sabato 20 febbraio 2010

Diario di lettura: Romano Montroni


"A pagina 1 delle sue memorie Romano Montroni, il libraio per eccellenza e per antonomasia, scrive: «Di libri a quel tempo non capivo e non sapevo davvero niente». Negli Anni Cinquanta, quando è arrivato per caso al mestiere, come lo chiama lui, era un imberbe spilungone della periferia bolognese. Voglia di studiare, zero. Libri in casa, zero. Entusiasmo, tantissimo: allora e sempre. «Mio padre era vigile urbano, la mamma casalinga, mia sorella faceva la pellicciaia in casa. Potevamo sederci a tavola soltanto quando aveva tirato giù l'asse con le pelli bagnate e tirate. Il nonno viveva con noi, eravamo stipatissimi, io dormivo in camera con i miei e con mia sorella, e la doccia andavo a farla al bagno pubblico. Anni dopo un conoscente mi disse di avere comprato all'asta una casa popolare, in via Rimesse 9, al primo piano, "una casa di m...", aggiunse. Era la mia».
Diventare fattorino alla libreria Rizzoli, sotto le Due Torri, in quel centro storico che neppure conosceva, sarà stato un salto colossale. «Ha rivoluzionato il mio stato emotivo. Ero un giovane laborioso, molto malleabile, timido e umile nei confronti della cultura. A 14 anni ero già alto un metro e novantadue, avevo piedi lunghissimi, gli amici mi sfottevano e quando andavamo nelle balere non beccavo mai:
non avevo forte personalità, se non ridicolizzata. La libreria è stata una scuola di vita, mi ha sbloccato dal mio provincialismo interiore. Prima frequentavo i bar di periferia, dove si parlava solo di sport».
Non solo di sport, Montroni ... «È vero. C'era un siciliano che ogni volta che arrivava faceva una tacca sullo specchio, come i piloti con gli aerei abbattuti, vantandosi delle sue conquiste. Si chiamava Liborio».
All'inizio lei pedalava. «Facevo la spola in bicicletta fra la libreria e i distributori. Poi mi promossero aiutocommesso. I miei erano molto fieri, mia madre mi mandava a lavorare in camicia e cravatta».
Quando si capì che avrebbe fatto il libraio e non l'operaio, la mamma fu felice: «Bravo, così sporchi meno!». «Allora le librerie erano luoghi sacrali, piene di barriere reverenziali che saranno abbattute anni dopo, da Giangiacomo Feltrinelli. Ero un proletario ignorante, mi ritrovai fra librai in mezze maniche e professori universitari. C'era qualcosa di magico in quel luogo, in quegli oggetti».
Ricorda il primo libro che ha venduto? «No, ma ricordo la sensazione di ebbrezza quando trovai un libro che il capocommesso mi aveva ordinato di andare a prendere: l'avevo sistemato io a scaffale il giorno prima. Noi aiutanti obbedivamo e basta, non ci permettevamo iniziative, mentre al contrario dopo la rivoluzione feltrinelliana ogni libraio ha autonomia operativa. A me dicevano “cinno, vieni mo que”, ragazzo vieni qua, e io andavo, a comando, su e giù per le scale, lungo gli altissimi scaffali».
E in tutto ciò, leggeva? «Amadori, il direttore della libreria Rizzoli, un personaggio straordinario, mi prestava dei libri. Io andavo a casa a pranzo e mentre mia madre preparava le tagliatelle, prima della forchettata leggevo. Giamburrasca, I ragazzi della via Pál, le Favole di Esopo, Moby Dick in traduzioni oscene, il De Amicitia di Cicerone. Non sapevo niente, non capivo niente, ma cominciavo ad assaporare il piacere della lettura».
Ma i librai leggono? «Chi legge un libro al mese è già un mandrake, noi lavoriamo almeno dieci ore al giorno. Di più, significa che non fa bene il mestiere. Quelli all'antica fanno finta di sapere, i clienti però non chiedono di che cosa parla un libro ma se è uscito e dov'è. Per rispondere non serve averlo letto, è sufficiente frequentare le pagine culturali dei giornali, tenere le orecchie aperte con gli editori e con i clienti. Il primo pregio è la curiosità».
Un libro al mese per qualche decennio di mestiere significa che ne ha letti a centinaia. «Mi colpirono molto Le memorie di Adriano della Yourcenar, quell'imperatore modernissimo alla ricerca del sapere continuo era un modello, mi faceva pensare a Berlinguer. Poi le Lezioni americane di Italo Calvino, ne esci trasformato: alla prima lettura ero nel pallone, non capivo niente, ma come dice Vittorini non c'è libro che chiunque non possa capire, basta che lo rilegga.
Le braci di Sandor Marai, così emozionante e passionale, perfetto per iniziare alla lettura anche un non lettore ...».
Chi le consiglia che cosa leggere? «Con gli amici discutiamo dei fatti del giorno, poi finiamo sempre a parlare di libri. Benni, De Luca, Galimberti, Calasso: entusiasmano. Ai tempi Roberto Calasso dell'Adelphi spiegò così bene Follia di McGrath a noi librai Feltrinelli che lo portammo al successo. È il libraio a fare la fortuna o la sfortuna di uno scrittore: salvo che se va da Fazio».
Oggi molti librai di catena sembrano non sapere nulla, controllano al computer e stop. Mentre i piccoli temono di chiudere e mettono sotto accusa appunto le
grandi catene. «Prima per Feltrinelli e adesso per Coop, curo moltissimo la formazione. Quanto ai piccoli, sono sereno perché ho sempre creduto che l’apertura di librerie non danneggi gli altri, ma aiuti il mercato. Ciascuno ha un’identità diversa, e la concorrenza aguzza l’ingegno».
La tecnologia non basta, serve il fattore umano. Ma è un lavoro intellettuale o fisico? Quante tonnellate di carta avrà maneggiato, in tanti anni di mestiere?
«Ho aperto una cinquantina di librerie. L'ultima, a Pesaro, è piccola, 270 metri di scaffali: 26 bancali di libri. Quando aprimmo la Feltrinelli di via de' Cerretani a Firenze, 1000 metri quadrati, scaricammo i Tir alle 5 del mattino, facendo il passapacco come in un film sui portuali americani. A Piazza Duomo i bancali furono 1.500: quando te li vedi arrivare, fanno impressione. Ma la quantità non mi ha mai spaventato, né di libri né di gente».
Occorre un fisico bestiale, per fare il libraio? «Occorre una volontà di ferro,
e una certa fisicità. Ma nessuno è mai schiantato sotto il peso dei libri».
Le donne ce la fanno? «Meglio degli uomini».
Il libro come fatto corporeo, prima ancora che mentale ... «Quando entro in un libro, leggo ad alta voce. Giro per casa declamando».
Chissà sua moglie. «Piera. Libraia anche lei. Dunque è curiosa».
Non vi porterete il lavoro anche a casa, vero? Suppongo non abbiate neanche un libro.
«Al contrario. Un libraio non può distogliersi dall'ambientazione della libreria. Quale mestiere, d'altronde, ti dà tanta complessità di emozioni? Toccare i libri, aprire uno scatolone, scatena un'infatuazione».
Che sensualità. «Non credo che l'e-book vada a intaccare quel desiderio di possesso. Sarà uno strumento in appoggio ma non sostituirà il libro, se non in un mondo alla Blade Runner che né lei né io vedremo. È come l'amore: virtuale non basta, voglio una donna fisica e carnale».
A proposito: ha visto nascere amori, grazie ai libri? «Mi dicono che se le leggi una poesia di Kavafis o di Hikmet, la donna casca».
Se lo dice lei. Ma come li tiene i libri, in casa? «Per editore gli Adelphi, i Sellerio e i Feltrinelli (li ho tutti fino al 2005, quando sono uscito). In ordine alfabetico gli altri».
Ne compra? «Sì».
Se becca in negozio qualcuno che ruba, che cosa fa? «Dipende. Se è uno che ruba per rivendere, va represso duramente. Ma a più di un giovane squattrinato ho fatto una ramanzina e poi ho lasciato il libro. Conquistando un cliente».
E lei, ha mai rubato un libro? «Sì, un'antologia di aforismi, in casa di un amico. Ma avevo l'incubo del furto. L'ho ricomprato e gliel'ho riportato».
Di nascosto? «No. Gli ho detto che avevo commesso un errore, ma che ho una coscienza. Abbiamo riso parecchio»." (da Giovanna Zucconi, Innamorarsi tra gli scaffali con Hikmet, "TuttoLibri", "LaStampa", 20/02/'10)

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