giovedì 5 giugno 2008

Gomorra di Matteo Garrone


"Gomorra, il film di Matteo Garrone premiato a Cannes, tratto dal libro di Roberto Saviano, è interamente recitato in dialetto; un napoletano strettissimo, incomprensibile senza l'aiuto dei sottotitoli in italiano. Sessant'anni fa Luchino Visconti anticipò le scelte di Garrone nel suo indimenticabile La terra trema. Recentemente anche Salvatore Mereu ha fatto parlare rigorosamente in sardo i protagonisti di Sonetaula, dal racconto di Giuseppe Fiori. Sia la Sicilia di Visconti che la Sardegna di Mereu raccontavano il cuore del Novecento, gli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, proponendoci un'Italia frastagliata in frammenti di realtà disuguali e contrapposti, un intreccio tra isole di benessere e oceani di povertà a cui corrispondeva un caleidoscopio di culture, dialetti, identità 'separate', la prova del fallimento del tentativo di 'fare gli italiani' perseguito in vent'anni di fascismo. Di qui la scelta di accentuare l'insularità per sottolineare la separatezza etnico-linguistica della Sicilia e della Sardegna rispetto al continente, l'intraducibilità all'esterno di un
linguaggio che nasce e si sviluppa solo all'interno della comunità isolana. Non esisteva allora un mercato nazionale pienamente unificato ed era anche difficile vedere nell'italiano una lingua comune (al Sud la percentuale di analfabetismo sfiorava il 30%). Gomorra racconta invece l'Italia di oggi, ambienta la sua vicenda in un paese del tutto omologato dalla cultura dei mezzi di comunicazione di massa e da un mercato che all'insegna dei consumi ha piallato differenze ideologiche, appartenenze politiche, identità territoriali. Gomorra allude a traffici di uomini, merci e capitali pienamente inseriti nell'economia dei flussi della globalizzazione. Proprio per questo la scelta del dialetto appare ancora più tremendamente significativa.
NON C’E’ LO STATO. I palazzoni di Scampia si offrono allo spettatore in una loro disperata 'separatezza', con i propri riti, le proprie gerarchie, un loro apparato della forza a presidiare il territorio, le proprie leggi applicate con feroce determinazione. Non c'è lo Stato. Lo si intravede appena nelle inutili ronde delle 'pantere' della polizia o nell'intervento delle ambulanze che raccolgono i cadaveri della guerra contro gli 'scissionisti'. Non ci sono gli strumenti di 'inclusione' con cui lo Stato allarga la sfera della cittadinanza, non ci sono le scuole. I ragazzini pascolano tutto il giorno intorno agli adulti spiandone le mosse per imparare il mestiere, per prepararsi a diventare ggente 'e miezz'a via. Tutta questa realtà sembra negarsi all'inchiesta sociologica o alla ricerca storica. Non al libro di Saviano e al film di Garrone. Il romanzo è un'inchiesta e ha un taglio storico; quell' arrivare in Vespa sui luoghi della carneficina sembra ispirarsi alla 'osservazione partecipante' che caratterizza i metodi della ricerca etnografica. Sul lavoro di Saviano e sulle sue tesi interpretative si sono interrogati storici e sociologi (Alessandro Dal Lago, Marcella Marmo, Domenico Perrotta e, da ultima, in un editoriale che apparirà sul prossimo numero di "Passato e Presente", Renate Siebert). Ma Saviano non può essere collocato in un 'genere' o in una disciplina accademica; il suo romanzo trabocca di dolore e di rancore, 'Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d'Europa ... Mi tormentavo, cercando di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire senza essere divorati, triturati' (Gomorra, pag. 330). Il libro scaturisce da questa rabbia, e tra il libro e il film si stabilisce una perfetta complementarità: se il primo riesce con grande efficacia a illustrare l'intreccio tra legalità e illegalità, a togliere ogni innocenza alle merci e ai prodotti che consumiamo tutti i giorni, il secondo è straordinario nel restituire a quegli intrecci corpi e volti, donne che vivono perennemente in tuta o in pigiama, chiuse in interni domestici conservati ossessivamente puliti per tenere lontana la monnezza esterna (gente e spazzatura), uomini con pance spropositate e facce gonfie di cibo e ansia. Garrone, come Saviano, odia i camorristi. Sia il romanzo che il film gridano le loro invettive mostrandoli nella loro 'nuda vita', nella loro pochezza umana. E' questo che ha fatto schiumare di rabbia i 'casalesi' ed è questo che ci consente di conoscere oggi la schifezza di quel mondo." (da Giovanni De Luna, Il dialetto della nuda vita, "Tutto Libri", "La Stampa", 31/05/'08)

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