lunedì 23 dicembre 2013

Leggi che ti fa guarire!


"Una cosa che mi hanno insegnato, per sempre, i fratelli entrambi medici dei miei genitori, è che le malattie vanno assecondate e, salvo i casi più gravi, lasciate libere di fare il loro corso, senza scorciatoie e dosi massicce di farmaci. Così quando da ragazzi la febbre si impossessava di noi, ci dovevamo disporre con pazienza a un lungo periodo di letto e riposo. Non possedendo la televisione, ma avendo tutte le pareti di casa foderate di libri, la lettura fu l'antidoto migliore contro la noia e l'esasperantemente lento trascorrere del tempo. E lo è, per me, ancora oggi.
Come da bambini, dopo una malattia, ci si scopre fisicamente cresciuti (non sono stato un ragazzo sano: infatti sono alto un metro e novantuno), così dopo la lettura di un grosso libro la nostra personalità si allarga e approfondisce. A nove anni mi ammalai gravemente e dovetti sopportare una lunga convalescenza. Passata l'emergenza sopravvenne la noia. Non potevo alzarmi dal letto ed ero debolissimo. Così alle quattro del pomeriggio, mio padre prese a rincasare anticipatamente e a lggermi a puntate il Don Chisciotte. Quello fu probabilmente il mio battesimo cn la letteratura e la vita. Era anzitutto piacevole che quel severo papà, sempre con il naso immerso in libri e giornali, si dedicasse per metà pomeriggio a leggerm i un libro. Era un lettore caldo e appassionato. Gli piaceva raccontare e vedere sul mio volto le reazioni. Si sentiva che i suoi antenati siciliani avevano avuto familiarità, tra pupi e carretti, con le storie dei cavalieri antichi. Parteggiava apertamente per il cavaliere della Mancia e dedicava a Sancho Panza una voce tignosetta, decisamente antipatica. Amava e si identificava con Don Chisciotte. Il ritorno del reale era anche per lui sempre fonte di tristezza. Così da piccolo, ho scoperto che ci sono libri che possono essere veramente letti e gustati soltanto se si ha un lungo tempo a disposizione, senza eccessive interruzioni. Leggere ad esempio,  Alla ricerca del tempo perduto, qualche pagina ogni tanto e con lunghe pause tra un libro e l'altro, significa condannasi a un'incomprensione profonda del libro. Lo lessi tutto in una settimana dopo l'esame di maturità, quando per la prima volta fui bloccato da ripetuti capogiri e frequenti svenimenti, forse causati dallo stress per il troppo studio. Alla fine fui, quasi naturalemnte, portato a pensare che la guarigione fosse dovuta a quello splendido libro.
La cosa un po' spiacevole però è che così molti libroni rimangono attaccati, nel ricordo, a una malattia, come certe canzonette a un amore tormentato. A volte viene il sospetto che il nostro giudizio su un libro sia irrimediabilmente viziato, anche se ne siamo consapevoli, da certe sensazioni legate alla precarietà della nostra salute. Sicuramente per me fu così con Madame Bovary che lessi a  quindici anni (nella traduzione dell'ipocondriaco Oreste Del Buono) durante una crisi d'asma. E' un libro che amo molto, anche se dubito che Flaubert apprezzerebbe la mia decisa simpatia per il marito Charles, condivisa da Jean Améry, che a lui dedicò un libro straziante (Charles Bovary medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice, Bollati Boringhieri, 2000). Però anche le successive riletture non sono riuscite a cancellare del tutto quell'appiccicoso senspo di malattia che pervade quella storia e che mi perseguita da allora. Lo dissi a Gianfranco Contini che mi esaminava nell'ottobre del 1975, proprio su quel romanzo (da me inopinatamente scelto ma che anche lui, mi confessò, apprezzava particolarmente) che si mise a ridere affermando: "Lei diventerà un seguace del farmacista Homais". I grandi russi dell'Ottocento hanno avuto bisogno di diverse bronchiti per essere letti e assimilati. Azzarderei a dire che Tolstoj, in particolare, è una vera medicina: devi prenderti molto tempo per seguire i suoi personaggie gli intrecci delle loro storie, e così facendo ti perdi e ti allontani dal letto dove stai sdraiato. Quel lungo tempo di lettura vola e ti spiazza: sembra veramente di essere finiti in Russia anche se non ci si è mai stati (e quando poi ci vai, non la riconosci). La Russia è una malattia: Dostoevskij è quello che l'ha rappresentata meglio di tutti. Mai leggersi (potrebbe risultare fatale!), a letto con la febbre e i dolori, le sue Memorie del sottosuolo: "Io sono un uomo malato ...un uomo cattivo. In me non c'è niente di attraente ...". Invece: Gogol', Tolstoj, Cechov, Mandel'stam, Cvetaeva, Bulgakov, Babel', Erofeev, Grossman, Brodskij sono la loro, e la nostra, migliore medicina. Per farmi passare la noia della lunga convalescenza, dopo un'operazione per una brutta peritonite, mi ha fatto ad esempio compagnia, ridandomi il senso della vita, Il dono, corposo capolavoro di Nabokov.
L'elenco sarebbe lungo e scendere nei dettagli di malattie e libroni letti potrebbe essere inopportuno. Ma prima di concludere, non vorrei tralasciare di raccontare come lessi e grandemente apprezzai, L'uomo senza qualità di Robert Musil: libro dalla struttura assai complessa e piuttosto impegnativo. Mi ficcai i due volumi quasi senza pensarci nello zaino prima di imbarcarmi su un grosso cargo che faceva la rotta Danzica-Helsinki, per andare a trovare una biondissima finlandese della quale mi ero perdutamente innamorato. Paivi studiava Musil, considerandolo quasi un fratello: mi chiamava (i finnici hanno uno scarso senso dell'umorismo) il "suo uomo senza qualità" e, altre volte, ricorrendo a Thomas Mann, sbrigativamente: "Felix Krull". Quando alla mezzanotte di un gennaio particolarmente freddo la nave si mosse, fendendo rumorosamente il ghiaccio che attanagliava i bassi fondali del porto, avevo già la febbre alta e, impossibilitato a prender sonno, mi raggomitolai sotto il piumone, cavai dallo zaino il primo volume e, alla luce fioca di una lampadina ingiallita, iniziai a leggere: "Sull'Atlantico  un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord [...]". I due giorni di navigazione volarono in un battibaleno e la febbre si allontanò da me senza che me ne accorgessi. Assorbii così tutto d'un fiato il capolavoro di Musil. La finlandese che mi attendeva al porto ne rimase molto stupita e commentò malignamente: "Forse voi, pigri italiani, lo avete pubblicato in una versione ridotta". Fossi stato veramente sano e avessi fatto tesoro degli insegnamenti di Agathe, avrei dovuto risalire subito a bordo di quella nave che si chiamava "Chrobry" (Valoroso). " (da Francesco M. Cataluccio, Leggi che ti fa guarire!, "Il Sole 24 ore domenica", 22/12/'13)

Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (Sellerio)

Carrozza: meno compiti e più libri per le vacanze degli studenti


"PISA. In piazza dei Miracoli, davanti alla Torre pendente, la frase sembra il più sorprendente dei regali di Natale per gli oltre duemila studenti chiamanti a formare una scritta umana contro l'abuso di alcol. «Convincete i vostri insegnanti a non darvi troppi compiti per le vacanze», esorta Maria Chiara Carrozza. Un attimo di silenzio, sguardi stupefatti e poi ecco un'ovazione da stadio. Interrotta dalla seconda parte del discorso della ministra dell'Istruzione: «Ma il tempo che avete in più, dedicatelo alla lettura. Perché leggere un libro significa avere consapevolezza dell'importanza della cultura e può essere anche un gesto d'evasione, importante per la crescita degli individui senza ricorrere a scorciatoie come lo sballo per sentirsi più grandi o stare meglio insieme agli altri».
Apoteosi, applausi, grida di compiacimento, sorrisi. Più tardi, davanti ai cronisti, Maria Chiara Carrozza, pisana, mamma ed ex scout, già docente di Robotica e rettore della Scuola Superiore Sant'Anna, si spinge più in là e descrive una cultura da vivere, costruire e anche personalizzare quando si ha un po' di tempo libero. «Le vacanze di Natale sono ottime per scoprire le città d'arte - spiega la ministra -, visitare le mostre, i musei e poi approfondire sui libri il contesto storico e culturale di quelle visite dal vivo».
E ancora Carrozza invita i ragazzi a frequentare i concerti, di musica classica e contemporanea. Tutti eventi che arricchiscono la mente e lo spirito. Come i romanzi, «che sono una lettura ideale durante le feste» e a volte, come dicono molti pedagogisti, possono aiutare di più di qualche manuale scolastico magari studiato controvoglia. Insomma, la cultura anche come divertissement, per aprire nuovi spazi culturali, entusiasmi, voglia di giocare con i grandi classici.
Ad applaudire la titolare del dicastero dell'Istruzione non solo gli studenti. Con la Carrozza si schiera subito Marco Lodoli, scrittore, professore nelle scuole superiori e padre di due figli: «Spesso la quantità dei compiti è immensa per ragazzi - sottolinea Lodoli - e come dicono le classifiche europee a questa mole di lavoro non corrisponde neanche un grande risultato in termini di apprendimento. Anzi ...».
Emanuele Rossi, giurista e prorettore della Scuola Superiore Sant'Anna, plaude al discorso della ex collega: «Perché - spiega - descrive l'idea di uno studente che si realizza in tutte le dimensioni, non solo in aula ma fuori, nella vita di tutti i giorni e pure nelle vacanze. Maria Chiara ha una formazione scientifica ma ha sempre dato uno sguardo globale alla cultura e la sua esperienza giovanile da scout credo le sia servita ad aprirsi al mondo e all'esperienza».
Dalla ministra un ultimo consiglio agli studenti per i prossimi giorni di pausa scolastica: «Le vacanze sono un momento ideale anche per riflettere sulle scelte da compiere, soprattutto per i ragazzi che si trovano negli ultimi anni dei corsi di studi e devono scegliere i loro percorsi futuri»." (da Marco Gasperetti,  Carrozza: meno compiti e più libri per le vacanze degli studenti, "Corriere della sera", 22/12/'13)

