sabato 27 febbraio 2010

L'uomo sul tetto


"Stoccolma anni Sessanta. Un uomo e una donna si innamorano. Un corteggiamento fatto di scrittura e spazi da riempire. Per Walhoo ha 35 anni, Maj Sjowall, 27. Sono due giornalisti, tutti lavoro e marxismo. Lui la sera. sorridendo mentre torna in famiglia, inizia a darle le bozze di un suo nuovo libro: ci sono dei vuoti, quelli sul personaggio femminile, lei li dovrà riempire. Un gioco magico. Per e Maj vanno a vivere insieme e quel che ne nasce è non solo una nuova coppia, ma un progetto letterario, anzi noir. Dieci libri per dieci anni, 30 capitoli ciascuno, per un totale di 300. Soggetto, una crime story, una serie poliziesca. Al centro una squadra, con alla testa il commissario Martin Beck, fatta di uomini di mezz'età, umorali, di poche parole, con acciacchi pancetta tic, solitari, a volte amici a volte no, alcuni solari, altri ombrosi, e sullo sfondo una città piena di contraddizioni minuziosamente descritta. Antieroi come si deve, un po' alla Simenon, ma più essenziali, e con una differenza fondamentale: dietro di loro la critica alla società vuol essere centrale. Gialli che sono a tutti gli effetti i progenitori del fenomeno svedese, di Mankell senz'altro, ma anche di Larsson, e della schiera scandinava ora al top nelle classifiche mondiali. Walhoo è morto nel 1975, appena consegnato l'ultimo libro. Maj Sjowall, che ha oggi 75 anni, continua a scrivere e a tradurre, mentre in Italia esce il settimo volume della loro crime story, L'uomo sul tetto (Sellerio), un'indagine sull'omicidio di un alto papavero della polizia crudele e violento, così violento da scatenare una terribile vendetta, una macchia di sangue che dilaga su tutto il corpo della polizia e semina oltre alla morte, degli straordinari sensi di colpa.
Mrs Sjowall, tra lei e Per Walhoo, nacque prima l'amore o la scrittura a quattro mani? 'Lo incontrai nel '62, e lui era già sposato. Io vivevo da sola con mia figlia Lena di sei anni. Di notte traducevo, di giorno lavoravo al giornale. Quando nel '63 lui venne a vivere da me, cominciammo a parlare del nostro progetto. A novembre ecco il primo bambino, Tetz. Ci fu un'assoluta continuità tra figli, amore, scrittura ... facevamo tutto insieme e, naturalmente, manifestavamo contro la guerra in Vietnam'.
Perché sceglieste il genere poliziesco? 'Perché ci permetteva di combinare insieme l'intrattenimento e la nostra visione della società. E avrebbe venduto meglio dei tre precedenti romanzi a sfondo politico di Per'.
Che modelli avevate, Simenon, Chandler, McBain? 'Non avevamo modelli, ci piacevano Chandler, Hammet, Simenon. All'inizio non conoscevamo McBain, poi l'abbiamo tradotto in svedese'.
E' da loro che avete preso l'idea del poliziotto antieroe? 'Non volevamo inventare niente. Solo descrivere una squadra di poliziotti al lavoro nella nostra Stoccolma, creare delle storie vere, adatte ai tempi. Mentre in Svezia i gialli erano tutti tipo Agatha Christie, piuttosto borghesi e senza poliziotti'.
E voi conoscevate agenti, commissari? 'Solo uno. Ricavammo i nostri personaggi dalle persone che avevamo intorno'.
Come lavoravate? 'Parlavamo moltissimo finché non avevamo un plot. A quel punto facevamo una sinopsi scheletrica dei 30 capitoli. Poi scrivevamo. A mano e di notte. Se lui iniziava col capitolo uno, io scrivevo il secondo. Il giorno dopo ce li scambiavamo'. [...]
Torniamo ai gialli. Perché tutti scrivono crime? 'La gente vuol sempre più intrattenimento. E in Svezia non è facile vivere scrivendo libri. Con i noir invece puoi diventare multimilionario, come Mankell, Larsson o Nesser'.
E come si spiega il successo degli svedesi? 'Non lo capisco. Sono libri spesso mal scritti e poco eccitanti'.
Immaginava il suo stesso successo? 'Mai. La letteratura svedese non interessava a nessuno. E i contratti erano molto più poveri. Così non sono diventata ricca, ma sono contenta che i diritti mi abbiano permesso una vita da persona libera'." (da Susanna Nirenstein, Maj Sjowall, "La Repubblica", 27/02/'10)

mercoledì 24 febbraio 2010

Davide Rondoni: "L'aridità uccide la lettura"


"Per leggere ci vuole un buon motivo. Questo è il problema. Non è per nulla scontato leggere. In Italia si legge poco (o meglio pochi libri) perché mancano le motivazioni. Si possono fare mille centri per il libro, e distribuire libri in ogni pertugio (non che sia difficile trovarli) ma se non si lavora sulle motivazioni alla lettura non cambierà niente. Occorre un pensiero sulle motivazioni. Vedere se tengono quelle che pensavamo buone. E' caduta la vecchia motivazione di stampo illuminista. Un uomo informato, un uomo di cultura, secondo i dettami illuministi, gode di uno status di maggiore coscienza. Questo è stato smentito clamorosamente dai fatti. Molti uomini ben informati e cultori di libri hanno accettato, a volte incitato o partecipato alle peggiori brutture del Novecento. Meglio un uomo buono che ha letto un solo libro che un amico dei tiranni che ne ha letti o scritti cento. E l'uomo di cultura ha di certo perso ogni appeal sociale, tranne che in ristrettissime fasce di popolazione italiana. Sono altri i tipi che 'tirano'. Colpa della televisione e dei modelli che impone? Può darsi. Ma non solo. Mi aspetterei qualche mea culpa degli intellettuali. Che però tacciono su queste cose. E' in crisi anche la consuetudine cattolica a educare attraverso il senso critico. In molti casi si assiste a una educazione tutta sentimentalismo e volontarismo. Come dire: niente libri, o solo devozionali, niente ragione, basta un po' di emozione mormorando il nome 'Gesù' e un po' di volontariato. Il senso critico conta poco. A scuola poi, si consuma il vero grande disastro. Quando chiedo a un professore a cosa serve la letteratura, trovo quasi sempre la stessa risposta aberrante: 'A esprimere sentimenti profondi'. Perché un sms non può esprimerli? Allora perché complicarsi la vita leggendo Dante? La letteratura non nasce tra gli uomini per esprimere sentimenti, ma per conoscere se stessi e la realtà attraverso l'uso di parole accese. Si legge per conoscere, appunto. L'espressione di sentimenti è implicita e inevitabile. Perché nell'atto stesso del conoscere la vita esprimiamo anche noi stessi. Ma i prof. non lo dicono quasi mai. Toccherebbe loro l'onere di essere autorevoli non solo su date e canoni, ma sulla tensione alla conoscenza. Così nelle nostre scuole va in scena il più grande scialo, il più grave spreco di occasioni per imparare il gusto di leggere. E nessuno che se ne lamenti. Alro che scandalo Alitalia o Protezione civile. Si dà al massimo la colpa a qualche ministro ai tentativi di riforma. Non si sente in Italia nessun uomo di cultura, di università, di editoria scolastica recitare il minimo mea culpa per tale situazione. L'esperienza del leggere a scuola viene 'massacrata' tra deliri storicisti, omelie neostrutturaliste, e libroni già di per sé fisicamente ostili alla lettura (come la maggior parte dei libri di testo) e poi ci si lamenta che ai ragazzi sfugge il gusto di leggere. Si abbia coraggio. Qualche intellettuale che ha sparso a piene mani il verbo strutturalista prenda esempio da Todorov che ha riconosciuto i suoi errori. E altri che hanno instaurato programmi storico-nazionalisti abbiano l'umiltà di dire: ci siamo sbagliati.
Occorre scommettere sulla motivazione per leggere. Sulla motivazione esistenziale. Questo dovrebbero trasmettere insegnanti e genitori. Dovrebbero essere esistenzialmente autorevoli. Per questo ho lanciato l'idea che l'insegnamento della letteratura sia reso 'facoltativo' alle Superiori. E sia un insegnamento a leggere. Sia proposto al'inizio, per un mese o due, con lezioni esemplari dai docenti come si legge ai ragazzi. E poi scommettiamo sulla libertà, sulla motivazione. Se un insegnante non è in grado di farsi seguire dai ragazzi sulla motivazione a leggere, sia invitato fermamente a cambiar mestiere.
Si possono e si devono creare centri per aiutare la lettura. Quello del Ministero - il Centro per il libro e la lettura - è stato inaugurato da ben due ministri [...] e da un gran presidente, Gian Arturo Ferrari. Spero lavorino sulle motivazioni del leggere, non solo sulla distribuzione del prodotto, che peraltro sta cambiando parecchio. Occorre coraggio per andare contro i luoghi comuni. E' proprio la forza dei luoghi comuni il maggior nemico della lettura." (da Davide Rondoni, L'aridità uccide la lettura, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/02/'10)

lunedì 22 febbraio 2010

Scrivere: le dieci regole della creatività


"Bere. Diventare astemi. Innamorarsi. Astenersi dal sesso. Raccontare soltanto quello che si è vissuto personalmente. O almeno quello che si conosce. Anzi no, lavorare di fantasia, parlare solo di quello che non si conosce. Copiare dagli altri. Leggere. Rileggere. Tagliare. Buttare via tutto. Ricominciare da capo. Diffidare degli avverbi. Usare soltanto 'disse' nei dialoghi. Fidarsi del giudizio degli altri. Non fidarsi di nessuno. E così via. Esistono scuole, corsi e perfino università che promettono di insegnare come si scrive un romanzo, ma chiedete come si fa a uno scrittore e otterrete risposte (quasi) sempre diverse. Ciò non significa che non si possa imparare. Né che sia futile domandare come si fa. Da Flaubert, 'scrivere significa riscrivere', a Hemingway, 'kill all your darlings', elimina tutte le tue frasi preferite, generazioni di scrittori grandi e piccoli hanno generosamente fornito risposte sul tema, talvolta scrivendoci un intero libro sopra o lasciando che lo facesse qualche solerte redattore, cucendo le loro elucubrazioni in materia (Milan Kundera, Raymond Carver, Stephen King, Vincenzo Cerami, per citarne alcuni). L'ultimo arrivato è 10 Rules of Writing, un delizioso manuale di consigli, o forse di aforismi, del grande Elmore Leonard, publicato in questi giorni in Inghilterra: un libro su come scrivere un libro, notate bene, scritto da uno scrittore che confessa di non sapere, quando si mette all'opera, niente di niente su come procederà, non la trama, non l'ambientazione, non i personaggi. Al massimo il nome di un personaggio, masticando e rimasticando il quale nel cervello riesce poi a produrre magicamente sulla pagina tutto quello che serve. [...] per l'occasione dell'uscita del libro di Leonard il quotidiano Guardian di Londra ripropone lo stesso gioco a un nutrito gruppo di scrittori: quali sono le dieci regole per scrivere un romanzo? Leggere molto, leggere di tutto, 'particolarmente quando si è giovani', è la prima risposta di Zadie Smith (Denti bianchi). Ricordarsi che 'il lettore è un amico, non un avversario, né uno spettatore', suggerisce Jonathan Franzen (Le correzioni), il quale concorda con Leonard sul fatto che 'i verbi interessanti sono raramente interessanti', consiglia di 'scrivere in terza persona a meno che una voce in prima persona si offra irresistibilmente di narrare la tua storia' e sostiene che 'il romanzo più assolutamente autobiografico richiede una buona dose di invenzione, tanto è vero che nessuno ha mai scritto un romanzo più autobiografico di Kafka con Le metamorfosi'.
Queste le regole di Roddy Doyle (Paddy Clarke ah ah ah): 'Non mettere sulla scrivania la foto del tuo autore preferito, specie se è uno dei tanti autori famosi che si sono suicidati'. E ancora: 'Parti tranquillo, considera ogni pagina che hai scritto un piccolo trionfo, fino a quando arrivi a pagina 50, e allora lasciati prendere dall'ansia, ne avrai bisogno'. Tieni un dizionario nelle vicinanze, ma non troppo vicino: meglio usare le parole che ti vengono in testa, piuttosto che cercarne di più involute e complicate. [...]" (da Enrico Franceschini, Scrivere: le dieci regole della creatività, "La Repubblica", 22/02/'10)

