venerdì 28 ottobre 2011

Addio a Hillman, così si muore da filosofo antico


"“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande. Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia.

Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut. Conosceva non solo molte lingue - incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava - ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos», del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo, di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.

A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan o Il mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia o Il sogno e il mondo infero, per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, da Il codice dell’anima a La forza del carattere a Un terribile amore per la guerra. Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo». Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.

Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia, ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ars moriendi - anche se non voleva la si chiamasse così - di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine, alla soglia, sul confine.

L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris. Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso - in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio - in termini alchemici. Le immagini del processo di dissolutio e coagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano - la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio, nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore - dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.

Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno - Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici - potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui. Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.

Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. «Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte»." (da Silvia Ronchey, Addio a Hillman, così si muore da filosofo antico, "La Stampa", 28/10/'11)

Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey (Rizzoli)

Hillman: "Sto morendo ma non potrei essere più impegnato a vivere" (da "La Stampa")

martedì 25 ottobre 2011

Balistica


"Immaginate un poeta che finisce sulle pagine del New York Times, perché due case editrici se lo contendono a colpi di contratti a sei cifre. Immaginatelo che fa una quarantina di letture all’anno, davanti a sale piene di fans adoranti, guadagnando migliaia di dollari a serata.
Immaginate la sua voce che diventa un refrain della radio nazionale, dove declama regolarmente i suoi versi, e il Congresso che lo nomina «Poet Laureate of the United States», cioè poeta ufficiale di stato, come Virgilio che con la corona d’alloro magnificava le origini nobili dell’impero romano.
Non ve lo potete immaginare, soprattutto in Italia. Perché l’idea che un poeta
oggi possa diventare una celebrità, inseguito dal pubblico e dal successo, è estranea alla nostra testa. Questa, però, è la storia di Billy Collins, di cui arriva Balistica (Fazi). Uno che ama il golf, il poker, il pianoforte, il suo cane Jeannine, forse la moglie correttrice Diane, i sigari e il whisky, e fino a quarant’anni non aveva mandato alle stampe neppure un libro vero.
Adesso potrebbe sembrare un predestinato, visto che è nato 70 anni fa da una famiglia di Lowell, Massachusetts, già nota come patria di Jack Kerouac: «Se mio padre fosse salito in macchina con Neal Cassady - scherza lui - gli avrebbe chiesto di scendere al primo semaforo». Si invaghisce della poesia da bambino leggendo Poetry, la rivista che il padre gli riporta dall’ufficio, dove arrivava per caso. Si fa coraggio, spedisce i suoi versi a Poetry, ma l’editore Henry Rago gli risponde: «Non ti azzardare più a mandarmi poesie, però continua a scrivere». E lui obbedisce. Si laurea in lettere dai gesuiti, comincia ad insegnare al Lehman College del Bronx e non invia più nulla a Poetry, per 25 anni. E si accontenta di pubblicare i suoi versi su Rolling Stone, per 35 dollari a poesia.
Siccome la perseveranza paga, nel 1988 si fa coraggio e manda una nuova collezione alla University of Arkansas Press. Il direttore gli accetta 17 poesie, gliene fa riscrivere una trentina. Esce The Apple That Astonished Paris, che fa di Collins un autore a 47 anni. Non è un successo travolgente, ma basta per farlo notare da un’altra casa editrice universitaria, la University of Pittsburgh Press, che nel 1998 pubblica Picnic, Lightning. Collins vende 50.000 copie, la radio pubblica Npr lo intervista e gli fa leggere i suoi versi. Nasce un fenomeno, e la potente Random House lo ruba alla piccola editoria universitaria, con un contratto che forse non beccherebbero neppure Paul Auster o Philip Roth. E’ scandalo nel mondo letterario, ma Billy diventa una celebrità.
Come è possibile? Innanzitutto perché scrive poesie che cercano di farsi capire: «Il titolo è come il tappetino di benvenuto al lettore. Cerco di essere ospitale. Ma passare dal titolo al primo verso è come salire su una canoa: ci sono un sacco di cose che possono andare storte».
Poi perché usa tutta la libertà concessa dai versi: «Quando comincio a scrivere non so mai dove vado a finire. La penna è uno strumento di scoperta, piuttosto che di registrazione». Infine perché non si vergogna di usare l’ironia: «Le commedie del più grande poeta in lingua inglese, Shakespeare, non si chiamano commedie per caso»." (da Paolo Mastrolilli, Collins, il Virgilio delle piccole cose, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/10/'11)

sabato 15 ottobre 2011

Giuseppe Tornatore: “Per ogni ciak dico grazie a Márquez''


