lunedì 30 giugno 2008

La lettura di Yehoshua alla Milanesiana: "La scintilla degli ebrei, il fuoco ispirato da Dio"


"Il fuoco è l'unico elemento che non ci è stato dato dalla natura ma che l'uomo ha conquistato da sé e preserva. Non è quindi oggetto di contrasti come la terra, o l'aria, ma è un elemento asservito all'uomo. Non a caso è al centro di così tanti miti, in culture differenti e distanti tra loro, che narrano dello scontro tra l'uomo e forze vigorose e malvage per impossessarsene. A partire da Prometeo, duramente punito per aver sottratto il fuoco agli dei e averlo donato agli umani, fino ad arrivare al polinesiano Maui che discese negli inferi per imparare ad accendere il fuoco sfregando due legni. Nella tradizione ebraica non vi è menzione di lotte contro forze malvage per appropriarsi del fuoco. E' l'uomo con la sua intelligenza a produrlo. Nei sei giorni della creazione Dio creò la luce, non il fuoco. Fu l'uomo, plasmato nel sesto giorno e ispirato da Dio, che la sera del sabato sfregò due pietre, sprigionò una scintilla e poi una fiamma. Ancora oggi gli ebrei osservanti evitano di avere contatti con il fuoco o di accenderlo di sabato. Attendono che in cielo siano apparse almeno tre stelle per avere la certezza che il sabato sia finito e poter riattivare il fuoco recitando una benedizione. Persino io, ateo convinto nonostante sia cresciuto in una famiglia in cui si rispettavano le tradizioni ebraiche, ancora oggi, a causa del timore religioso inculcatomi dai miei genitori, faccio fatica a fumare di sabato l'unico sigaro che mi concedo una volta al giorno. Nelle ore crepuscolari mi ritrovo a scrutare impaziente il cielo per vedere quando appariranno le tre stelle per potermi godere il mio piccolo sigaro.[...] Concedetemi di concludere con una nota personale. Nelle mie opere di tanto in tanto, il fuoco fa la sua comparsa. L'ultimo mio romanzo è intitolato appunto Fuoco amico e il fuoco vi appare con molteplici contrastanti significati. Ma è in un racconto scritto agli inizi della mia carriera che ho dato alle fiamme un ruolo da vero protagonista. Il racconto si intitola Di fronte ai boschi è stato scritto nei primi anni Sessanta, più di quarantacinque anni fa e tocca il tema profondo della negazione e della rimozione da un punto di vista sociale e politico. E' la storia di un eterno studente, ormai non più giovane, che non riesce a portare a termine la sua tesi di laurea perché preferisce passare il tempo festeggiando con gli amici o intrattenendo relazioni amorose. I suoi compagni più devoti 'organizzano' per lui un periodo di isolamento: gli trovano un lavoro come guardaboschi e gli permettono di stare solo con i suoi libri e i suoi appunti e di terminare i suoi doveri accademici. La mansione che gli è affidata è facile, consiste nello stare su un'alta torre di vedetta che domina foreste piantate di recente e dare l'allarme in caso di incendio. In quel lugoo l'eterno studente trova un vecchio arabo dalla lingua mozzata, incaricato di piantare piccoli alberi. Poco alla volta il giovane si rende conto di non riuscire a concentrarsi negli studi. Scopre anche che l'arabo era residente in un villaggio distrutto durante la guerra di indipendenza del nuovo Stato ebraico e sulle cui macerie è stata piantata la foresta. Quando domanda al suo superiore come si chiamava il villaggio e come è stato distrutto, costui nega che sia mai esistito. A provocare lo sdegno dello studente non è il fatto che il villaggio sia stato raso al suolo, e nemmeno che una nuova foresta ne copra i resti, ma il diniego del suo superiore, il suo rifiuto ad ammettere il passato. Per esprimere il proprio biasimo per quell'atteggiamneto e condannarne l'immoralità, lo studente, spinto anche dalla frustrazione di non essere in grado di portare a termine la tesi di laurea, incoraggia il vecchio arabo a bruciare la foresta e a riportare alla luce i resti del suo villaggio. [...]" (da Abraham Yehoshua, La scintilla degli ebrei, il fuoco ispirato da Dio, "La Repubblica", 30/06/'08; dall'intervento di Yehoshua alla Milanesiana)
La Milanesiana su Wuz

Firenze a portata di mouse


"E' giunto a compimento un programma di digitalizzazione del più antico fondo diplomatico dell'Archivio di Stato di Firenze: 85mila pergamene dal sec. VIII al sec. XIV, che testimoniano la vita delo Stato, delle magistrature, dei comuni, delle congregazioni religiose, delle grandi famiglie e che costituiscono, nel loro complesso, il più ricco tessuto documentario della vita economica e civile, lungo tutto il Medioevo, della Toscana e delle sue relazioni europee. Come è noto, alle origini dell'Archivio di Stato di Firenze è il motuproprio del principe Leopoldo il quale il 24 dicembre 1778 disponeva che, per evitare 'il pericolo in cui sono di disperdersi gli antichi documenti manoscritti in cartapecora, dei quali molti se ne trovano negli archivi di alcuni magistrati dove casualmente sono stati trasportati, molti altri si trovano nei monasteri, conventi, ed altri luoghi pii [...] e altri restano presso le particolari famiglie esposti al mal uso che può farne una serie di possessori, tra i quali ve ne saran sempre di quelli che non ne conoscono il valore'; 'ed avendo in veduta li importanti lumi, che tali documenti possono apportare non solo all'erudizione, ed all'istoria, quanto ancora ai pubblici e privati dritti, ha determinato di stabilire in Firenze un pubblico Archivio diplomatico'. Con lo stesso motuproprio il principe Leopoldo ordinava che 'in questo archivio nel termine di quattro mesi [...] siano depositati tutti gli antichi diplomi e documenti sciolti in cartapecora che si trovano negli archivi di tutti i magistrati, e tribunali della città di Firenze e di tutto lo Stato firoentino'. Nasceva così, forse per la prima volta nell'età dell'Illuminismo, un'istituzione archivistica di tipo nuovo, aperta al pubblico: non solo dunque destinata alla conservazione, ma concepita come luogo di studio dei documenti stessi che furono fin dall'inizio inventariati e regestati. E se già a meno di un anno dall'apertura dell'Archivio, nel 1780, il patrimonio documentario raggiunse 48mila unità, esso venne via via accrescendosi con l'Archivio delle riformagioni (relative alla Repubblica di Firenze) e con quello Mediceo della segreteria di Stato, accogliendo altresì i depositi dei conventi soppressi e dei privati: oggi l'Archivio di Stato, nel suo fondo diplomatico, possiede più di 144mila documenti, fino al XIX secolo. [...] Si tratta di un patrimonio enorme che si aggiunge al già digitalizzato Archivio mediceo avanti il principato: la digitalizzazione permette non solo un minore ricorso alla diretta consultazione degli originali spesso deteriorati dal tempo, ma facilita una loro consultazione diretta dai più lontani luoghi di studio giungendo sul tavolo degli studiosi con tutte le caratteristiche originali di formato e colore. Questo nuovo ordinamento digitale, permesso da una felice legge del 1992 per la digitalizzazione dei fondi conservati presso gli Archivi di Stato, viene a costituire anche un tassello di quello che potrà essere un museo virtuale che ricongiunga testi e opere variamente collocati in sedi diverse: un vero 'teatro della memoria' per la nostra storia. C'è da augurarsi che, malgrado le difficoltà di bilancio, il programma di digitalizzazione del Diplomatico (che si avvale anche della collaborazione scientifica della Scuola Normale Superiore di Pisa) possa proseguire fino ai docuemnti del XIX secolo, perché non sia interrotto un cammino coraggiosamente intrapreso." (da Tullio Gregory, Firenze a portata di mouse, "Il Sole 24 Ore Domneica", 29/06/'08)

Ricordo di Luigi Meneghello (1922 - 26 giugno 2007)