sabato 14 dicembre 2013

Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi



"Il 1 giugno 2009 il volo Air France 447 da Rio de Janeiro a Parigi si inabissò nell'Atlantico portando con sé 228 vite. Solo nel 2012 fu recuperata la scatola nera che svelò la sorprendente causa della caduta: i piloti dell'Airbus 330 avevano perso il controllo dell'aereo per eccessiva fiducia nel computer di bordo che, ingannato dal blocco dei sensori della velocità e dell'inclinazione dell'aereo, segnalava pericolo di stallo proprio quando i piloti iniziavano a fare la manovra giusta per evitarlo (abbassare il muso dell'aereo). Confusi e incapaci di opporsi alle indicazioni del computer, i piloti hanno finito per far cadere l'Airbus nell'oceano. Se invece si fossero fidati del loro istinto, l'avrebbero riportato tranquillamente a Parigi.
Il caso dell'AF447 è stato il più tragico dei quasi novemila incidenti simili presi in considerazione dall'americana Federal Aviation Administration in un rapporto riservato, filtrato però qualche settimnaa fa sui giornali. La conclusione di questo rapporto è che i piloti stanno diventando ''troppo dipendenti ndalla tecnologia informatica'' e che occorre quindi riaddestrarli a contare più su se stessi e meno sui supporti digitali.
Qualche anno fa Manfred Spitzer, docente di psichiatria dell'Università di Ulm, ha vissuto una versione terrestre di questo fenomeno. ''Ero a San Francisco per lavoro e mi spostavo per la città in auto usando un navigatore satellitare'' racconta. ''Un giorno mi fu rubato ma, visto che avevo fatto quei percorsi tante volte, ero sicuro di potermi orientare da solo. Invece mi persi e solo allora mi resi conto che, affidandomi al gps, avevo compromesso la capacità del cervello di prendere nota dei punti di riferimento, come avrebbe fatto se avessi usato la cartina''.
Altri avrebbero archiviato l'incidente con un'alzata di spalle ma non Spitzer che riflettendo sull'effetto delle tecnologie informatiche sul cervello, da alcuni anni conduce in Germania una vera crociata mediatica e politica contro la diffusione indiscriminata delle tecnologie, culminata con la pubblicazione di un saggio dal titolo inequivocabile Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi (Corbaccio).
I dati da cui parte Spitzer sono in effetti allarmanti: negli Stati Uniti i ragazzi fra 8 e 18 anni passano ormai in media 7,5 ore davanti a uno schermo, più che a scuola o a dormire. In Italia secondo l'Undicesimo rapporto Censis sulla comunicazione, il 12,5% dei giovani tra 14 e 29 anni usa i media digitali per piu' di 6 ore al giorno e un altro 15% è fra le 3 e le 6 ore).
''Usare continuamente computer o smartphone'' spiega Spitzer ''ostacola lo sviluppo e il mantenimento di capacità come la memoria, l'autocontrollo, la concentrazione, la socialità che possono rafforzarsi solo interagendo con il mondo reale. E non si dica che i media digitali aiutano l'apprendimento: molti studi dimostrano che l'introduzione a scuola di computer, tablet o lavagne elettroniche non poorta a un miglioramento nelle competenze degli studenti. L'idea poi di utilizzare i media digitali anche per l'educazione e l'intrattenimento di bambini in età prescolare può sfociare in un disastro: a quell'età lo sviluppo cerebrale passa attraverso la manulità, i giochi collettivi, l'attività fisica, il canto e il disegno''. Spitzer esagera? Pare di no. Basta vedere cosa succede in Corea del sud, Paese che, per l'elevatissima penetrazione di media digitali (il 67% dei giovani coreani possiede uno smartphone e il 18% di loro lo usa per oltre 7 ore al giorno), sta diventano una sorta di vetrina, nel bene e nel male, del mondo informatizzato prossimo venturo. In Corea l'espressione ''demenza digitale'' viene usata già dal 2007 per i casi di estrema dipendenza da Internet, disturbo che, a vari gradi di gravità, riguarda il 12% degli studenti. Ma anche in questo quadro, lo scorso agosto ha fatto scalpore il caso di un quindicenne ricoverato in un reparto di neuropsichiatria di Seul con un nuovo tipo di ''demenza digitale'' molto simile a quella temuta da Spitzer. Il ragazzo non riusciva più a concentrarsi a lungo, né a ricordare nozioni scolastiche o anche semplici informazioni, come il pin per aprire il portone di casa. Secondo i medici l'eccessivo uso di dispositivi elettronici aveva atrofizzato la sua capacità di passare i ricordi dalla memoria di lavoro a quella di lungo termine. [...]" (da Alex Saragosa, Dementi digitali, "Il Venerdì di Repubblica", 13/12/2013)



Internet ci rende stupidi

Perché la Rete ci rende intelligenti

Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge

mercoledì 20 novembre 2013

La biblioteca di Italo Calvino


''C'è una famosa foto in cui si vede Italo Calvino che scrive nella sua casa di Parigi. Chi l'ha vista se la ricorda perché Calvino ha accanto un poster con Snoopy alle prese con il suo celebre inizio di romanzo, ''Era una notte buia e tempestosa''. Sul muro, di taglio, si vedono una serie di volumi, difficile dire quanti. Si legge appena qualche titolo, il resto si indovina. Ci sono altre foto della sua biblioteca (tra cui una di Salgado) ma sono meno importanti. Perché non riuniscono in un'unica immagine qualcosa di molto di più di una vicinanca di oggetti. Un rapporto. Per uno scrittore - e soprattutto per uno scrittore come Calvino - la biblioteca è parte integrante dell'universo creativo. Anche per questo averli intorno è spesso una necessità: "Scrivo bene solo in un posto che sia mio, con i libri a portata di mano, come se avessi sempre bisogno di consultare non si sa bene cosa". Così Calvino nel 1974, quando la sua vita è divisa tra Parigi e l'Italia. Sono gli anni in cui scrive capolavori come Le città invisibili e Se una notte d'inverno un viaggiatore e avere i suoi libri vicini è spesso un problema: "Una biblioteca mia non riesco mai a tenerla assieme: i libri li ho sempre un po' qua un po' là; quando ho bisogno di consultare un libro a Parigi è sempre un libro che è in Italia, quando in Italia devo consultare un libro è sempre un libro che ho a Parigi". Ma quali libri?
Un articolo pubblicato sull'ultimo numero di "Bollettino di italianistica" ci permette, per la prima volta, di avere un'idea concreta della sua biblioteca. Lo ha scritto laura Di Nicola, ricercatrice alla Sapienza, che da anni sta lavorando sui libri di Calvino. Sono circa settemila volumi e sono oggi conservati nella casa a pochi passi dal Pantheon, a Roma, in cui Calvino ha vissuto fino al 1985, anno della sua morte, e dove ancora oggi vive la moglie Esther. La biblioteca è una delle poche di un grande scrittore a essere ancora viva, non musealizzata e riorganizzata in base a criteri bibliografici. Anche per questo il lavoro della Di Nicola è prezioso. Non solo descrivere i volumi ma anche cercare di preservare ciò che è  destinato, col tempo, probabilmente a perdersi: il modo in cui Calvino li aveva organizzati. Sugli scaffali della casa romana si trovano i libri di tutta una vita: quelli della giovinezza di Sanremo, quelli degli anni torinesi, quelli parigini. Ci sono libri legati agli affetti privati, come una copia della Botanique di Rousseau (1802) che Calvino regala alla madre nel 1957, quando ha appena scritto Il barone rampante. Ma anche i libri su cui scopre a vent'anni la letteratura americana, a partire da una copia dell'Antologia di Spoon River (1943). La ricordo qui perché è uno dei pochi volumi su cui Calvino abbia annotato le proprie impressioni. Il resto della biblioteca - a parte qualche altro volume giovanile - è quasi privo di tracce di lettura. Ciò che rimane sui libri è l'appunto di qualche numero di pagina, magari accompagnato da brevi frasi estrapolate dal testo. E' così - tra gli altri - sulle copie di Plinio il Vecchio, Galilei, Nietzsche, Fourier ma anche Perec, Queneau, Kundera. Alcuni sono gli stessi con cui Calvino costruisce le Lezioni americane, ossia quella riflessione postuma sulla letteratura che è, forse, anche l'immagine migliore della sua biblioteca: non tanto per l'apertura di orizzonti che contiene ma per il fatto che nomi e idee vengono riuniti ancora una volta per comporre qualcosa di nuovo e invisibile fino a quel momento.'' (da Matteo Motolese, La biblioteca di Italo Calvino, Il Sole 24 ore, 17/11/'13)

mercoledì 16 ottobre 2013

Curarsi con i libri


Curarsi con i libri di Ella Berthoud e Susan Elderkin

"Si può curare il cuore spezzato con Emily Brontë e il mal d’amore con Fenoglio, l’arroganza con Jane Austen e il mal di testa con Hemingway, l’impotenza con Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, i reumatismi con il Marcovaldo di Italo Calvino, o invece ci si può concedere un massaggio con Murakami e scoprire il romanzo perfetto per alleviare la solitudine o un forte tonico letterario per rinvigorire lo spirito. Questo suggeriscono le ricette di un libro di medicina molto speciale, un vero e proprio breviario di terapie romanzesche, antibiotici narrativi, medicamenti di carta e inchiostro, ideato e scritto da due argute e coltissime autrici inglesi con la cura italiana di Fabio Stassi, l’autore di L’ultimo ballo di Charlot.
Se letto nel momento giusto un romanzo può davvero cambiarci la vita, e questo prontuario è una celebrazione del potere curativo della letteratura di ogni tempo e paese, dai classici ai contemporanei, dai romanzi famosissimi ai libri più rari e di culto, di ogni genere e ambizione. Queste ricette per l’anima e il corpo, scritte con passione, autorevolezza ed elegante umorismo, propongono un libro e un autore a rimedio dei nostri malanni, che si tratti di raffreddore e influenza, di un dito del piede annerito da un calcio maldestro o di un severo caso di malinconia. Le «prescrizioni» raccontano le vicende e i personaggi di innumerevoli opere, svelano aneddoti, tratteggiano biografie di scrittori illustri e misconosciuti, in un invito ad amare la letteratura che ha la convinzione di poter curare con efficacia ogni nostro acciacco. Non mancano i consigli per guarire le idiosincrasie tipiche della lettura, come il sentirsi sopraffatti dal numero infinito di libri che ci opprimono da ogni scaffale e libreria, o il vizio apparentemente insanabile di lasciare un romanzo a metà."

