre di saper vivere da solo nella Natura; in Swift è con un naufragio che Gulliver ha la rivelazione che il mondo cosiddetto civile è un universo falso, retto da leggi assurde; ed è un naufragio magico che nella Tempesta di Shakespeare ripristina l´ordine e fa trionfare la giustizia.
Sembra che il lavacro nelle acque in tempesta sia simile a un rito di passaggio, una prova che dà inizio a una trasformazione, un disastro per il quale valgono i versi di Hölderlin: «Là dove è pericolo, cresce anche la salvezza». E i primi veri poeti della modernità confermano questa idea di una prova iniziatica, che a loro però è vietata: nel Battello ebbro Rimbaud si augura che il battello della sua mente-corpo sia squassato dalle tempeste e che la sua chiglia «scoppi», ma cade in una quieta disperazione quando scopre che il naufragio rigeneratore è un sogno, e il battello ebbro è stato sostituito da una barchetta di carta che un bambino fa scivolare in una pozzanghera; Baudelaire nel Voyage invita il lettore a seguirlo «in fondo all´abisso», nel solo naufragio che può condurre ancora al «nuovo», ma il nuovo è possibile solo pagandolo con la morte: «O Morte, Vecchio Capitano, leviamo l´ancora…».
In forme variate all´infinito il tema di Ulisse che sopravvive per narrare non finisce, e arriva fino al Melville di Moby Dick: un immenso flashback narrato da Ismaele, il solo scampato al naufragio. Ma mentre raccontava l´ultima epica del naufragio nel Male, Melville stava inventando con Bartleby lo scrivano un´altra figura di naufragio, totalmente moderna e metaforica: il naufrago nell´anonimato del lavoro meccanizzato, il sopravvissuto perso in un mondo estraneo, l´impiegato universale privato dell´avventura e la cui sola resistenza al male è un lapidario «preferisco di no».
Il vecchio Melville, ex marinaio e scrittore fallito arenato per vivere in un impiego alla dogana di New York, ha capito che i viaggi sono finiti, e i naufragi sono ormai di altra specie. In America Kafka farà naufragare Karl Rossman nell´immensità spersonalizzata dell´America, e lo definirà "il disperso"; l´uomo di Sartre resterà chiuso in una stanza, naufrago nel Niente e nella Nausea; l´Io di Heidegger si perderà nell´Abgrund, l´abisso senza fondamento, o affogherà nella Chiacchiera; e, sepolto in una buca, immobile, con solo la testa fuori dal deserto, il sotto-essere di Beckett racconterà in Giorni felici la fine frivola e banale di ogni sublime.
Fine di tutto? No, qualcosa ancora galleggerà della vecchia metafora, affiorando in uno dei rari grandi poemi postmoderni, La fine del Titanic di Hans Magnus Enzensberger, dove, nell´anno di piombo 1978, si racconta il naufragio delle illusioni di progresso e di democrazia della Modernità, con un sopravvissuto che come Ulisse parla, ma parla una lingua indecifrabile: «Non era né un morto né un Messia, e nessuno comprese quel che diceva». Quel che diceva lo scampato del Titanic lo capiamo appena oggi, nel naufragio che nessuno vuole vedere e chiamare con il suo nome: forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare." (da Giuseppe Montesano, Naufragi, "La Repubblica", 21/06/'09)