"Luigi Meneghello ha scritto molti bei libri, e due in particolare che sono ormai dei classici, e ha scritto molte e acutissime (e anche spesso divertentissime) osservazioni su quei libri e sui temi che essi affrontavano, in particolare sul primo, Libera nos a malo. Si parla spesso male di un'iniziativa 'piacentina' degli anni Sessanta: la rubrichina (solo due brevi elenchi di titoli) in cui si segnalavano i 'Libri da non leggere' e però anche i 'Libri da leggere', e naturalmente ci si ricorda solo della parte negativa e si dimentica che in quella positiva apparvero i titoli più insoliti e nuovi della fioritura letteraria di quegli anni, che era in buona parte soffocata dall'invadenza 'neo-capitalistica' degli avanguardisti '63. Ho scoperto Libera nos a malo grazie a quella rubrica, ed era ovviamnete un 'Libro da leggere'. Un libro magnifico, l'addio a un'Italia che stava rapidamente scomparendo e di cui noi eravamo figli, l'Italia che avevano amato, per esempio, Carlo Levi (riconoscendo l'armonia e compiutezza della sua civiltà, varia e ricca, e però di radici comuni per le sue componenti contadine e artigiane) e Pier Paolo Pasolini con nostalgia struggente per quel che ne vedeva morire. E' tra loro - diciamo tra Un volto che ci somiglia di Levi e Amado mio di Pasolini - che mi viene di collocare Libera nos a malo, che è ben più ambizioso di quei testi, che è una formidabile sintesi, geniale per capacità di scavo e per ironica vitalità. C'era in Malo qualcosa che ci riguardava tutti, tutti noi venivamo da Malo: in Malo c'erano la nostra storia, le nostre contraddizioni e i nostri conflitti, la nostra bellezza e la nostra sgraziataggine, la nostra fame e la nostra sazietà, la nostra fatica e la nostra festa. C'era l'umile Italia che non era ancora stata travolta dalla malefica ossessione che, appena qualche anno prima, all'uscita dalla guerra fredda, nel pieno dell''era della plastica' (Vonnegut) e nell'irrompere di un nuovo corso della storia che in Italia chiamammo miracolo economico, Chiaromonte battezzò 'egomania' nel Tempo della malafede e più tardi Lasch avrebbe definito una volta per tutte come 'cultura del narcisismo'. La comunità era la chiave. L'esperienza individuale, anche la più autonoma, era inserita, anzi prodotta, in una rete di legami che costituivano un insieme. Per quasi tutta l'Italia si poteva ancora parlare di civiltà comunale e in una gran parte dell'Italia, ma non in tutta, l'ordine economico era quello della povertà e non della miseria, una distinzione che è tornata in auge di recente con Ivan Illich. Malo dunque come sintesi e metafora dell'umile Italia, Malo come nostro passato e come nostro emblema. Come nostra 'lingua' e non soltanto dialetto. Malo che ormai frotte di studiosi hanno affrontato e studiato nei suoi tanti aspetti, anche se a volte senza poterne più cogliere la novità: la rappresentatività collettiva, e quel valore che ci sembrò non locale ma nazionale. Tra le conseguenze di Malo - degli eterni conflitti della storia e delle eterne differenze tra chi ha e chi non ha - ci sono anche I piccoli maestri, l'altro capolavoro. In Malo infatti non poteva non allignare anche l'eterna 'autobiografia della nazione', il fascismo. Abbiamo presto condiviso in passato con Italo Calvino la convinzione che il grande romanzo sulla Resistenza fosse Il partigano Johnny di Fenoglio, venuto da Alba, una Malo delle Langhe. Ma subito dopo - o magari al fianco - ha trovato posto ben presto I piccoli maestri, dove la dimensione del gruppo prevale sul personaggio, e il tono è dell'avventura adolescente, del romanzo di formazione. Anche qui però c'entra e come la politica, c'entra la polis. Mi commosse sorattutto e mi commuove ancora di I piccoli maestri, il confronto generazionale, il passaggio di testimone e di consegna, il concordare di partenze diverse dentro una storia comune, il personaggio-chiave di Toni Giuriolo di cui, letto il romanzo, chiesi notizie a Aldo Capitini suo maestro e mio, anche se appartengo a una 'leva' successiva a quella dei 'piccoli maestri' allievi di Giuriolo. Di lui Meneghello scrive che 'era un italiano calmo. Sdrammatizzava le cose che noi eravamo inclini a drammatizzare'. Certamente Giuriolo era un italiano di solido ethos ('Ciò, che ethos gavìo vialtri?' è una battuta chiave per capire il 'piccolo maestro' Meneghello ...), addirittura un italiano non violento e che però prende parte (al contrario di Capitini) alla Resistenza, e si assume anzi le responsabilità di un capo, anche senza sparare. [...] Ecco, oltre la meraviglia e lo splendore del linguaggio meneghelliano, il nucleo della sua opera potrebbe venir riassunto in queste due 'voci', Malo e Giuriolo. Il ritratto di una polis e un'idea di politica, di intervento nella storia e nella realtà. Tra Libera nos a malo e I piccoli maestri c'è il filo rosso della Storia con la maiuscola, perché anche la piccola storia è grande storia. Tra Malo e l'Altopiano - che è poi lo stesso del nostro amato e compianto Rigoni Stern, mentre la pianura e le colline sono le stesse dei nostri amati Zanzotto e Bandini - si consuma la storia, e si cambia di scenario. [...] Non mi è mai stato chiaro del tutto perché Meneghello abbia scelto così presto di esiliarsi a Reading, ma certamente la delusione per ciò che Malo e l'Italia erano diventate o erano destinate a diventare c'entrò per qualcosa, e forse per molto o per moltissimo. In Inghilterra le responsabilità erano altre e non erano così pressanti e 'sociali' di fronte a una Malo-società che diventava il Nordest e di fronte a un'Italia dove i Giuriolo e i Capitini non potevano che restare minoranza. Si parla ovviamente di minoranze etiche ('benefiche', come diceva Salvemini contrapponendole alle 'malefiche'), e la nostra domanda dovrà continuare a essere la stessa di Meneghello: 'Ciò, che ethos gavìo vialtri?'." (da Goffredo Fofi, Di Malo in peggio, "Il Sole 24 Ore Domenica", 29/06/'08; dall'intervento tenuto al convegno "Tra le parole della virtù senza nome. La ricerca di Luigi Meneghello")
"Meneghello: Fiction, Scholarship, Passione Civile", convegno all'Università di Reading

domenica 29 giugno 2008

Alice Munro, la Signora del racconto


"Arriva dal Canada Alice Munro. Quando nessuno ormai ci sperava, ha detto di sì, lei che non ama affrontare lunghi viaggi, e sarà a Pescara, la prossima settimana, per ritirare il premio vinto con il suo ultimo volume, La vista da Castle Rock (Einaudi),a coronamento di una straordinaria carriera che la colloca tra i massimi scrittori di short stories in lingua inglese del XX secolo. Autobiografia e storia di famiglia, momenti di vita vissuta ed episodi dell'Ottocento, trattati con una tecnica sui generis - realistica nell'effetto complessivo, ma espressionistica nel montaggio - fanno di questo libro un memoir e allo stesso tempo una ricostruzione in forma di narrazione. La sola (siamo più di uno a esserne convinti) che possa confermare il famoso dictum di William Faulkner sul vecchio Sud: 'Il passato non è morto: non è nemmeno passato'. Alice Munro si allontana per una volta, e solo in parte, dal paesaggio delle precedenti raccolte. Ma a ben vedere cambiano solo la scala e l'orizzonte della memoria. Dalle strade delle piccole comunità disseminate nelle campagne dell'Ontario alla rotta percorsa dagli antenati della Munro due secoli addietro - dalla Scozia al Nuovo Mondo - si passa a valori cento volte più grandi. Ma i modi di presentazione - il suo inconfondibile stile, ingannevolmente semplice - sono sempre gli stessi. Un realismo 'frammentato', in cui il racconto, piccole unità di poche pagine, terse e lineari, si interrompe di continuo, torna su se stesso, aggiunge un episodio che risale a venti o trent'anni prima. Perché è così che le cose succedono ed è così che, immaginando di attraversare un piccolo villaggio, chi abita lì ci farebbe conoscere la gente: 'Vedi quella donna? Quando era ancora vivo il marito, prima della guerra si dice che ... Ma poi ...'. Pettegolezzi, insomma. Il bisogno di sapere i fatti altrui: per misurarsi sul piano morale o per sollevarsi lo spirito: per imparare la lezione o per uno scopo edificante. Almeno in apparenza. Ma è ciò che i professori, scuotendo la toga, chiamano 'Lust zu Fabulieren'. La necessità dell'arte. Qualcosa che è correlato, in chi ascolta, a un punto della mente i cui pensieri, ricordi e premonizioni convivono. Ed è forse per questo, che i suoi racconti, ellittici come sono, ci sono subito familiari. Al pari dei suoi pari - che, come è stato detto, sono nientemeno che il Flaubert dei Trois contes e Tolstoji, Checov e Katherine Mansfield - Alice Munro, nostra candidata (e non solo nostra) al Nobel, si colloca ormai tra i classici (e si sta concretando il progetto di un Meridiano Mondadori). Né passée né passatista, è per sua stessa definizione, una scritrice 'anacronistica', al di sopra del tempo, che tratta il presente come fosse il passato (al contrario di quanto si è sempre fatto, per tradizione, nel romanzo storico) e scrive di entrambi con il medesimo inchiostro. Il racconto inedito (Something I've been meaning to tell you), di cui pubblichiamo qui a fianco la conclusione, è una tipica storia 'munroviana'. C'è un amore segreto di cui qualcuno sa o sospetta ma non dice. C'è una bottiglia di veleno per topi nella credenza, che desta sospetti. E c'è il desiderio, da parte del personaggio attraverso i cui occhi vediamo le cose, di conferire e confrontarsi con chi le vive accanto, ma che rimarrà tale, un desiderio, appunto (e un rimpianto), anche oltre la fine della storia. Perché i segreti del cuore altrui, in quel mondo circoscritto, rimangono paradossalmente inviolabili. E non si tratta soltanto di convenzioni. In attesa di leggere Le lune di Giove (The moons of Jupiter), annunciato da Einaudi per il prossimo novembre, non ci resta che darle il nostro più caloroso benvenuto." (da Luigi Sampietro, La Signora del racconto, "Il Sole 24 Ore Domenica", 29/06/'08)

sabato 28 giugno 2008

Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma di Saverio Ricci


"Più che mai determinata, dopo lo scisma protestante, a condurre una lotta capillare contro l'eresia, la Chiesa di Roma mise a punto un grandioso sistema censorio volto a preservare l'ortodossia del mondo cattolico. Non si trattava soltanto di bloccare l'importazione delle opere dei pensatori riformati o sequestrare dalle biblioteche pubbliche e private i libri che si erano rivelati pericolosi, a cominciare dalle traduzioni dei testi sacri in lingua volgare che, consentendo ai lettori comuni una conoscenza diretta delle Scritture, li incoraggiava allo spirito critico e alla controversia. Bisognava controllare l'intera vita intellettuale del mondo cattolico, sottoponendo a una severa censura preventiva qualsiasi testo destinato alla pubblicazione e innescando di conseguenza negli scrittori un meccanismo di auto censura di cui è impossibile oggi misurare la portata. [...] Se non è qui possibile rendere conto della complessità del quadro storico culturale e delle preoccupazioni teologiche che fanno da sfondo a Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma (Salerno), i due importanti capitoli consacrati da Ricci a Montaigne ci consentono di cogliere le esitazioni della Chiesa sulle strategie filosofiche da seguire come pure le contraddizioni che la paralizzavano dall'interno, costringendola a un apolitica di compromesso non smepr eproficua. Come scrive infatti Ricci 'la Chiesa cattolica avvertì precocemente un sentore di eterodossia negli Essais del signore di Montaigne, non appena questi e il suo libro arrivarono a Roma, ma dimostrò molto tardi piena contezza del pericolo che quel libro avrebbe potuto costituire per la fede. Lo inserì infatti nell'Indice dei libri proibiti quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, sulla base di una nuova lettura e in un contesto molto mutato'. [...]" (da Benedetta Craveri, La Chiesa contro Montaigne, "La Repubblica", 28/06/'08)

Armando Torno: "Petrarca, la Francia batte l'Italia"