Camus filosofo del futuro


"Albert Camus muore nel 1960 in un incidente d'auto, all'età di 46 anni. Negli ultimi cinque anni – lui, pied-noir, orfano di padre, uomo di sinistra che ha fatto la resistenza da comunista con Sartre, una vita spesa dalla parte degli oppressi – assiste in silenzio alla guerra d'Algeria. Non si schiera. Delude i compagni e i compatrioti. Da tempo aveva rotto con Sartre e col comunismo. Nel 1951 aveva pubblicato L'uomo in rivolta, ma la rivolta a cui pensa è quella dell'individuo, di ogni individuo – anche quando questi si unisce agli altri, solitaire e solidaire – nei confronti di qualunque forma di totalitarismo, compreso quello dei rivoluzionari. Anzi, proprio questi possono essere i carnefici più crudeli, perché in nome di una giustizia futura sono disposti a commettere atrocità anche peggiori rispetto agli oppressori contro cui si battono. Camus, scrittore e filosofo, non si schiera se non per un universo di valori che vanno dalla democrazia alla sincerità all'onesta intettettuale. Ma anche la libertà e la giustizia sociale, consapevole però – come altri pensatori fuori dagli schemi del 900, da George Orwell a Isaiah Berlin – di quanto sia facile un loro possibile conflitto. Mettendo comunque al primo posto la libertà, la libertà concreta di ogni individuo.
Se oggi Camus è più amato di Sartre, sia pure tra le esigue minoranze del libertarismo, non è perché il suo pensiero, divenuto così radicalmente anticomunista, può essere agevolmente strumentalizzato dai conservatori, ma perché, alla lunga, ha dimostrato di essere un intellettuale più coerente, più solido e – per dirla nel gergo esistenzialista – più autentico. E anche un filosofo più originale. Paolo Flores d'Arcais chiudendo il suo breve ritratto dello scrittore-filosofo invita ciascuno a «ritrovare, se lo vorrà, le incessanti ragioni della fulminante attualità di questa inattuale filosofia della rivolta», in barba alle definizioni risentite di «filosofo dilettante» e «filosofo della domenica» usate da Sartre e da Simone de Beauvoir che invitavano a un ostracismo verso il Camus filosofo che permane tuttora. «Camus – sostiene Flores d'Arcais – è stato uno dei pochi filosofi capaci di pensare il finito, di tenerlo fermo, di tracciare la mappa dei suoi tradimenti, di fornire il filo d'Arianna per sfuggire al minotauro delle ipostasi. Cioè di affrontare il compito ineludibile della filosofia oggi, se non vuole regredire a teologia o impantanarsi in frivolezze autoreferenziali». L'assurdo, il finito – i temi del Mito di Sisifo, del 1942 – non sfociano in nuovi aneliti verso l'infinito, la metafisica o filosofie o religioni consolatorie, ma verso una lucida, laicissima, consapevolezza che il senso della vita va ritrovato in un compito faticoso, senza fine e senza Assoluti, come quello di Sisifo costretto a riportare ogni giorno il masso sulla rupe: «la lotta fine a se stessa basta a riempire il cuore dell'uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Un ribelle è «un uomo che dice no». Che ha il coraggio di dire di no, anche alla rivoluzione. E che fa ciò in nome di un valore positivo, che è la condivisione della condizione umana. La filosofia di Sartre svelava all'uomo l'assoluto nulla, senza remissione alcuna. Ma a partire da tale nichilismo, per Camus, si corre il rischio di abbracciare un relativismo morale che può portare dritti ad «attizzare i forni crematoi». Camus pensava a una sinistra "libera" opposta a una "poliziesca", di matrice sovietica. Il «realismo rivoluzionario» – questo è il pensiero che causò il suo abbandono del partito comunista – finisce col giustificare ogni crimine in nome della rivoluzione. «L'avvenire – afferma Camus – è l'unico tipo di proprietà che i padroni concedono di buon grado ai loro schiavi». La rivolta, al contrario – osserva Flores d'Arcais – «esige risultati concreti, nel qui e ora, nella dimensione del singolo, dell'uomo realmente esistente». Per questo suona troppo intellettualistico il ricordo – pur affettuoso e non privo di onestà e di rimorso – che Sartre scrisse in morte dello scrittore: «Era l'erede moderno di quella lunga schiera di moralisti le cui opere costituiscono forse la parte più originale della letteratura francese. Il suo umanesimo ostinato, rigoroso e schietto conduceva un'impari battaglia contro gli eventi massicci e difformi del nostro tempo. (...) Cartesiano dell'assurdo, rifiutava di abbandonare il terreno sicuro della moralità e di impegnarsi nelle vie incerte della pratica». In realtà, mentre per Sartre la cultura era stata un privilegio di nascita, per Camus era stata essa stessa una conquista: forse l'unica via percorribile per sconfiggere l'assurdo, per dare un senso alla vita e per guardare il mondo senza autoingannarsi. Forse per questo, alla lunga, è lui a convincere di più." (da Armando Massarenti, Le fatiche laiche di un Sisifo felice, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/02/'10)

sabato 20 febbraio 2010

Biblioteche ambulanti alternative


La biblioteca sul cammello di Masha Hamilton

"La biblioteca ambulante e' ormai l'elemento base di molti sistemi bibliotecari territoriali e nasce con l'obiettivo di portare i libri a chi non ha modo di accedere al servizio di persona. Tuttavia, in molte parti remote del mondo i mezzi di locomozione tradizionali, come autobus o camion, non sempre si prestano allo scopo per le pessime condizioni del sistema stradale e la mancanza di fondi. Ecco quindi che librerie su carretto, asino e motocicletta diventano soluzioni funzionali per portare la lettura nelle comunità più decentrate.
Il blog Bilingual Library offre una panoramica di queste biblioteche ambulanti alternative. Iniziamo dalle biblioteche-asino. La "biblioburro", in Colombia, sembra essere la più conosciuta. È gestita da un maestro, Luis Soriano, che carica il suo asinello e si arrampica su per le montagne con un tavolo pieghevole da picnic dove sta scritto Biblioburro, 4 ore all'andata e 4 al ritorno per portare i libri a bambini che non hanno alcuna struttura bibliotecaria a disposizione. Quando arriva, legge loro delle storie e li aiuta nei compiti, così possono apprezzare la lettura di testi altrimenti fuori dalla loro portata. Grazie a questi libri, spiega il maestro, i bambini hanno la possibilità di vedere luoghi e persone diverse, imparano a riconoscere i propri diritti e doveri e l'impegno verso la società. E grazie a tale bagaglio di conoscenza possono dire no alla violenza e alla guerra. [...]" (da Maria Grazia Pozzi, Biblioteche ambulanti alternative: su asini e cammelli, carretti e moto, "La Stampa", 20/02/'10)

Storia di un giudice


"La Locride era Magna Graecia. Era. Ora è frontiera contesa, intrisa di sangue, di violenza, di barbarie, dove lo Stato sembra aver accettato la resa. Dove il delitto non fa clamore, neppure notizia a volte. «Il silenzio è il mezzo più efficace per radicare la paura ... per dire che allo Stato non importa nulla del destino di quella terra». Parole di Francesco Cascini, magistrato, nel suo Storia di un giudice. Nel Far West della ’ndrangheta (Einaudi). Cascini è stato pubblico ministero nella Procura di Locri dal 1996 al 2001, anni caldi per Locri, non meno di prima, non più di dopo. Era alla sua prima nomina, un giudice ragazzino catapultato negli avamposti della ’ndrangheta.
Il suo è un memoriale, lucido, puntuale, diretto. È una testimonianza, forte, incisiva, senza sconti per nessuno, come solo può chi è cresciuto sotto un cielo che non grandina piombo. Impatta con occhi impreparati su un mondo inimmaginabile.
Non ha ancora messo la scorza, si sveglia bruscamente dalla gioventù, ritrovandosi sorpreso e impaurito davanti a un popolo di vinti, che nulla s'aspetta dallo Stato. Ciò che altrove è straordinarioa Locri appare routine. Dovrebbe essere un occhio strabico, quello dell'autore. Di chi non partecipa alla vita sociale e perciò osserva da un punto di vista distante, staccato, attraverso le carte, i processi, i tavoli delle autopsie, i sopralluoghi per i morti ammazzati.
Invece, forse apposta, si avvede in tutta la crudezza di ciò che chi lì vive non coglie appieno. La sua è una cronaca da corrispondente in prima linea, è il grido di lamento di una terra dimenticata, tra delitti efferati - «la macchina della giustizia degli uomini valorosi si muoveva molto più rapidamente della nostra», ammette amaramente -, il rosso del sangue, il nero delle vesti delle donne in lutto, le minacce agli stessi giudici dei processi e alle loro famiglie. Gli capita di assistere impotente all'omicidio di un capobastone e, da testimone, ha paura - seppure immagini che non gli succederà nulla, per la ’ndrangheta che fa di tutto per mantenere basso il livello di attenzione -, si immedesima in quella degli altri e si accosta idealmente alle tante persone perbene seppellite sotto il peso di una vita da dover trascinare con le catene ai piedi, prigionieri senza sbarre.
Il silenzio scorre dentro la cronaca. E ferisce. C'è quello dello Stato, c'è quello della gente che lì deve continuare a vivere, c'è quello che esala dai fascicoli archiviati, insoluti, in Procura, c'è quello del mondo, di giornali e televisioni che degnano appena ciò che altrove riempirebbe le cronache. C'è il silenzio, assordante di morte, sulla piazza di San Luca, inondata di luce e popolata solo dall'impronta di ciò ch'era stato un uomo, con una macchia di sangue su cui
bivaccano le mosche, mentre le finestre rimangono chiuse e occhi spiano dagli
spiragli delle persiane.
Un mondo complicato, invivibile, che appiccica addosso il marchio della disfatta. Eppure il magistrato rimane, non si arrende, risorge dalle sconfitte. Ne emerge l'uomo, con le sue paure, le incertezze, le insicurezze, con un'umanità che le nefandezze di cui sono imbrattate le carte non intacca, che non si rassegna a un mondo dove il tempo scorre più lento che altrove e tutto appare immutabile.
Con gli scrupoli. Come gli succede dopo aver lasciato in libertà un anziano ritenuto innocuo e che invece trucida sul treno della partenza le due tunisine su cui per anni ha abusato. Tra le righe si coglie la misurata protesta di un servitore dello Stato che non sempre vede lo Stato e s'accorge delle contraddizioni della giustizia, con i magistrati che mancano e i pochi in servizio che anelano solo ad andarsene, senza vere strutture per le indagini, il Ris nella tranquilla Parma, lontana più di mille chilometri da Locri, dove la morte violenta ha messo stabile dimora. L'autore è secco, asciutto, essenziale, di una cruda linearità. Ci offre sapienti pennellate di umanità. E di una vita che desidera altrove. C'è anche il rifiuto di Locri nella storia troncata con Rita. C'è anche il rifiuto di Locri dentro l'amore per Nicoletta, la voglia di un'esistenza normale, di tornare giovane e libero, senza l'ansia di ogni giorno. L'amore sa cogliere l'occasione, sa insinuarsi nella debolezza, sa approfittarsi dello sconforto. Non per questo è meno amore. Ma non c'è rancore o odio per Locri. In qualche misura ha imparato ad amarla. O forse la compatisce soltanto, perché così in affanno, mentre profuma di mare, di gelsomini, di zagare." (da Mimmo Gangemi, Dove la ’ndrangheta campa sul silenzio, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/02/'10)