The Novel Cure: An A to Z of Literary Remedies (Canongate Books LTD)

Biblioterapia: Franzen per le crisi, un Naipaul per il mal di schiena. Come curarsi con i libri (La Repubblica, 12/11/'13)

mercoledì 14 agosto 2013

Silvia Ballestra: ''Si scrive perche' si legge''


"Una piuma raccolta sull'asfalto. Miguel aveva incominciato così il suo primo racconto. C'era una volta un uccello migratore che aveva affrontato tempeste, venti contrari e, dopo una lunga traversata nei cieli, era finalmente arrivato sano e salvo in Italia. Guardava con stupore il nuovo mondo ma non riusciva mai del tutto ad scrollarsi di dosso la nostalgia del suo paese natale.
Basta davvero poco, anche solo una piuma.
Quando Francesca Frediani porta i suoi piccoli alunni a spasso per Milano a caccia di «indizi di storia» sa che tornerà con favolose parabole di vita. Miguel è uno dei tanti figli di immigrati che ha frequentato la Grande Fabbrica delle Parole, una ong che usa la scrittura creativa come strumento di integrazione. «È un ribaltamento di prospettiva: anziché subire, questi ragazzi diventano padroni della narrazione» spiega Frediani, responsabile del progetto italiano. La lingua è spesso la vera patria. Imparare a mettere parole su emozioni e pensieri è davvero il primo passo per sentirsi italiani.
Un'idea semplice e rivoluzionaria, che viene da quel laboratorio di tendenze cheè la California.A San Francisco, dove lo scrittore Dave Eggers ha aperto con altri colleghi 826 Valencia: l'indirizzo della strada dov'è stato creato il primo doposcuola per piccoli autori, soprattutto bambini ispanici che si sono cimentati con storie di mostri e fatine, elaborando un nuovo sogno americano. Poi è arrivato The Ministry of Stories a Londra, patrocinato da Nick Hornby con l'ambizione di educare nell'East End una nuova « storytelling generation ». Nel frattempo i laboratori creativi si sono moltiplicati un po' ovunque: Fighting Words in Irlanda, Vox Prima in Spagna, Buch-Pilotent in Austria, Berattarministeriet in Svezia.
Il procedimento è sempre lo stesso: dare la parola a bambini, testimoni inascoltati e talvolta sommersi da stereotipi, violenze gratuite, discriminazioni striscianti, super-eroi fin troppo perfetti. È raro che in famiglia o a scuola ci sia tempo per «decostruire» i tanti messaggi e modelli contraddittori che piombano addosso alle nuove generazioni. «Anche noi adulti ci sentiamo un po' impotenti rispetto a un grande racconto impersonale che sembra più forte di tutti e tutto», spiega Eggers che ha avuto la scintilla parlando con sua madre e sua sorella, entrambe maestre.
Lo scrittore americano aveva osservato da vicino la frustrazione di chi, insegnando nelle scuole, si rende conto di non poter dare attenzione sufficiente ai bambini, soprattutto a quelli più in difficoltà per estrazione sociale o perché non hanno ancora una completa padronanza della lingua.
«La scrittura è la prima cosa che rende liberi», dice ancora Eggers che nel frattempo ha lanciato il progetto a New York e in molte altre città americane. Lo scrittore ha scoperto che non si tratta solo di un servizio reso all'infanzia. «Anche noi abbiamo tanto da imparare», aggiunge con un pizzico d'invidia: perché, a differenza di tanti adulti, i piccoli scrittori raramente hanno il panico della pagina bianca.
Le diverse ong che lavorano sulla scrittura dell'infanzia si organizzano diversamente. C'è chi si rivolge solo agli alunni delle scuole elementari e medie di quartiere, come Ministry of Stories, e chi apre a tutti le iscrizioni. «Abbiamo una lunga lista d'attesa», spiega Sean Love che dirige l'irlandese Fighting Words: un nome che è un programma per un Paese lacerato da una lunga guerra, in cui le ferite si ereditano. I risultati sono sempre sorprendenti, superiori alle attese, almeno per chi ha dimenticato quale pozzo di fantasia si nasconda nella mente infantile.
Si può partire da un incipit, oppure proporre già il finale, come fa Vox Prima in Spagna.
O ancora, fare una passeggiata in città per trovare «indizi di storia» come fa l'Ong milanese prima di tornare nell'anfiteatro Martesana, dove si tengono gli incontri. Niente gabbie di stile o temi prestabiliti. Ogni volta, si offre un contenitore più o meno generico nel quale poter inserire liberamente i propri contenuti. Per sprigionare il racconto di viaggi fantasmagorici e incredibili avventure bastano anche solo due ore, la durata media dei laboratori creativi. Alla fine, i bambini ripartono con un libro nello zaino: sulla copertina c'è stampato il loro nome, accanto alla loro fotografia. «È un simbolo forte e potente: sentono che la cultura non è qualcosa di astratto, ma è alla portata di tutti», racconta Francesca Frediani, 34 anni, che ha studiato scrittura creativa a New York.
La Grande Fabbrica delle Parole ha aperto con l'aiuto dell'editore Terre di Mezzo. Il sostegno economico è uno dei punti più delicati per queste associazioni, tutte rigorosamente no profit, che lottano per difendere la fantasia e la voce dei bambini. In alcuni casi, come a Londra, c'è il sostegno delle istituzioni pubbliche. In altri, viene chiesto un piccolo contributo ai genitori.
Le diverse associazioni europee stanno cercando di creare un network internazionale riconosciuto dall'Ue con appositi finanziamenti.
Il diritto alla libertà d'espressione è iscritto nella Costituzione e chissà perché è così poco tutelato nella crescita di futuri cittadini. Non ci accorgiamo neppure quanto i bambini siano condizionati da giornali e notizie. Quando c'è stata la crisi della spazzatura a Napoli, le storie dei piccoli milanesi sono diventate piene di bidoni e monezza. Poi c'è stata Vallettopoli e anche in quel caso, soprattutto per le bambine, c'è stata una trasformazione di fatine e altre protagoniste delle favole, improvvisamente più discinte. Dall'inizio della crisi, i personaggi hanno incominciato a «vivere sotto i ponti», un'espressione che i bambini hanno sentito usare in casa o alla televisione e riportano testuale nelle loro favole.
I laboratori creativi aiutano a elaborare e riflettere sul flusso di fatti di cronaca che rischia di sovrastare la loro fantasia.
«All'inizio c'è un pudore nell'inventare nuove storie - dice Frediani - i bambini quasi ci chiedono il permesso». Ma appena capiscono di avere campo libero, gli scrittori in erba si scatenano, riportando in prosa la loro esperienza diretta.
Un ragazzino ha costruito così una favola su un pallone da calcio, il suo gioco preferito quando stava in una bidonville dell'Ecuador e del suo primo goal, anni dopo, nell'oratorio dell'hinterland milanese.
«La scrittura è un potente mezzo per rafforzare la fiducia in se stessi», riassume la responsabile italiana. Sono già tremila i bambini che hanno frequentato l'associazione che ha sede nella zona di via Padova e può contare sull'aiuto di oltre 120 maestri volontari. Come all'estero, anche in Italia ci sono autori che vengono per fare «lezione». Sono stati organizzati incontri con Michela Murgia, Fabio Geda, Silvia Ballestra, tra gli altri. E con le domande che i bambini hanno posto agli scrittori è stato pubblicato un divertente volume di storie nella storia, Ma tu quanti libri scrivi in una settimana?.
Uno degli slogan coniati da Eggers: "Ispirare e ispirarsi". Uno scambio quasi alla pari. Ogni scrittore è un po' bambino, ed è vero anche il contrario." (da Anais Ginori, Ong della scrittura, "La Repubblica", 13/08/'13)

mercoledì 19 giugno 2013

Il libro illustrato del giardino


"Sottile, in camicia stretta in vita e calzoni, Vita «scava e scava ancora, poi annaffia e interra». Così annotava Virginia Woolf, incantata davanti all'amica-amante che in rose, ortensie e calle metteva una parte di sé (la più sensuale?). Per Vita Sackville West (1892-1962) quel giardino nel Castello di Sissinghurst, nel Kent, era una immensa, infinita scultura vegetale, alla quale dedicò anni, fatiche e grazia letteraria, racchiusa in un bel volume oggi ripubblicato da Elliot, Il libro illustrato del giardino. Scanditi in capitoli che corrispondono ai mesi dell'anno, con disegni di Freda Titford, i fiori di Vita compongono un calendario amoroso, dove i gigli Kaffir, le lobelie e le mimose persiane sono i protagonisti di una commedia erotica, in cui si avvizzisce, si resuscita, ci si accoppia, si muore. Nel giardino di Sissinghurst (creato da Vita negli anni Trenta, quando curava una rubrica di giardinaggio per l'Observer, da cui è nato il libro) si impara che l'iris predilige «il pacciame e la sabbia» e che le aquilege si incrociano tra loro «con un senso morale che lascia a desiderare». Non un banale passatempo, dunque ma, come per molti altri autori, il giardino integra la scrittura. Se Henry James trovava conforto nei suoi crisantemi, per Voltaire il giardino di Candido è una metafora del saper coltivare se stessi. Nella sua villetta di Meudon, Céline passeggiava tra il verde ben curato e Karen Blixen, mentre scriveva di tormente a Rungsted Kyst, in Danimarca, si rilassava tra le siepi e i pini di quello che poi sarebbe diventato il grande parco a lei dedicato. Prolifico, arguto e meravigliosamente snob, lo scrittore britannico Eden Phillpotts (1892-1960) si rifiutava di parlare di letteratura e accettava solo conversazioni sul giardinaggio. Non è così elitario, ma anche Sebastiano Vassalli ammette di trascorrere molto tempo a «curare il giardino» nel suo rifugio nella campagna novarese. Come ricorda Delfina Rattazzi nel suo libro Storie di insospettabili giardinieri (Cairo editore), Emily Dickinson coltivava rose, narcisi e dalie. Nondimeno, Charles Darwin si dedicava a orchidee e rampicanti. Il giardino ha catturato Stevenson e Monet, Paul Valery e Marguerite Yourcenar. Quest'ultima, in Scritto in giardino (edito nel 2004 da Il Melangolo) rifletteva sulla resistenza passiva dei fiori davanti alla violenza del mondo. Ma il più delizioso di tutti è stato il ceco Karel Capek, finissimo narratore, fiero oppositore del nazismo, che narrò le vicende di un coltivatore dilettante nel volumetto L'anno del giardiniere (Sellerio). In barba alla critica, che per tutta la sua vita disprezzò questa sua attitudine alla «scrittura leggera»." (da Roberta Scorranese, Vita come Voltaire e Karen: scrittori innamorati dei fiori, "Corriere della Sera", 15/06/'13)

Trame, festival dei libri sulle mafie


"Si parte domani con una giornata interamente dedicata alle donne. E poi si va avanti fino a domenica, con il ministro dei beni culturali Massimo Bray che discuterà della straordinaria bellezza della Calabria. In mezzo, per cinque giorni interi, cento ospiti si alterneranno sui palchi delle piazze di Lamezia Terme per affrontare il tema della criminalità organizzata attraverso la presentazione di 40 libri.