"In Italia sono disponibili poco più di 300 titoli 'di e su' Petrarca. Tantissime edizioni del Canzoniere, annali, studi: si trova un po' di tutto cercando con pazienza in rete, persino audiolibri. Mancano però le sue opere complete, a meno che si voglia leggerle su cd-rom (realizzato dalla Lexis avvalendosi anche delle stampe cinquecentesche di Basilea), così come non si trova il poema l'Africa. L'edizione nazionale è ferma al 1964, ma case editrici quali Le Lettere - con la collana Petrarca del centenario - o Aragno stanno dedicando parte del loro catalogo agli scritti del sommo poeta e umanista. Diremo inoltre che la ricordata serie della fiorentina Le Lettere, nella menzionata collana avviata nel 2004, rappresenta quanto di meglio circola da noi per cinque opere petrarchesche (sette i libri pubblicati), alle quali vanno aggiunti due di postille. Figurano nel sito anche l'anastatica dell'Africa (edizione del 1926) e delle lettere Familiari (del 1942), ma entrambe sono dichiarate esaurite. Ora, chi volesse un'edizione dell'Africa, il cui argomento è preso dalle guerre puniche e alla quale Petrarca lavorò a lungo senza mai completarla, credendo di affidare ad essa la sua fama, potrebbe trovarne addirittura due in una libreria o in un sito francesi: quella curata da Rebecca Lenoir per l'editore Millon (che non ha suscitato entusiasmi); e i primi cinque libri del poema, con testo critico e traduzione, nella cura di uno dei maestri della Sorbona, Pierre Laurens. Quest'ultima è uscita nella collana Les classiques de l'Humanisme della parigina Les belles lettres. L'opera sarà completa nel volgere di qualche mese e ci sono già le bozze. [...] Morale: non è nostra intenzione entrare in polemica, né elogiare case come le Edizioni di Storia e Letteratura o Antenore che mantengono un catalogo di qualità con questo genere di testi, ma far presente una situazione che, grazie anche a internet, è cambiata rispetto al tempo che fu. Gli umanisti, Petrarca in particolare, sono un nostro patrimonio. Se oltralpe fanno edizioni di italiani basandosi su studi italiani e qualche volta facendoli curare addirittura da italiani, forse gli italiani potrebbero fare qualcosa di più." (da Armando Torno, Petrarca, la Francia batte l'Italia, "Corriere della Sera", 28/06/'08)

La bibliotecaria di Claudio Ciccarone


"Sarà la rivincita di Marta la tarma sul topo Firmino? E dello scrittore e giornalista Claudio Ciccarone sull'americano Sam Savage? Dal 2 luglio torna in libreria La bibliotecaria (Fanucci), il romanzo dell'autore napoletano (pubblicato da Guida nel 2000) che, come ha scritto Gian Paolo Serino su "Repubblica" del 4 giugno, avrebbe 'ispirato' Firmino il best seller che nel nostro Paese ha già venduto cinquantamila copie. Dal canto suo Einaudi, editore italiano di Firmino, ha replicato così: 'Il mondo è pieno di gente che legge e scrive. Alcuni di loro, quando vedono un bestseller, pensano sia uguale al dattiloscritto che hanno nel cassetto o al libro che si sono fatti stampare ...'. Anche se di fatto non è mai arrivato nelle librerie italiane (ne furono stampati solo mille esemplari), La bibliotecaria era però finito nelle raccolte della Stanford University e a Yale, dove Savage insegnava. E proprio qui lo scrittore, che legge l'italiano, potrebbe averlo scovato. La storia di Firmino, il topo che smette di mangiare i libri per diventare un famelico lettore, è uguale a quella dell'insetto protagonista del romanzo di Ciccarone, così come i riferimenti alla seconda Guerra mondiale e all'attrazione sessuale per la sorella (Marta è una tarma lesbica). Ma le somiglianze sono tante, fino ai calchi linguistici. Scoppiato il caso, è scattata la gara fra grandie piccoli editori per aggiudicarsi La bibliotecaria. Alla fine l'ha spuntata Sergio Fanucci, che annuncia un lancio in grande stile: quarantamila copie e distribuzione capillare. Così, prima delle decisioni dei giudici sul plagio, i lettori potranno confrontare i due romanzi. Su consiglio di Fanucci, Ciccarone ha rimaneggiato il finale. Mentre nell'edizione del 2000 Marta incontrava una Napoli in pieno Rinascimento, ora si imbatte nei cumuli di spazzatura nelel starde. L'avesse scritto prima, il topo Firmino avrebbe trovato altro cibo (letterario) per i suoi denti. " (da Marco Romani, La tarma Marta alla riscossa contro il topo Firmino, "Il Venerdì di Repubblica", 27/06/'08)

venerdì 27 giugno 2008

Alberto Manguel: "Odissea, quale canzone cantano le sirene"


"Narra Svetonio che l'imperatore Tiberio quando si trovava tra professori di letteratura greca, rivolgeva loro tre domande, le quali, secondo l'imperatore, non avevano risposta. La terza era la seguente: 'Quale canzone cantavano le sirene?'. Domanda che, come osservò quindici secoli dopo Sir Thomas Browne, 'sebbene enigmatica, non va al di là di una qualunque congettura'. Per tentare una risposta, vediamo quali sono le caratteristiche di tale canto. In primo luogo, è pericoloso, dato che ci attrae irrimediabilmente, facendoci dimenticare il nostro mondo e le nostre responsabilità. In secondo luogo, è rivelatorio, giacché parla di quel che è accaduto e di quel che accadrà, di quello che conosciamo e di quello che non possiamo conoscere. E infine, può essere capito da tutti, gente del luogo e stranieri, greci e barbari, dato che la maggior parte degli uomini naviga in mare e nessuno sa se incontrerà le terribili sirene. In cosa consiste il pericolo di questo canto? Nella melodia o nelle parole? Nel suono o nel significato? E se tutto rivelano, le sirene conoscono il loro tragico destino, o come specchi di Cassandra alle cui parole nessuno crederà, sono esse stesse le uniche insensibili alla loro musica? E qual è quella lingua che dev'essere universale? Immaginiamo, come Platone, che non siano parole ma note musicali quelle che le sirene cantano, qualcosa di quella musica pura sarà sufficiente a dargli senso. Un qualcosa trasmesso dalle voci delle sirene (e che non può ridursi a puro ritmo o pura intelligenza) che chiama chi le ascolta come fa un animale in calore, emettendo un suono impossibile da tradurre se non come eco di se stesso. La Chiesa del Medioevo vide nelle sirene le tentazioni che provocano l'anima nella sua ricerca di Dio, e nelle loro voci l'eco dell'animale che ci allontana dal divino. Ma è forse per quella stessa ragione che il senso del canto delle sirene, a differenza del senso della volontà di Dio, 'non va al di là di una qualunque congettura'. La questione, credo, riguarda alcuni aspetti del problema centrale del linguaggio. Le lingue che si sviluppano nel mondo omerico e pre-omerico, sotto l'influenza di migrazioni e di conquiste, con tentativi di scrittura e di creazione letteraria, furono sempre lingue 'tradotte'. Ovvero, lingue che per ragioni di guerra o di commercio, servivano a stabilire contatti sia tra chi le condivideva sia con il forestiero, il barbaro, colui le cui parole risuonavano alle orecchie dei popoli della Grecia come un 'blabla' bestiale. Il passaggio da un vocabolario a un altro per comprendersi reciprocamente, è stato (ed è ancora) uno dei misteri essenziali dell'atto intellettuale. Se una comunicazione semantica, orale o scritta, colloquiale o letteraria, dipende dalle parole che la costituiscono e dalla sintassi che la governa, cos'è che preserviamo quando le sostituiamo con un'altra sintassi e con altre parole? Insomma, cosa resta quando cambiamo il suono, la strutura, i vocaboli, il peso culturale, le convenzioni linguistiche? Cosa traduciamo quando diciamo 'tradurre'? Né senso né suono allora, ma qualcosa che sopravvive alla trasformazione di entrambi, quel che resta quando togliamo tutto. Non so se quell'essenza può essere definita, ma forse per analogia, possiamo intenderla come il canto delle sirene. [...]" (da Alberto Manguel, Odissea, quale canzone cantano le sirene, "La Repubblica", 26/06/'08; parte dell'intervento di Manguel alla Biblioteca Classense di Ravenna)