"Piegamenti? Non se ne parla. Flessioni e salto in alto? Per carità! «Professoressa,
la ginnastica non mi piace. Se mi esonera dalle ore di educazione fisica e di religione mi occupo io di dare una sistemata al prestito e alla schedatura». Tutto solo, tra volumi accatastati e classificatori scorticati, in stanzoni abbandonati del
Francesco Scaduto, fatiscente liceo classico di Bagheria: è iniziata così, galeotti i detestati esercizi ginnici, l’avventura di gran lettore di Giuseppe Tornatore.
Che si è ritrovato ad avere la biblioteca scolastica tutta per sé. Il premio Oscar per la regia, con gli occhialetti cerchiati e il bel sorriso ironico, ancora oggi non sale su un treno o su un aereo se non con una consistente compagnia cartacea. «L’anno scorso ho raggiunto il massimo del peso: ero presidente del premio Campiello, mi spostavo con un carico pesante di scoperte entusiasmanti, come Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Accabadora di Michela Murgia, La nota segreta di Marta Morazzoni. Per la lettura serale c’erano un paio di pagine di Longitudine, il bellissimo saggio di Dava Sobel che ripercorre l’avventurosa storia della misurazione delle coordinate geografiche».
Tornatore, nonostante la scarsa passione per la ginnastica, ha ancora il fisico agile e asciutto del liceale e in questi giorni sta vivendo in un turbinio di
impegni: sta ultimando una lunga conversazione con Francesco Rosi (uscirà
da Mondadori), compie sopralluoghi per il suo prossimo film, The Best Offer(«non parlo volentieri dei progetti da realizzare, porta male»). Intanto allena
i muscoli (mentali, naturalmente) seguendo il suggerimento che una volta gli dette Gabriel García Márquez: «Pensare una storia per anni rende più facile scriverla di getto». Riflette e rimugina così su quello che dopo Baarìa sarà il suo nuovo kolossal, dedicato all’epopea dell’assedio di Stalingrado (dal trolley strapieno sbuca il meraviglioso I 900 giorni di Harrison Salisbury che racconta gli anni delle terribili «lacrime gelate» dell’attacco nazista). E’ passata da poco la mezzanotte e Tornatore, che sembra non stancarsi mai («il mio mestiere dà un’incredibile riserva di energie»), è sbarcato al tramonto sull’isola di Elsa Morante per ricevere il riconoscimento alla carriera non solo di cineasta ma anche di scrittore (il premio Procida - Isola di Arturo - Elsa Morante).
«Quando passavo le mie ore a risistemare i volumi della scuola facevo incetta di opere per uso e consumo personale: da Tolstoj a Dostoevskij, Kafka, Cechov, Flaubert, Stendhal, Camus, Hemingway. C’erano poi Papini, Brancati, Sciascia e poi ancora Pirandello ed Eduardo i cui testi ho messo in scena quando stavo al liceo. Il grande schermo ha esercitato su di me un incantesimo fin da quando avevo otto-nove anni. Lavoravo come ragazzo di bottega di un falegname, a cui passavo colla, pialla e altri “ferri del mestiere”, e con i primi guadagni compravo Oscar Mondadori a 350 lire e poi correvo al Capitol dove c’erano Maciste, Gli argonauti, i cowboy John Wayne e Gary Cooper; più grandicello passavo indenne e senza stancarmi mai attraverso opere come Otto e mezzo, Il posto delle fragole e Morte a Venezia di cui poi compro il libro, lo leggo e torno al cinema a rivederlo. La Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn la proiettano, in un gran casino, sulla piazza della mia città, al Festival dell’Unità».
Dalla celluloide alla pagina e viceversa. «Alla proiezione di Zorba il greco di Michael Cacoyannis ho assisto parecchie volte, poiché all’epoca si poteva entrare anche a film già iniziato, e poi cerco senza trovarlo (lo avrò successivamente) l’omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis».
Primissime letture? «Non avevo ancora dieci anni e dico a mio padre: “Mi regali un libro?”. La mia era una famiglia di siciliani poveri ma illuminati e molto aperti. Papà, sindacalista della Cgil, credendo di farmi uno straordinario omaggio, mi porta la storia, pubblicata dagli Editori Riuniti, di Gastone Sozzi, morto per le torture nelle galere fasciste. Aveva fatto parte delle Guardie rosse, gruppi armati comunisti che si opponevano allo squadrismo, collaborato alla redazione de ''La caserma'' e de ''Il fanciullo proletario, foglio illustrato per bambini''. Scritto
con stile impervio, non era il massimo per un allievo delle elementari, lo leggerò anni dopo anche se ero piuttosto precoce in fatto di libri».
Ne era consapevole? «Porto i pantaloni corti e vado alla biblioteca comunale di Bagheria per chiedere in prestito La ciociara di Alberto Moravia. Pussa via, mi scaccia il bibliotecario, “è proibito per i ragazzini”. Comunque mi ero appassionato anche a tutto quello che rientrava nel repertorio tradizionale di un bambino, da Pinocchio al Giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne a Capitani coraggiosi di Rudyard Kipling».
Al liceo Tornatore lavora e studia, poi diventa consigliere comunale per il Pci,
fotografo, gestore di un cineclub, programmista per la sede Rai di Palermo mentre cerca di farsi largo nel mondo del cinema. Dove trova il tempo per percorrere tutte queste strade, compreso l’ascolto della musica, altra sua grande passione? «A scuola ero bravo soprattutto in italiano, mi incartavo un po’ con il latino e il greco. Però se, per esempio, il prof mi faceva una domanda su Euripide o sulle Troiane io evocavo il regista greco Cacoyannis e il docente mi seguiva su questa via. Successivamente arriveranno Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la Recherche, Calvino, Brancati, Baricco, il fondamentale
Cent’anni di solitudine di García Márquez. Ho sempre fatto i compiti e scritto sceneggiature accompagnato da Bach, Mozart, Mahler e poi dall’opera (per il bicentenario di Wagner, nel 2013, il regista ha avuto alcune proposte che tiene scaramanticamente segrete, ndr.)».
Libri come arma di seduzione: le è capitato? «Certo, meglio la poesia. Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine ma anche Ungaretti, Montale e soprattutto Pavese. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è stato un passepartout per tante ragazze».
Sciascia dopo aver visto Nuovo cinema Paradiso si ricorderà di aver avuto
un’esperienza analoga a quella di Salvatore, il personaggio principale: egli pure assisteva allo spettacolo dalla cabina dell’operatore, ricevendo in dono pezzi
di pellicole, fotogrammi di dive famose. «Nell’antologia del liceo mi imbatto in alcune pagine de Il giorno della civetta. Un colpo di fulmine. Quando per la Rai mi dedico a un programma sui narratori siciliani e il cinema stabilisco un rapporto personale con Sciascia».
Il libro che l’ha più sorpresa? «Un giorno leggo un aneddoto in cui García Márquez ricorda che lo scrittore colombiano Álvaro Mutis gli disse “Leggi! E impara!” e gli porse Pedro Páramo. Márquez dice che quella notte non riuscì a dormire prima di aver finito di leggerlo per la seconda volta. Decido di fare anche io come Márquez e mi porto a casa il piccolo libro di Juan Rulfo. Comincio e non ci capisco niente. Dopo 15 pagine il protagonista cambiava nome, città, epoca, e dopo altre 15 succedeva la stessa cosa. Per errore erano stati impaginati pezzi di vari racconti. Quando vado dal libraio per prendere il Pedro Pàramo non fallato lui vuole indietro la mia copia. E io mi rifiuto. C’era qualcosa di magico in quell’avventura, mi sembrava di essere il Lettore protagonista di Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino, il bellissimo romanzo che collaziona inizi di storie che non finiscono mai»." (da Mirella Serri, “Per ogni ciak dico grazie a Márquez”, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/10/'11)