Diario di lettura: Romano Montroni


"A pagina 1 delle sue memorie Romano Montroni, il libraio per eccellenza e per antonomasia, scrive: «Di libri a quel tempo non capivo e non sapevo davvero niente». Negli Anni Cinquanta, quando è arrivato per caso al mestiere, come lo chiama lui, era un imberbe spilungone della periferia bolognese. Voglia di studiare, zero. Libri in casa, zero. Entusiasmo, tantissimo: allora e sempre. «Mio padre era vigile urbano, la mamma casalinga, mia sorella faceva la pellicciaia in casa. Potevamo sederci a tavola soltanto quando aveva tirato giù l'asse con le pelli bagnate e tirate. Il nonno viveva con noi, eravamo stipatissimi, io dormivo in camera con i miei e con mia sorella, e la doccia andavo a farla al bagno pubblico. Anni dopo un conoscente mi disse di avere comprato all'asta una casa popolare, in via Rimesse 9, al primo piano, "una casa di m...", aggiunse. Era la mia».
Diventare fattorino alla libreria Rizzoli, sotto le Due Torri, in quel centro storico che neppure conosceva, sarà stato un salto colossale. «Ha rivoluzionato il mio stato emotivo. Ero un giovane laborioso, molto malleabile, timido e umile nei confronti della cultura. A 14 anni ero già alto un metro e novantadue, avevo piedi lunghissimi, gli amici mi sfottevano e quando andavamo nelle balere non beccavo mai:
non avevo forte personalità, se non ridicolizzata. La libreria è stata una scuola di vita, mi ha sbloccato dal mio provincialismo interiore. Prima frequentavo i bar di periferia, dove si parlava solo di sport».
Non solo di sport, Montroni ... «È vero. C'era un siciliano che ogni volta che arrivava faceva una tacca sullo specchio, come i piloti con gli aerei abbattuti, vantandosi delle sue conquiste. Si chiamava Liborio».
All'inizio lei pedalava. «Facevo la spola in bicicletta fra la libreria e i distributori. Poi mi promossero aiutocommesso. I miei erano molto fieri, mia madre mi mandava a lavorare in camicia e cravatta».
Quando si capì che avrebbe fatto il libraio e non l'operaio, la mamma fu felice: «Bravo, così sporchi meno!». «Allora le librerie erano luoghi sacrali, piene di barriere reverenziali che saranno abbattute anni dopo, da Giangiacomo Feltrinelli. Ero un proletario ignorante, mi ritrovai fra librai in mezze maniche e professori universitari. C'era qualcosa di magico in quel luogo, in quegli oggetti».
Ricorda il primo libro che ha venduto? «No, ma ricordo la sensazione di ebbrezza quando trovai un libro che il capocommesso mi aveva ordinato di andare a prendere: l'avevo sistemato io a scaffale il giorno prima. Noi aiutanti obbedivamo e basta, non ci permettevamo iniziative, mentre al contrario dopo la rivoluzione feltrinelliana ogni libraio ha autonomia operativa. A me dicevano “cinno, vieni mo que”, ragazzo vieni qua, e io andavo, a comando, su e giù per le scale, lungo gli altissimi scaffali».
E in tutto ciò, leggeva? «Amadori, il direttore della libreria Rizzoli, un personaggio straordinario, mi prestava dei libri. Io andavo a casa a pranzo e mentre mia madre preparava le tagliatelle, prima della forchettata leggevo. Giamburrasca, I ragazzi della via Pál, le Favole di Esopo, Moby Dick in traduzioni oscene, il De Amicitia di Cicerone. Non sapevo niente, non capivo niente, ma cominciavo ad assaporare il piacere della lettura».
Ma i librai leggono? «Chi legge un libro al mese è già un mandrake, noi lavoriamo almeno dieci ore al giorno. Di più, significa che non fa bene il mestiere. Quelli all'antica fanno finta di sapere, i clienti però non chiedono di che cosa parla un libro ma se è uscito e dov'è. Per rispondere non serve averlo letto, è sufficiente frequentare le pagine culturali dei giornali, tenere le orecchie aperte con gli editori e con i clienti. Il primo pregio è la curiosità».
Un libro al mese per qualche decennio di mestiere significa che ne ha letti a centinaia. «Mi colpirono molto Le memorie di Adriano della Yourcenar, quell'imperatore modernissimo alla ricerca del sapere continuo era un modello, mi faceva pensare a Berlinguer. Poi le Lezioni americane di Italo Calvino, ne esci trasformato: alla prima lettura ero nel pallone, non capivo niente, ma come dice Vittorini non c'è libro che chiunque non possa capire, basta che lo rilegga.
Le braci di Sandor Marai, così emozionante e passionale, perfetto per iniziare alla lettura anche un non lettore ...».
Chi le consiglia che cosa leggere? «Con gli amici discutiamo dei fatti del giorno, poi finiamo sempre a parlare di libri. Benni, De Luca, Galimberti, Calasso: entusiasmano. Ai tempi Roberto Calasso dell'Adelphi spiegò così bene Follia di McGrath a noi librai Feltrinelli che lo portammo al successo. È il libraio a fare la fortuna o la sfortuna di uno scrittore: salvo che se va da Fazio».
Oggi molti librai di catena sembrano non sapere nulla, controllano al computer e stop. Mentre i piccoli temono di chiudere e mettono sotto accusa appunto le
grandi catene. «Prima per Feltrinelli e adesso per Coop, curo moltissimo la formazione. Quanto ai piccoli, sono sereno perché ho sempre creduto che l’apertura di librerie non danneggi gli altri, ma aiuti il mercato. Ciascuno ha un’identità diversa, e la concorrenza aguzza l’ingegno».
La tecnologia non basta, serve il fattore umano. Ma è un lavoro intellettuale o fisico? Quante tonnellate di carta avrà maneggiato, in tanti anni di mestiere?
«Ho aperto una cinquantina di librerie. L'ultima, a Pesaro, è piccola, 270 metri di scaffali: 26 bancali di libri. Quando aprimmo la Feltrinelli di via de' Cerretani a Firenze, 1000 metri quadrati, scaricammo i Tir alle 5 del mattino, facendo il passapacco come in un film sui portuali americani. A Piazza Duomo i bancali furono 1.500: quando te li vedi arrivare, fanno impressione. Ma la quantità non mi ha mai spaventato, né di libri né di gente».
Occorre un fisico bestiale, per fare il libraio? «Occorre una volontà di ferro,
e una certa fisicità. Ma nessuno è mai schiantato sotto il peso dei libri».
Le donne ce la fanno? «Meglio degli uomini».
Il libro come fatto corporeo, prima ancora che mentale ... «Quando entro in un libro, leggo ad alta voce. Giro per casa declamando».
Chissà sua moglie. «Piera. Libraia anche lei. Dunque è curiosa».
Non vi porterete il lavoro anche a casa, vero? Suppongo non abbiate neanche un libro.
«Al contrario. Un libraio non può distogliersi dall'ambientazione della libreria. Quale mestiere, d'altronde, ti dà tanta complessità di emozioni? Toccare i libri, aprire uno scatolone, scatena un'infatuazione».
Che sensualità. «Non credo che l'e-book vada a intaccare quel desiderio di possesso. Sarà uno strumento in appoggio ma non sostituirà il libro, se non in un mondo alla Blade Runner che né lei né io vedremo. È come l'amore: virtuale non basta, voglio una donna fisica e carnale».
A proposito: ha visto nascere amori, grazie ai libri? «Mi dicono che se le leggi una poesia di Kavafis o di Hikmet, la donna casca».
Se lo dice lei. Ma come li tiene i libri, in casa? «Per editore gli Adelphi, i Sellerio e i Feltrinelli (li ho tutti fino al 2005, quando sono uscito). In ordine alfabetico gli altri».
Ne compra? «Sì».
Se becca in negozio qualcuno che ruba, che cosa fa? «Dipende. Se è uno che ruba per rivendere, va represso duramente. Ma a più di un giovane squattrinato ho fatto una ramanzina e poi ho lasciato il libro. Conquistando un cliente».
E lei, ha mai rubato un libro? «Sì, un'antologia di aforismi, in casa di un amico. Ma avevo l'incubo del furto. L'ho ricomprato e gliel'ho riportato».
Di nascosto? «No. Gli ho detto che avevo commesso un errore, ma che ho una coscienza. Abbiamo riso parecchio»." (da Giovanna Zucconi, Innamorarsi tra gli scaffali con Hikmet, "TuttoLibri", "LaStampa", 20/02/'10)