giovedì 26 giugno 2008

Enzo Siciliano: diario italiano 1997-2006. Una scrittura civile


"Chissà quanti libri, brevi e compiuti, si potrebbero ritagliare da queste diffuse note che lo scrittore ha steso giorno per giorno quasi parlando a se stesso. Mi capita di pensarlo scorrendo il Diario italiano 1997 - 2006 di Enzo Siciliano (Perrone, "Biotòn") che esce in questi giorni. E' un'opera che raccoglie i pensieri di un intellettuale giunto alla fine della vita (l'ultima data che vi compare coincide infatti con la sua morte, giugno di due anni fa) rafforzando così nei lettori l'impressione di trovarsi di fronte, più che a un mucchio di pagine, a un uomo. Nove anni finali, dunque che riassumono un'esperienza estesa lungo mezzo secolo, la seconda metà del Novecento. Le confessioni di un testimone. Il racconto, reso in prima persona, di eventi e riflessioni che riguardano una generazione. Una sequenza di possibili 'libri nel libro', dunque. Il primo dei quali, per la passione che lo anima, ha per oggetto la politica. E' su questo libro 'ritagliato' che voglio soffermarmi. Esso non contiene, è ovvio, un rapporto oggettivo sui fatti della recente vicenda italiana, ma presenta una loro trasposizione in chiave di bilancio esistenziale. Attraverso scritti, aneddoti, atteggiamenti, dichiarazioni, polemiche, sagome di persone care, amici e avversari, si riverbera in questi fogli un universo che fu quello di un intellettuale straordinariamente presente e partecipe in tutti i meandri del suo tempo. Una materia a suo modo omogeneo, connotata da un colore inconfondibile: il disinganno. Si coglie infatti, di riga in riga, una velata malinconia, come di un patrimonio disperso. Eccoci trasportati negli anni del lungo dopoguerra italiano, una stagione che oggi appare quasi mitologica, e che l'autore visse in maniera precoce. Siciliano ne rievoca adesso i valori che gli appaiono disattesi e perfino derisi, quasi riflettessero una colpa o un delirio in contrasto con la millenaria anima italiana. Il pezzo più prezioso di quel tesoro dissipato è ai suoi occhi la Costituzione, il foedus senza il quale 'saremmo oggi un paese peggiore': un patto che, 'non siglato dai fascisti', ha permesso loro 'di non venire cacciati dalle proprie case' consentendogli così di scoprire, benché immeritevoli, 'i benefici della democrazia'. Ma i fascisti non restano i soli nel manifestare questa sorda ingratitudine. Quanto le loro aggressioni alla "Carta repubblicana del 1948" siano logoranti non viene percepito dai 'revisionisti'. Sono loro, in questo Diario italiano la principale controparte polemica: al punto che ad essi - alla loro sostanziale 'messa in mora della parola ideologia - sembra addebitarsi quel rewind della storia' che ha prodotto 'l'anemia morale' di cui soffre l'Italia. Un Paese a 'a pile scariche', in preda a un 'pensiero debolissimo', esposto a incongrue pulsioni 'bipartisan', votato 'all'incallito vizio del particulare'. Una plaga geografica artificiosamente pacificata i cui conflitti, s epure ci sono, si limitano ormai alla sfera degli 'interessi'. Un angolo d'Europa, insomma, la cui coesione ideale è in realtà un cimelio. Intorno a simili temi etico-politici, Costituzione, antifascismo, resistenza, ruota l'esame di coscienza di un letterato (quale Siciliano non smetterà mai di sentirsi). Forse mai come in queste sue pagine che raccontano 'giorni disperati', Siciliano ha inteso rivelarsi come scrittore 'civile'. Non c'è particolare della sua esperienza che non faccia riferimento a quell'ordine di valori, senza che alcuna rilettura del suo percorso biografico ne scalfisca l'appartenenza. Riflettendo sul proprio comunismo giovanile, che peraltro smentì a ventidue anni - fa spicco nei fogli del Diario lo scontro quasi fisico che lo oppose al roccioso Ingrao nei giorni successivi alla rivolta ungherese - lo scrittore non soggiace ad impeti di revisione. In materia, dichiara, sono 'sempre stato dalla parte di quelli che non abiurano'. E ne enuncia con impeto il motivo: 'per paradossale che sembri', scrive, 'la storia della parola libertà, nell'Italia degli anni Quaranta e Cinquanta, e in appresso, è passata anche attraverso le sezioni del PCI'. E questo ricordo non gli sembra stridere con l'autodefinizione che si dà, di 'conservatore di sinistra'. A dare un risalto storico a queste 'verità', Siciliano chiama in servizio i suoi 'maggiori' - dai più remoti come Alfieri, Leopardi, Foscolo o De sanctis, ai più recenti, Croce, Gramsci, Calogero, Bobbio, Moravia, Alvaro, Fenoglio, Bassani, Pasolini, Debenedetti. Il lettore potrà valutare la plausibilità di queste progeniture, e di altre disseminate nelle pagine qui ritagliate da quel 'tutto' che è il Diario italiano. Del quale, per questo ed altri riguardi, non potrà disconoscere la lealtà aspra e drammatica. E la chiarezza esemplare, fra tante mezze verità che ci assediano." (da Nello Ajello, Enzo Siciliano scrittore civile, "La Repubblica", 26/06/'08)
Siciliano nel catalogo Mondadori

mercoledì 25 giugno 2008

Gli effetti secondari dei sogni di Delphine De Vigan


"Chi è mamma di figlie adolescenti - intendo le dodici/tredicenni di oggi che corrispondono alle quindici/sedicenni della nostra generazione di genitori - dovrebbe leggere Delphine de Vigan. Lo stesso vale per chi è papà, sorella o fratello grande o insegnante di adolescenti. Il romanzo s'intitola, in italiano, Gli effetti secondari dei sogni. Un titolo che potrebbe trarre in inganno: l'originale è più sobrio e diretto, No et moi. La narratrice, il moi insomma, è Lou, ha tredici anni. No, che sta per Nolwen, l'altro polo del titolo, è una giovane donna, appena 18 anni, ed è una SDF. La sigla, in Francia, serve a designare coloro che non hanno un domicilio fisso, i senzatetto, quelli che dormono per strada o nei centri di accoglienza. Il titolo italiano, dicevo, potrebbe trarre in inganno perché si focalizza su un aspetto in particolare del libro, e cioè il suo appartenere alla categoria del 'romanzo di formazione'. L'età adolescenziale comporta la fase dell'illusione, cui necessariamente la crescita - determinata dall'esperienza - fa succedere la disillusione. Il percorso dal primo al secondo punto, benché doloroso, è fondamentale per l'autodefinizione dell'individuo. L'adolescente deve passare per quell'esperienza, e assistere al crollo di certe sue illusioni, per poter accettare e poi gestire l'abbandono dell'infanzia. La storia che racconta Delphine de Vigan, in effetti, è anche questo. Ridotto all'osso, il romanzo è centrato sull'incontro tra Lou e No. La tredicenne, che ci parla in prima persona, e vive l'isolamento di quelli che in Francia sono chiamati i surdoués (QI più alto dei coetanei) oltre a quello determinato dalla grave depressione di cui soffre la madre, incontra alla stazione No. Si turba per le condizioni di vita della giovane donna, le si affeziona e spera di poterla salvare con il suo affetto. Ottiene dai genitori di ospitarla in casa loro, amicizia e recupero sia di No sia della madre di Lou procedono di pari passo. Poi la situazione precipita, e Lou scopre a sue spese che il desiderio non è sufficiente a trasformare i sogni in realtà. Alla fine del libro, in pratica, dopo la cocente disillusione, Lou è diventata più grande e ha capito tante cose. Con occhio sociologico, si potrebbe presentare il romanzo anche come uno straordinario documento sulle cause di un fenomeno in preoccupante aumento, il numero crescente delle senzatetto donne, in particolare molto giovani, come Nolwen. Oppure, o anche, sull'alcolismo strisciante che dilaga, mentre si abbassa via via la soglia d'età di chi ne dipende. Altrettante valide ragioni per leggere il libro di Delphine de Vigan. La più profonda però è un'altra. Lou è un personaggio di pura finzione e come tale riassume in sé, fittiziamente, i tratti di molte adolescenze possibili: da quella di molte dodicenni di oggi a quella di molte ex, oggi mamme delle odierne dodicenni, ieri o l'altroieri adolescenti a loro volta, ad altre. Va detto che Delphine de Vigan, al suo quinto romanzo, esordiva nel 2001 con Jours sans faim (Giorni senza fame), pubblicato sotto il falso nome di Lou Delvig. Quel primo libro, più una autofiction che un romanzo, ma che utilizzava l'espediente dello pseudonimo come filtro, e la terza persona come figura di uno sdoppiamento protettivo, traduceva in scrittura una forma particolarmente drammatica di rifiuto della crescita, l'anoressia: tributo pagato dall'adolescente che lei era stata, in un prima non molto remoto, a una situazione familiare carica di ferite. Adesso che ha ripreso il vero nome, e con esso le forze e il coraggio di vivere, Delphine de Vigan non ha dimenticato quella Lou. L'ha fatta diventare protagonista e narratrice di un romanzo. Mamme, papà, sorelle, fratelli, insegnanti di dodicenni che passano ore in rete, su msn, o che alternano furie esistenziali da ribelli accanite con preoccupanti e silenti rifiuti,mai nsieme si pongono (e augurabilmente vi pongono) tante domande, dal senso della vita al senso in cui, al primo bacio profondo con un ragazzo, dovranno far girare la lingua, se orario o antiorario: leggete Delphine de Vigan." (da Gabriella Bosco, La donna che non ha un tetto, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/06/'08)

La società cinica di Carlo Carboni


"Che cos'è l'antipolitica? E quale carburante sospinge il suo motore? Due saggi ci aiutano a cercare una risposta. Sono entrambi rapidi, leggeri nella concezione e nel fraseggio (ahimè, una virtù sempre più rara), e vanno in libreria per i tipi del medesimo editore: Laterza. Le parentele fra i due libri, però, s'arrestano su questo davanzale. L'uno - La tenaglia - è opera di Natalino Irti, giurista con gusto e frequentazioni filosofiche (e del resto le pagine in questione scaturiscono da un dialogo con Emanuele Severino). L'altro - La società cinica - s'intinge nella penna di Carlo Carboni, sociologo con forti interessi per l'economia. Diversi gli approcci, diversi quindi gli itinerari concettuali, gli argomenti, gli angoli d'osservazione. La tesi di Irti è presto detta: dopo il crollo del muro di Berlino, crollano altresì le ideologie, e insieme ad esse ogni interpretazione totale del mondo e della vita. Se il XX secolo fu un tempo 'filosofico' come mai prima d'allora, il nostro tempo si consuma viceversa in una quotidianità nevrotica dove non c'è più tradizione né memoria, dove in conclusione manca il telos, lo scopo ultimo dell'agire umano. Da qui il declino del diritto, della sua capacità regolatrice, perché le leggi stesse perdono stabilità e durata. Da qui il tramonto della politica, che divorziando dall'ideologia si trasforma in gestione burocratica, e a propria volta cede al trasformismo, in assenza di riferimenti certi e immarcescibili. La legalità si separa perciò dalla legittimità, nel senso che la conta dei voti rimane l'unico fondamento del potere, ed è esattamente in questo spazio orfano di tensioni ideali che guadagna palmi di terreno il rifiuto della rappresentatività parlamentare - l'antipolitica, per l'appunto. Ma la crisi della politica viene poi colmata dalla religione e dall'economia, le due potenze superstiti in questo scenario desolato. Ecco dunque la 'tenaglia', che almeno in Italia stringe la politica. E la tenaglia disegna un duplice pericolo sul nostro orizzonte collettivo: tecno-crazia e clero-crazia, governo dei tecnici e governo dei chierici. Se Irti solleva lo sguardo verso i cieli della filosofia, Carboni lo immerge nell'inferno dei nostri rapporti quotidiani. Innerva la sua analisi con dati, statistiche, tabelle. Punta l'indice sull'impoverimento della società italiana, questa volta non solo ideale, ma anche e soprattutto materiale, se è vero che un terzo delle famiglie ha più debiti che introiti. Ne disvela lo scarso senso civico, il cattivo rapporto con le regole. Un cinismo di massa, che si riflette e s'amplifica negli atteggiamenti della classe dirigente, cui d'altronde Carboni ha già dedicato studi illuminanti. Da qui l'autoreferenzialità, l'invecchiamento, l'intreccio fra poteri sociali e poteri criminali, infine il trionfo dell'appartenenza sulla competenza, che vizia in primo luogo la politica. Sicché l'oroscopo è opposto rispetto a quello prefigurato da Irti: non il governo dei tecnici, dei supercompetenti, bensì degli incompetenti. Ospitati per di più da un sistema istituzionale arcaico ed ingessato. Ne fanno le spese i giovani, e più in generale i meriti, i talenti dei quali nonostante tutto l'Italia ha le cantine piene. Da qui la frustrazione, lo smarrimento, la crisi di fiducia che degenera in rancore verso la politica, e che in ultimo offre benzina alla macchina dell'antipolitica. Non è importante prendere partito su queste due opposte conclusioni. Serve di più mettere l'accento su ciò che le accomuna: l'antipolitica sfrutta l'horror vacui, alligna su una lacuna, su un vuoto divorante nella società italiana. Prima o poi dovremo farci i conti." (da Michele Ainis, Tecnici chierici e cinici, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/06/'08)