sabato 20 giugno 2009

Il superstizioso di Francesco Recami


"E’ arrivato il tempo, credo, di prestare maggiore attenzione ai romanzi di
Francesco Recami, che si succedono da qualche anno con puntuale regolarità. Prendiamo Il superstizioso, che è entrato di prepotenza nella cinquina del Premio Campiello. E’ la storia di Camillo, agiato proprietario di un negozio di scarpe, sposato e senza figli, la cui maggiore preoccupazione consiste nel decifrare, attraverso riti propiziatori, i segni che governano il suo destino. La realtà presenta ai suoi occhi una serie di indizi e di coincidenze che sembrano rispondere a un ordinamento occulto, a una logica segreta. E lui si danna, in modo maniacale, a ricercare le tracce di
una buona o cattiva ventura. Un segnale che si ritiene eminentemente fortunato - il passaggio simultaneo di tre treni nella stessa direzione - lo induce a concedersi una giornata di vacanza, a tornare anzitempo a casa. Entrando di soppiatto, inciampa rovinosamente nel gatto, ma la caduta e la perdita dei sensi sono accompagnate da una nubecola di gemiti e sospiri che arrivano dalla camera da letto. Il gran sospetto che alimenta la superstizione, un sospetto quasi metafisico, lo introduce così nel vortice subalterno della gelosia. Camillo si adopera a cercare con i più ingegnosi accorgimenti, fino a inventarle, le prove che la moglie lo tradisce. Indaga nel suo passato e nelle sue odierne frequentazioni, applicando una logica che, quanto più ferrea, risulterà soccombente davanti al capriccio del caso.
Saltando ovviamente le conclusioni, ho dato appena le coordinate di una vicenda condotta con acuta intelligenza, con catturante umorismo. Il tema del sospetto, che presiede alla superstizione e alla gelosia, riappare in toni meno esemplificativi e più distesi in un altro romanzo di Recami, fresco di stampa, Il ragazzo che leggeva Maigret. Giulio è chiamato comunemente Maigret perchè manifesta una passione insolita, maniacale per il commissario immortalato da Simenon: così umano, intuitivo, alieno dai freddi ragionamenti alla Sherlock Holmes, dai gialli inglesi «tutte balle e tazze di tè». Ha letto tutti i suoi libri, ama come lui il cibo robusto, gli piace asciugarsi i panni bagnati contro la stufa e non vede l’ora di poter caricarsi una buona pipa. Soprattutto non perde occasione per emulare il suo talento investigativo. L’ambiente è propizio, Giulio vive in un paese solcato da canali e avvolto da nebbie, dove al nobile dissoluto fanno corona gli esemplari di una umanità marginale e dimessa: il padre di Giulio, che è fattore e guardacaccia di una famiglia decaduta, il custode della Chiusa, il fallimentare commerciante di vini, la moglie smaniosa dell’orologiaio, l’oste malfamato, le tre sorelle inacidite dalla vedovanza ... Il ragazzo intravede nella nebbia uno sconosciuto che getta nel canale quello che sembra un voluminoso involto o, chissà, un corpo umano. Parte di qui la sua indagine che lo porta a dipanare un intreccio di vite miserabili, di piccole e grandi bramosie, di sogni provinciali. Ad ogni passo si confronta idealmente con il famoso commissario, chiedendogli suggerimenti ma opponendogli anche le risultanze di una realtà vera, non fantasticata. E’ in questo duttile rapporto con il grande modello che il romanzo, non privo degli abituali colpi di scena, trova la sua ispirazione, il suo filo di eleganza. Tutto si svolge in una giornata di neve, che cancella le tracce e sembra propizia al crimine. Ma non ci sarà scorrimento di sangue come accade nei romanzi di Simenon e al ragazzo spetterà alla fine una funzione conciliatrice e assolutoria nei riguardi delle persone variamente coinvolte nella vicenda: poveri esseri sbatacchiati dalla vita, per i quali anche il burbero Maigret avrebbe provato comprensione. Il suo piccolo allievo, che sogna di diventare commissario, si compiace appena di avere interpretato dignitosamente una avventura del Maigret «da giovane», quella che non è stata mai raccontata." (da Lorenzo Mondo, Come Maigret tra nebbie e canali, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/06/'09)

Calasso: "Il vero editore infrange il tabù del pubblicabile"


"Non soltanto da Google dovrebbe guardarsi l'editoria, ma da se stessa, dalla sua sempre più flebile convinzione nella propria necessità. Innanzitutto nei Paesi anglosassoni, che sono la punta di lancia dell'editoria, dato il predominio della lingua inglese. Se si entra in una libreria di Londra e di New York, è sempre più difficile riconoscere i singoli editori presenti sul tavolo delle novità. Con alta discrezione il nome della casa editrice è spesso ridotto a una o più iniziali sul dorso del libro. Quanto alle copertine stesse, sono tutte diverse - e in un certo senso troppo simili. Ogni volta offrono un tentativo di impacchettamento, più o meno riuscito, di un testo. E ciascuno vale per sé, in obbedienza al principio dello one shot. Quanto agli autori, i loro libri si incontrano sotto il marchio di una certa casa editrice e non di un'altra innanzitutto in conseguenza delle trattative fra l'agente dell'autore e quel certo editore nonché dei rapporti personali fra l'autore e un certo editor. Mentre la casa editrice in quanto tale diventa l'anello tendenzialmente superfluo della catena. Ovviamente sussistono notevoli differenze di qualità fra le case editrici, ma all'interno di un ventaglio che presenta a un estremo il molto commerciale (associato alla volgarità) e all'altro estremo il molto letterario (associato alla sonnolenza). Ciò che sta in mezzo è una serie di gamme dove si situano i vari marchi. Così Farrar, Strauss and Giroux sarà più vicino all'estremo 'letterario' e St. Martin's all'estremo 'commerciale', ma senza che questo implichi qualche considerazione ulteriore - e soprattutto senza che siano escluse invasioni di campo: l'editore letterario potrà occasionalmente essere tentato dal titolo commerciale, nella speranza di far rifiorire i suoi conti, e l'editore commerciale potrà sempre essere tentato, poiché l'aspirazione al prestigio è una malerba che cresce ovunque, dal titolo letterario. Ciò che è penoso in questa suddivisione - che poi corrisponde a un certo assetto mentale - è innanzitutto il fatto che è falsa. Nel ventaglio che ho appena descritto è chiaro che Simenon o una sua ipotetica reincarnazione attuale, per dare solo un esempio, dovrebbero essere inclusi nella zona altamente commerciale - e perciò non passibile di valutazione letteraria; ed è chiaro che molti appartenenti alla funesta categoria degli 'scrittori per scrittori' dovrebbero essere automaticamente assegnati all'estremo letterario. Questo va a danno sia del divertimento sia della letteratura. Il vero editore - poiché tali strani esseri ancora esistono - non ragiona mai in termini di 'letterario' o 'commerciale'. Se mai, nei vecchi termini di 'buono' e 'cattivo' (e si sa che molto spesso il 'buono' può essere trascurato e non riconosciuto). E soprattutto il vero editore è quello che ha l'insolenza di inventare uno slogan come questo: 'I libri Diogenes sono meno noiosi' (lo inventò qualche anno fa Daniel Keel, editore di Diogenes, e queste parole si potevano leggere tutt'intorno al suo stand alla Fiera di Francoforte). [...]" (da Roberto Calasso, Il vero editore infrange il tabù del pubblicabile, "Corriere della Sera", 20/06/'09)