Quest'anno Trame, festival dei libri sulle mafie è un appuntamento al femminile, dedicato a "Quelle che resistono". In cartellone sessanta incontri letterari, musicali e teatrali, laboratori, proiezioni di film, reading. Al centro dell'edizione 2013, organizzata dalla Fondazione Trame, dall'Associazione Antiracket di Lamezia, dall'Associazione Italiana Editori e dal Comune ci saranno "loro": sindache, giornaliste, magistrate, scrittrici, insegnanti, mogli, madri, figlie, che con la loro determinazione, la loro forza e spesso con la loro ribellione stanno creando vere rivoluzioni sociali in Calabria e nel resto del Paese. Tanti i libri che parlano al femminile con autrici, testimoni, donne magistrato, rappresentanti dell'associazionismo impegnato nell'antimafia. Protagoniste come Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi sindache di Monasterace e Rosarno, che hanno subìto attentati e minacce mafiose. E alle donne calabresi è dedicato anche il libro di Lirio Abbate "Fimmine Ribelli", che sarà presentato in apertura dal nuovo Procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e pm Alessandra Cerreti. Tanti incontri, senza tralasciare i problemi dei giornalisti a rischio di cui si discuterà in diverse occasioni negli appuntamenti curati da Ossigeno per l'informazione. Tra gli ospiti magistrati come Nicola Gratteri, Giancarlo Capalbo, Michele Prestino; studiosi del fenomeno mafioso come Nando Dalla Chiesa, Enzo Ciconte e Francesco Forgione e firme del giornalismo italiano come Attilio Bolzoni e Carlo Bonini.

Libri ma non solo. Gaetano Savatteri, direttore artistico della terza edizione del festival dopo Lirio Abbate, ha spiegato che quest'anno si è deciso "di esplorare altri territori rispetto a quelli della saggistica e del giornalismo d'inchiesta, allargando il discorso sulla legalità e contro le mafie ai linguaggi dell'arte, del cinema, della letteratura, della musica". E infatti il festival coinvolge artisti, registi, scrittori, musicisti per uno sguardo trasversale sui temi portanti della manifestazione. Ci saranno istallazioni artistiche, le proiezioni dei film di Roberto Andò, Mimmo Calopresti e Pasquale Scimeca e di documentari, come "Mafia Bunker" di John Dickie ed Elena Cosentino. Oltre ai libri d'inchiesta spazio alla letteratura con Gianrico Carofiglio e Mimmo Gangemi. Tra gli eventi il produttore cinematografico Gaetano Di Vaio presenta, in anteprima nazionale, il libro "Non mi avrete mai", scritto con Guido Lombardi sulla realtà delle periferie napoletane. Le mattinate del festival saranno poi dedicate ai giovani con cinque workshop tematici.

Per il sindaco Gianni Speranza "quella di Trame è una tradizione che si consolida". Che "diventa sempre più ricca e coinvolgente, cui prendono parte tanti ragazzi di tutt'Italia che a Lamezia lavorano, studia e s'informano". Il sindaco mette l'accento sulle donne "che in Calabria e nel Paese stanno dimostrando di essere il vero motore della società, nella lotta alle mafie e non solo". Savatteri ricorda infine a Lamezia prende voce "l'altra Calabria e l'altro Sud, quello di chi lotta ogni giorno per il riscatto della propria terra, di chi ci mette la faccia sui posti di lavoro e nella vita quotidiana". (da Giuseppe Baldessarro, La forza delle donne quante "Trame" da leggere, "La Repubblica", 18/06/'13)

sabato 15 giugno 2013

No Web


"Quattro uomini tra i 30 e 45 anni, cravatte strette, camicie a quadri, niente giacca. Pranzano da Friedman's Lunch dentro il Chelsea Market nella parte bassa di New York. C'è qualcosa di insolito che attira lo sguardo: i loro smartphone sono impilati al centro della tavola. Dove una volta c'erano i fiori, c'è un totem tecnologico. Ma non è adorazione, è un esorcismo. I quattro si stanno sfidando al gioco più in voga nelle ultime settimane: si va al ristorante, si mettono i telefonini in vista e il primo che tocca il proprio per rispondere o controllare una e-mail paga il conto. Kim e i suoi tre amici sono ingegneri informatici che lavorano da Google che ha la sede lì a due passi. E la roulette è un'invenzione appunto della Silicon Valley.
Michael e Barbara sono due professori, lui insegna all'università, lei alle elementari. Vivono nel North Carolina e stanno decidendo in questi giorni dove godersi le vacanze. Discutono su tutto, tranne su una cosa: ovunque andranno la parola d'ordine è "non fare niente".
E oggi per non fare proprio niente c'è una sola strada da percorrere: staccare la spina, spegnere Internet. Con uno slogan vincente: l'arte della disconnessione è la nuova tendenza americana. E la ragione è semplice. L'onda è uno tsunami: coinvolge tutti noi, che per lavorare abbiamo bisogno della tecnologia. Persone che, in meno di una generazione, sono passate dal fascino della connessione alla voglia di fuggirne prima che sia troppo tardi. Ci sono malattie nuove che hanno costretto i medici ad aggiornare il loro vocabolario: nomophobia (la paura di non aver segnale) o l'acronimo Fomo (che sono quelli spaventati da perdersi una e-mail, un post di Facebook). Gli ultimi studi rivelano che stiamo smarrendo la capacità di guardarci negli occhi. In teoria, secondo la scienza, abbiamo bisogno di 60/70 secondi per accendere un'empatia, ma ora, a causa dei nostri dispositivi digitali, siamo scesi ad una media che va dai 30 ai 60. «Tra i giovani è ormai dato per acclarato che si può stare assieme senza guardarsi in faccia, controllando di continuo il proprio telefonino», dice Noah Zandan, un esperto di dinamiche sociali. È un danno umano, ma persino economico tanto che nascono corsi per insegnare ai manager a riprendere a fissare negli occhi i loro interlocutori. E alcune aziende offrono incentivi a chi abbandona il proprio cubicolo in ufficio per andare a incontrare i colleghi. La Intel invece obbliga i ricercatori ad alcune ore alla settimana di black out informatico per ricaricare le pile e pulire la mente. I benefici sono enormi: quando si ritorna dal viaggio dentro questo rilassante buco nero l'efficienza aumenta sino all'80%. Come spesso accade, la cura nasce dove il problema è più acuto.
Robin Sloan usa una vecchia penna Bic, scrive su un block notes e per telefonare si affida a un modello preistorico. Legge solo libri di carta e adora sfogliare i giornali. Ed è uno dei migliori strateghi della Rete, grande esperto di Twitter, new media e giornalismo digitale. Quando si mette a scrivere il suo primo libro scopre che l'assedio digitale è insopportabile, gli porta via tempoe fantasia e così decide di spegnere tutto per qualche ora al giorno. Abitudine che gli rimane anche finito il saggio: «Il mio esperimento è stato un successo: certo guardo ancora la posta, ma non mentre bevo il caffè o sto parlando con qualcuno. Mi sento come se avessi imparato qualcosa di decisivo».
Even Sharp è il fondatore di Pinterest, la piattaforma digitale per la condivisione delle immagini. Uno che sull'essere connessi ci ha costruito una fortuna, la sua. Ma ora sente il bisogno di fermarsi. «Figuratevi se io posso essere contro la tecnologia. Non potrei vivere senza il mio smartphone, ma penso che sia giusto e salutare prenderci delle pause». E così lui e la moglie almeno un weekend al mese si concedono due giorni e mezzo senza Internet. Cercano sulla mappa dove il telefonino ha poco campo, salgono in auto e via verso la libertà. Gli americani passano oltre otto ore e mezzo davanti a un video, tempo raddoppiato dal 2005 al 2009 e in continua ascesa. Gli adolescenti ricevono quasi cento messaggini al giorno e tutti noi buttiamo l'occhio sul nostro smartphone oltre 150 volte. «Il vero problema è che usiamo gli stessi oggetti sia per lo svago che per il lavoro. Leggiamo una e-mail del nostro capo e un minuto dopo siamo sempre sullo stesso dispositivo a cercare il ristorante per andare a cena con gli amici: non distinguiamo più. Sono cadute le barriere che una volta separavano i vari momenti della nostra giornata e questo ci crea disturbi di attenzionee ansia», spiega Janet Sternberg, docente alla Fordham University di New York.
Da qui la reazione.
C'è un libro che è diventato di culto per i fautori della vita "unplugged". Si intitola The Winter of Our Disconnect, l'inverno della nostra disconnessione, e l'ha scritto due anni fa Susan Maushart. Su Amazon sta vivendo una seconda giovinezza. È la storia di una mamma «che dormiva con l'iPhone sotto il cuscino» che decide di tornare all'antico e spegnere i gadget dei suoi tre figli.
«All'inizio fu un incubo, loro non mi ascoltarono neanche, troppo presi dai giochi elettronici o altro.
Poi, piano piano, scoprimmo piaceri che avevamo perduto», racconta lei. E adesso sono sempre di più i genitori che seguono l'esempio. George ci prova in vacanza, in spicchi limitati di tempo: niente cellulari a tavola, niente nelle camere da letto. E anche per lui è come riaprire gli occhi: «Quando sei l'unico non connesso ti accorgi di quello che succede attorno a te. C'era gente che si portava il tablet anche nella sauna della Spa». E il mercato del divertimento si adegua. La catena di hotel Marriott è la prima grande società che offre pacchetti "Internet free" ai propri clienti. Ci sono zone dove non c'è il wifi ed è vietato l'uso dei gadget tecnologici. Oasi di pace nate dopo che un sondaggio ha rivelato che ben l'85% delle persone è infastidito dall'invasione tecnologica e che il 31% ha pensato almeno una volta, dopo l'ennesima comunicazione di lavoro, di gettare il proprio telefonino in acqua. E le cronache raccontano di un bagnino di un piccolo resort in Florida applaudito con una standing ovation dai clienti a bordo piscina dopo che aveva invitato un signore a spegnere il cellulare perché in quella zona era vietato.
Aumentano i corsi e i manuali che insegnano le regole base per disintossicarsi. Alcune al confine tra il pratico e il ridicolo: dimenticarsi il carica batterie quando si parte. Altre più realistiche, come decidere che alcune stanze della casa sono denuclearizzate, oppure che ci sono fasce orarie in cui la tecnologia riposa nei cassetti. Si spiega alla gente come staccare i vari "alert" o disattivare Twitter, Facebook, e-mail e sms lasciando invece in funzione la possibilità di ricevere chiamate per le emergenze: «Tanto le telefonate sono così in disuso che nessuno vi disturberà».
E siccome Internet tutto crea, tutto distrugge e tutto ricrea sono sempre di più le applicazioni che aiutano chi vuole prendersi una pausa. I blog dal titolo The art of disconnecting in un apparente paradosso sono i più cliccati. E su Internet un'agenzia immobiliare con un forte senso dell'umorismo mette in vendita case «in zone dove il telefonino prende poco e male».
«Non penso sarà la solita moda passeggera, risponde ad un'esigenza fondamentale per la nostra vita: trovare tempo per noi. Non per fuggire in campagna ma per fare meglio quello che dobbiamo fare negli altri giorni», dice Janet Sternberg. Al tavolo del ristorante di Manhattan un cellulare vibra. La pila rischia di crollare. I quattro incrociano gli sguardi. Un duello da Far West. Poi allungano le mani in contemporanea, di scatto, e quasi sradicano l'oggetto del desiderio, perché, nonostante la rima, è molto più difficile smettere di telefonare che di fumare". (da Massimo Vincenzi, No Web/1, "La Repubblica, 05/06/'13)

I ragazzi Burgess


"Elizabeth Strout è una delle scrittrici più profonde e raffinate della scena letteraria americana. Schiva, ironica ed estremamente acuta, vive nel Maine, limitando le frequentazioni sociali: il mondo culturale newyorchese è una realtà con cui si confronta a piccole dosi e con la massima cautela, mentre il mondo rurale dello stato in cui è nata rappresenta il retroterra imprescindibile di una commedia umana nella quale sa individuare con ammirevole capacità introspettiva splendori e miserie, speranze e delusioni. Non è un caso che nelle sue storie ci siano personaggi ricorrenti. Prima che un piacere, la scrittura per la Strout rappresenta una necessità catartica, che lei affronta con rigore quasi monastico: da questo punto di vista, il suo lavoro è paragonabile a quello di Alice Munro e Annie Proulx. In questi giorni è uscito per Fazi I ragazzi Burgess, pubblicato a cinque anni di distanza da Olive Kitteridge, la raccolta di racconti che l'ha resa celebre e con cui ha vinto il Pulitzer. Le recensioni americane sono state ottime: il Washington Post ha scritto che "il libro dimostra come il lavoro di questa straordinaria scrittrice continui a evolvere e migliorare" e il Boston Globe
lo ha definito il suo "romanzo migliore". E se il New York Times ha espresso riserve su alcune soluzioni narrative, Time è arrivato a paragonarlo a Pastorale Americana di Philip Roth. I due libri sono in realtà diversissimi, ma è analogo il senso ineluttabile di declino che investe i protagonisti, e la descrizione, all'interno di una comunità provinciale, di avvenimenti tragici e violenti che finiscono per travolgere personaggi ad essi estranei.

I ragazzi Burgess ha una scrittura cristallina e un tono sobrio, asciutto, che consente alla Strout di essere particolarmente efficace nelle descrizioni psicologiche dei protagonisti: Jim Burgess, un avvocato di grande successo e straordinaria popolarità mediatica; il fratello Bob, che vive nella sua ombra ed esercita la stessa professione con pochissime gratificazioni, e la sorella Susan, amara e terribilmente sola, il cui figlio Zach si è messo nei guai lanciando una testa di maiale in una moschea durante le celebrazioni del Ramadan. Questo gesto sconsiderato, che il ragazzo non riesce neanche a spiegare razionalmente, riunisce la famiglia, e costringe i componenti a confrontarsi con un tragico incidente nel quale molti anni prima aveva perso la vita il padre.

"Quando ho letto che citavano Pastorale Americana a proposito del mio libro mi sono sentito lusingata e ho provato un'enorme emozione", racconta la scrittrice. "Roth è un grande maestro, e credo che uno degli elementi in comune con il mio romanzo sia l'ambientazione in una comunità chiusa, nel quale l'elemento razziale finisce per imporsi irreversibilmente ".

Da dove nasce il suo libro?
"Non riesco a rispondere razionalmente: so solo che era da molti anni che avevo abbozzato la storia di un incidente che sconvolge le vite di alcuni personaggi, ma che diventa un tabù. Ogni piccola città ha la sua tragedia, e nella mia c'era quella di un ragazzo che aveva ucciso per sbaglio il fratello. Io conoscevo la sorella dei due ragazzi e da piccola mi inquietava il fatto che di quel dramma non si potesse parlare".

Immagini di essere un'aspirante scrittrice che deve vendere I ragazzi Burgess a un editore: come lo descriverebbe?

"La storia di uomini e donne che sono costretti ad affrontare un dolore rimosso dal quale si sono illusi di poter sfuggire. E che ora possono crescere, sapendo che con ogni probabilità sbaglieranno di nuovo ".

Samuel Beckett diceva "prova di nuovo, sbaglia di nuovo, sbaglia meglio".

"È una massima che riassume perfettamente il senso ultimo di un romanzo che vuole interrogarsi sul rapporto tra tempo e dolore, responsabilità e fuga".

Ancora una volta ambienta una sua storia nel Maine.
"È il luogo nel quale sono nata e vivo. I miei antenati si stabilirono qui nel 1603. Provengo da un mondo puritano, dove non si parla dei dolori personali".

Il suo protagonista Jim è un uomo di legge di grande successo: come suo marito, che ha lo stesso nome, ed è stato procuratore generale del Maine.
"Ho iniziato a scrivere il libro prima di conoscere mio marito. Il personaggio è nato con quel nome e non sono riuscita a cambiarlo. Immaginavo che molti lettori lo avrebbero identificato con lui, ma cambiare il nome di Jim Burgess mi sembrava in qualche modo snaturarlo. Molti pensano che sia il personaggio meno simpatico, ma io lo amo particolarmente per il dolore che si porta dentro".

Uno dei temi del libro è l'isolamento all'interno della famiglia, un tema affrontato da molti autori, tra cui Jonathan Franzen.

"È un tema che mi ha sempre affascinato, e il fatto che sia comune ad altri ci deve invitare a riflettere sulla nostra società. Tuttavia spero che il libro dica qualcosa anche sul fatto che il passato non finisce mai di parlarti e a volte perseguitarti. Così come dei conflitti razziali che esplodono in un microcosmo".

Lei ha seguito un procedimento opposto rispetto a molti autori, passati dal romanzo al racconto: come mai?
"Non so spiegarmi l'attuale proliferare di libri di racconti, specie in un mondo dell'editoria che non li ha mai prediletti e che oggi vive una crisi generale. Questa storia è nata da sempre come un romanzo. Prima di questo ritorno, i racconti, molto popolari negli anni Settanta, sono stati tenuti in vita da grandi scrittori come Alice Munro".

Pensa che ci sia qualcosa di prettamente femminile nella sua scrittura?

"Non sono in grado di dirlo, ma certamente il fatto che io sia una donna ha un ruolo imprescindibile. La sua domanda mi ha fatto venire in mente che uno degli autori che ho apprezzato maggiormente negli ultimi tempi è la scrittrice italiana Elena Ferrante. Ho letto con molta sorpresa che non si sa nulla di lei e che c'è chi dice che dietro il nome di questa eccellente autrice possa in realtà nascondersi un uomo".  (da Antonio Monda, Elizabeth Strout e I ragazzi Burgess. "Altro che Roth, amo Elena Ferrante", "La Repubblica", 14/06/'13)

Elizabeth Strout: By the Book (The New York Times)

Perché l'amore fa soffrire


"Si può immaginare Catherine di Cime tempestose lamentarsi via social network della scomparsa di Heathcliff, scatenando la solidarietà di centinaia di blogger? Oppure Emma Bovary in seduta face to face dallo psicologo? Sono più o meno questi gli scenari che la sociologa israeliana Eva Illouz lascia intravvedere in un impegnativo volume sull'amore, Perché l'amore fa soffrire  (il Mulino). Il libro è in tutto e per tutto un saggio, con piglio e apparato accademico, che, pubblicato negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia è diventato un caso editoriale, conferendo all'autrice lo status di una teorica rivoluzionaria (sarà tra i relatori del Festival Filosofia di Modena, in settembre). Si vede che Warum Liebe weh tut. Eine soziologische Erklärung (nell'edizione originale tedesca il titolo proseguiva con: «una spiegazione sociologica»), perché l'amore faccia soffrire è argomento che ancora tocca nervi sensibili, anche se da quell'amore romantico celebrato dalla letteratura di fine Ottocento e dalla Hollywood del secolo scorso sembravamo esserci smarcati.

Il problema nuovo, pare sostenere il testo, è proprio in quell'enorme e malinteso uso della libertà emotivo-sessuale-sentimentale, che allorquando pareva salvarci da struggimenti per relazioni incontrollabili (soprattutto da parte delle donne) quali matrimoni non desiderati e non più negoziabili, amanti che non potevano essere dichiarati, solitudini protratte nell'attesa di una lettera che non giungeva, proprio in quel momento lì, la conquistata libertà si rivelava come ingestibile e quindi generatrice di nuove afflizioni. Le donne moderne non potevano scegliere.

Le donne post-moderne non sanno cosa scegliere, data l'enormità dell'offerta, e se scelgono qualcosa che finisce (qualcuno che le lascia) si sentono inadeguate. Come se fosse tutta e solo colpa loro (o del partner), mentre nella prospettiva sociologica dell'autrice la sofferenza emotiva è in relazione, seppur in modo complesso, con l'organizzazione del potere politico ed economico.

Dichiarato e insistito è il tentativo di applicare all'amore romantico ciò che Marx ha applicato ai beni: mostrare che le pene d'amore sono determinate dai rapporti sociali, che non circolano liberamente e senza restrizioni, e che concentrano in sé le istituzioni della modernità. E se la libertà in economia non dà sempre risultati sostenibili, perché non dovrebbe essere vero anche per l'amore? Questo non certo per raffreddare l'argomento, bensì per proteggere le persone coinvolte nelle pene del cuore da un esagerato senso di colpa, per comprendere che non si tratta di fallimenti individuali, con conseguente drammatica demonizzazione del sé, bensì di variabili e costanti che possono essere discusse in un insieme più ampio.

Il malinteso, suggerisce ancora il testo, quello che oggi precipiterebbe Anna Karenina in una semplice Bridget Jones (evitandole quindi, però, l'impatto con il treno ...), è stato veicolato proprio dall'avvento delle teorie freudiane: la cultura del nostro tempo insiste nell'affermare che il mal d'amore è solo conseguenza di maturazioni psichiche insufficienti o lacu-nose. Ovvero: le sofferenze sentimentali sono inevitabili e auto inflitte, ci scegliamo per analogie o contrappassi con noi e i nostri genitori ... Inoltre vi è tutta una terminologia fuorviante che accompagna il malinteso, come la teoria che le donne vengano da Venere e gli uomini da Marte, cioè che siano insiemi irriducibili per natura, e non per dettami sociali, l'uno all'altro. La psicologia ha assunto un ruolo cruciale nel delegare tutto ciò che riguarda l'esperienza sentimentale ed erotica unicamente alla responsabilità dell'individuo, forse perché d'altro canto offriva la speranza di poterle risolvere.

Ma a starci troppo, sul lettino dello psicologo, si assiste a un processo di 'distacco' non meno doloroso di quello del Dottor Zivago quando guarda scomparire la slitta di Lara dietro dune di neve: emergono autonomia, edonismo, cinismo e ironia. A questo punto, attenzione: se al lettore (come a chi scrive) queste ultime dovessero sembrare categorie salvifiche ancorché ego-centrate, e talvolta persino divertenti, l'autrice mette in guardia dal goderne: è qui infatti che l'amore romantico diviene il luogo di un processo paradossale. Perché se l'amante moderno è infinitamente meglio equipaggiato per gestire esperienze reiterate di abbandono, proprio per questo, poiché si pensa di essere più attrezzati, meno si tollerano i dubbi e le incertezze implicati nell'amare. Insomma è vero che i femminili sono pieni di posta del cuore, e i talk show aiutano a sentirsi meno soli, ma non si soffre per questo di meno: si soffre comunque molto, anzi quanto e come Lucia ne La Boheme. L'unica differenza tra il suo dolore e quello di Carrie in Sex and the City risiede nella coloritura e nella consistenza dello stesso.

Ed ecco che dunque l'infelicità sentimentale dell'uomo e della donna contengono, rappresentano e mettono in atto gli enigmi della modernità. Ma allora se la libertà non è un valore astratto bensì una pratica culturale istituzionalizzata e condiziona la scelta; se la scelta genera fobia da impegno; e l'impegno mancato genera perdita di valore; e la perdita di valore rigenera una nuova categorizzazione costellata di sprezzante ironia: una speranza la Illouz ce la dà? Nelle conclusioni (ma non come conclusione) arriva, più che una speranza, una formula: «Quando l'uomo o la donna, siano essi impegnati in una relazione omosessuale o eterosessuale che sia, onorano gli impegni di parità, libertà, ricerca di soddisfazione sessuale, dimostrazione di attenzioni e di autonomia al di là del genere, allora la loro relazione è felice". Chi? Come? Quando?" (da Valeria Parrella, Le conseguenze dell'amore.  "La Repubblica", 12/06/'13)

Valeria Parrella su IBS

lunedì 10 giugno 2013

Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur


"Se la storia del l'uomo è ormai diventata quella delle sue città, bisogna dire che mai come nel Novecento la filosofia ha trattato di simili temi. Dalle analogie avanzate da Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e metropoli, alle ben più vaste considerazioni di Heidegger sulla differenza fra abitare e costruire, la città ha occupato un posto rilevante nella riflessione contemporanea. Lo dimostra Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva (Castelvecchi). L'opera del grande studioso di ermeneutica, morto pochi anni fa, uscì nel 2008 da Città Aperta, ma ritorna ora con un ampio apparato tematico e una nuova introduzione di Riva, vero libro nel libro, che analizza la contrapposizione tra il decostruzionismo di Lyotard e Derrida da un lato, e la rilettura del costruire in senso narrativo di Ricoeur dall'altro. Ma veniamo ai quattro testi (escludendo l'ultimo, che l'autore stesso chiama una "semplice nota"), sulla base di un commento di Carmelo Schillagi e del gruppo di studio Petra Dura. Il primo capitolo suggerisce come l'architettura sia per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Nella stessa maniera in cui l'architettura agisce sullo spazio per modificarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo. In tal senso, concetti di durata e durezza si rivelano affini. «Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita». Tuttavia, benché definibile come "pietra che dura", l'architettura è solo una conquista provvisoria, sotto gli assalti della natura e dell'uomo. Ma ecco la grande mossa di Ricoeur: egli propone infatti di applicare all'arte del costruire gli stessi parametri cari all' arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione. L'esito di tale operazione si rivela tanto complesso quanto suggestivo. Assai più semplice appare invece il secondo testo, un'intervista del 1994. Qui l'autore sostiene che la sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l'intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all' avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti. Infatti, per Ricoeur, l'architettura non può né deve rientrare tra i saperi scientifici. In tale prospettiva, essa assomiglia alla politica, la cui gestione non è delegabile a tecnici. Vediamo perché: «Il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica. Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza» (quando si dice l'attualità del filosofo ...). Arriviamo così al terzo testo, dedicato ai quattro requisiti di ogni centro urbano da cui derivano altrettante patologie. La prima dipende dalla moltiplicazione delle relazioni e degli scambi. Dato che la città rappresenta un crocevia di persone, il rischio insito in tale struttura risiederà nell' anonimato delle relazioni, come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi. La seconda malattia deriva invece dalla mobilità accelerata, ed è legata al pericolo di un disorientamento e di una perdita del centro. Diversa l'aberrazione successiva, che consiste nel ben noto "fenomeno canceroso" della burocrazia. Quanto all'ultimo guasto urbano, esso discende dal predominio della tecnologia, davanti a cui l'abitante potrebbe finire per sentirsi un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune. Sono passati quasi vent'anni dalla stesura di queste pagine, eppure lo sguardo del pensatore protestante non ha perduto nulla del nitore con cui seppe guardare al nesso architettonico fra uomo, spazio e tempo." (da Valerio Magrelli, Perché i tecnici non sono utili alle nostre città, "La Repubblica", 09/06/'13)

mercoledì 29 maggio 2013

La verità sul caso Harry Quebert


"«Un'ora fa vi avevo fatto una promessa, cari amici: avevo promesso che vi avrei raccontato una storia vera». Avvolto dal mantello a ruota dell'illusionista, nel finale di F come falso, il suo controverso film cult sui grandi falsari d'arte, Orson Welles guarda nella camera, si accende il sigaro e aggiunge: «L'ora è passata, e io vi posso giurare che negli ultimi diciassette minuti non avete sentito altro che un cumulo di menzogne». Se ha un maestro, il giovane scrittore ginevrino Joël Dicker, che con questo suo La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani) ha fatto gridare al miracolo la critica francese e ha già venduto centinaia di migliaia di copie in Francia, Svizzera e Belgio, è proprio il Welles che esplora il regno del Falso, investigando il confine spesso impalpabile che lo separa dal Vero. La verità sul caso Harry Quebert ha tutta l'apparenza di un odierno F come falso letterario. Se Welles parlava di quadri e bugie, Dicker scrive di libri e bugie. Tutti mentono, in questa storia. Mentono alla comunità e mentono a se stessi. Tutti. A partire dall'autore. E solo nella menzogna, par di capire, stanno le verità più profonde.
Tutto comincia quando il giovane romanziere Marcus P. Goldman, preda della sindrome da foglio bianco che immancabilmente assale lo scrittore travolto da improvviso successo, abbandona la scintillante scena letteraria di New York e si rifugia nel ridente villaggio di Aurora, nel cuore del quieto, elegante, solido e accogliente New Hampshire. Inseguito dal ringhiante editore Roy Barnaski che strepita e minaccia perché il secondo, atteso capolavoro del giovane autore veda finalmente la luce, Marcus va a cercare ispirazione dal suo antico mentore, Harry L. Quebert. Colui che trent'anni prima aveva commosso l'America con Le origini del male, straziante storia dell'amore impossibile fra un uomo e una donna divisi da ragioni di classe. Harry ha insegnato tutto a Marcus: a scrivere, a tirare di boxe, e, soprattutto, a vivere. Trasformando un ambizioso adolescente furbetto in un Vero Essere Umano. Il suo debito di riconoscenza è così grande che Marcus non si scompone più di tanto quando, frugando nelle carte dell'amico, scopre che, trent'anni prima, Harry era stato perdutamente innamorato della quindicenne Nora Kellergan, poi scomparsa in misteriose e drammatiche circostanze, forse vittima di un maniaco. Se la love-story di Harry con la piccola Nora venisse alla luce, l'America puritana reagirebbe con sdegno. Marcus, però, non giudica, e dopo aver giurato di mantenere il segreto, se ne torna a New York, sempre più sprofondato in una crisi creativa senza rimedio.
Ma il destino è in agguato, pronto a colpire. Harry ordina lavori nel giardino della sua villa che sembra uscita da un dipinto di Hopper. I giardinieri scavano e portano alla luce ciò che resta di Nora Kellergan. Accanto alle povere ossa, il manoscritto del romanzo di Harry con una dedica d'amore. Esplode lo scandalo. Harry Quebert, esposto all'odio come pedofilo e assassino, finisce in galera. Marcus pianta New Yorke torna ad Aurora per salvarlo. Indagando su quella tenebrosa vicenda di tanti anni prima, riuscirà a sciogliere l'enigma della morte di Nora e, by the way, a produrre, finalmente, l'attesa "opera seconda": La verità sul caso Harry Quebert, appunto. Da questo spunto iniziale, si dipartono, come in un gioco di specchi (come non pensare ancora al Welles della Signora di Shanghai?), vari filoni narrativi, tutti di rigorosa ascendenza letteraria. L'investigazione di Marcus sta fra il noir classico e il true crime, compresa una descrizione della cittadina di Aurora che rimanda al memorabile incipit di A sangue freddo di Truman Capote.
La storia d'amore fra Harry e Nola è puro Lolita. I segreti di Aurora ricordano I peccati di Peyton Place, la famiglia fondamentalista di Nora echeggia venature di un perbenismo assassino che dalla Casa Usher di Poe approderà a Stephen King, passando per legioni di b-movies. Nei fantasmi di Nora e nel suo rapporto con la madre si rinvengono tracce del Norman Bates di Psycho, e via dicendo.
Il gioco coinvolge, con diabolica simmetria, anche i personaggi minori, maschere di una sapiente commedia dell'arte letteraria: dal sergente in apparenza burbero e in realtà duttile e intelligente, alla "jewish mama" di Marcus, che spara battute a raffica come in un Woody Allen d'annata. Trainate dal trionfo degli archetipi, le pagine scorrono inquiete e veloci. Tanto febbrili che, se non sapessimo che Dicker esiste veramente, penseremmo alla beffa di una sofisticata intelligenza meccanica, un raffinato "software" di ultimissima generazione che si diverte a edificare una monumentale epopea post-moderna avulsa da qualsivoglia seduzione del realismo. Ma Dicker c'è, e del senso dell'opera è lucidamente e onestamente consapevole: voleva scrivere proprio questo, un romanzo "voltapagina", sedotto dalla meticolosità narrativa di serie televisive come Homeland. Sulla costa orientale degli Stati Uniti ci ha davvero vissuto. Anche se resta pur sempre l'europeo alla corte dell'impero a stelle&strisce, il suo sguardo sull'America profonda è meno sbigottito e più incisivo di quello di tanti visitors che l'hanno preceduto. Una certa esperienza del reale gli consente inoltre di introdurre nel prisma compositivo alcune intelligenti distorsioni nelle quali si cela la zampata d'autore. Ci sono, ad esempio, domande che Marcus non fa al momento opportuno e atti concreti d'indagine che i poliziotti incomprensibilmente ignorano. E non si tratta solo di espedienti per mandare avanti la macchina narrativa. È un'orgogliosa professione di indifferenza nei confronti delle regole, il tradimento manifesto di quel manuale di "consigli a un giovane scrittore" che il maturo Harry elargisce all'apprendista Marcus. L'ennesima sottolineatura del Segno del Falso che è l'unica vera strada per il Vero. D'altronde, la verità svelata nel finale è decisamente meno seducente delle parziali e frammentarie verità - tutte false - che si erano affacciate strada facendo: print the legend, chéè meglio.
I fatti, quasi sempre, ci deludono. Da anni si dice che scrivere noir è un modo intelligente per aggredire il contemporaneo, raccontandone il lato oscuro. Dicker usa il noir - e non solo quello - per ristabilire la centralità del letterario. È presto per affermare che siamo di fronte a un'inversione di tendenza, ma comunque chapeau: con questo giovane svizzero dovremo tutti fare i conti, prima o poi.
Post scriptum. In quanto "caso letterario", Dicker è stato paragonato a Stieg Larsson. Niente di più sbagliato. Larsson era un comunista combattente che denunciava le ingiustizie di una società corrotta e, neanche troppo occultamente, si proponeva di cambiarla. Dicker è, per dirla ancora con Welles, «l'arte come menzogna che ci fa capire la verità». E bisogna dire che ci riesce maledettamente bene." (da Giancarlo De Cataldo, L'arte della menzogna, "La Repubblica", 27/05/2013)