venerdì 7 ottobre 2011

Tony & Susan


"In genere non mi piacciono i romanzi che parlano di romanzi. O di scrittori. O, peggio ancora, di lettori accaniti. Non mi piace la sensazione che l'autore mi stia dando di gomito per suggerire che abbiamo in comune qualcosa di raro e virtuoso, perché entrambi amiamo i libri, infatti lui ne ha scritto uno e io lo sto leggendo. Non mi piace la tautologia moralistica in cui cerca di intrappolarmi: leggere è bene, tu stai leggendo quindi ti trovi (insieme a me) dalla parte del bene. Quando in una storia vedo comparire un protagonista-lettore, ho sempre il sospetto che sia stato messo lì allo scopo di adularmi, di rassicurare, mentre io pretendo tutto il contrario dal libro che sto leggendo: voglio che esso mi strattoni, che mi renda maledetto e solo a sprazzi redento, che mi spaventi a morte. È per questo che ho amato a tal punto Tony & Susan di Austin Wright, un romanzo che parla di romanzi, ma una felice eccezione della sua specie, perché tutto fa fuorché rassicurare. Spaventa molto e redime poco. Esalta la vocazione stessa dei romanzi a essere non-rassicuranti e ne celebra la dimensione oscura, spiazzante, «l'onnipresenza dell'elemento irrazionale».
Si tratta di un libro pubblicato per la prima volta in Italia da Rizzoli, nel 1994. Ora, seguendo l'esempio di Atlantic Books, secondo cui Tony & Susan è «il più strabiliante capolavoro perduto della narrativa americana dai tempi di Revolutionary Road», Adelphi lo ripropone, con la nuova traduzione di Laura Noulian. Tony & Susan sono Tony Hastings & Susan Morrow. Il titolo li mette ironicamente sullo stesso piano con l'utilizzo della & commerciale, ma abitano due universi distinti, che comunicano solo attraverso la pagina scritta. Susan vive nella «realtà», Tony nella finzione. Susan è «un'insegnante di inglese, una donna ben organizzata, coerente, grammaticalmente corretta e coi margini su tutti i lati», ha dei figli da accudire e un (secondo) marito, Arnold, che al momento si trova lontano per lavoro. Un giorno riceve una lettera dal suo ex, Edward. Le comunica che ha ultimato un romanzo e le domanda se le va di leggerlo, ha molto a cuore la sua opinione. L'ambizione di Edward di diventare uno scrittore è il principale fra i motivi per cui Susan lo ha lasciato molti anni prima, non credeva nel suo talento e lui, d'altra parte, non era riuscito a portare a compimento una sola opera. Sembrava che infine si fosse arreso a un lavoro impiegatizio nel campo delle assicurazioni, ma adesso, a un tratto, dice di avercela fatta. Susan è scettica ma anche curiosa. Superate le titubanze iniziali, accetta di dare un'occhiata al manoscritto. Che parla di Tony, un professore universitario dalla vita ordinata almeno quanto quella di Susan; Tony Hastings, che ha una moglie e una figlia con le quali sta viaggiando in automobile verso la casa di villeggiatura nel Maine. Susan si lascia rapire in fretta dalla lettura di Animali notturni - questo il titolo del libro dentro il libro - mentre i bambini combinano disastri nelle altre stanze. Non sa, ma se ne accorgerà presto, che il romanzo di Edward è un thriller, e uno dei più spietati e mozzafiato che le sia mai capitato di incontrare. Il viaggio di Tony si trasforma in un incubo. Su suggerimento della figlia, ha deciso di non fermarsi per la notte, di proseguire in modo da arrivare in Maine prima del mattino. Sarà la notte più orribile della sua vita. Un'automobile comparsa dal nulla lo costringe a una strana gara di velocità e infine lo spinge fuori strada. Prima che abbia il tempo di rendersene conto, il professore e la sua famiglia si trovano in balia di tre brutti ceffi dalle intenzioni poco chiare. Susan legge & Tony passa i suoi guai. Per tutto il libro, Wright mantiene