Ragazze del Nordest


"Manganelli, il sommo, per qualche tempo non ebbe una casa propria a Roma. Viveva in una stanza, presso una famiglia. Quando i signori traslocavano, si portavano dietro la gabbia col canarino e Manganelli. Mi è sempre sembrata un metafora perfetta della scrittura. Origliare, spiare, saccheggiare le vite degli altri. A volte surrettiziamente, l'orecchio poggiato contro un muro,altre, come nel caso del bel libro di Romolo Bugaro e Massimo Franzoso, facendo di questo ascoltare il progetto stesso. Ragazze del Nordest (Marsilio) è il frutto di interviste, incontri, ricordi. Anni in cui i due scrittori, come Manganelli e il canarino, esercitano la neutralità. Per arrivare a scegliere nove storie di donne, nove racconti che stordiscono per intensità. Questo libro ha un padre. Si chiama I nuovi sentimenti. La ricorderete, è un'antologia curata dagli stessi autori, uscita nel 2006 sempre per Marsilio. Allora il compito era quello di riscrivere il vocabolario del sentire. Amore, amicizia, odio ... come si declinano al nostro tempo. Dalle riunioni di quel gruppo di scrittori è nato adesso Ragazze del Nordest. Ancora uomini, stavolta, per parlare di donne. Ma questa specularità si rivela subito non decisiva. Bugaro e Franzoso volutamente non spiegano come si siano alternati alla scrittura, se si siano divisi le interviste o abbiano lavorato insieme a tutte quante. Fa parte, questa pudicizia, dello stile del libro. Una delle tante qualità di questi racconti è proprio il nitore col quale queste vicende ci appaiono, come conchiglie smerigliate dal mare. Ossute, essenziali, come il corpo di Vanishing 74, la sacerdotessa di Ana, che dal suo blog distribuisce consigli per mantenersi puri e vuoti. E a cena, dentro una enorme camicia da uomo (che nasconde tagli incisi sulle braccia) centellina la sua insalata scondita e beve acqua naturale, mentre spiega che l'alimentazione senza grassi è capace di bloccare l'invecchiamento, di fermare l'azione del tempo sul viso, sulla pelle ...
Sara N., protagonista del primo racconto, aveva quattordici anni quando ha conosciuto Riccardo. Un ragazzino bello come Kurt Cobain e innamorato della moto e della velocità. Per lui, Sara impara ad amare le corse. 'All'epoca' dice, 'ero totalmente passiva, una vera alga di mare. Studiare mi interessava zero, la gente mi interessava zero. Non avevo amici né alcuna passione: mi piaceva quello che piaceva a Riccardo ed evitavo quello che evitava lui'.
Caterina L., alla fine di un lungo elenco di amanti deludenti, a 44 anni ha deciso di tornare a vivere insieme al padre, alla madre e al fratello. Lavora nello show room di mobili di famiglia e ogni volta che entra un cliente si chiede che intenzioni abbia, cercando di capire se dovrà difendersi da lui.
Alessia, che sarebbe stata disposta a dare un figlio all'amico gay, trova un'enorme soddisfazione in serate che chiama 'moglie a domicilio'. Chiunque sano di mente penserebbe che si tratti di sesso. Invece le serate a casa di Andrea, che si è trasferito in campagna, cominciano con Alessia che cucina e finsicono con loro due seduti sul pavimento davanti al camino, a chiacchierare con un bicchiere di cognac. E nel mezzo la cena, e basta. 'Siamo lì' dice Alessia, 'uniti dalla nostalgia di abitudini mai avute. Siamo un marito e una moglie del passato, liberi di tornare al presente. Siamo una famiglia che non possiede alcun ricordo'. Affittuari di una storia d'amore dal punto in cui è già consumata, come un vecchio paio di scarpe che non fanno più male.
Commuove, e fa rabbrividire il panorama che queste vite, una accanto all'altra, disegnano. Sullo sfondo di un territorio che si intravede appena, ma che evidentemente ha picchiato duro su ciascuna di loro. Tutte queste donne, ognuna a suo modo, sono sole. Vivono un'esistenza strettissima, confrontandosi solo con la propria nevrosi. Sembra che intorno non ci sia nessuno. Hanno relazioni seriali con gli uomini, consumano psicofarmaci, si occupano della manutenzione delle loro ferite. Chi ha perso il padre, chi si è dovuta confrontare con il trauma del rapimento, chi ha abortito. Ma nessuna di loro sembra aver trovato qualcosa. Come se davvero tutto intorno ci fosse il deserto. Anzi peggio, le villette a schiera come direbbe Vitaliano Trevisan, altro acutissimo osservatore di quella disperazione. Universi recintati, ecosistemi che si autoalimentano e non si contagiano. Nei quali si mettono in scena vite fittizie, in cui ogni gesto, per non far male, è stato svuotato di emozione e trasformato in rito. Tranne che per una di loro, Chiara. Che senza una vera ragione un giorno lascia il marito e i figli (come un alpinista che cade perché non ha più forza nelle mani e non riesce a stare aggrappato a quel costone un istante in più) e va a vivere con un uomo che fa parapendio. E non è un caso che l'unico momento di pura gioia, l'unico slancio di felicità di tutto il libro si compia in volo, lontano da terra, da un mondo insopportabile." (da Elena Stancanelli, Le vite delle altre. Viaggio nel paese delle donne sole, "La Repubblica", 20/02/'10)

venerdì 19 febbraio 2010

Tre idee per far leggere


"Senza i soldi non si canta la messa» dice un proverbio, e ciò che vale per la messa vale per la promozione della lettura. Tant’è che se la Spagna (per dire un Paese a noi simile) ha un 47% di lettori, contro il nostro modestissimo 38%, è anche perché per la promozione del libro spende circa 30 milioni di euro l’anno, e l’Inghilterra che è al primo posto in Europa (67%) ne spende almeno 20. Il Centro per il libro e la lettura, appena varato, può invece contare su un più misurato budget (6 milioni di euro). Con questo Finanzierà un piano di interventi illustrato due giorni fa da Gian Arturo Ferrari, che ne è il presidente, presso la Biblioteca Casanatense di Roma (La Stampa ne ha dato conto ieri). Ma ciò che conta di più – si è capito – sono le idee, che a volte arrivano dai posti più lontani dall’aura accademica o dagli uffici degli «esperti». Su Facebook – per dire – l’idea di Alberto Schiariti, che ha collezionato quasi 200 mila adesioni, è stata ribattezzata «la figata». E di questo si tratta: il giovane in questione è nato nel 1988 a Empoli, di professione è informatico e – come lui stesso racconta ai numerosi fan sul suo blog Pensoscrivo – fa il pendolare tra la sua città e Prato. E legge. Legge e rilegge. E poiché vede ogni giorno le solite facce alle solite ore, ha pensato a questi suoi sconosciuti sodali come ai possibili destinatari di un «dono per la mente», cioè un libro. Ha così lanciato una iniziativa per il 26 marzo, vigilia del suo compleanno: regalare, a uno sconosciuto che si incontri di frequente, un volume a cui si sia affezionati. Un regalo che è anche «un’idea di rimorchio», ha commentato qualche burlone su Facebook, ma tant’è. La Stampa ha parlato di questa iniziativa già il 5 febbraio: una settimana dopo le adesioni all’idea erano già 60 mila. Oggi sono più che triplicate.
Ha un tono ludico e socializzante anche l’istanza della giornalista Giovanna Zucconi, presidente di una associazione che nel nome dice tutto: «Readere» (si legge ridere ma ha una radice nel verbo inglese to read, leggere), che si pone l’obiettivo di sdrammatizzare il leggere e togliere al libro la patina trombonesca che si porta dietro. Le truppe cammellate per la bisogna sono costituite da una squadra di ragazze in gamba che investono tanti aspetti della cultura - Rosellina Archinto, Paola Mastrocola, Evelina Christillin ed Eva Cantarella (unico ragazzo: Maurizio Luvizone) - e che il 2 marzo a Piacenza presenteranno la strategia di guerra. Ovviamente segreta, almeno fino ad allora. Ma qualcosa si sa: si creano situazioni e gesti legati al leggere. Per esempio: in consiglio comunale uno si alza e, prima del suo discorso, legge un brano. Sulla facciata di un palazzo verrà proiettato un video in cui illustrissimi testimonial (nomi top secret) appariranno mentre leggono. Si allestirà un «ReadTube»; insomma uno YouTube per chi legge (o vuole prendere il vizio di farlo).
In un popolo di santi, eroi e navigatori, ma anche di scrittori, Stefano Mauri, numero uno del gruppo editoriale Mauri-Spagnol, si appresta a lanciare un concorso, che costringe a leggere almeno chi scrive. Si tratta di una sorta di torneo a eliminazione, tipo quelli di tennis, in cui si invitano gli scrittori in erba (ma non solo) a mandare un loro testo al sito IoScrittore (scadenza il 31 marzo). L’obiettivo è di arrivare a 2000 testi. «Riproponiamo – dice l’editore - un nuovo modo di affidare interamente al popolo della Rete il compito di giudicarsi eleggendo i migliori. Le opere più apprezzate diverranno e-book e il vincitore, ed eventualmente altri prescelti, troveranno la via della pubblicazione in una delle nostre case editrici»." (da Raffaello Masci, Tre idee per far leggere, "La Stampa" 19/02/'10)

