sabato 13 giugno 2009

Il cuore delle parole


Parma Poesia festival - Per altri versi


"Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle parole mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l'aspetto originario. Ma l'importante è che siano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo Virgilio e Orazio, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo dimentichiamo con troppa facilità. Un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di riceverlo. Negargli l'ascolto sarebbe favoreggiare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell'altro, continua ad agire tra noi e nullificherà anche molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l'antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso. I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce - diceva Lucrezio - non ha paura. Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l'irriconoscibile. Ormai è raro che riusciamo a godere delle cose nuove, perché per noi non c'è più novità. Anche ciò che la nostra civiltà tecnologica propone come nuovo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnologica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il 'nuovo' con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbia­mo bisogno di novità ma alla fine, at­traverso i prodotti della cultura con­temporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sem­pre variato di soddisfare la nostra sem­pre uguale esigenza di intrattenimen­to. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire. La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completa­mente donata. Non soddisfa un biso­gno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sa­peva l’esistenza. Allora, mentre leggia­mo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, per­ché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra men­te ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una pri­ma lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lin­gue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è esercizio etico; imepgno a vivere bene. Non c'è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazione sentimentale ed emotiva. Attraverso la poesia l'individuo impara a definire i suoi sentimenti e a comprenderli in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettivi­tà, che questa si esprima in un com­portamento o in una reazione psicolo­gica. Dalla poesia sono fissati o alme­no riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli ec­cessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tie­ne a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli indivi­dui sono continuamente tentati da im­magini di sé che non possono adattar­si alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fasci­no della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle paro­le. Gli antichi conoscono perfino la pa­rola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che com­muoveva le stesse pietre con la bellez­za del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di ri­portare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza del­la parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla lu­ce, per accertarsi che la moglie lo se­guisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissi­mo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infran­gere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squarta­to proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuo­le anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, co­me nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra men­te su chi siamo stati, pensiamo all’in­fanzia, a quel che non c’è più. Gli anti­chi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla no­stra: perché non si abbandona ai ricor­di personali, nemmeno quando espri­me il massimo della soggettività, co­me vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di glo­ria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attra­verso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ri­cordi, se da una parte può essere al­l’origine di molta della nostra indiffe­renza alla poesia antica, dall’altra do­vrebbe insegnarci a sviluppare qualco­sa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contem­poraneo dei suoi discendenti. Il suo la­voro letterario è tutto un modo di me­ritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventa­re degno, di essere un modello. Que­sto apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabili­tà di farsi padre. Solo così ritiene di po­tersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio." (da Nicola Gardini, Il cuore delle parole, "Corriere della Sera", 13/06/'09)

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