i loro piani rigidamente separati, privilegia la chiarezza di esposizione, anche nella prosa, che pure è fine, in certi passaggi magistrale. Per molte pagine la storia di Susan non serve altro che da cornice, da commentario a quella di Tony. Non c'è molto da dire, in effetti, su una donna seduta nel suo soggiorno a leggere. A Tony, in compenso, ne capitano una dopo l'altra - adesso viene separato dalla sua famiglia, adesso è in macchina con uno dei tizi, adesso si ritrova da solo in un bosco, adesso schiva un agguato, adesso ha il timore che la moglie e la figlia siano state maltrattate, stuprate. O peggio. La suspence di Animali notturni trova motivi sempre nuovi di rilancio, è caricata a livelli perfino eccessivi e noi, al pari di Susan, ne veniamo inghiottiti (la frase che mi veniva in mente a ripetizione mentre mi ingozzavo della prima metà del libro era: «Questa è una delle sequenze più trascinanti che io abbia mai letto, una sequenza pazzesca!»). Il thriller congegnato dall'ex marito di Susan si rivela di una violenza inaudita - «che storia cupa, Edward, cupa e pesante» - anche se, a ben vedere, di violenza non c'è quasi traccia. La violenza si subodora, semmai. Tony e la sua famiglia vengono minacciati senza un'arma, neppure un coltellino da tasca, eppure lui è convinto che un'arma debba esserci, da qualche parte. È come se avesse deciso fin dal momento in cui i fari di un'altra automobile sono comparsi nello specchietto retrovisore che quella vicenda sarebbe finita male, che qualcuno li avrebbe torturati. Tutto quanto accade dapprima nella sua mente, è frutto della pura suggestione, ma ha conseguenze atrocemente reali. La paura, sembra dire Austin Wright, ha sempre a che fare con altra paura, vive di continui rimandi a se stessa. Mentre assistevo alla giostra del massacro di Tony, per esempio, mi affioravano alla mente immagini precedenti: i due torturatori in tenuta da golf di Funny Games, lo stupro raccapricciante della figlia di un altro professore universitario in Vergogna, e poi la famiglia Perowne, sequestrata in casa propria, in Sabato. Altre finzioni, altre suggestioni che rinviano a qualcosa di inconoscibile che si trova ancora più in là, nel profondo. Al senso di catastrofe che alberga già in noi e le storie hanno il compito di risvegliare. Anche Susan Morrow se ne accorge: l'impressione che Animali notturni le sta provocando non ha davvero a che fare con la sorte di Tony Hastings, ma con la sua. Il libro «le instilla un'inquietudine, una paura di cui le sfugge l'oggetto, diversa da quella che è presente nella storia, e che sembra venire da dentro». Così Susan inizia a riflettere sulla propria minaccia. Sul suo passato con Edward, sul loro divorzio e poi su Arnold, che probabilmente si trova in compagnia di Marilyn Linwood, la sua segretaria, con la quale ha una relazione. La corrispondenza fra il destino di Susan e quello di Tony, che noi veri lettori attendevamo dal principio, si compie a un livello più alto di quanto avessimo immaginato, attraverso «l'elemento irrazionale» che Susan si è sforzata con tutta se stessa di mettere fuori dai margini, ma che è ancora lì e ora si riaffaccia pericolosamente per mezzo del libro. Le svela la fragilità della sua casa, delle sue relazioni, la precarietà di ogni sicurezza. La sua reazione istintiva è di opporsi. «Susan pensa: se Edward, attraverso Tony o in qualche altro modo, ha intenzione di scuotere la fiducia che ho nella mia esistenza, be', è semplice: resisterò. Resisterò, punto. Ci sono cose nella vita che la mera lettura di un libro non può cambiare». Ma è così davvero? Nel momento stesso in cui lo dice è già spacciata. E noi con lei." (da Paolo Giordano, La lettrice minacciata da un thriller, "Corriere della Sera", 06/10/'11)

