lunedì 15 giugno 2009

Una cosa piena di mistero di Eudora Welty


"Eudora Welty, classe 1909, premio pulitzer 1973, non era certo una writer's writer, cioè uno di quegli scrittori amati principalmente dagli altri scrittori. I suoi romanzi, tra cui i più famosi La figlia dell'ottimista e Matrimonio sul Delta, come i suoi racconti, sono storie ben costruite, di saldo intreccio, con personaggi vigorosi, con un'ambientazione nel Deep South degli Usa, dove era nata, accuratamente descritta. Roland Barthes, classe 1915, maitre à penser culturale di tutta un'epoca, era un lettore sofisticato e vedeva nella letteratura innanzi tutto un impero dei segni. Per formazione, apprendistato, ambiente, tutto sta a dividerli. Eppure qualcosa hanno in comune. Certo il mio è un accostamento personale e forse tendenzioso, ma non casuale. Cito due loro frasi: Eudora: 'Imparare a scrivere potrebbe essere una parte dell'imparare a leggere'. Barthes: 'Scrivere è voler riscrivere'. L'accostamento me l'ha offerto la pubblicazione di una raccolta di saggi della scrittrice americana intitolata Una cosa piena di mistero (con una bella prefazione di Carola Susani e una buona traduzione di Isabella Zani). La cosa piena di mistero è ovviamente la letteratura, anzi, la narrativa, perché è di questo che la scrittrice americana si occupa. L'austera signorina, che era nata a Jackson, Mississippi, i romanzi aveva cominciato a scriverli nel 1936, e subito aveva cominciato a ragionare sulla scrittura. Come si diventa scrittori? E perché? E cosa vuol dire? La sua visione di ciò che è un romanzo è fortemente idealista, di quell'idealismo tipico di molti umanisti americani che alle spalle hanno il trascendentalismo piuttosto che l'illuminismo; dell'arte del romanzo Welty fa una questione di verità e sensibilità più che di tecnica, tanto che a un certo punto, con qualche esitazione, si spinge ad affermare: 'Forse è troppo dire che l'esattezza, la concretezza e la solidità del mondo reale raggiunte in una narrazione corrispondono all'intensità di sentimento nella mente dell'autore e al battito del suo cuore; ma lì sta il segreto della nostra fiducia in lui'. Barthes nella sua analisi interminabile del testo - del romanzo e non solo - non pensava, almeno non in questi termini, che si trattasse di questione di cuore, e la sua vastissima strumentazione culturale operava tra mille distinguo come un bisturi critico più che affilato. Ma entrambi condividono una certezza: che tra i libri scritti, cioè consegnati alla tradizione, e quelli da scrivere ci sia un legame indissolubile. Per questo, la lettura di Una cosa piena di mistero mi ha fatto venire in mente, uno degli ultimi testi di Barthes, cronologicamente, anzi, l'ultimo. Si tratta di un testo particolare, cioè la trascrizione - da registrazione e appunti - dell'ultimo seminario che il grande saggista tenne al Collège de France tra il 2 dicembre 1978 e il 23 febbraio 1980, seminario concluso dunque solo due giorni prima del fatale incidente che un mese dopo, il 26 marzo, gli troncò la vita. Il seminario (pubblicato da Seuil/Imec) non voleva certo essere un testamento, Barthes era pieno di progetti tra cui anche uno di ordine narrativo, ma l'irreparabile sigillo della morte conferisce a quelle sue ormai lontane lezioni un valore conclusivo e l'aspetto di un lascito alla posterità. Singolare è anche il tema del seminario, La prèparation du roman, nonché il suo svolgimento, perché soprattutto nella seconda parte del corso Barthes prende in esame non un romanzo o un insieme di opere o uno scrittore, ma la strana, mitica e insieme materiale, costellazione di pensieri e comportamenti che scaturiscono da quello che chiama il 'voler scrivere'. Dunque anche lui, a suo modo, si interroga sulle fatali domande: come si diventa scrittori? E perché? E seguendo quali vie? [...] Gli scritti dell'autrice americana vanno dal 1949 al 1974, il corso del celebre semiologo si conclude in quello che molti storici considerano l'ultimo decennio del '900: un secolo in cui, tra continue febbri di dissacrazione e morti annunciate e inedite resurrezioni del romanzo, era costume comune agli scrittori accanirsi a interrogarne il destino come un affare di famiglia, che si trattasse di rivendicare continuità oppure drastiche rotture, per legittimare il proprio lavoro. Per questo i saggi di Welty e il seminario di Barthes mi appaiono oggi legati da un filo comune, un filo che all'epoca presente risulta estraneo. Interrogati oggi su come si diventa scrittori e perché, Eudora e Roland risponderebbero con le stesse certezze? O, in altri termini, come se la caverebbero di fronte alle scuole di scrittura, ai blog letterari, alla narrativa che nasce a ridosso della cronaca o dalla cronaca stessa, dal cinema, dalla tv, dalla politica, dalla magistratura o dagli studi legali o dal gossip autobiografico? Imparare a scrivere può ancora essere parte dell'imparare a leggere? Oppure è una tecnica a se stante, autosufficiente? E il 'Voler scrivere' passa ancora per quegli stessi fantasmi letterari e per quella stessa sensibilità alla tradizione della scrittura sui quali tanti autori del secolo scorso, nel solco di una traccia antica, hanno continuato a riflettere? E, infine, la letteratura è ancora 'una cosa piena di mistero'?" (da Elisabetta Rasy, Nei sentieri della scrittura, "Il Sole 24 Ore Domenica", 14/06/'09)

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