Morte a 3 euro di Paolo Berizzi


"Per trovare gli schiavi moderni, i caporali del lavoro, le morti che sono 'bianche' solo nel freddo linguaggio dei giornali non serve andare chissà dove. Basta restare nella ricca Lombardia. A Milano per esempio, alzarsi di prima mattina e fare un salto in Piazzale Loreto, tra le luci delle maxi pubblicità e i grandi magazzini; affacciarsi nella vicina stazione di Lambrate, prima che i pendolari la prendano d’assalto. Oppure alzare gli occhi verso i ponteggi di uno dei tanti cantieri un tempo regno indiscusso dei magut bergamaschi, oggi terra di nessuno dove per un niente si lavora e per un niente si muore. E’ un viaggio a portata di mano, quello percorso da Paolo Berizzi nel suo Morte a 3 euro. Nuovi schiavi nell’Italia del lavoro (Baldini Castoldi Dalai). Non per questo meno sorprendente. Le testimonianze del libro si soffermano là dove la statistica si arrende, lasciando il posto ai ricatti tra caporali e lavoratori, all’arruolamento in nero, al porto franco delle regole. Ed è pure il racconto della faccia oscura del fenomeno immigrazione, vissuto dall’altra parte del vetro. Quello dei finestrini dei pulmini che portano dalla Moldavia le badanti a buon mercato e la manodopera per i cantieri che dovrà sopportare di tutto, e attaccarsi ai quei tre euro all’ora che danno il titolo al libro. Tre euro che sono le briciole, quanto rimane alla fine della catena di spartizione tra caporali e impresari sprovvisti del minimo senso della dignità umana. E che in molti casi, paradossalmente, rischiano nulla o giù di lì, camminando sul filo dell’interpretazione di leggi e regolamenti che incasellano i disperati arruolati per un tozzo di pane alla voce 'manodopera distaccata'. Eufemismi che fanno impressione, se collocati sullo sfondo di quei 15 mila morti che negli ultimi 10 anni in Italia hanno tinto di nero la parola lavoro. Un numero che
però non conta le morti invisibili, quelle di cui viene cancellata, o si tenta di farlo, ogni traccia. Il libro cerca quelle tracce. Si muore perché, banalmente, gli estintori erano scarichi, come alla torinese Thyssen. Si muore perché ogni elementare regola di sicurezza è lasciata solo sui manuali chiusi nei cassetti. Si
muore nel cuore della 'City' milanese, a due passi da Piazza Affari, solo perché a un certo punto, quando si è a 12 metri d’altezza, bisogna fare pipì. Berizzi, giornalista di "Repubblica", raccoglie le vite degli 'ultimi degli ultimi', egli stesso ne veste i panni e racconta. Della cocaina che diventa benzina per cottimisti, delle mani della ‘ndrangheta sul mercato dell’Ortofrutta a Milano, delle massacranti campagne siciliane, dove le donne vengono prima sfruttate nei campi, poi rese schiave del sesso; delle mele del Trentino. E delle morti che alla fine si assomigliano tutte e tutte potevano essere evitate. Tentando di indulgere il meno possibile nella retorica del giorno dopo." (da Francesco Spini, La morte corre sui ponteggi, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/06/'08)

martedì 24 giugno 2008

Ricordo di Giuseppe Pontiggia

"Sconfortante certezza di avere letto troppo poco e di non sapere quasi niente: questa è del resto l'unica salvezza e il romanzo dovrà sviluppare in senso fantastico questa direzione."

"Affermava Cervantes che la penna è la lingua dell'anima: pregnante corporeità, mente, immaginazione, progetto; e pochi autori come Pontiggia (1934-2003) - di cui cade il 27 giugno il quinto anniversario della morte - hanno scritto con analoga capacità di cogliere i sentimenti profondi e con tanta autentica passione per la letteratura e la vita. Pontiggia aveva dentro di sé la gioia di scrivere e incontrare gli altri per comunicarvi; e nell'amore della parola - per la sua storia e i mondi aperti dai suoi significati nel tempo - parlare era scoprire 'modalità di essere', perché l'oralità ha 'pienezza effimera ma potente', come diceva a "Dentro la sera" (1994; programma ritrasmesso ora da Radio Tre). Interessato però alle possibilità espressive della parola scritta, Pontiggia le ha ridonato con forza una sua originale intonazione, liberandola dai luoghi comuni che ne fanno un segnale incapace di giungere alla totalità vitale della parola incarnata. Con senso della verità, della lingua e delle tecniche espressive, e quasi a riappropriarsi senza posa di sé, del mondo e della letteratura, si è mosso in autonomia fra generi e registri letterari, come prova la varietà formale dei romanzi e delle pagine critiche: dalla Morte in banca (1959) a Nati due volte (si veda l'edizione di Pontiggia nei Meridiani Mondadori). Pontiggia ha lavorato con visione ampia della letteratura e dedizione smisurata, scrivendo e ricorreggendo tenacemente quanto aveva fatto. Scrittore, critico, traduttore di classici, consulente editoriale, tutto lo stimolava, e lo mostrano gli Appunti sul romanzo, 212 brevi sulla narrativa, la cui copia mi donò e da cui raccogliamo qui a fianco alcuni aforismi e riflessioni inedite. Leggere e studiare, esigere molto dall'arte, ricerca del vero, interrogativo della morte, sono i temi che emergono da questi 'appunti' risalenti agli anni Sessanta: a combattere l'abbandono della cultura in un Paese dove quasi una classe intera di intellettuali lo ha colpevolmente fatto. Vittorini gli aveva insegnato che un testo è migliorabile: qualcosa su cui lavorare con pazienza, consci della ricchezza dei significati, di valenze di senso che possono sfuggire per rivelarsi poi. Pontiggia ha riunito intorno a sé una comunità ideale (i classici) e reale di amici letterati e non, con cui parlare di libri, delle sue scoperte, di linguaggio e verità; ha cercato di 'dare risposta' a chi chiedeva parole/cose necessarie. Ha così avuto molti estimatori estranei alla letteratura, attratti dalla sua simpatia e capacità di coniugare inteligenza e specialismo con senso profondo della vita. La letteratura come meta da raggiungere o qualcosa verso cui trascendere nella consapevolezza del suo valore civile: perciò gli Album sul "Sole" erano così amati. Lettore formidabile e generoso di giovani e aspiranti scrittori, ha iniziato a Milano quei corsi di scrittura che erano prima di tutto avvincenti avventure della parola e della conoscenza. Leggeva le critiche; e i suoi testi ai familiari e agli amici; chiedeva pareri, perché dall'attenzione e dalla discussione nascono idee per creare ancor meglio; da qui l'impegno correttorio - di cui intese darmi copia (l'intero archivio è depositato presso la Beic di Milano) - che nel 1995 conferì nuova veste alla Grande sera (1989, Premio Strega), in cui Pampaloni e altri critici avevano visto 'difetti non marginali'. Anche in questa umiltà, Pontiggia mostrava di saper insegnare in tutti i sensi: era intellettualmente libero, era un vero maestro." (da Daniela Marcheschi, Quegli appunti per migliorarsi, "Il Sole 24 Ore Domenica", 22/06/'08)

lunedì 23 giugno 2008

Nadine Gordimer: il dramma di Israele e il dovere dello scrittore


"Un piccolo lembo del pianeta terra, ove due popoli di antica e comune origine, gli israeliani e i palestinesi, lottano per il proprio diritto di esistere - ma non insieme: è qui che sono stata invitata a un Festival Internazionale di Scrittori, non dal governo ma dagli autori israeliani. Al centro di una controversia profondamente confusa, quando i negoziati di pace, fondamento di una soluzione giusta per i due popoli, alternano momenti di stallo e di ripresa, due cose hanno pe rme valore assoluto. Per Israele, il diritto di esistere, negato da Hamas e dai palestinesi della jihad; per la Palestina, la restituzione dei territori occupati. Tutti gli scrittori che ho incontrato - tra cui Amos Oz, noto in tutto il mondo per le sue brillanti qualità di narratore e per l'audacia con cui esprime le sue critiche a voce alta e prospetta soluzioni possibili e giuste per i due stati - si sono espressi contro l'occupazione dei territori, stigmatizzando la durezza dei militari israeliani verso la popolazione palestinese. [...] Sui poeti e narratori israeliani e palestinesi incombe una particolare responsabilità di testimonianza dall'interno. Non certo per l'immediato consumo delle tv e della stampa quotidiana, ma attraverso opere capaci di durare nel tempo, facendo emergere sotto la superficie dell'informazione qualcosa delle contraddizioni della condizione umana, della capacità di resistere, delle speranze di chi la vive in questo tempo e luogo." (da Nadine Gordimer, Il dramma di Israele e il dovere dello scrittore, "La Repubblica", 21/06/'08)