Anima e iPad. E se l´automa fosse lo specchio dell´anima?


"Questo di Maurizio Ferraris è un libro inevitabile, come il tracciato di certe rotte di collisione sulla carta nautica. Anima e iPad. E se l´automa fosse lo specchio dell´anima? (Guanda) rappresenta infatti la logica conclusione di un percorso ormai ventennale. Dopo aver esaminato, sulla scia di Derrida, il fenomeno dell´interpretazione (Storia dell´ermeneutica, Bompiani), della tecnologia (Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani) e dell´iscrizione (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza), era giocoforza che le ricerche dello studioso convergessero verso l´iPad, l´oggetto che oggi meglio raffigura il connubio fra fisico e mentale. Tutto comincia dalla constatazione che l´evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell´oralità e alla scomparsa della scrittura, ma, al contrario, a una proliferazione di quest´ultima. Prova ne sia che i telefonini, dopo essersi rimpiccioliti, si sono ingranditi di nuovo fino all´iPad, per avere uno schermo e una tastiera (dunque per poter scrivere, non per poter parlare); sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia superato quello vocale. Dunque, nel suo profondo, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, in cui tutto deve lasciare una traccia ed essere archiviato, col malizioso corollario per cui «la pentecoste è un fenomeno postale: non è la calata dello spirito, è la propagazione della lettera».
Eppure, se senza la tabula (vale a dire quel sistema d´iscrizioni e trascrizioni che forma la cultura) non c´è spirito, pensiero o mente, allora il passo successivo vedrà un progressivo avvicinamento fra anima e automa (il solito iPad). Con un affondo improvviso, Ferraris ci ricorda che non c´è niente di più umano della tecnica (e niente di meno umano di un uomo privo di tecnica), mentre al contempo ci svela una triste sorpresa: chi si aspettava da lei una qualche forma di emancipazione, dovrà ricredersi, constatando, al contrario, come essa si sia trasformata in un nuovo veicolo di sfruttamento. Essere sempre connessi, infatti, implica essere sempre disponibili al lavoro, «come pompieri in caserma». Ma c´è di peggio, in quanto nel nostro mondo vige ormai una registrazione totale. Basti pensare alla nozione di tracciabilità, che garantisce sia la provenienza di un prodotto, sia il controllo degli utenti telefonici e telematici (con buona pace dei criminali intercettati). Morale: non è affatto ovvio che Internet renda stupidi. Quel che è certo è che può rendere schiavi, secondo le abbaglianti premonizioni di Schmitt, Jünger e Foucault.
D´altronde, se l´addetto al call center può essere trasformato in macchina, è perché ogni uomo nasconde una essenza di macchina. Definendo la coscienza un "effetto collaterale", Ferraris cancella via via le differenze fra anima e automa, come nella depressione (che rende sensibili alla ripetizione facendo emergere l´automa che noi siamo) o nella vita quotidiana (che nella maggior parte del tempo trascorriamo a non pensare). Così giungiamo al punto, ovvero al dubbio che noi stessi possiamo essere automi: «Siamo automi spirituali ma liberi, cioè talmente complicati da non sapere di esserlo» ...
Esposto in maniera limpida, serrata e brillante, il testo consta di due parti, ovviamente legate a doppio filo: da un lato l´ampia trattazione vera e propria, dall´altro una circoscritta ma puntuale confutazione delle tesi sostenute dal grande filosofo americano John Searle. Mettiamo tra parentesi la seconda sezione, più complessa e specifica, per osservare come Ferraris miri a superare il dualismo cartesiano fra anima e corpo, spirito e materia, o meglio, per usare un´altra contrapposizione, fra lettera e spirito. Lo scopo? Riabilitare la prima (poiché, come ci spiega con un gioco di parole, «la lettera gode di una cattiva stampa»), e riconoscere il ruolo della materia nella costituzione dello spirito. Ciò significa appunto mostrare l´analogia fra anima e iPad, ossia «dimostrare che la nostra mente è un apparato scrittorio». La lettera, pertanto, non va intesa alla stregua di un accessorio inerte, ma come «la condizione di possibilità dello spirito». Altrimenti detto, materia e forma sono inseparabili, malgrado chi si ostina a immaginare un omino (l´Homunculus) nascosto nel cervello per guidare i nostri atti corporei.
Anche nel chiuso della nostra anima, prosegue l´autore, c´è qualcosa come un documento, una iscrizione, una tabula su cui si forma ciò che chiamiamo idee, intenzioni, coscienza. Da qui una serie di note sull´essenza della tecnica, individuata nella registrazione, ossia nella memoria, la quale non è solo la madre delle Muse (come dicevano i greci), ma del pensiero in generale. Senza registrazione non c´è tecnica, né tantomeno quella "tecnica delle tecniche" che è la scrittura. La memoria, perciò, non è qualcosa che si aggiunge a una psiche già formata, bensì «costituisce la stoffa di cui è fatta la nostra anima». Peccato non poter raccontare le ultime pagine, dove si dispiega un´autentica fantasmagoria, fra tombe e bare a forma di telefonino, spettri telematici, mummie e resurrezioni. Questo corredo funebre non è una bizzarria, ma funge da reperto per comprovare come «la struttura testamentaria sembri costituire l´essenza del web». Il tono spesso ironico non nasconde la gravità di tali implicazioni, come quando Ferraris parafrasa il Vangelo. Protendendo un iPad, per esempio, potremmo dire: «Prendete, questo è il mio corpus» (ovvero l´insieme di tutte le iscrizioni). Se questo è vero, tanto vale arrendersi, e infine riconoscere, negli ultimi modelli della Apple, le nostre nuove Tablet della Legge." (da Valerio Magrelli, Se l'i-Pad ti prende l'anima. Se la nostra coscienza diventa un software, "La Repubblica", 06/10/'11)