Gian Arturo Ferrari: i libri, una questione nazionale


"Attorno al capezzale del libro, malato a dire il vero più immaginario che reale, si sono negli anni avvicendati in tanti. E se fino ad oggi i consigli, le iniziative, le cure non hanno funzionato la colpa non è solo del malato, ossia del libro, che una sua vita stentata comunque ce l'ha. Ma di quelli che ne ignorano l'esistenza, che lo trascurano, che lo considerano un oggetto inutile. E' su questa zona opaca di indifferenza e diffidenza che bisogna soprattutto agire dice Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro e la lettura, un organo del Ministero per i Beni e le Attività culturali che avrà il compito, con l'aiuto dell'Associazione editori e dell'Associazione librai di inventare e portare a compimento, nell'arco di un decennio, una nuova strategia culturale che renda il Paese un po' meno anomalo dalle altre realtà europee che quanto a numero di lettori ci surclassano ampiamente. Per raggiunti limiti di età Ferrari ha lasciato da poco la direzione della divisione libri della Mondadori. [...] Lei rileva un paradosso: l'Italia ha un mercato del libro all'altezza di qualsiasi Paese industrialmente avanzato, ma legge come se fosse un Paese del Terzo mondo. Perché? 'Un tempo si pensava che la divisione Nord, Centro e Sud influisse sulla formazione del lettore. In realtà sono le differenze sia socio-economiche che di isruzione a determinare il bacino dei lettori. Tra l'altro, contrariamente alle previsioni, queste differenze si sono accentuate negli ultimi anni. Abbiamo un mercato forte e una lettura debole. Per cui possiamo dedurre che la lettura di libri in Italia non è democratica. E riteniamo che questo sia un problema nazionale. Di qui i compiti che il Centro per il libro si è dato, unendo le forze del Ministero e quelle rispettivamente dell'Aie e dell'Ali. Il nostro obiettivo è allargare il bacino dei lettori portandolo dal 38% al 50% della popolazione sopra i 14 anni'.
Con quali strumenti? 'Premetto che nessuno sa esattamente come far crescere il numero dei lettori. Abbiamo ideato una serie di programmi che cominceremo a sperimentare. Il primo è un intervento massiccio su tre province (rispettivamente Nord, Centro e Sud), avendo come obiettivo soprattutto il mercato dei ragazzi. E' il più arretrato, ma anche quello in cui l'investimento per il futuro può risultare più proficuo'.
So che avete pensato anche a regalare libri. 'Fa parte del programma. Vorremmo in accordo con gli editori offrire gratuitamente alle categorie più svantaggiate quei libri di buona qualità che gli editori in ogni caso, per costi di magazzino, avrebbero eliminato. Questa iniziativa è di grande valore sociale ma ha un costo elevato'.
Crede che basteranno i tre milioni stanziati dal ministero? 'No, l'Aie finanzierà una parte di questi programmi. Abbiamo anche creato un'associazione Fahrenheit 451, che vende i suoi 451 gradi a 10 mila euro l'uno. Saranno richieste fatte a privati per autofinanziarci'. [...]
Ferrari, lei difende il destino del libro cartaceo. Ma qui stiamo andando verso tutt'altro. L'e-book è la nuova frontiera. In che modo l'affronterete? 'Siamo come sull'orlo di un burrone. Possiamo solo cercare di non precipitarvi dentro. Voglio dire che l'e-book è un salto enorme, un po' come fu l'invenzione della stampa. Noi non abbiamo idea di che cosa accadrà. La nostra percezione è continuista, ma l'e-book è davvero una svolta radicale. Il libro così come è stato è una forma definitiva, compiuta come può essere un quadro o una statua. La natura del mezzo elettronico lo renderà flessibile, modificabile, adattabile. Molto più simile a un essere vivente che a una cosa." (da Antonio Gnoli, Cari italiani, vi farò leggere, "La Repubblica", 18/02/'10)

mercoledì 17 febbraio 2010

Il ramo d'oro di James G. Frazer


"Senza Il ramo d'oro di James G. Frazer la cultura del Novecento non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi usciti nel 1890 sono uno sterminato catalogo dell'immaginario umano. Un fantastico viaggio che parte dal lago di Nemi e dall'uccisione rituale del sacerdote di Diana per mano di un uomo più giovane e forte che vuole prenderne il posto. E attraversa la mitologia degli antichi, i riti dei primitivi e le credenze dei moderni ricerca il filo che unisce il passato e il futuro dell'uomo.
Questa Bibbia dell'antropologia ha avuto un'influenza decisiva sulla psicoanalisi, sulla poesia, sulla letteratura e sul cinema contemporanei. A cominciare da Sigmund Freud che ammetteva di dovere all'opera di Frazer l'idea dell'uccisione del padre che sta al cuore di Totem e tabù. Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra pensando alla pagina frazeriana sull'assassinio rituale del re congolese Chitombé. E la Terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi dell'uomo moderno si può considerare una vertigionosa parafrasi poetica del Golden Bough. Fino ad Apocalypse Now dove Coppola dedica un memorabile primo piano al libro di Frazer che sta sul tavolo di Marlon Brando. Prima che venga ucciso come un antico sacerdote di Nemi. Chiudendo così un cerchio millenario." (da Marino Niola, Da Freud a Eliot, le influenze di un rito, "La Repubblica", 17/02/'10)

"È un recinto quadrato, un vaso incassato nella terra. Sul fondo un reticolo di piccoli mattoni porosi, lungo il bordo un canale sottile dove scorreva l'acqua. Siamo a Nemi, castelli romani, sulla riva settentrionale del lago che la leggenda vuole fosse lo specchio di Diana, la dea della caccia e dei giovani che si affacciavano all'età adulta. Quel vaso, sostiene l'archeologo Filippo Coarelli, potrebbe essere l'alloggiamento dell'albero frai cui rami ce n'era uno che un'altra leggenda racconta fosse d'oro e avesse un potere speciale: la sua storia viene narrata da autori greci e latini e poi giunge fino a James Frazer, l'antropologo e storico delle religioni che intitolò Il ramo d'oro la monumentale opera, scritta fra il 1890 e il 1915, in cui si ragionava di magia, di scienza e dell'origine sacrale della regalità. «Nel santuario di Nemi», scrive Frazer, «cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il diritto di battersi col sacerdote e, se l'uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis».
Frazer racconta culture primitive e rintraccia il ripetersi di alcune costanti negli usi e nei riti di diversi popoli. Il punto di partenza della sua indagine è questo lago di struggente bellezza, al centro di una conca rivestita dai colori duri e intensi di un vulcano spento.
Qui Frazer ha soggiornato e ha letto le storie, narrate da Strabone, Pausania, Ovidio e altri ancora, di quel rituale, sanguinario e magico, che affidava a un duello mortale l'investitura del rex nemorensis, sacerdote di Diana e sovrano della comunità (ma un ramo d'oro figura anche nell'Eneide: serve a Enea per scendere nell'Ade). I candidati al duello, per sfidare il possessore del titolo, dovevano impadronirsi del ramo d'oro strappandolo da un albero sacro alla dea. Spiega Coarelli, fino allo scorso anno professore a Perugia, una vastissima bibliografia e scavi in tutto il mondo: «In questo rituale si riconosce una struttura primitiva che richiedeva al re, capo militare oltre che politico e religioso, straordinaria efficienza fisica. Il duello serviva a confermarla e qualora questa fosse venuta meno, il re era destinato a decadere e morire». Una specie di ordalia, dunque: questo luogo sarebbe poi diventato il centro federale della lega latina, dove i rappresentanti delle comunità si riunivano per le grandi occasioni civili e religiose, e da dove scaturiva la stessa originaria identità latina. Al recinto che avrebbe ospitato il ramo d'oro si arriva inerpicandosi su una scarpata che le piogge hanno ridotto a una poltiglia di fango. Coarelli, con Giuseppina Ghini e Francesca Diosono, scava qui da alcuni anni per riportare alla luce quel che resta del santuario dedicato a Diana, circa quattromila metri quadrati di estensione, il più grande del Lazio e, ora si può dire, il più antico. A settembre ha individuato il tempio principale all'interno del santuario. E poi si è spinto in alto, attraverso un varco che interrompe la cinta di possenti mura, percorse da grandi nicchie. Lì ha rinvenuto ambienti con fontane, terrazzamenti, una cisterna e un ninfeo.
Ma fra questi reperti e le mura si estendeva un'area dove in epoca medievale c'era stato un crollo. «Abbiamo scavato per mesi, dovevamo togliere enormi blocchi di lava», racconta Coarelli. «La posizione ci diceva che doveva esserci un edificio sacro. Ma venivano fuori solo tantissimi cocci di ceramica, di natura rituale e votiva».
Sembrava un buco nell'acqua. Ma l'archeologia è la scienza delle sorprese. Intanto i cocci risalivano alla media e tarda età del bronzo, fra il XIII e il XII secolo a. C., (i resti più antichi del santuario sono databili al III). E questo contatto con un passato tanto remoto era come mettere le mani in un mondo mitologico: il culto di Diana è anche un culto infernale. Ma poi il vuoto faceva pensare a un luogo lasciato intatto, nel quale vigesse un divieto a costruire per ragioni sacre, per rispetto misto a timore. L'area sembrava avesse contenuto un bosco e l'impressione veniva confermata dalla scoperta del recinto e dal fatto che questo fosse orientato in maniera da essere il punto più eminente di quel fazzoletto di verde. Il raffronto fra l'evidenza archeologica e le fonti letterarie, fino a Frazer, ha spinto Coarelli a formulare un'ipotesi: questo è il bosco in cui si svolgeva il rituale del rex nemorensis e il recinto è l'invaso in cui sorgeva l'albero ritenuto sacro a Diana, l'albero del ramo d'oro. Ora lo scavo è sospeso e l'area è recintata: ma questo non scoraggia strani incursori notturni che su una pietra hanno lasciato una mela circondata da ricci di castagne sistemati a corona, quasi un'offerta votiva. Il culto di Diana in qualche modo sopravvive in curiosi riti fra il magico e il satanico, racconta Coarelli. «I carabinieri sono avvisati», spiega l'archeologo, «ma non è questo il pericolo più grave, piuttosto il fatto che la nostra ricerca è appesa a un filo: se non riusciamo a recuperare finanziamenti non sappiamo davvero come continuare. Qui si tocca con mano l'assoluto disinteresse nel quale affonda il nostro patrimonio»." (da Francesco Erbani, 'In questo vaso cresceva l'albero con il ramo d'oro', "La Repubblica", 17/02/'10)

martedì 16 febbraio 2010

Non soltanto bestseller: una libreria per lo Slow Book


"Non tutti i buoni libri entrano nel paradiso dei più venduti. La maggior parte, se non spinta dal passaparola, sparisce nel nulla. Ma ora c'è Slow Book Farm che on line mette in vendita i titoli 'da salvare'. Infatti, per ovviare alla strage dei meritevoli, nell'aprile 2009 Alberto Casadei, Andrea Cortellessa e Guido Mazzoni, inventavano classifiche di qualità. Ovvero una sorta di Gambero rosso della letteratura in collaborazione con la rassegna PordenoneLegge, un elenco di titoli votati da una speciale giuria, aggiornato ogni due mesi. Un anno dopo, il numero dei giurati - scrittori, critici, filosofi, artisti, redattori editoriali - tocca quota 140. E i libri presenti nelle nuove classifiche (Narrativa, Poesia, Saggi. Altre scritture), in Rete da domani, saranno tutti in vendita su InternetSlowBookFarm, il bookshop on line che nasce adesso con lo scopo di rilanciare la piccola e media editoria di qualità. Ma non solo: i titoli segnalati verranno presto esposti nelle librerie Coop. E la rivista web Stephen Dedalus raccoglierà via via interviste agli autori 'migliori' (Antonella Anedda, Mario Benedetti, Marco Belpoliti e Nicola Lagioia, i primi) e articoli in cui i votanti motiveranno i loro criteri di valutazione. Insomma, l'esercito deli slow book si arma per fronteggiare i best seller e per segnalare ai lettori i 'cibi dell'anima' più interessanti.
'Trovo diseducativo che all'ingresso delle grandi catene vengano mostrati i dieci libri più venduti. E' un invito al conformismo, all'omologazione', spiega Andrea Cortellessa. 'Per questo, a un anno dalla nascita della nostra iniziativa, la collaborazione con le librerie, sia le Coop che InternetSlowBookFarm, rappresenta un grande risultato. Speriamo che presto altri punti vendita prendano l'iniziativa di segnalare i titoli non solo per la loro posizione in classifica, ma anche per la qualità che li caratterizza'. Qualità che - ha contestato qualcuno ai giurati, sia a mezzo web che sulla carta stampata - rappresenta tutt'altro che un criterio oggettivo: 'E' per questo che sulla nuova rivista on line i giurati motiveranno le loro scelte', continua Cortellessa. 'Siamo stati criticati anche perché la giuria è per lo più composta da autori che rischiano di votarsi da soli. Ma noi stiamo attenti ai 'conflitti di interesse'. E poi rivendico il fatto che gli scrittori possano finalmente giudicare i loro colleghi. Così come agli Oscar gli attori votano per gli attori. Infrangiamo finalmente un tabù che una volta non c'era: prima chi pubblicava libri dava anche pareri espliciti sugli altri, non c'era questa finta correttezza. Le nostre classifiche comunque servono soprattutto a indirizzare i lettori. Sono un antidoto alle top ten dei più venduti che raramente intercettano anche opere di qualità. Ormai i titoli che diventano bestseller vengono proposti come 'casi' ancor prima di uscire in libreria. Alcuni sembrano costruiti in laboratorio. Tutto questo con la buona letteratura c'entra poco'. I votanti di qualità, intanto, hanno appena stilato l'elenco delle migliori opere straniere tradotte nel 2009. Il podio è occupato ex aequo da Ingeborg Bachmann - Il libro di Franza (Adelphi) - e Arno Schmidt - Specchi neri (Lavieri). Per una volta hanno battuto Dan Brown e Stieg Larsson." (da Dario Pappalardo, Slow Book Farm per i libri di qualità, "La Repubblica", 16/02/'10)