domenica 22 giugno 2008

Spiriti costretti di Angela Bianchini


"Angela Bianchini ha raccolto in volume i ritratti biografici che va componendo e rielaborando da molti anni, su riviste italiane e estere, e alla radio. Più che
ritratti, sono conversazioni distese e divaganti, nutrite di esperienze personali, come tra amici che hanno in comune predilezioni e ricordi. Il titolo è tratto da un verso dell'Ariosto: spiriti (non) costretti sono coloro che hanno saputo affrontare percorsi esistenziali difficili senza mai abbandonare la ricerca dell'incanto letterario o artistico. Si va dalla fine del Settecento, quando Madame de Charrière, già matura, seduce il giovane Benjamin Constant con la sua intelligenza aguzza e paradossale, al nostro secondo dopoguerra, in cui giganteggia quell'inarrivabile incantatore che fu Bernard Berenson, nella sua magica villa-antro di Settignano. Né potevano mancare i maestri dell'autrice, Leo Spitzer, Pedro Salinas, Jorge Guillén, colti dal vivo e da vicino. L'originalità dell'approccio della Bianchini sta nel combinare una frequentazione dei 'luoghi d'autore' con la lettura in controluce dei testi autobiografici e di biografie spesso poco note o dimenticate. È un fitto andirivieni tra luoghi e tempi diversi: gli Stati Uniti, la Spagna (dove lei ha studiato e insegnato), Firenze, Roma, Venezia, luoghi deputati di un Grand Tour che fu soprattutto anglo-americano. Non tutti i personaggi effigiati sono famosi come l'intrepida e trepidante George Sand o Colette, che ci vengono restituite nella loro umanità più vera, fuori dai cliché. Qui possiamo riscoprirle anche nelle case in cui nacquero o vissero, nella placida campagna francese o affacciate sul giardino di Palais Royal, a Parigi. Ambienti rivelatori, perché finiscono per raccontare quello che magari le stesse autrici non dicono sulla pagina. La curiosità del lettore è premiata proprio dai personaggi marginali o meno frequentati, che finiscono per avere molti tratti in comune: il cosmopolitismo, la passione per i viaggi che diventa nomadismo, irrequietezza, financo nevrosi; la gran cultura, lo stile alto, un certo gusto teatrale nella rappresentazione di sé, il rifiuto delle convenzioni fino alla stravaganza, forse la vocazione inconscia a fare della propria vita un capolavoro. Le donne vi hanno un rilievo speciale per forte carattere e proto-femminismo eccentrico. Così l'inglese Frances Trollope, madre del prolifico Anthony, titolare di un salotto assai frequentato nella Firenze di metà Ottocento. Così l'americana Edith Wharton, la grande amica di Henry James, che ancora bambina si ritrovò a giocare al Pincio con Vernon Lee e il pittore Sargent. O Constance Woolson, infelice nipote del Fenimore Cooper dei Mohicani, che James prese a modello per il suo Carteggio Aspern. O ancora le mogli devote, brave memorialiste anche loro, di due grandi poeti spagnoli come Juan Ramon Jiménez e Rafael Alberti, che visse a Roma gli ultimi anni (sulla porta di casa stava in bella vista un cartello: 'Prego non arrabbiarsi: non si fanno prefazioni'). Spiccano nella sezione italiana due fini letterate, che scelsero di vivere appartate in confortevoli ritiri toscani: l'anglo-fiorentina Iris Origo e Clotilde Marghieri. Fu lei, ancora ragazza, a non saper definire la Wharton in visita ai Tatti altro che 'vecchia'. Berenson si arrabbiò: 'Per fare una vecchia come lei ci vogliono anni e decenni di educazione dello spirito, ci vuole una vita intera di lavoro, d'intelligenza e, quando il tempo incalza, anche coraggio'. Aveva ragione. La foto di gruppo in cui la Bianchini ha radunato con garbo appena malinconico tanti campioni e campionesse di una raffinata civiltà letteraria rende ancora più visibile il vuoto che hanno lasciato: umano, prima ancora che culturale." (da Ernesto Ferrero, La civiltà è solo ombre, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/06/'08)

sabato 21 giugno 2008

Filologia e libertà di Luciano Canfora


"Chi avrebbe mai detto che l'austera e un po' passatista - a una prima (superficiale) impressione - disciplina rispondente al nome di filologia possedesse una vis eversiva? A mostrarlo, raccontando una storia poco nota (e meritevole di essere conosciuta) è Luciano Canfora, tra i massimi specialisti della materia e intellettuale di sinistra ('Marxista impenitente') assai presente nel dibattito pubblico italiano. Nel suo nuovo libro - intitolato appunto, pour cause, Filologia e libertà - lo studioso affronta alcuni degli episodi più salienti e dei passaggi fondamentali della storia dei saperi critico-testuali e ne rintraccia il 'pantheon'. Una galleria popolata dalle figure di quegli 'eretici degli eretici' - alcuni celeberrimi (come Erasmo, Spinoza, pierre Bayle9 e altri meno noti (Richard Simon, Johann Jakob Wetstein), sino alla stagione dell'Illuminismo con la sua decostruzione delle strutture mitologiche della religione e, successivamene, all'Ottocento e al modernismo incappato negli anatemi pontifici - che fondano metodologicamnete la storia dei testi (sacri, per lo più), inaugurando, non di rado a caro prezzo (pagato personalmente) la pagina di civiltà della libertà di critica. Libertà filologica ed ermeneneutica, giustappunto, ma anche eminentemente politica. Il nemico (cattolico, ma pure protestante) coincide sempre con il dogmatismo e le sue propaggini oscurantiste , fino a che, nel 1943, il 'bifronte' papa Pio XII con l'enciclica Divino afflante spiritu riconosce, sia pur ancora un po' ambiguamente, la legittimità della critica delle Sacre Scritture, chiudendo così (in modo forzato e rassegnato) un lunghissimo ciclo di repressione della libertà di pensiero voluto dal Concilio di Trento. Una disciplina rivoluzionaria, dunque, lontana anni luce da qualunque enclave di parrucconi, cui dobbiamo, davvero, tanto." (da Massimiliano Panarari, Filologia, scienza di eresia e libertà, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 21/06/'08)
Intervista a Canfora (da LaStampa)

venerdì 20 giugno 2008

I romanzi ci salveranno


"Come maneggiare l'Occidente? Quali sono i suoi punti di incontro con l'Oriente? Come venirne a patti? Due grandi scrittori, entrambi premi Nobel per la letteratura, uno nettamente asiatico, l'altro a cavallo fra due culture, affrontano l'argomento e concordano su un punto fondamentale: che la letteratura ha il potere non solo di coltivare l'immaginazione, ma di promuovere e favorire la comprensione fra gli esseri umani, a qualunque latitudine essi appartengano. Il nipponico Kenzaburo Oe, Nobel nel 1994, e il turco Orhan Pamuk, premiato nel 2006, hanno discusso insieme all'Università Doho, nella città di Nagoya, in Giappone. Un seminario letterario aperto al pubblico, organizzato dal quotidiano "Yomiuri Shimbun" e dalla radiotelevisione NHK, tenuto per commemorare il ventesimo anniversario del forum annuale "La creatività nel 21esimo secolo con i laureati del Nobel". Titolo della conferenza: Come trovare un punto di incontro con l'Occidente - Dialogo fra romanzieri dell'Oriente. Pamuk perseguitato dai nazionalisti in patria, Oe che fin dai primi anni Sessanta ha esercitato il suo sguardo sul fanatismo estremista, hanno cominciato parlando di Occidente e Europa, finendo poi per affrontare i loro rispettivi casi. Per entrambi la letteratura può contribuire a salvare l'uomo, o quantomeno a farlo incontrare benché appartenente a universi lontani. Perché, come tutti e due hanno convenuto, 'il mondo ha bisogno di immaginazione'. [...]" (da Marco Ansaldo, I romanzi ci salveranno, "La Repubblica", 20/06/'08)

giovedì 19 giugno 2008

Metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie


"Quando verso la fine degli anni Sessanta le fotografie dei bambini denutriti del Biafra fecero per la prima volta il giro del mondo, in molti si chiesero da dove spuntasse quella nazione sconosciuta, assente da tutte le carte geografiche. il Biafra non esisteva fino al maggio 1967, quando la parte sudorientale della Nigeria, abitata dagli Igbo, con un colpo di stato chiese l'indipendenza e si autoproclamò Biafra (dal nome del golfo). La bandiera era un mezzo sole giallo che sorgeva al centro di una striscia nera tra due rosse e verdi. Il sogno dell'indipendenza finì tre anni dopo, con la capitolazione del 15 gennaio 1970 e il terribile bilancio di un milione di morti. Il dramma del Biafra e del suo popolo ci arriva ora come un pugno nello stomaco nel libro della scrittrice trentenne Chimamanda Ngozi Adichie. Metà di un sole giallo (Half of a Yellow Sun) è un romanzo evocativo, epico, passionale, premiato nel 2007 con l'Orange Broadband Prize. I protagonisti vivono nei primi anni Sessanta in un milieu borghese e colto, dove già si avvertono i primi fermenti secessionisti. Le loro vicende personali e amorose si mescolano alla cronaca dei massacri. La storia delle due gemelle igbo Olanna e Kainene corre parallela a quella del tredicenne Ugwu, houseboy dall'intellettuale rivoluzionario Odenigmo, fidanzato di Olanna. E a quella dell'inglese Richard, trasferitosi in Nigeria per scrivere un libro sull'arte Igbo-Ukwu, e che invece vi troverà l'amore e il dolore. Chimamanda Adichie è nata nel 1977, e già piccola sapeva che avrebbe scritto un romanzo sul suo popolo. Lei lo spiega senza enfasi, ma con passione. 'In quella guerra sono morti i miei nonni e io sono cresciuta con l'amarezza di non averli mai conosciuti. Un'amarezza nutrita dai racconti dei miei genitori, cui la guerra ha sfregiato la memoria, e con il peso di quel fantasma incombente su tutti noi'. [...]" (da Brunella Schisa, Racconto l'orrore della guerra e del Biafra soffocato nel sangue, "Il Venerdì di Repubblica", 13/06/'08)
Intervista a Chimamanda Ngozi Adichie (da bbc.co.uk)