martedì 4 ottobre 2011

Radioactive, A Tale of Love and Fallout


"Pensa come un romanziere classico, mette in scena come una tessitrice di collage dada, disegna le sue parole come un'autrice di fumetti. Ecco Lauren Redniss, trentenne ebrea newyorchese che insegna narrazione visiva alla New School e che, oltre ad aver collaborato per anni con il New York Times come illustratrice, ha già al suo attivo due opere compiutissime, esemplari ritratti biografici - la prima, Century Girl, incentrata su una longeva stella del cabaret americano anni '20; la seconda, Radioactive, pubblicata da qualche mese, racconta invece le vite straordinarie di Marie Curie e suo marito Pierre. Il sottotitolo dello splendido libro di Lauren Redniss - A Tale of Love and Fallout - anticipa i motivi di fondo, essendo quella dei coniugi Curie una complicata sequenza di passi esaltanti e drammatici. L'elemento chimico su cui ruota tutta la vicenda è il Radio, naturalmente, ma ciò che colpisce è l'azzardo formale, l'invenzione di un modo attraverso cui si potrebbe davvero raccontare qualsiasi cosa, e aggiungerei che forse il futuro vero dell'editoria cartacea risiede proprio in operazioni come queste, perché la fisicità della carta diventa un mezzo espressivo, dunque un mondo irriproducibile altrimenti, perciò prezioso e non disponibile ad alcuna riduzione. Radioactive brilla anche di notte, come una collezione di foglie narrative fosforescenti: la tecnica con cui è stato realizzato ciascun frammento di quest' opera vale una digressione. All'inizio c'è il disegno puro e semplice, su cui viene applicato un negativo fotografico del disegno stesso, nel quale alcune parti vengono deliberatamente annerite e che poi viene pressato sotto una lastra di vetro ed esposto al sole: i raggi ultravioletti generano sulla pellicola una formazione di ferrocianuro ferrico insolubile, altrimenti noto come Blu di Prussia. Quando si immerge la stampa in acqua e acido citrico, le aree oscurate del negativo - le figure umane, per esempio - emergono in un lucore interno, bianco e trasparente, che sembra sconfiggere e insieme esaltare l'aureola blu che permea ogni pagina di questo racconto. Tutto ciò desta meraviglia, per il numero di coincidenze che mette in circolo, anche al di là dell'indubbia rilevanza storica dei protagonisti. Color Blu di Prussia sono le pillole somministrate alle vittime di contaminazione radioattiva. Aggiungete che Eusapia LR, il carattere tipografico di questo libro messo a punto per l'occasione, prende il nome da una medium italiana che i Curie usavano frequentare, che la luce emessa dal Radio è debolmente azzurra, e che l'esposizione fotografica ha giocato un ruolo centrale nello scoperta della radioattività. Sentirete a quel punto un piccolo trillo luminescente, quasi impercettibile - una festa a sorpresa di coerenza estetica." (da Gianluigi Ricuperati, "La Repubblica", 02/10/'11)