Premio Letterario Dedalus

lunedì 15 febbraio 2010

Bianca come il latte, rossa come il sangue


"C’è molta frenesia intorno all’esordio di Alessandro D’Avenia. Il suo girotondo di qua della linea d’ombra, Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori), fagociterebbe una storia autentica, e tragica. Sarà, non sarà. E, se mai fosse, dove lo sfregio? Beatrice, la fanciulla regina di questa love story ora à point ora oltremodo giulebbosa, è onorata di cure supreme che evocano il capolavoro di Battiato «(Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te»). No, oscillando tra un colore e l’altro (è una teoria dei colori il nostro viaggio sentimentale, quando è «sentimentale»), non s’incontra il cantautore siciliano. Ma, da De Gregori a Vasco, la colonna sonora naturalmente è ampia. Non respiriamo forse l’aria liceale? Alessandro D’Avenia, trentadue anni, fra i kaloi kai agathoi - la fotografia nel risvolto di copertina -, professore di Lettere, nonché sceneggiatore (seguirà le orme di Moccia?, ma la sua trama non ha una vis, un’allure così «cinematografica»), ritorna adolescente o capta l’adolescente come ci si aspetterebbe da chi è in cattedra. Nel suo «diario» si rivela una sorta di Fregoli. Ora nei panni del Sognatore, il supplente maieutico di storia e filosofia, ora nei jeans di Leo («Non so rimanere in silenzio o da solo, che è lo stesso. Mi viene un dolore poco sopra la pancia o dentro la pancia, non l’ho mai capito, da costringermi a inforcare il mio bat-cinquantino ... e girare a caso fissando negli occhi le ragazze che incontro per sapere che non sono solo»).
Solo i nostri sogni non saranno mai umiliati, batte e ribatte il Supplente, che dimostrerà di esistere, di avere «una vita reale fuori da scuola», a differenza dei suoi colleghi. Un eco di Attimo fuggente o, meglio, un seme che saprà scalfire l’atonia della futura classe dirigente (perché «il classico ti apre la mente, ti dà orizzonti, ti struttura il pensiero, ti rende elastico ...»).
Il sogno di Leo ha i capelli rossi di Beatrice, la ragazza della classe accanto, malata di leucemia, corteggiata tessendo un filo stilnovista. Tra sguardi che dovrebbero ammaliare, sms che dovrebbero arrivare, lettere che non riescono a trovare l’indirizzo della destinataria, generose donazioni di sangue, consenzienti (egli è un minorenne) i genitori, di esemplare sensibilità, pur non abdicando al ruolo, da stropicciarsi gli occhi ... Scende e sale e ridiscende le scale cromatiche della vita, Leo-D’Avenia. La paura è bianca, il coraggio è rosso, gli amici veri sono azzurri ... Via via «scontando» o assaporando la tavolozza toccatagli in sorte, toccata in sorte a ciascuno di noi, dove l’abbraccio funesto e l’abbraccio splendido esitano a lungo prima di riconoscersi reciprocamente. Perché se la maturità è tutto, ostico è raggiungerla: «Ma non era uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse», l’Agostino moraviano e gli Agostini di ogni liceo. Un romanzo, Bianca come il latte, rossa come il sangue? Di canzone in Google («... scrivo due parole: morte e Dio. Insieme. Mi esce la pagina di un filosofo di nome Nietzsche, che ha detto che Dio è morto. E questo lo sapevamo già: sulla croce»); di scarpe da tennis in piercing, di Coca gigante in Fred Perry, sembra di stare in un fumetto (il palcoscenico della vita apparente) o in un una sala d’attesa, nella casa colma di stanze che è la pre-letteratura, dove la parola indugia nel temperamatite, non ancora idonea a reggere l’urto del mondo. Forse il bianco qui prevale. Forse. Ma siamo solo al primo giorno di scuola." (da Bruno Quaranta, Il più bel colore si chiama Beatrice, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/02/'10)

Le ho mai raccontato del vento del Nord


"Un’idea semplicissima e vincente quella del romanziere e giornalista viennese Daniel Glattauer: creare una love story online. A colpi di e-mail. Un romanzo
epistolare dei nostri giorni con protesi tecnologica, una relazione virtuale che vive di ubiquità: corpi lontani ma menti che si avvinghiano in un balletto
delizioso. Lui ci ha provato nel 2006 scrivendo Le ho mai raccontato del vento del Nord (ora in uscita da Feltrinelli nella versione di Leonella Basiglini) e il successo è stato immediato e travolgente. Forse perché il popolo di Internet, le folle giovani e meno giovani dell’«iperconnessione» disperse fra chat, email e Facebook, si è in qualche modo rispecchiato nel dialogo a distanza fra lo scapolo Leo Leike, di mestiere psicolinguista all’università, e la signora Emmi Rothner, donna vivace e moderna con un marito musicista e due figliastri a cui badare. Basta un semplice errore, una vocale in più nell’indirizzo e il messaggio con cui Emmi intende disdire un abbonamento finisce nella posta dello studioso. E’ l’inizio di un dialogo frizzante e appassionato, pieno di guizzi, di emozioni, di avance e ripulse, di bizzarro erotismo verbale, condotto con leggerezza e intelligenza, senso del ritmo e dei tempi. Battute di pochi secondi si alternano a più ampie riflessioni, brevissimi battibecchi scivolano in romantici languori, in ebbrezze notturne e bevute online in una sorta di onanismo della mente e del cuore. Ci sono pause di giorni, ma anche attimi imbottiti di e-mail, ore di attesa ma anche il lento, ininterrotto scorrere di un colloquio tonificante.
Glattauer porta Internet sulla scena: Emmi e Leo sono alla fine due splendidi interpreti di un testo che non a caso è diventato anche un radiodramma e una pièce teatrale. Due personaggi in cerca d’identità, oltre lo spazio anonimo e virtuale della posta elettronica, oltre gli svaghi della mente e le parole. Lei, un’immagine della fantasia e lui «un gioco, un’agenzia di recupero flirt».
Eppure quella relazione astratta, senza volto né corpo, quel titillare l'immaginazione fino allo spasimo diventa col tempo indispensabile: «Lei è come una seconda voce dentro di me - confessa Emmi - (...) Le sono grata per il suo umorismo, il fascino, la vitalità».
Perché non incontrarsi a questo punto? E qui l'autore aggiunge un pizzico di tensione quasi disposto a sdoganare l'immagine virtuale nella concretezza della vita. Ma poi i due ci ripensano e tornano alle vecchie abitudini: il rapporto online potrebbe frantumarsi, svanire di colpo di fronte alle insidie e alle delusioni della realtà.
Il computer galeotto tiene Emmi e Leo avvinti, anzi segregati, in una relazione che si esalta solo nella distanza. E’ il paradosso e la morale di un dialogo che si consuma nel soffio miracoloso della parola, nel gesto moderno di tante solitudini in cerca di e-mail. «Scrivere è baciare con la mente», dice Leo in vena di kitsch.
E per stavolta bisognerà che Emmi si accontenti; del resto è proprio lei che non va all'appuntamento. Ma i lettori l’hanno presa male quando Leo ha deciso di partire per Boston. E così Glattauer ha scritto un altro romanzo dove forse si incontreranno. Dunque, alla prossima puntata. E speriamo che si bacino davvero, almeno così sapremo che esiste ancora la realtà." (da Luigi Forte, Lei & lui, galeotto fu il computer, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/02/'10)