venerdì 19 giugno 2009

Hamletica di Massimo Cacciari


"Quello indicato da Massimo Cacciari in Hamletica è un avvincente percorso nei labirinti della decisione, un itinerarium mentis nei dilemmi dell'agire, scandito da tre figure esemplari nelle quali il filosofo osserva la progressiva esautorazione, connotata da insicurezza e smarrimento, di un artefice del libero volere. La sovranità del fare è problematica fin dalla sofferta
e spettrale decisione di Amleto alle prese con una irrevocabile, ma irrisoluta, vendetta. Da fatto necessario che era, l'agire diventa rappresentazione
verosimile, apparenza orfana di essenza, arbitrio infondato; il soggetto fa esperienza della sua insicurezza, della perdita di identità tra essere e fare, della dissociazione tra la percezione di sé e la libera decisione che dovrebbe conseguirne. Così, i valori non hanno più la forza di valere, di ripristinare un'antica sovranità: indugio e angoscia trasformano il soggetto da razionale a melanconico, ripiegato sulla propria fragile, evanescente parvenza. Se i termini della decisione sono quelli di una catastrofe, allora Amleto diventa il testimone dell'insolvenza del Cogito cartesiano, della sua incapacità di neutralizzare il dubbio da cui aveva preso le mosse, una volta destituita di fondamento la garanzia teologica. La certezza viene emancipata dal cogito, sopravvivendo come finzione nella rappresentazione teatrale. Amleto appare come figlio del non-essere (il «not to be» del celebre monologo), a cui non resta che rappresentare una decisione impossibile, recitando il ruolo del vendicatore. Soltanto la purezza del silenzio di Ofelia, l'ineffabilità del suo amore, può sottrarsi al teatro del mondo. Cacciari ritrova, sotto mentite spoglie, l'indugio di Amleto in un altro mito della modernità: l'agrimensore K. del Castello di Kafka. Mentre Amleto si dibatte ancora in nome di una legge naturale su cui poggia la vita della famiglia e della comunità, K. è lo straniero, l'inappartenente, estraneo e avulso da ogni contesto di legittimazione: un singolo, esistenza pura gettata e abbandonata nel mondo; aphorismenos, irrelato e frammentario - come avrebbe detto Kierkegaard, rispetto al quale Kafka rivendica una preziosa consanguineità, priva tuttavia del conforto della fede. K. esige che qualcuno gli riveli la propria ragion d'essere, la normatività su cui deve poggiare ogni forma dell'agire. Tale domanda è legittima ma improponibile perché il fondamento della nostra esistenza è abissale, non un fortilizio in cui trovare accoglienza, riparo e motivazione. La libertà, che caratterizza l'esserci, deriva dalla nostra completa inessenzialità: «Tu sei libero - scrive Kafka - e perciò sei perduto». La fortezza è inespugnabile, così come il padre insensibile alla lettera del figlio, e ogni tentativo di varcarne la soglia in nome della libertà risulta colpevole. La potenza nichilistica di questi due miti, relativi all'impotenza di ogni volontà di potenza, confluisce nei personaggi esausti di Beckett, terzo autore esemplare di questa trilogia filosofica. Lo scrittore irlandese sembra l'artista dell'ultimo giorno, che viene dopo Joyce, consapevole di non poter procedere se non sottraendosi, ritirandosi, configurando un finale di partita in cui ogni attesa appare preclusa, irrappresentabile, innominabile: l'attesa di Godot è la versione parodistica, la declinazione comica di ogni discorrere alla ricerca di un senso. La vanitas vanitatum ci confina in un limbo i cui abitanti sembrano far esperienza epigonale di una estrema nudità mistica che depone ogni istanza deliberativa, pur avvertendo l'inesauribile «impressione di esistere». Qui il disincanto è radicale, privo di compiacimento: tutto è già accaduto, non vi è più nulla da attendere, si conversa inutilmente in forza di una coazione abitudinaria, «senza poter credere che un Libro, un Nomos ne costituiscano origine e fondamento». Permane soltanto il venir meno (Lessness) di ogni barlume di vita, l'inutilità della sofferenza, l'evidenza dell'infelicità, l'estenuazione di una «barbarie del senso», la pietas dell'incompiutezza insieme alla sfibrata nostalgia di improbabili giorni felici. Il nome ultimo dei vari Ulisse, Amleto e K. è in Beckett Nessuno, colui che non desidera più nulla. Il resto è silenzio - come già sapeva Amleto." (da Marco Vozza, Da Amleto a Godot verso il Nulla, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/06/'07)