La via italiana al totalitarismo di Emilio Gentile


"Soltanto uno storico come Emilio Gentile, non nuovo a interepretazioni 'scomode', poteva inoltrarsi in un terreno non facile come l'eredità del totalitarismo fascista nell'Italia contemporanea. Un'eredità rintracciata non solo nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, traslocati senza epurazione dal regime fascista a quello repubblicano. Né soltanto nella lunga presenza in Italia del più forte partito neofascista europeo che dopo il lavacro di Fiuggi partecipa al governo del paese e oggi occupa la terza carica dello Stato. L'eredità fascista - è la tesi di Gnetile - va rintracciata anche 'nel modo di concepire e praticare la politica di massa' nella lunga età repubblicana, 'nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari', 'in quella costante confusione tra gli interessi dello Stato' che ha minato la democrazia. L'occasione per questa inedita riflessione è l'uscita delal terza edizione de La via italiana al totalitarismo, ormai un classico degli studi sul fascismo, tradotto in Europa e in America Latina, ora arricchito di tre nuovi capitoli che investono anche il tema dell'eredità del totalitarismo. Solo la conoscenza storica del Ventennio nero può servire a fare i conti con il suo ingombrante retaggio nel costume, nella mentalità e nei comportamenti degli italiani durante gli ultimi sessant'anni. 'Invece prevale ancora oggi la tendenza a caricaturizzare il fascismo, liquidato come regime da operetta, oppure ad alleviare le gravi responsabilità, quasi non ci fosse mai stato. Tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione di una collettività è stato cancellato. Lei ha coniato la formula 'defascistizzazione del fascismo'. Un'operazione che ha molti responsabili, anche nella cultura antifascista. 'Sì, vi hanno contribuito molti antifascisti oltre che neofascisti o ex fascisti non pentiti, naturalmente con opposti propositi. Per molti anni ha prevalso a sinistra l'immagine di un regime ventennale sciolto come la neve al sole, una dittatura fondata sul niente, solo violenza e opportunismo, sostanzialmente una 'nullità storica'. Pe rnorberto Bobbio non è mai esistitta una cultura fascista, il fascismo era solo 'un'ideologia della negazione'. Franco Venturi inventò l'espressione 'il regime delle parole'. Guido Quazza arrivò perfino a confinarlo nel mondo degli 'epifenomeni politici'. Devo confessare che, ancora alla metà degli anni Settanta, mettere in discussione la tesi della 'nullità storica' del fascismo significava per molti fare apologia del fascismo'. [...]" (da Simonetta Fiori, Nuovo fascismo, che cosa resta di quell'eredità, "La Repubblica", 19/06/'08)

mercoledì 18 giugno 2008

Guido Quazza. L'archivio e la biblioteca come autobiografia


"Guido Quazza è stato uno degli storici più importanti del Novecento. Nell'arco di Una lunga carriera accademica, i suoi libri e i suoi scritti hanno attraversato i temi cruciali della nostra storia, dal Risorgimento alla Resistenza, dal Piemonte sabaudo al '68. Fino alla morte, avvenuta nel 1996 all'età di 74 anni, Quazza è stato anche un instancabile organizzatore culturale, un militante politico, un docente impegnato. Successore di Ferruccio Parri alla presidenza dell'Istituto Nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia dal 1972, fondatore e direttore della "Rivista di storia contemporanea", fu anche preside della Facoltà di Magistero per 27 anni consecutivi. Fu quello che una volta si usava chiamare un 'maestro'. Negli anni '70 riuscì a costruire una 'scuola' storiografica e una serie infinita di iniziative, alcune direttamente politiche (il Comitato unitario antifascista che, caso unico in Italia, riuniva la sinistra extraparlamentare insieme ai partiti tradizionali e ai sindacati) altre squisitamente didattiche (i seminari interdisciplinari che a Magistero sostituirono le lezioni frontali). A rilanciare l'attenzione sulla sua figura è un volume appena pubblicato (Guido Quazza. L'archivio e la biblioteca come autobiografia, a cura di Luciano Boccalatte, Franco Angeli) che, insieme a una serie di saggi sul suo lavoro di storico, contiene un inventario dettagliato del suo archivio personale, una mole straripante di carte, raccolte con ossessiva meticolosità in tutta una vita, custodite gelosamente dai quaderni scolastici delle elementari ai documenti delle prestigiose istituzioni da lui dirette. C'è veramente l'intera biografia di Quazza, in quell'archivio, gli affetti e le scelte politiche, il privato e il profilo di accademico e di intellettuale. Renderlo accessibile agli studiosi è stato un atto di grande generosità da parte dei familiari; ordinarlo e catalogarlo è stato un lavoro molto impegnativo, anche sul piano emotivo, quasi che Boccalatte sia stato chiamato a penetrare nell'intimità più riposta di un personaggio pubblico. L'archivio ci aiuta a capire come in Quazza la dimensione esistenziale sia sempre stata intrecciata alle sue opzioni politiche e storiografiche. Molte delle sue categorie interpretative sulla Resistenza erano ad esempio mutuate direttamente dall'esperienza partigiana nelle file degli autonomi della divisione "De Vitis" comandati da Giulio Nicoletta: l'insofferenza per la 'zona grigia', per quelli che non scelsero da che parte stare e preferirono aspettare che 'passasse la nottata'; l'insistenza sulla necessità della violenza armata quando si tratta di combattere per la libertà contro la dittatura; il giudizio sulla banda partigiana come microcosmo di democrazia diretta; la diffidenza verso il connubio stalinismo/riformismo che alimentava la politica del PCI. A proposito del PCI. Negli anni '70 Quazza fu il capofila di una corrente storiografica che rovesciò come un guanto l'interpretazione comunista della Resistenza. Dove il PCI accentuava il peso dell'organizzazione, si esaltava la spontaneità del movimento partigiano; quando il Pci parlava di unità di tutte le forze politiche dalla DC ai monarchici, si sottolineavano le divergenze radicali in seno al Cln; con il PCI che insisteva sul carattere patriottico della Resistenza, Quazza polemizzava con le ascendenze staliniane di quella definizione e tendeva a ridurre drasticamente il ruolo dei militari e dell'esercito regolare. Tutto questo configura un singolare paradosso; il revisionismo rimprovera oggi al PCI una visione classista e settaria della Resistenza, un uso strumentale che avrebbe accentuato l'ipoteca comunista totalitaria sulla lotta di liberazione. In realtà quel rimprovero andrebbe indirizzato verso Quazza e la sua scuola che sostennero quelle posizioni in contrapposizione con il PCI. Paradosso nel paradosso: non c'è nessuno degli storici dell'ex partito comunista che intervenga a ristabilire questa elementare verità, difendendo il suo vecchio partito." (da Giovanni De Luna, Il primo che rovesciò la resistenza del PCI, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/06/'08)

Mario Rigoni Stern, quella fede incorrotta nella natura

"Sono costernato. Di lui conservo un ricordo unico, nel senso che nascono molto raramente persone piene di virtù come lui. Si dedicò all'impegno civile e fu antesignano della conservazione dell'ambiente" (Andrea Zanzotto)

"E' stato un grande poeta universale; il poeta della fatica nel paesaggio, del rapporto ontologico tra lavoro e natura. Parlando di lui andrebbero citate le Georgiche virgiliane, nel loro aspetto più spoglio di retorica, più pudico e aspro insieme. Opere in onore di questa grande, misera creatura che è l'uomo" (Massimo Cacciari)

"[...] Dall'esperienza russa nasce il suo libro più famoso Il sergente nella neve, che cinquant'anni dopo sarà trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini- 'I russi - racconterà all'attore - combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita'. Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto La storia di Toenle, dove si narra di un contadino, pastore e contrabbandiere che trova nell'attaccamento alla sua terra l'unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l'Altopiano. Scrive perché la memoria non sia perduta: il Sergente è dedicato a quelli che sono ritornati, Toenle ai racconti dei nonni, L'anno della vittoria alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al paese. E poi, recentissimo, Stagioni, dedicato alla natura. Un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio. [...] Era grande nella scrittura, ma ancora di più nella narrazione orale. Era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la carta di un vecchio libro. Le evocava, ne sentivi la ruvidezza e l'odore. 'La parola detta - spiegò in un incontro pubblico a Torino - viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l'andatura dell'uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità'. Come Claudio Magris, altro grande battitore di boschi e brughiere, anche per lui l'andatura era ritmo, metrica, dunque narrazione. [...] Un giorno lo andai a trovare e mi accompagnò a piedi verso Malga Zevio, nella zona delle trincee raccontate da Emilio Lussu. Camminò sulle rocce dove erano morti migliaia di soldati, ascoltò il silenzio dell'Altopiano, interrotto solo dal ronzio dei mosconi. Poi disse. 'Di questi tempi c'è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l'uomo ha bisogno delle parole, sennò non le manderebbe a memoria. Primo levi si salvò recitando la Commedia. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti'. [...]" (da Paolo Rumiz, Mario Rigoni Stern, quella fede incorrotta nella natura, "La Repubblica", 18/06/'08)
Grandi narratori del '900. Mario Rigoni Stern (da ItalicaRai)
Rigoni Stern nel catalogo Einaudi

martedì 17 giugno 2008

Trattato della lontananza di Antonio Prete


"'Lontano giace il mondo', cantava Novalis 'perso in un abisso profondo', ed ecco gli si presentavano dinnanzi 'lontananze (Fernen) della memoria, / desideri di gioventù, / sogni dell'infanzia': gli venivano incontro 'in vesti grigie, / come nebbie della sera / quando il sole è tramontato'. Noi invece l'abbiamo perduta la lontananza: tutto oggi appare vicino, a portata di mano. 'La tecnica del nostro tempo' scrive Antonio Prete 'la tecnica oggi trionfante, è infatti la tecnica del lontano. L'avverbio greco tele - lontano - che compare già nei primi poeti greci, va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Telefono, televisione, telematica. Tutto quel che è lontano - isole, deserti, città, avvenimenti, paesaggi, costumi di ignote popolazioni - viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo spazio della lontananza'. Lontananza, invece, è parola prossima a 'ricordanza', il termine che Leopardi usava per indicare il movimento del ricordare, 'cioè il salire di un'immagine antica ... verso una nuova presenza, verso un nuovo tempo. Il tempo della poesia'. Il libro di Prete vuole invitare il lettore 'a sostare per un poco sulle figure nelle quali la lontananza si racconta e si dispiega, facendosi ritmo e passione, lingua e meditazione'. E' il libro, ricco e raccolto, di un poeta che parla di poesia: un libro che attraversa la letteratura, la pittura, il suono con passo veloce e ispirato, come tenendo gli occhi socchiusi nel pensiero. Si aprono così dinnanzi al lettore - che dovrà leggere invece con lentezza, assaporando gli accostamenti e le sequenze dei testi, rimanendo coinvolto dal discorso elegante dell'autore - alcune delle 'figure' principali della lontananza: l'addio, l'orizzonte, il cielo, la nostalgia e l'esilio; la pittura, la cartografia, la poetica; l'amore, l'ombra. 'Era già l'ora che volge al disio /ai navicanti e 'ntenerisce il core / lo dì c'han detto ai dolci amici addio' mormora Dante in Purgatorio VIII, 'e che lo novo peregrin d'amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more'. 'Addio monti sorgenti dalle acque', pensa Lucia sul lago, mentre la luna inargenta e incanta il paesaggio. 'Addio del passato bei sogni ridenti', canta Violetta nella Traviata. La letteratura è piena di addii: da Arianna a Creusa, da Werther a Jacopo Ortis a Emma Bovary, a 'Notni nei Malavoglia, a Holderlin, Rimbaud, Kafka, Neruda. Tutto un mondo si allontana, nell'addio, e permane soltanto nel 'disio' di chi parte. Il giorno 'si more', sorge la luna: la luce stessa sembra farsi distante, sottile. L'addio preannuncia l'esilio, la morte: la lontananza suprema. I pittori del lontano impiegano l'azzurro. Leonardo che teorizza la forza della pittura consistere proprio nel dimostrare 'in una piana superficie per forza di scienza le grandissime campagne co' lontani orizzonti', pensa che le gradazioni dell'azzurro possano rendere, insieme alla luce e all'ombra, le distanze. E dipinge un'Annunciazione (agli Uffizi) che apre, fra le braccia e le ali dell'angelo, il paesaggio, oppure una Vergine delle rocce in cui il celeste è sommerso dal dorato (al Louvre) o si fa più intenso e soverchiante (alla National Gallery). Ma ecco anche la 'lontananza tempestosa' di Giorgione, l''intimità tonale' di Tiziano, la luce di Goya, Van Gogh, Monet; soprattutto quella del Viandante nel mare di nebbia e del Paesaggio di sera con due uomini di Caspar David Friedrich, e quella della Stella della sera di Turner. Come dipingere la lontananza è uno dei capitoli più suggestivi del libro. Incantesimo o artificio, meditazione: visione. 'L'alba vinceva l'ora mattutina / che fuggia innanzi, sì che di lontano / conobbi il tremolar della marina'. Anche i suoni segnano la lontananza: nel brano sui naviganti di Dante, è la 'squilla di lontano', al tramonto, ma in Leopardi sarà il vento che stormisce tra le piante nell'Infinito, o il canto che si ode per i sentieri 'lontanando morire a poco a poco' nella Sera del dì di festa. Il vento, soprattutto, è la voce del remoto che giunge sino a chi lo sa ascoltare: da san Francesco a Shelley, da Holderlin a Montale, è l'alito del cosmo che si fa sentire: 'Oh il gocciolio che scende a rilento / dalle casipole buie /, il tempo fatto acqua, / il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!'. E basterebbe poi pensare alla musica: il violino solo che apre il Benedictus nella Missa solemnis di Beethoven e che resiste sino alla fine, oltre le voci umane, concludendolo, è il 'mormorio di vento leggero' del Libro dei Re: Dio, abissalmente lontano, che passa accanto a Elia. 'Non addio', scriveva Eliot nei Quattro Quartetti, ma 'Buon viaggio!': 'not farewell, but fare forward'." (da Piero Boitani, Trattato della lontananza, "Il Sole 24 Ore Domenica", 15/'6/'08)

Vidiadhar S. Naipaul: quei silenzi sull'India


"'Il silenzio' dice Bacone 'è la virtù degli sciocchi'. Chi come noi si guadagna da vivere con le parole potrà essere magari meno perentorio, ma è verità evidente che il silenzio è ciò cui dà battaglia lo scrittore. Il silenzio motivato da pavidità o da giustificati timori appartiene alla brutale esperienza del secolo scorso. Martin Luther King disse che più delle parole dei nemici dobbiamo temere il silenzio degli amici. Nelle società oppresse taluni scrittori hanno infranto coraggiosamente questo silenzio, sfidando le censure e opponendosi alla tirannide che non vuole si manifesti la verità. Il mestiere dello scrittore, il mestiere delle parole, comporta la rottura del silnzio. Le due tradizioni religiose universalistiche che conosco un po', il monoteismo giudaico-cristiano e l'induismo dei miei avi, cominciano entrambe il loro discorso con la Parola, il Verbo. In principio, dicono entrambe, era la parola. Alla fine, secondo la tradizione indù, ci sarà quell'unica sillaba che comprende tutto l'universo e tutto il suo contenuto - una parola che abbraccia l'eternità -, 'Om!'. La parola è il primo segno della creazione, della vita. Penso, dunque sono: e le parole costituiscono la più chiara, la più nobile testimonianza del pensiero. No, meglio: sono gli avatar stessi del pensiero, le incarnazioni di concetti e giudizi. Non c'è pensiero senza parole; senza parole non ci sono giudizi, e in definitiva nemmeno civiltà. Il mestiere delle parole, il mesiere di scrivere, di rompere la stretta di un ostinato silenzio per me non è mai stato facile. In vari frammenti autobiografici e a tratti qua e là nei miei scritti ho accennato alla disperante difficoltà di mettere sulla pagina le parole giuste. La difficoltà col tempo non è venuta meno. Mi piacerebbe dire che da quando scrissi le prime righe del primo racconto di Miguel Street, descrivendo personaggi, vita e commedia del piccolo ambiente sociale di Trinidad dove sono cresciuto, mi piacerebbe dire che l'impresa è diventata più facile. Non è così. E' cambiata, magari, l'ottica. Quando per la prima volta viaggiai nel paese dei miei avi per preparare il il mio primo libro sull'India su incarico di un editore inglese, stavo insegnando a me stesso a vedere. Non sapevo che cosa cercassi, e di conseguenza non sapevo dove guardare. Da quel primo incontro con l'India venni via via ignorando se e quale forma avrebbe preso un libro su tale esperienza. Le parole giunsero ins eguito, dopo un periodo di scoramento e vano silenzio. Dal silenzio le parole si fanno strada senza preavviso. Cominciai a comprendere l'esperienza che avevo fatto, trovai un modo di dire ciò che avevo visto, e scrissi Un'area di tenebra. [...] Avevo smesso di leggere le recensioni del mio lavoro, favorevoli o meno, ma so che Un'area di tenebra suscitò scalpore in India e all'estero. Le parole avevano fatto breccia in un silenzio inutile e inibitorio. Non credo che il libro abbia trovato imitatori, ma mi dicono, e lo accetto come un complimento, che parecchi indiani che l'hanno letto, al momento della pubblicazione o in seguito, sostengono che esso li ha aiutati a trovare parole proprie per rompere quel silenzio perncioso, la volontaria cecità insensibile a verità imbarazzanti o insopportabili. Nel tempo trascorso da quel libro di osservazione e scoperta suppongo di avere un poco imparato come guardare, dove andare, che cosa evitare, come sondare l'argomento, il punto di vista o il modo di vedere che mi interessano. Non posso invece affermare con qualche sicurezza che ordinare e scrivere le parole per esprimere la nuova esperienza sia diventato più facile. Il silenzio conserva la sua forza. Ormai ho viaggiato e vissuto più volte in India, per periodi brevi e lunghi. Da viaggi, esperienze e letture sono nati parecchi articoli, altri due libri e storie di vite, e l'India è stata argomento di una parte della mia ultima narrativa. La mia determinazione, la mia disciplina verbale è che le mie parole siano nuove. [...] La parola ordinata, il libro, è un modo di vedere. In quello che leggo cerco sempre, per una predilezione di cui non so tracciare l'origine, un modo fresco e nuovo, un modo vero di vedere. In Dickens preferisco la freschezza, la singolare novità di visione degli Sketches by Boz o del Circolo Pickwick alla maniera studiata e ripetitiva di Una storia tra due città. Madame Bovary a una prima lettura e anche alla seconda anni fa, mi colpì come uno dei garndi libri della letteratura universale. era il modo di Flaubert di vedere gli aspetti superficiali e profondi di una società in trasformazione. [...] Il romanzo non può essere limitato o zittito da codici prescritti. La sua funzione è esplorare il mondo, e il mondo è quello che è. La parola coartata dall'ideologia o dalla religione, il racconto che segue gli schemi prescritti, diventa parabola o favola, comando o trattenimento. L'ideologia che la inquadra è ancella del silenzio. Il mestiere delle parole serve la società in cui quelle parole sono generate. Può servirla descrivendo o distruggendo le sue idee e presunzioni. Penso a Dickens e ai suoi giovanili Sketches by Boz. Luoghi e società, spontaneamente, generano i loro artisti, i loro gens e artefici della parola. Prendete il mondo ampio e e tratteggiato a perfezione dei racconti di Maupassant o la freschezza delle novelle indiane di Rudyard kiping. Nella vita di una società ci sono momenti in cui certi testi letterari riempiono un grande vuoto. [...]" (da Vidiadhar S. Naipaul, Quei silenzi sull'India, "La Repubblica", 17/06/'08; l'intervento dello scrittore al Festival di Massenzio di Roma)