giovedì 4 febbraio 2010

Il mio nome è Victoria


"L’amore è un filo blu, ultimo dono lasciato da una madre coraggiosa in eredità alla figlia neonata che non avrebbe visto crescere, cucito nei lobi delle orecchie. È il filo cui aggrapparsi per ricostruire una storia privata che diventa occasione di memoria collettiva su uno dei tanti drammi del XX secolo: quello dei desaparecidos argentini. Victoria Donda, la più giovane deputata mai entrata nel Parlamento di Buenos Aires, è partita da quel sottile filamento blu per scoprire la propria vera identità e quella del suo paese nel libro Il mio nome è Victoria (Corbaccio). «L’ho scritto per chiudere un complicato processo personale, nella convinzione che una vicenda individuale serva come contributo a formare la coscienza di una generazione», spiega la Donda, a Torino per presentare il volume.
Fino al 2003 Victoria si chiamava Analìa, attivista ventisettenne innamorata di Che Guevara e impegnata nelle lotte per i diritti degli ultimi. Quell’anno le «Nonne di Plaza de Mayo», instancabili cercatrici dei figli di desaparecidos cresciuti da famiglie illegittime, le svelarono la verità. Quelli che da sempre chiamava papà e mamma, il militare in pensione Raùl e la casalinga Graciela, non erano i suoi genitori. Analìa non era il suo nome. Lei era Victoria, nata nel 1977 nella famigerata Scuola di Meccanica della Marina (Esma) usata dai militari per le torture. Suo padre, José Maria Donda, era stato ucciso per la sua militanza di sinistra. A sua madre Maria, incinta al momento dell’arresto, era stato lasciato il tempo di partorire e cucire i fili blu nei lobi della neonata, nella sperenza (vana) che sarebbero serviti a ritrovarla se fosse finita in un orfanotrofio. Victoria divenne invece Analìa, data in «premio» dal regime a una coppia di provata fede. Maria fu trascinata su uno dei «voli della morte» che si concludevano gettando i prigionieri nel vuoto sopra il Rio de la Plata. Divenne una dei 30 mila desaparecidos.
Lei è andata alla ricerca delle tracce dei suoi genitori. Con quali sentimenti ha compiuto questo cammino? «All’inizio, quando le Nonne mi hanno raccontato la mia storia e un test del Dna l’ha confermata, ho reagito con un rifiuto. Ho pianto per mesi. Non volevo conoscere i miei veri genitori, perché temevo che scoprirne la storia avrebbe reso insopportabile fare i conti con la loro mancanza. Poi ho compreso che era un percorso necessario: capire chi erano loro serviva a capire chi sono io».
Il suo non è un caso isolato: quanti sono i figli di desaparecidos che hanno avuto un destino analogo? «Si ritiene siano circa 500, e a migliaia di altri è stato comunque impedito conoscere i genitori. Anche in Europa, anche in Italia ci sono casi di possibili figli illegittimi su cui sono in corso accertamenti».
Suo zio Adolfo, un ufficiale, fu l’uomo che fece torturare e uccidere i suoi genitori, cioè il fratello e la cognata. Raùl, l’uomo che riteneva suo padre, è finito nelle inchieste del giudice spagnolo Garzon. Che idea si è fatta di ciò che ha spinto questi uomini a compiere scelte del genere negli anni Settanta?
«È un problema di progetti politici. La dittatura civil-militare fu vista da una fetta di privilegiati argentini come il mezzo per mantenere lo status quo. Per ottenere lo scopo non esitarono a far sparire un’intera generazione».
Lei adesso è deputato e personaggio pubblico. Oltre a essere una testimonianza storica, il suo libro vuol mandare anche un messaggio politico? «Sì, perché occorre continuare a far memoria degli errori del passato, per non ripeterli. Ho voluto che il libro uscisse anche in Europa perché vedo anche qui segnali che si sta prendendo la direzione sbagliata. Per esempio nelle leggi sull’immigrazione in Francia, in Spagna e in Italia. Ricordare cosa è stata la dittatura argentina serve a tutti».
Il «guevarismo» a cui lei si ispira è ancora una forza propulsiva in America Latina? Qual è il modello che più la convince nel continente? «Se c’è una cosa che differenzia l’America Latina da ogni altra parte del mondo, è il fatto che qui c’è un progetto politico preciso, che offre speranze a tutti. Lo si vede in quello che stanno facendo leader come Evo Morales in Bolivia o Hugo Chavez in Venezuela. O nell’azione dei leader di Brasile ed Ecuador».
E gli Stati Uniti, che peso hanno oggi in America Latina? «Obama ha suscitato enormi speranze, dopo il terrorismo di Stato di Bush. Ma la politica estera sembra sempre le stessa. Quello che sta facendo in Afghanistan e anche ad Haiti non è degno di un Nobel per la pace»." (da Marco Bardazzi, Victoria Donda, avevo solo un filo blu per trovare mia madre, "La Stampa", 04/02/'10)

Nessun commento: