venerdì 19 giugno 2009

Hamletica di Massimo Cacciari


"Quello indicato da Massimo Cacciari in Hamletica è un avvincente percorso nei labirinti della decisione, un itinerarium mentis nei dilemmi dell'agire, scandito da tre figure esemplari nelle quali il filosofo osserva la progressiva esautorazione, connotata da insicurezza e smarrimento, di un artefice del libero volere. La sovranità del fare è problematica fin dalla sofferta
e spettrale decisione di Amleto alle prese con una irrevocabile, ma irrisoluta, vendetta. Da fatto necessario che era, l'agire diventa rappresentazione
verosimile, apparenza orfana di essenza, arbitrio infondato; il soggetto fa esperienza della sua insicurezza, della perdita di identità tra essere e fare, della dissociazione tra la percezione di sé e la libera decisione che dovrebbe conseguirne. Così, i valori non hanno più la forza di valere, di ripristinare un'antica sovranità: indugio e angoscia trasformano il soggetto da razionale a melanconico, ripiegato sulla propria fragile, evanescente parvenza. Se i termini della decisione sono quelli di una catastrofe, allora Amleto diventa il testimone dell'insolvenza del Cogito cartesiano, della sua incapacità di neutralizzare il dubbio da cui aveva preso le mosse, una volta destituita di fondamento la garanzia teologica. La certezza viene emancipata dal cogito, sopravvivendo come finzione nella rappresentazione teatrale. Amleto appare come figlio del non-essere (il «not to be» del celebre monologo), a cui non resta che rappresentare una decisione impossibile, recitando il ruolo del vendicatore. Soltanto la purezza del silenzio di Ofelia, l'ineffabilità del suo amore, può sottrarsi al teatro del mondo. Cacciari ritrova, sotto mentite spoglie, l'indugio di Amleto in un altro mito della modernità: l'agrimensore K. del Castello di Kafka. Mentre Amleto si dibatte ancora in nome di una legge naturale su cui poggia la vita della famiglia e della comunità, K. è lo straniero, l'inappartenente, estraneo e avulso da ogni contesto di legittimazione: un singolo, esistenza pura gettata e abbandonata nel mondo; aphorismenos, irrelato e frammentario - come avrebbe detto Kierkegaard, rispetto al quale Kafka rivendica una preziosa consanguineità, priva tuttavia del conforto della fede. K. esige che qualcuno gli riveli la propria ragion d'essere, la normatività su cui deve poggiare ogni forma dell'agire. Tale domanda è legittima ma improponibile perché il fondamento della nostra esistenza è abissale, non un fortilizio in cui trovare accoglienza, riparo e motivazione. La libertà, che caratterizza l'esserci, deriva dalla nostra completa inessenzialità: «Tu sei libero - scrive Kafka - e perciò sei perduto». La fortezza è inespugnabile, così come il padre insensibile alla lettera del figlio, e ogni tentativo di varcarne la soglia in nome della libertà risulta colpevole. La potenza nichilistica di questi due miti, relativi all'impotenza di ogni volontà di potenza, confluisce nei personaggi esausti di Beckett, terzo autore esemplare di questa trilogia filosofica. Lo scrittore irlandese sembra l'artista dell'ultimo giorno, che viene dopo Joyce, consapevole di non poter procedere se non sottraendosi, ritirandosi, configurando un finale di partita in cui ogni attesa appare preclusa, irrappresentabile, innominabile: l'attesa di Godot è la versione parodistica, la declinazione comica di ogni discorrere alla ricerca di un senso. La vanitas vanitatum ci confina in un limbo i cui abitanti sembrano far esperienza epigonale di una estrema nudità mistica che depone ogni istanza deliberativa, pur avvertendo l'inesauribile «impressione di esistere». Qui il disincanto è radicale, privo di compiacimento: tutto è già accaduto, non vi è più nulla da attendere, si conversa inutilmente in forza di una coazione abitudinaria, «senza poter credere che un Libro, un Nomos ne costituiscano origine e fondamento». Permane soltanto il venir meno (Lessness) di ogni barlume di vita, l'inutilità della sofferenza, l'evidenza dell'infelicità, l'estenuazione di una «barbarie del senso», la pietas dell'incompiutezza insieme alla sfibrata nostalgia di improbabili giorni felici. Il nome ultimo dei vari Ulisse, Amleto e K. è in Beckett Nessuno, colui che non desidera più nulla. Il resto è silenzio - come già sapeva Amleto." (da Marco Vozza, Da Amleto a Godot verso il Nulla, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/06/'07)

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