A zonzo per le librerie d'Europa


"Una libreria leggendaria come la Shakespeare & Co. di Parigi, probabilmente, non esisterà mai più. In quel piccolo negozio, nato all'8 di rue Dupuytren (e da non confondere con la libreria omonima tuttora esistente, ma aperta negli anni '50 da George Whitman e condotta oggi dalla figlia in rue de la Bucherie, 37) e poi spostatosi in rue de l'Odéon, è passata la storia culturale e letteraria del secolo scorso: un'epopea culminata nella pubblicazione del libro più famoso del Novecento, l'Ulysses di James Joyce, fortemente sostenuto dall'altrettanto leggendaria libraia (e, in quel caso, editrice), che quel negozio aveva aperto: Sylvia Beach.
Le sue memorie (recuperatele: Shakespeare and Company, Sylvestre Bonnard) sono frizzantissime, a partire dallo splendido telegramma mandato alla mamma in America, per sovvenzionare l'impresa: «Apro libreria a Parigi. Prego inviare soldi». E faranno il paio, ora, con i ricordi della sua dirimpettaia e ispiratrice, collega e mentore (amica e amante di una vita) Adrienne Monnier, che gestiva la «gemella» Maison des Amis des Livres, appena editi con il titolo di Rue de l'Odeon dalle palermitane Due punti edizioni. Due figure assolutamente eccezionali, come eccezionali furono le loro librerie che contribuirono a creare il mito della Rive gauche di Parigi. Non furono le uniche, ovviamente: di librerie storiche memorabili sparse per tutto il Vecchio continente ce ne sono (state) molte. Botteghe che non esistono più, fatte di eleganza, competenza molta romanticheria e qualche improvvisazione.
Nella geografia urbana del Novecento le librerie sono state punti di riferimento forti, luoghi di aggregazione della comunità intellettuale: anche perché potevano permettersi il lusso di stare, fisicamente, nelle vie del centro. L'arrivo delle catene, la rivoluzione del mestiere del libraio e, per quanto riguarda gli affitti, lo strapotere delle griffe di abbigliamento, ha stravolto per sempre questo panorama. In Italia, esempi illustri di librerie costrette a chiudere o cambiare sede ce ne sono diversi: e basti l'esempio della superba Seeber a Firenze, chiusa e poi rinata – rinnovata – come Melbookstore.
Le notizie che arrivano, per i librai indipendenti, sono drammatiche. In Inghilterra, lo scorso anno, hanno chiuso col ritmo di due alla settimana; ne sono state aperte 40. E anche in Italia cominciano a essere purtroppo in tante le indipendenti che non riescono più a farcela. Una via per aiutarle, concreta e di poco costo, sarebbe una legge sul prezzo fisso, come c'è in Francia, con magari qualche ulteriore tutela dagli editori, grandi e piccoli, che hanno tutto l'interesse a far sopravvivere le librerie indipendenti (sempre Francia esiste qualcosa di simile). A quel punto, i librai più bravi e pronti giocheranno, sulla base di qualità, servizio e assortimento la loro partita con i megastore multimediali, più forti finanziariamente e capaci di attirare un pubblico vario, anche perché spesso si tratta di librerie molto belle.
Eppure girando per l'Europa resistono librerie storiche (ne diamo qualche esempio in questa pagina), che hanno saputo rinnovarsi o valersi del loro passato, come in Italia può fare da esempio Hoepli a Milano. Alcune impressionano per l'architettura: a Porto, la Livraria Lello è caratterizzata da una sontuosa scala centrale, a Maastricht la Selexyz (di catena) occupa un'ex chiesa domenicana; altre per la loro storia, come Galignani a Parigi. Ma la vera speranza arriva da La Central a Barcellona e Daunt Books a Londra: librerie classiche nel layout ma molto al passo con i tempi. Tanto che si sono sviluppate, aprendo altri punti vendita e, in alcuni casi, addirittura costringendo a "chiudere" i grandi rivali di catena. Segno (positivo) che il fascino del libraio può sfidare il tempo. A patto di distinguersi, di essere un centro dove anche l'emozione di stare in libreria diventa un fattore altrettanto (o più) importante dello sconto o della rapidità nel procurare i testi. Uniche risorse, quest'ultime, delle librerie online, nuova frontiera di un mestiere che, al contrario, può avere ancora un futuro fatto da scaffali ben tangibili." (da Stefano Salis, A zonzo per le librerie d'Europa, "Il Sole 24 Ore Domenica", 14/02/'10)

La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta di Noel Riley Fitch (Il Saggiatore)

The World's 10 Best Bookshops (Guardian.Books)

sabato 13 febbraio 2010

L'uomo che ama di Martin Walser


"A 73 anni, Goethe s´innamorò della diciannovenne Ulrike von Levetzov, conosciuta nella cittadina termale di Marienbad. Lo scandalo provocato dalla grande differenza di età non lo trattenne dal chiederne la mano, incaricando di farlo per suo conto l´amico e protettore Karl August di Sassonia-Weimar. Questa storia di amore e passione del grande poeta tedesco, che su quell´incontro scrisse la sublime Marienbader Elegie, è il tema dell´ultimo romanzo di Martin Walser, 83 anni, ed è subito chiaro che lo scrittore racconta Goethe e allo stesso tempo se stesso.
Che cosa l´affascina negli amori in cui c´è una grande differenza di età? «Ho scritto quattro romanzi su questo tema, ma in un caso era la donna anziana ad amare un giovane uomo. E in quel caso i critici, parlo soprattutto di critici donne, furono benevole, apprezzarono molto. Parlo delle stesse che poi hanno stroncato i romanzi dove il più vecchio era l´uomo con parole che non si dimenticano: "moralmente, biologicamente e esteticamente inammissibile", hanno scritto. È così che ho finito per scrivere questo romanzo, dove la differenza di età è perfino superiore a tutto ciò che avevo scritto in precedenza, ma il protagonista è Goethe, e perciò i critici hanno taciuto, anzi hanno lodato, e questo me lo lasci dire, è un po´ strano: con Goethe ve bene ciò che con gli altri protagonisti dei miei romanzi era scandaloso. Comunque le garantisco che il tema ora per me è chiuso. Oltre Goethe e Ulrike non si va».
Walser è quello che i tedeschi chiamano un Rechtshaber. Non rinuncerebbe mai a una polemica. Come Michael Kohlhaas, protagonista di una famosa novella di Kleist, finirebbe sulla forca piuttosto che spostarsi dalle proprie posizioni. Per sua fortuna invece che sulla forca la vis polemica lo ha portato a scrivere il suo più bel romanzo, Un uomo che ama (SugarCo).
Ma ancora non ci ha spiegato il fascino di questi amori ... «È quello di essere amori infelici. Né potrebbe essere diversamente quando c´è una grande differenza di età. L´evidente disposizione all´infelicità e il fatto che tuttavia accadano è ciò che li rende degni di essere raccontati. Una storia d´amore riuscita è noiosa. Per me poi c´era anche un altro interesse, quello di misurarmi con le famose parole di Goethe secondo cui l´arte permette sempre di superare il dolore. Scrivendo si può venire a capo di passioni, tormenti, sofferenze. È questo il tema del suo ultimo grande romanzo, Wilhelm Meisters Wanderjahre (Gli anni del pellegrinaggio di Wilhelm Meister). Questa espressione culturale del classicismo tedesco è però assolutamente falsa. Perciò m´interessava smentirla. Il mio è un Goethe che soffre. Così è nella realtà. Mentre si scrive ci si sente forti, ma non appena finito di scrivere siamo deboli come prima».
Quando sono i veri momenti di felicità per Goethe? «Con Ulrike ha molti momenti di felicità, per esempio si parlano e lui ha l´impressione di non aver mai potuto parlare con qualcuno come con Ulrike. È felice, ma la felicità non dura. In tedesco esiste la parola Ungluecksglueck, nessuna felicità è pura felicità».
L´amore è il più grande mistero della vita, canta Salome nell´opera di Strauss. Altri dicono la morte. Quale dei due misteri la occupa di più in questo momento? «Morte è una parola di cui non ho esperienza. Della parola morire ne ho di più, nel senso che tutto quello che si può dire sulla realtà del morire è assolutamente sbagliato. Nessuno si prepara a morire, anche se ognuno di noi da una certa età in poi fa finta di farlo. Ho visto morire mia madre, che era una cattolica fervente, ma la fede non l´ha aiutata per niente. Morire è stato brutale per le come per un non credente».
Lei è religioso? «Sto lavorando in questo momento a un libro dal titolo Muttersohn, figlio di madre: il protagonista è uno cui la madre è riuscita a far credere che per la sua procreazione non c´è stato bisogno di un uomo. L´azione si svolge a Roma, l´uomo va a vedere la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, un suo antenato aveva scritto un libriccino sul fatto che le reliquie non devono essere necessariamente vere per operare miracoli, basta che ci si creda. Crediamo sempre molto di più di quanto sappiamo».
Sua figlia Alissa ha scritto un romanzo, in cui i critici sentono "il tono letterario del padre", il famoso Walser sound. Che effetto le fa? «Il sound del padre, che stupidaggini».
E a proposito di figli, lei si è rifiutato di commentare le recenti dichiarazioni di Jakob Augstein, il quale ha rivelato di essere in realtà figlio suo e non del famoso giornalista e fondatore dello Spiegel. Le sarebbe piaciuto fare l´esperienza di crescere un figlio maschio? «No per carità. Sono felice di aver avuto quattro figlie e credo che questo abbia attenuato ogni possibile conflitto. In un´intervista con un giornale Alissa ha detto di recente: "Sono contenta di non essere un figlio", e credo che abbia perfettamente ragione»." (da Vanna Vannuccini, Martin Walser, "La Repubblica", 13/02/'10)

Intervista a Martin Walser (La Stampa)

venerdì 12 febbraio 2010

Lettere a C. K. Ogden


"Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere», sentenziava Ludwig Wittgenstein nella proposizione più celebre del Tractatus logico-philosophicus. È la settima proposizione, l’ultima: quella in cui, con piglio risoluto, definitivo, tranchant, si riassume il senso di tutto il testo. «Definire» una volta per tutte, «tracciare un limite» tra il linguaggio e il mondo, le parole e le cose, la logica e la filosofia era l’intento di quel lavoro che intitolare Philosophical Logic - come, per semplificarsi la vita ai fini commerciali, aveva suggerito l’inglese Charles K. Ogden, molto più, si noti bene, di un editore - non avrebbe avuto alcun senso. «Logica filosofica» è un’espressione insensata, fece notare Wittgenstein all’imprenditore culturale e linguista noto per aver scritto un saggio su Il significato del significato e per aver inventato il Basic English che ancora oggi va per la maggiore. Esiste una forma dei fatti - insisteva il filosofo austriaco allora agli esordi - ed esiste una forma dei concetti: congruenti l’una all’altra se pronuncio proposizioni vere. Ma della forma logica come tale in filosofia non si può parlare più di quanto si possa dire del mondo in generale, dei valori universali, del senso della vita e della morte o di Dio.
Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Si può dire però di traduzione. Parlarne è anzi forse l’unico modo per estrarsi dalla lingua in cui si è immersi, per trascendere l’orizzonte di mondo (che è poi sempre un orizzonte linguistico) in cui si è avviluppati: per guardare da fuori, saltare di lato, aggirare l’angolo di prospettiva, la linea d’ombra, il cono visivo e sbirciare al di là dei limiti che la struttura logica in cui pensiamo, parliamo e viviamo definisce. Sembra quasi un gioco. Wittgenstein che, negli anni in cui si batteva per la pubblicazione della sua opera prima, era un oscuro giovinetto reduce dal fronte, ignoto agli accademici, nemmeno laureato e ai primi passi in filosofia, non aveva ancora la disinvoltura per mettere a tema i «giochi linguistici» di cui nelle Ricerche filosofiche della maturità avrebbe esposto la teoria. Ragionando però insieme con i suoi editori e traduttori inglesi sulla versione del Tractatus, ebbe modo di giocare con le parole e di tentare qualche acrobazia. Le sue Lettere a Ogden - l’editore - proposte per la prima volta in italiano, con le lettere a Wittgenstein di Frank P. Ramsey - il giovanissimo traduttore (aveva 20 anni quando affrontò il lavoro, morì sei anni dopo) -, raccolte nell’epistolario edito da Mimesis (a cura di Tiziana Fracassi e Luigi Persinotto), danno un’idea vivace del compito che il pensatore assegnava al linguaggio e dell’uso che ne faceva in filosofia.
Dell’inglese Wittgenstein non aveva una conoscenza particolarmente accurata. Aveva intùito, orecchio e fiuto, però. E un sesto senso formidabile per captare al volo le espressioni artificiose e sbagliate. Il nuovo testo «non suoni tradotto», la versione non sia «troppo letterale», «tradurre il senso non le parole», raccomandava ammettendo che «il lavoro dei traduttori del Tractatus doveva esser stato terribile». Aggiustava in bozza certe scelte optando per soluzioni più esplicite di quelle tedesche. Notava un po’ offeso: «non le sembra che clarification sia una parola molto sgraziata? Meglio getting clear». O «non le pare che full of significance per Bedeutungsvoll sia orribile? Meglio it is of great importance». E ancora: «Non mi piace mystical element per das Mystische. Non è inteso element, semmai feeling» osservava alludendo al «sentimento» che prende il pensatore se avverte di spingersi oltre i confini del dicibile. «Immagino che in inglese non si possa dire semplicemente the mystical». Invece proprio quel suo suggerimento - come del resto quasi tutti gli altri - fu accolto, e nella versione definitiva compare l’espressione originale, resa in italiano da Amedeo G. Conte per la storica traduzione Einaudi con «il mistico».
Un analogo «feeling», d’altra parte, doveva senz’altro trasmettere il filosofo che, parlando del proprio lavoro, diceva di auspicare che altri giungessero per vie diverse a pensare la stessa cosa: che trovassero nei suoi scritti solo una conferma. E lo stesso sentimento o «simpatia», provò senz’altro il giovane Ramsey scoprendosi chiamato da Wittgenstein a Dire (quasi) la stessa cosa come vuole il titolo del saggio di Umberto Eco sulla traduzione.
Il breve ritratto che il traduttore fece del «suo» autore in una lettera spedita a Keynes dal villaggio di Puchberg in Bassa Austria, dove si era recato a fargli visita, rivela quanto ne fosse affascinato: «Wittgenstein è maestro di scuola nel villaggio», scriveva. «È molto povero, vive in una stanza minuscola in modo molto spartano. Appare più giovane dell’età che deve avere, ha un aspetto atletico. Quando parla della sua filosofia si esalta e gesticola con forza, ma scioglie la tensione con un sorriso affascinante. Ha occhi blu». Ramsey non specifica in che lingua si fossero parlati lui e Wittgenstein. Ma era un dettaglio che si poteva tacere se bastarono quegli occhi e quel sorriso a fargli dire dopo il loro incontro: «È un grande»." (da Alessandra Iadicicco, Il senso di Wittgenstein per le parole, "La Stampa", 12/02/'10)