The Curies, Seen Through an Artist’s Eyes (NYTimes)

sabato 1 ottobre 2011

Diario di lettura: Enrique Vila-Matas


"Lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas (Barcellona 1948) è autore di una vasta opera narrativa, provocatoria e raffinata, il cui mondo di riferimento è squisitamente letterario. Si tratta al contempo di un'opera percorsa da una notevole dose di ironia e di irriverenza poiché si prende gioco dei generi letterari - mescolando la serietà del saggio alle imposture del romanzo-, e non esita a far dialogare aneddoti, citazioni e personaggi della storia letteraria o artistica con situazioni e personaggi che sono frutto della sua fantasia. In sostanza, l’insieme dei romanzi, dei saggi e dei racconti di Vila-Matas potrebbero leggersi come un solo libro in cui si narra - da diverse angolature - la storia immaginaria della letteratura moderna e contemporanea. La sua opera, che è stata tradotta in ventinove lingue, rappresenta una delle traiettorie più originali della narrativa spagnola degli ultimi decenni. Vila-Matas oggi, a Monforte d’Alba, viene premiato per tutta la sua opera con il Premio Bottari Lattes Grinzane nella sezione «La Quercia».
Una volta lei ha detto: «Viaggio molto intorno alla mia stanza - modalità sportiva inaugurata da Xavier de Maistre - e anche per uno spazio ancora più ridotto, intorno al mio cranio». E’ tanto noioso il mondo se non c’è uno scrittore per raccontarlo? «Talvolta gli scrittori sono attori che fingono di avere “lo sguardo classico dell’artista”. Però io mi domando: che cosa diavolo sarà questo sguardo? Ricordo che molti anni fa un amico mi raccontò di essere stato a una festa vicino a Cannes, dove c’era un tizio che non gli aveva tolto un attimo gli occhi di dosso. Venne fuori che chi lo guardava tanto era Picasso, sebbene il mio amico fosse troppo giovane per saperlo. Riflettendoci sopra tempo dopo, il mio amico arrivò alla conclusione che l’artista non era consapevole di guardarlo tanto, ma che, semplicemente, stava lavorando. Credo di capire a cosa si riferisse il mio amico: era quello lo sguardo tipico dell’artista. Picasso si trovava alla festa ma anche altrove. L’artista guarda, vede la gente, ma solo per scriverne o per dipingerla. In fondo, della gente, gli importa ben poco».
In merito all’alto grado di intertestualità delle sue opere: grazie agli scrittori e alle citazioni che entrano nei suoi libri, il lettore finisce per avere l’impressione che lei sia una specie di «autore plurale». Non prova per nulla il narcisismo autoriale? «Per paradossale che possa sembrare, ho cercato per anni la mia originalità di scrittore sempre attraverso l’assimilazione di altre voci. Le idee o le frasi acquisivano un altro significato nel momento in cui, leggermente ritoccate, venivano collocate in un contesto insolito. Per anni ho lavorato così, è stato il mio metodo, la lunga strada che ho scelto per arrivare a essere un autore».
Potrebbe dire di se stesso - come fa il protagonista di Dublinesque - la mia biografia è la mia biblioteca? «In Dublinesque ho voluto risparmiare ai lettori che si avvicinano per la prima volta alla mia opera il problema di trovarsi davanti un modo di pensare il mondo che è molto letterario e può di fatto sconcertarli. Ho pensato che se alla prima pagina li avessi avvertiti che il mio protagonista, l’editore Riba, aveva la tendenza a leggere la vita come un testo letterario, non li avrebbe più stupiti quanto quell’uomo avrebbe visto o pensato nelle pagine successive. E’ come se all’inizio di un romanzo dichiarassi che il mio protagonista ha una dipendenza dalla coca-cola mista a cacao. Così, quando il personaggio si accingerà a consumare l’orribile bevanda, il lettore non si meraviglierà, continuerà a leggere, e può anche darsi che gli sembri normale berla».
