lunedì 10 giugno 2013

Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur


"Se la storia del l'uomo è ormai diventata quella delle sue città, bisogna dire che mai come nel Novecento la filosofia ha trattato di simili temi. Dalle analogie avanzate da Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e metropoli, alle ben più vaste considerazioni di Heidegger sulla differenza fra abitare e costruire, la città ha occupato un posto rilevante nella riflessione contemporanea. Lo dimostra Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva (Castelvecchi). L'opera del grande studioso di ermeneutica, morto pochi anni fa, uscì nel 2008 da Città Aperta, ma ritorna ora con un ampio apparato tematico e una nuova introduzione di Riva, vero libro nel libro, che analizza la contrapposizione tra il decostruzionismo di Lyotard e Derrida da un lato, e la rilettura del costruire in senso narrativo di Ricoeur dall'altro. Ma veniamo ai quattro testi (escludendo l'ultimo, che l'autore stesso chiama una "semplice nota"), sulla base di un commento di Carmelo Schillagi e del gruppo di studio Petra Dura. Il primo capitolo suggerisce come l'architettura sia per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Nella stessa maniera in cui l'architettura agisce sullo spazio per modificarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo. In tal senso, concetti di durata e durezza si rivelano affini. «Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita». Tuttavia, benché definibile come "pietra che dura", l'architettura è solo una conquista provvisoria, sotto gli assalti della natura e dell'uomo. Ma ecco la grande mossa di Ricoeur: egli propone infatti di applicare all'arte del costruire gli stessi parametri cari all' arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione. L'esito di tale operazione si rivela tanto complesso quanto suggestivo. Assai più semplice appare invece il secondo testo, un'intervista del 1994. Qui l'autore sostiene che la sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l'intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all' avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti. Infatti, per Ricoeur, l'architettura non può né deve rientrare tra i saperi scientifici. In tale prospettiva, essa assomiglia alla politica, la cui gestione non è delegabile a tecnici. Vediamo perché: «Il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica. Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza» (quando si dice l'attualità del filosofo ...). Arriviamo così al terzo testo, dedicato ai quattro requisiti di ogni centro urbano da cui derivano altrettante patologie. La prima dipende dalla moltiplicazione delle relazioni e degli scambi. Dato che la città rappresenta un crocevia di persone, il rischio insito in tale struttura risiederà nell' anonimato delle relazioni, come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi. La seconda malattia deriva invece dalla mobilità accelerata, ed è legata al pericolo di un disorientamento e di una perdita del centro. Diversa l'aberrazione successiva, che consiste nel ben noto "fenomeno canceroso" della burocrazia. Quanto all'ultimo guasto urbano, esso discende dal predominio della tecnologia, davanti a cui l'abitante potrebbe finire per sentirsi un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune. Sono passati quasi vent'anni dalla stesura di queste pagine, eppure lo sguardo del pensatore protestante non ha perduto nulla del nitore con cui seppe guardare al nesso architettonico fra uomo, spazio e tempo." (da Valerio Magrelli, Perché i tecnici non sono utili alle nostre città, "La Repubblica", 09/06/'13)

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