mercoledì 10 febbraio 2010

Il decalogo di Margaret Atwood


"Di sicuro, lei, non ne ha bisogno. E poi, dopo decenni passati a scrivere libri e ad avere successo, deve essere routine, incontrare qualche piccolo blocco. Lei è Margaret Atwood, celebrata autrice canadese, più di trenta libri firmati, premi letterari a raffica, ogni anno, si dice, lì lì per vincere il Nobel. Il suo ultimo romanzo, The Year of the Flood è finalista all'Orange Prize e lei gira il mondo per promuoverlo. Non si annoia, però, anche perché è perennemente connessa e dialoga con i suoi fan su Facebook, con Twitter e con il suo blog. Dal quale, recentemente, si è divertita a dare qualche suggerimento su uno dei temi più spinosi (e tipici) che le vengono sollecitati dai lettori. Che fare quando non si riesce ad andare avanti col proprio libro? Come superare il «blocco dello scrittore», insomma?
La storia della letteratura è piena di esempi, di «bloccati» e di rimedi per andare avanti: dai classici Coleridge o Fitzgerald ai contemporaneissimi Jeffrey Eugenides o il nostro Alessandro Piperno che ha ammesso pubblicamente di essere in difficoltà a consegnare il suo secondo libro, difficoltà adombrate ancora qualche giorno fa sul «Corriere» con il lungo elenco di domande in occasione della morte di J. D. Salinger.
Abbiamo provato a far leggere a qualche autore italiano il decalogo della Atwood e a chiedere le loro istruzioni per l'uso. Ne viene fuori una decisa maturità dei nostri scrittori sul tema e uno spirito assai garibaldino nell'affrontare la questione. Per iniziare, Giuseppe Genna (che ha appena chiesto sul web ai lettori di "votare" per quale editore pubblicare e torna in libreria a marzo) va controcorrente: «Il blocco dello scrittore è un momento di santità e di liberazione. Non credo esista la necessità della letteratura. Ritengo che chi ha vissuto avvertendo di continuo il blocco dello scrittore, e in realtà non smettendo un attimo di scrivere (mi viene in mente Kafka), abbia sfiorato la libertà dal mondo». Idee simili rivendica Nicola Lagioia, editor e autore in proprio del bellissimo Riportando tutto a casa (Einaudi): «È un falso mito. Uno scrittore di prim'ordine non lotta con la sindrome della pagina bianca ma con i complicati, faticosissimi, talvolta insuperabili problemi che il progetto in cui si è già lanciato comporta. Abbiamo un'indole prometeica, e il problema non è mai spiccare il volo ma come sfracellarsi al suolo con un certo stile». Addirittura Carlo De Amicis (ultimo libro La guerra dei cafoni) esalta il blocco: «Se la macchina ogni tanto non parte, non si inceppa, non sbaglia strada, vuol dire che qualcosa non funziona. Mi fido, insomma, molto di più dei miei dubbi, dei miei attriti, delle mie "false partenze" (come le chiamava La Capria) che non dei momenti in cui mi sembra che tutto fili liscio».
C'è chi teme l'inizio e non se lo nasconde. Elena Loewenthal, finalista all'ultimo Campiello, sa ormai come aggirarlo: «La pagina bianca mi incute sempre paura. Quando non so come cominciare – e so che una volta cominciato, il più è fatto – mi alzo, faccio il giro della stanza. Il cioccolato aiuta, ma solo se è almeno un 80% di cacao. Ha ragione la Atwood: a mali estremi, estremi rimedi. La doccia, ad esempio. Aiuta eccome. E comunque, uno stato di assoluta solitudine».
Di reclusione, invece, ha bisogno Paolo Giordano, il fenomeno letterario italiano degli ultimi anni, con La solitudine dei numeri primi (presto al cinema). «Alle passeggiate decongestionanti», come propone la Atwood, «io preferisco la cattività. In caso di blocco, mi costringo nella stanza, orbito attorno al computer acceso, mi tormento e sì, pilucco qualunque cibo vi sia nei paraggi (ma di cioccolato non ne ho mai). Finché, ore più tardi, lo sfinimento mi porta un sonno liberatorio. Al risveglio, ancora intontito, attacco a scrivere, in modo sconclusionato, sciattamente, senza preoccuparmi dei legami con il paragrafo precedente. Un pensiero in testa c'è comunque, poco interessante, confuso, bizzarro che sia. Di questa stesura disperata non sopravviverà quasi nulla, ma rileggendola farò almeno una scoperta. Ogni blocco della scrittura è solo l'incubazione di un'idea sorprendente».
Per il giallista Patrick Fogli (da leggere Il tempo infranto) l'importante è sapere quando è il momento esatto di partire. «Non ho un elenco di punti come la Atwood. Ho una strategia sola. Non scrivo fino a quando non ne posso fare a meno. Fino al momento in cui devo sedermi alla tastiera e buttare giù la storia. E questo accade, di solito, quando mi gira già in testa da diversi mesi e ha cambiato aspetto almeno una decina di volte».
Anche Giorgio Vasta, rivelazione con Il tempo materiale, ci tiene a distanziare il problema. «Il "blocco dello scrittore" si colloca tra quelle piccole mitologie che probabilmente sono integrazioni indispensabili della pratica letteraria. Se la scrittura fosse solo puro flusso immediato, del tutto estraneo al tormento e alla crisi, risulterebbe poco reale e poco credibile». E però, «considerato che tutte le indicazioni della Atwood sono sensate e ironiche, mi permetterei di aggiungerne una: scrivere in forma di lettera». Ernesto Ferrero (premio Strega per N. nel 2000) sposa i consigli della Atwood. «Di solito le difficoltà stanno nella partenza: trovare la concentrazione, il tono, il ritmo giusto. In corso d'opera, il blocco è una specie di segnale che qualcosa nel meccanismo non gira. E può riuscire utile, un invito a ripensare tutto. I consigli della Atwood sono pratici e condivisibili. Una passeggiata resta il modo più efficace di favorire la riflessione. E il cioccolato fondente il miglior fornitore di energia pulita». Antonio Scurati, scrittore e polemista di razza, suggerisce qualcosa d'alternativo. «Potrà suonare scontato, o forse desueto, ma secondo me il blocco della scrittura si smuove con la sua gemella: la lettura. Se non si riesce a scrivere, niente di meglio che leggere. Libri preferibilmente alti e lontani, di chi con la scrittura ha tentato grandi imprese, in epoche remote e in terre a noi straniere. E tanti libri. Poi, magari, tornano anche buoni. Magari uno scopre che lo scrittore, come l'artista contemporaneo, spesso non fa il quadro ma le cornici».
Giulio Mozzi (ottimo il suo Sono l'ultimo a scendere) la vede in modo ancora diverso: «Mai sofferto di "blocco". Ho pubblicato un libro nel 2001, una raccolta di cose vecchie nel 2005, e poi tre libri in un colpo a fine 2009. Non ho mai pensato di esser condannato, poiché avevo fatto un libro a farne degli altri. Quando viene, viene. Tutto qui. Peraltro, negli anni nei quali, secondo alcuni, sarei stato senza scrivere, ho scritto moltissimo. Ho scritto il mio diario in rete, che poi è diventato un libro, articoli per giornali, centinaia di pezzi per il mio blog, "vibrisse". Conosco scrittori che se stanno due anni senza fare un libro, gli viene l'ansia. Temono di scomparire. A me quest'ansia non viene: ci sono tante altre cose, nella vita». Chissà, magari, anche il giardinaggio, per distrarsi dalla momentanea pausa, come suggerisce il prolifico Andrea Vitali (in uscita da Garzanti, La mamma del sole) con la sua consueta ironia: «Sto proprio vivendo uno di quei momenti di blocco. Una storia che si è infilata in un vicolo cieco e quindi, in quanto tale, non riesco a vedere come se ne possa venir fuori. Allora, dopo aver più volte picchiato la testa contro il muro del suddetto vicolo, ho messo nel cassetto la storia e mi sono dato al lavoro fisico: essendo, per parte di padre, di origini campagnole posseggo per fortuna un poco di terra e ho cominciato a prepararla per le semine future: siamo in febbraio, tempo di seminare cipolle. Le due cose mi danno pace, ho messo il romanzo nel cassetto e le cipolle sotto terra: vediamo chi germinerà prima».
Male che vada si consolerà con una succulenta zuppa di cipolle. Ma siamo sicuri che non saranno i suoi (tanti) lettori a restare a bocca asciutta.
P.S. Tutti gli scrittori interpellati hanno risposto con velocità e generosità. Il mio amico Flavio Soriga (ottimo scrittore), contattato via mail, mi aveva promesso, con entusiasmo, un suo parere. Non è arrivato nulla. Che sia un classico caso di blocco dello scrittore?" (da Stefano Salis, Scrittori con le penne in panne, "Il Sole 24 Ore", 06/02/'10)