Crede, come Samuel Riba, che stiamo per fare il funerale all’era Gutenberg, oppure pensa, come il narratore di Bartleby, che «quel che c’è sempre stato si ripete mortale nel nuovo, che passa rapidissimo»? «La letteratura sembra ogni giorno più residuale, al pari dell’intelligenza umana. Conviviamo sempre più quotidianamente con il rumore di fondo di crisi economiche, invasioni dei Paesi arabi, tartarughe Ninja, corruzione mondiale, crimini orrendi, terremoti devastanti, Borse europee in caduta libera ... E’ difficile, in queste circostanze di massiccia informazione “reale”, accorgersi di qualcosa di così antico come una buona storia inventata. Ci sono anche coloro che pensano che per scrivere sia necessario mettersi in competizione con tutto questo chiasso mediatico. Invece è il contrario. Un romanzo può essere unicamente vincolato al mondo fittizio il che, sia detto per inciso, è conseguenza del fatto che finzione e vita si escludono a vicenda, almeno
secondo la mia personale esperienza. Non credo che convenga molto mescolare finzione e realtà: la letteratura è invenzione. Quelli che lavorano con la presunta realtà della vita reale insultano sia l’arte che la verità».
In Italia si dibatte molto sullo stile letterario dei giovani romanzieri e sul fatto che alcuni di loro siano scrittori senza maestri. C’è qualche giovane scrittore
italiano che lei apprezza? «Giuseppe Montesano e Andrea Bajani sono due autori delle nuove generazioni che leggo e che mi interessano enormemente. La loro scrittura ha un indubbio polso letterario, è ambiziosa e si colloca all’interno di filoni molto importanti della vostra tradizione culturale. In merito ai giovani scrittori che dicono di prescindere dall'eredità letteraria li vedo destinati al silenzio o al nulla».
La storia letteraria del ’900, dall’ermetismo modernista alle esasperazioni
avanguardiste, da Joyce a Beckett a Céline sembra nascere «contro» La Moda. A quanto pare, tuttavia, la battaglia dev'essere stata persa se pensiamo alla produzione in serie di romanzi gotici e altre inezie subito best seller. Lei si sente uno scrittore di élite? «Si è detto di me che sono "lo scrittore minoritario più letto al mondo". Devo considerarmi un autore di culto? Forse. Fatto sta che ci sono libri (o autori) che non attraggono tutti e che sono letti soltanto da minoranze scelte. Viaggio al termine della notte, di Céline. Ferdydurke, di Gombrowicz. L’uomo senza qualità, di Musil. Locus Solus, di Roussel. Jakob von Gunten, di Walser. Esploratori dell’abisso, la mia raccolta di racconti ...».
«Postmoderno» è un aggettivo che per brevità o, peggio, per superficialità, è stato affibbiato alla sua opera. Che ne pensa? «Non ho mai capito cosa intendano per postmoderno. A quanto pare, e per motivi a me ignoti, Borges, Beckett e Nabokov, per esempio, sono postmoderni. Tuttavia, in Spagna, questo aggettivo è stato usato dai critici, per un bel pezzo, in modo spregiativo. Quando hanno cominciato a togliergli tale sfumaturae a definirmi così ho cominciato, comunque, a preoccuparmi. Il problema è il fastidio che mi provoca ogni genere di etichettatura. Può ostacolare la libertà creativa di un autore, danneggiare la sua capacità di sorprendere e, in sostanza, di scrivere quel che più gli piace. Ammiro molto quel giorno nella vita di Bob Dylan, a Newport, nel 1965, quando tutti lo consideravano un cantante folk e lui si presentò con una rumorosa band elettrica che nessuno dei suoi ammiratori comprese».
Potrebbe dare una mano a quella lettrice che dal suo blog sta disperatamente setacciando la rete in cerca di notizie sullo scrittore ceco Vilém Vok - autore di citazioni folgoranti - che appare in Dublinesque? «Ma certo. Vilém Vok è uno psichiatra torinese al quale rubo i clienti quando vengono a Barcellona e passano a trovarmi come lui ha consigliato loro di fare. Io li faccio accomodare in salotto, dove ho un divano rosso identico a quello che ha Vilém nel suo studio di Torino. Credo che potrei tranquillamente guadagnarmi la vita limitandomi a rubare clienti al signor Vok»." (da Andrea Cortellessa, “Io, esploratore dell’abisso nelle Langhe”, "TuttoLibri", "La Stampa", 01/10/'11)

Si sente l'esigenza di un nuovo patto tra chi scrive e chi legge. La proposta dello scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas ("Il Sole 24 Ore")