De Cataldo su IBS

"La Cina si svela grazie al noir. Il genere poliziesco, lo sappiamo, è una chiave esplorativa ideale per sondare una società, cogliendone i recessi più segreti: ce l'hanno insegnato le storie di James Ellroy, da cui affiora il volto più torbido di Los Angeles, e l'invischiante provincia francese dei libri di Georges Simenon. Da tale prospettiva ben rodata, ma anche da personaggi e ambienti originali, dipende l'ascesa di un filone autoctono capace di scavare con acume nei conflitti del Paese, scansando almeno in parte l'incombente censura: il marcio emerge da sciarade di delitti solo apparentemente innocue. La star di questa tendenza è Xiaolong Qiu, nato a Shanghai nel 1953 ed emigrato negli Stati Uniti dopo la repressione di Piazza Tienanmen. Ora è docente di letteratura cinese a Saint Louis, ma i suoi noir circolano pure in Cina, dove il pingue professore (ha l'aspetto morbido e vasto di un Nero Wolfe orientale) torna spesso indisturbato per conferenze e incontri universitari.
Fulcro del suo successo è la serie dell'ispettore Chen Cao, capace di vendere nel mondo due milioni di copie (di cui 150mila in Italia, dove lo pubblica Marsilio), e affascinante soprattutto per l'ambientazione, affidata a una Shanghai resa violenta e mafiosa dal frenetico passaggio al capitalismo. Sconvolta anche da una metamorfosi esterna (i vecchi edifici coloniali cedono il passo a selve incontrollate di grattacieli), la metropoli è il teatro delle imprese di un detective animato da un'irresistibile testardaggine eticae da una rigorosa logica deduttiva, e sospinto dalla malinconica memoria della morale confuciana ereditata da suo padre, caduto vittima delle Guardie Rosse. Le passioni di Chen sono la poesia e la cucina, con descrizioni gastronomiche ossessive, e ogni suo tuffo nei misfatti di Shanghai è infarcito da citazioni occidentali colte, con una predilezione per Shakespeare. I titoli della serie usciti in Italia, tra il 2002 e il 2012, sono La misteriosa morte della compagna Guan (segnalato dal Wall Street Journal come uno tra i cinque migliori gialli politici di tutti i tempi), Visto per Shanghai, Quando il rosso è nero, Ratti rossi, Di seta e di sangue e La ragazza che danzava per Mao.
Di volta in volta la trama scardina un tema della Cina odierna per anatomizzarne i contenuti politicamente più scottanti, e la censura cinese «interviene con tagli e con un accorgimento: Shanghai è chiamata "la città H", come fosse uno scenario inventato», avverte Francesca Varotto, editor della Marsilio per la narrativa straniera. Ma le denunce, almeno nelle traduzioni italiane, si evincono con chiarezza.
Accusatorio è il plot de La misteriosa morte della compagna Guan, che fotografa la relazione sporca instauratasi tra il Partito e la polizia, dando un'immagine perversa degli alti quadri del primo. Operazione non passata inosservata in Cina: «Interi paragrafi e tutto un capitolo sono spariti dall'edizione cinese del libro», segnala l'autore Xiaolong Qiu. E a proposito dell'eliminazione della parola "Shanghai" dai propri testi, fa notare che «anche i nomi delle strade e dei ristoranti vengono cambiati, per non rendere riconoscibile la città. Ma il paradosso è che le recensioni cinesi parlano dei miei lavori come di "romanzi su Shanghai". Ho chiesto come ciò sia possibile al mio editore cinese e mi ha risposto che i censori non leggono mai le critiche sui giornali!».
Diretto è l'affondo nella reputazione di Mao compiuto dal suo La ragazza che danzava per Mao. Stavolta l'ispettore si infiltra nell'entourage della giovane Jiao, nipote di una delle favorite del Grande Timoniere, in mezzo a viziosi che rimpiangono il periodo pre-rivoluzionario. Via via l'indagine si trasforma in un viaggio nella sfera privata di un politico sadico e tirannico nei rapporti con le donne, e ancora in grado di condizionare, col suo ricordo, l'immoralità che infetta il sistema. «È l'unico dei miei titoli bandito dalla Cina», riferisce Xiaolong, specificando che «un tale ritratto di Mao è evidentemente inaccettabile». In ottobre approderà in Italia il suo ultimo libro, Le lacrime del lago Tai, dove il bersaglio si sposta sul disastro ecologico che sta devastando il Paese. A Chen toccherà stanare i colpevoli della morte del dirigente di un'industria chimica che butta le scorie in un lago le cui acque erano esemplari per purezza.
Un altro buon giallista cinese è He Jiagong, che è rimasto a Pechino, dove lavora come criminologo e docente di diritto penale. Federico Rampini, su Repubblica, lo definì «un esperto stimato nel suo primo mestiere, ma con una doppia vita da romanziere tutt'altro che politically correct». La sua creatura letteraria è l'avvocato Hong Jun, un personaggio che avanza come un donchisciotte inascoltato nella selva maledetta della modernizzazione della Cina. Il suo La donna pazza (Mursia) si svolge nel degrado di una Manciuria delinquenziale, relegata ai margini dall'industrializzazione. Siamo distanti geograficamente e storicamente, ma non moralmente, dal clima di Intrigo a Shanghai, firmato da Xiao Bai (il nome è uno pseudonimo) e appena portato in Italia da Sellerio. È una storia di denaro sporco e di trafficanti d'armi dirottata negli anni Trenta, durante il tramonto del colonialismo. Ma la trama, benché declinata al passato, ricalca in modo evidente l'atmosfera di dissidio economico e sociale della Cina contemporanea. Con i suoi smascheramenti "morbidi" delle verità più inconfessabili, il noir cinese tocca zone che la letteratura "colta" non arriva neppure a sfiorare." (da Leonetta Bentivoglio, L'ondata noir degli autori d'Oriente così il thriller denuncia le verità nascoste, "La Repubblica", 17/05/'13)

sabato 18 maggio 2013

Napolitano: ''Leggiamo poco''



"In Italia si legge troppo poco e così facendo «si crea uno svantaggio oggettivo nella vita individuale e collettiva anche sotto il profilo economico». Giorgio Napolitano cita le statistiche che «riflettono una debolezza di fondo della nostra realtà culturale», il fatto che siano «meno della metà gli italiani che leggono almeno un libro all'anno» e che, rispetto alla media nazionale, «la quota dei lettori scenda ancora di più nelle regioni meridionali». Il videomessaggio del presidente della Repubblica all'inaugurazione del Salone del libro di Torino è un grido d'allarme rivolto certamente agli operatori del settore ma anche e soprattutto alla politica che ha nelle mani le scelte strategiche per il paese. Perché, aggiunge Napolitano, anche la creatività - tema centrale della 26esima edizione delle kermesse torinese - «se vuole generare qualcosa di valido deve poter contare su una base adeguata di conoscenza» e dunque su una popolazione che attraverso la lettura abbia acquisito le nozioni fondamentali del sapere. No dunque alla creatività fai da te, quella che vive di improvvisazione più che di innovazione.
Messaggio accolto con favore dal presidente dell'Aie, Marco Polillo.
Soprattutto nella parte in cui Napolitano attribuisce agli editori la professionalità di chi «opera attraverso strumenti e scientifici e culturali senza limitarsi alla semplice funzione di stampatore» potendo in questo modo competere «con la nuda e cruda immissione in rete di qualsiasi testo da parte di qualunque soggetto». È in questa differenza, dice il presidente, «la centralità del lavoro editoriale». Passaggio accolto con grande favore dagli organizzatori del Salone, a partire dal patron, Rolando Picchioni, che ha voluto aggiungere «la difesa della competenza dei librai, quelli che rischiano di scomparire per la concorrenza dei grandi distributori, dei grandi scaffali dove, come nella notte di Hegel, tutti i gatti sono grigi». Appelli contro l'omologazione che tradiscono un timore diffuso nel mondo dell'editoria di carta, quello della progressiva scomparsa del libro per effetto della concorrenza della Rete. Così il tema del ruolo di mediazione dell'editore, torna nelle parole appassionate del neoministro Massimo Bray, giunto a Torino direttamente dalla serata al Festival di Cannes. Bray ammette che «oggi nelle casse del ministero ci sono pochissimi soldi» ma si impegna «a tutelare l'editoria come un bene comune che va valorizzato al pari degli altri beni culturali, anche in chiave occupazionale. Questo è un compito al quale sento, come ministro, di impegnarmi personalmente». Più in generale Bray annuncia che il progetto del suo ministero «è quello di rilanciare la cultura come motore del cambiamento politico e volano per la ripresa economica». Una nota positiva da cui partire, dice il responsabile del ministero, è «il fatto che il presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbia detto che non ci saranno più tagli alla cultura».
Non un annuncio entusiasmante ma certamente un punto di partenza solido sul quale ricostruire.
Più difficile ottenere dal ministro dettagli su come riuscirà concretamente a realizzare quegli obiettivi che finora i suoi predecessori hanno sistematicamente mancato. Dove troverà i soldi, signor ministro? La risposta è un sorriso silente. Perché tace? «Perché non ho ancora il quadro completo della situazione. Fino a quando non sarò riuscito a comprendere qual è il vero stato delle cose, continueròa tacere». Una dichiarazione che ha certamente il pregio della sincerità." (da Paolo Griseri, Napolitano: ''Leggiamo poco'', "La Repubblica", 17/05/2013)

lunedì 29 aprile 2013

Noi scrittori e i nostri ''nativi''


"La carta batte - anzi straccia - il digitale, almeno per ora. I numeri parlano chiaro: #Natidigitali, una ricerca online (di Filastrocche.it, Mamamò, Happi e Nati per Leggere) che ha esplorato le abitudini di lettura delle famiglie italiane racconta che oltre il 60% dei genitori preferisce ancora leggere ai propri figli libri cartacei. Che solo il 30% ha usato libri digitali (app, pdf, ePub, eBook); che quasi il 18% è contrario e che il 14% non sa che esistono libri per pc o device mobili pensati ad hoc per bambini.

Entrando nelle case degli «scrittori con figli» la tendenza è confermata: lunga vita alla carta, ma con qualche sorpresa. Per Antonio Scurati, infanzia e libro vanno d'accordo solo se a unirli è la carta: «I bambini - dice pensando a sua figlia Lucia, 4 anni - vogliono reggere il libro tra le mani, mentre glielo leggi, scorrere il ditino sulla parola e strappare una pagina se li rende tristi». E aggiunge: «Il digitale arriva dopo. E in quel momento qualcosa va perduto». Luca Crovi, scrittore e conduttore radiofonico, si assume la «colpa» di aver cresciuto bambini (quattro, di età tra i 9 e i 5 anni) che cui piace, ancora, il libro da sfogliare.

«L'approccio è anzitutto tattile. Partono dal contatto fisico con l'oggetto-libro e poi passano alle immagini». Le storie digitali per ora sono off limits, anche perché, ammette, «in casa non abbiamo un ereader o un tablet; accadrà presto e allora vedremo». Dove, invece, i supporti digitali non mancano è in casa Zaccuri: «Stefano, l'ultimo dei miei tre figli, - spiega Alessandro, scrittore e giornalista - è un nativo digitale e si vede. Ama leggere e passa senza soluzione di continuità dai volumi della biblioteca al Kindle». Ultimo download? «L'ebook-app The Fantastic Flying Books of Mr. Morris che poi abbiamo letto insieme».

C'è, poi, chi come Francesco, 9 anni, ha iniziato la «guerra dell'ereader» contro papà e mamma, la scrittrice Elisabetta Bucciarelli. «Ne abbiamo due in casa - spiega -, ora lui ne vuole uno tutto per sé». L'importante è che «guardi al libro come a un gioco, tutto sommato sia o no di carta poco importa». Poi precisa: «Certo con il digitale la lettura è meno continuativa, ci sono più "distrazioni", ma è anche più stimolante e coinvolgente». E proprio queste, insieme all'aspetto educativo e alla possibilità di far pratica con le lingue straniere, sono le virtù che i genitori riconoscono e ricercano in un libro digitale. Il timore più grande (71,8%), invece, è che faccia perdere la magia del libro, soprattutto delle storie della buonanotte.

Infine, da chi al digitale deve il suo successo ci si potrebbe aspettare una difesa d'ufficio, invece Anna Premoli, mamma di Marco, 4 anni, e scrittrice del bestseller nato in ebook Ti prego lasciati odiare, è contraria ai libri per bambini su tablet e ereader. «Marco sa già navigare, si cerca i video dei cartoni, gioca con il tablet. Se avesse un libro digitale non leggerebbe, devierebbe per mettersi a fare altro. Io leggo solo su ereader ma per mio figlio preferisco libri di carta».

E gli esperti che ne pensano? Secondo uno studio del Joan Ganz Cooney Center, gli ebook - in particolare quelli «potenziati» con video, audio e contributi multimediali - distraggono i bambini dalla storia e impediscono loro di ricordare i dettagli narrativi. A essere penalizzati sono, secondo i ricercatori, «apprendimento e comprensione del testo».
Ma la lettura non è solo questo. I libri elettronici grazie all'aspetto ludico e di coinvolgimento riescono, infatti, «a catturare l'attenzione di bambini che non sono attirati dalla lettura tradizionale», osservano gli esperti.
Insomma la questione è calda e il dibattito aperto. Se ne parlerà anche alla prossima edizione di Kids - Generazione 0-10, il 10 e l'11 maggio al Palazzo delle Stelline, che ha per tema: «Crescere bambini digitali»." (da Severino Colombo, Noi scrittori e i nostri ''nativi'', "Corriere della sera", 27/04/2013)

martedì 23 aprile 2013

Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini

"Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini: al cospetto del lavoro svolto in questi ultimi trent’anni anni dalla libreria Giannino Stoppani di Bologna, intitolata a Gian Burrasca e pensata per il pubblico dei bambini e degli adolescenti, viene in mente il titolo della celebre raccolta di poesie di Elsa Morante. È dal 1983 infatti che a Bologna, dapprima a Palazzo Bentivoglio e poi nei centralissimi locali di Palazzo Re Enzo, la Giannino Stoppani contribuisce a formare nuovi lettori. E intende assolutamente continuare. «Eravamo in cinque», racconta Silvana Sola, «studiavamo pedagogia e seguivamo le lezioni di Antonio Faeti, che allora era il solo a tenere un corso specifico sulla letteratura per ragazzi. Nessuna di noi aveva mai lavorato in libreria e non sapevamo nulla né di mercato né di economia. Però avevamo questo sogno, che era anche una sfida: come avrebbe risposto Bologna? L’idea di dedicare la nostra libreria al monello del Vamba era il nostro manifesto».

All’epoca le librerie che trattavano la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza la relegavano in fondo a destra, non solo dopo i bestseller e la saggistica ma anche dopo il turismo. «Oggi non più, per fortuna. Ma noi avvertimmo subito il desiderio di offrire ai piccoli lettori uno spazio dove incontrare i libri pensati per loro. La nostra prima sede era molto piccola, appena sessanta metri quadri, e però cercammo di farla diventare uno spazio aperto, invitando le classi la mattina, organizzando visite guidate in cui gli scaffali erano come le sale di un museo o i sentieri di un parco. Già nell’85 ci adoperavamo per promuovere il libro e la lettura, chiedemmo a Lorenzo Mattotti di fare da noi una mostra a partire dai classici e lui disegnò il suo Pinocchio, destinato ad approdare al cinema. La mostra ebbe un tale riscontro che poi venne ospitata dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, per noi fu un segnale importante».

La Giannino Stoppani del resto ha sempre puntato molto non solo sulle storie ma anche sulle immagini che le illustrano. «Abbiamo organizzato tantissime mostre, anche con disegnatori americani, e le abbiamo portate nelle scuole e nelle biblioteche, cercando di aprirci, di portare la libreria fuori dai suoi spazi». Che nel 1991 si sono ampliati. «Col trasloco a Palazzo Re Enzo è iniziata un’avventura ancora diversa, perché nella nuova sede davvero potevamo accogliere con agio intere classi, dando vita a letture condivise, coinvolgendo i genitori, e ospitando autori e illustratori, cercando sempre di intessere nuove relazioni». E presto la Giannino Stoppani si è fatta conoscere oltre i confini felsinei, ha dando vita a una cooperativa culturale che promuove mostre e laboratori per ragazzi, incontri di formazione e programmi di promozione alla lettura. «Visti i risultati del lavoro sul territorio, con le scuole e le biblioteche, ci siamo dette che valeva la pena di allargare gli orizzonti, far girare le mostre e distribuire i cataloghi così da raggiungere realtà anche molto lontane, condividendo storie».

Il tutto facendo i conti con un mercato che intanto cambiava, perché nel frattempo i libri per ragazzi avevano iniziato a ritagliarsi spazi più importanti all’interno di librerie indipendenti e di catena.
«Certo anche la Giannino Stoppani ha attraversato fasi alterne, momenti più o meno felici. Noi abbiamo deciso che la nostra arma in più non poteva essere la politica degli sconti, ma la competenza: le nostre libraie e i nostri librai dovevano conoscere i libri, leggerli, e anche criticarli, ma in ogni caso mostrarsi capaci di rapportarsi con un pubblico di bambini, ragazzi e adulti facendo loro sentire che cosa c’era dentro i libri». E non a caso, dieci anni fa la Cooperativa Culturale Giannino Stoppani ha dato vita all’Accademia Drosselmeier. «Continuavamo a ricevere richieste da parte di persone che ci domandavano di aprire laboratori e corsi per ragazzi, e allora abbiamo pensato di fondare un’accademia per librai e giocattolai, rivolta ai giovani intenzionati a intraprendere un percorso formativo nell’ambito della cultura per l’infanzia. In tanti poi hanno aperto librerie: a Rimini, Vignola, Cagliari, Cremona. E la soddisfazione più grande per noi è l’aver creato questa rete di condivisione di contenuti». Quanto alla crisi del settore, che nel 2012 ha colpito duro tutti i soggetti operanti nel mondo del libro, dai librai agli editori, Silvana Sola ha un’unica ricetta: «In un contesto come quello attuale, in cui si sente la difficoltà di mantenersi indipendenti in città dove gli affitti sono altissimi e si fatica a far quadrare i conti, noi abbiamo sempre cercato di non abbassare la qualità delle nostre proposte, casomai di alzarla ancora. Quest’anno abbiamo messo in piedi tre mostre: una sui libri che in paesi diversi parlano di migranti, una sulla nuova famiglia nei libri per ragazzi, e una sul rapporto tra infanzia e natura».

E il luogo comune dei ragazzi che leggono meno rispetto ai loro coetanei di un tempo e agli adulti? «Vede, io credo che sia necessario ribaltare il tutto. Se a leggere è il 60% dei ragazzi, il problema è avvicinare alla lettura il 40% rimanente. Ma se uno non incontra i libri sulla sua strada come può esercitare il diritto alla lettura? Quel 40% è fatto di ragazzi potenzialmente pronti per leggere. Dobbiamo dare loro la possibilità di accedere ai libri. È una questione di consuetudine: ci vogliono più biblioteche, più librerie, e più libri nelle case degli italiani. La qualità della vita di ciascuno di noi passa anche per i libri che ha letto, non crede?». Altroché." (da Giuseppe Culicchia, Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini, "La Stampa", 23/04/2013)