lunedì 30 gennaio 2012

Il circolo delle ingrate


"Elizabeth von Arnim scrisse ventun romanzi, ebbe due mariti, un conte tedesco oppressivo e un conte inglese vendicativo, cinque figli che non le diedero grandi soddisfazioni, un certo numero di amanti e di amatissimi cani; cugina e amica della più giovane Katherine Mansfield, visse in Germania, Inghilterra, Francia, Italia, Svizzera. Era nata a Kirribilli Point in Australia nel 1866, morì a Charleston negli Stati Uniti nel febbraio del 1941. Era piccola, carina, elegante, spiritosa, colta, piaceva molto agli uomini: a loro piaceva anche il denaro che lei cominciò a guadagnare con il suo primo libro, Elizabeth and her German garden, assoluto bestseller del 1898, che superò gli autori allora alla moda, come Maria Corelli e H. G. Wells. Continuò a vendere per anni, e quindi ad assicurare alla sua autrice un mucchio di sterline, di cui però, in tempi di assoluta irrilevanza sociale e giuridica delle donne, lei non poteva disporre. Essendo sposata, tutto quel denaro guadagnato da lei apparteneva per legge al marito, il primo: un marito particolarmente severo e litigioso, il conte prussiano Henning August von Arnim-Shlagenthin, che oltretutto di quei soldi aveva bisogno, perché il conte padre, che si era messo in testa di prendere il posto del cancelliere Bismarck, era stato spogliato dei possedimenti di famiglia.

Fu sempre il suo denaro a rendere difficili i suoi rapporti con gli uomini: sposando in seconde nozze il conte Francis Russell, fratello maggiore del filosofo pacifista Bertrand (Perché non sono cristiano), ottenne la separazione dei beni, su cui forse lui aveva contato per sistemare le sue proprietà, e non la perdonò mai. Scrivere allora era l'unica forma di creatività femminile appena tollerata, e le scrittrici venivano spesso considerate creature sospette, poco raccomandabili, anche ridicole, almeno secondo la stampa satirica. Molte autrici sceglievano di tutelarsi, nascondendosi dietro un nome maschile, ma per Mary Annette Beauchamp, chiamata in famiglia May, sposata von Arnim, anche questo sotterfugio non bastava. Dopo furibondi litigi domestici, quella che poi avrebbe scelto di firmare i suoi ventun libri come Elizabeth von Arnim, ottenne dal marito il permesso di pubblicare la sua prima opera, a patto che risultasse di anonimo autore, in modo da rendere impossibile identificarla per non macchiare il glorioso stemma di famiglia.

Con il titolo Il giardino di Elizabeth, il libro è stato pubblicato in Italia per la prima volta nel 1989, da Bollati Boringhieri, mandando in estasi una folla di raffinati lettori, che hanno poi scoperto a poco a poco gli altri romanzi di questa scrittrice ironica, spregiudicata, fuori da ogni corrente letteraria, spesso crudelissima nel descrivere una società boriosa, superficiale, vecchia, ingiusta, soprattutto verso le donne. Esce in questi giorni sempre da Bollati Boringhieri, Il circolo delle ingrate (The benefactress), suo quarto libro (il diciannovesimo per l'editore italiano) uno dei più autobiografici. Quando nel 1901 fu pubblicato in Inghilterra e Stati Uniti, la signora aveva trentacinque anni, quattro figlie tutte femmine, educate in casa da insegnanti come E. M. Forster e Hugh Walpole, e il suo più arduo impegno era riuscire a tenere lontano dal suo letto il non più sopportabile consorte, che pretendeva a tutti i costi quell'erede maschio che, May-Elizabeth era certa, non sarebbe mai arrivato. Detestando Berlino, era riuscita a stabilirsi con la famiglia in Pomerania, nel castello finalmente restituito agli Arnim, e che con i soldi da lei guadagnati e confiscati dal conte, era stato restaurato e circondato dal bel giardino tanto curato e amato dalla contessa, che poi ne aveva fatto il protagonista del suo primo libro.

Anna, la benefattrice, è una bella e intelligente ragazza inglese senza soldi e, a venticinque anni, è ormai destinata allo zitellaggio per la sua smania di rifiutare i pretendenti: da uno zio eredita una proprietà in Pomerania, dove va a vivere per realizzare un sogno: ospitare dodici signore maltrattate dalla vita e regalare loro, a sue spese, la felicità. Impresa ovviamente impossibile, perché le signore raccolte con un inserzione, si rivelano ingrate, invidiose, classiste, avide, bugiarde e persino con parentele disdicevoli (una sorella ballerina!, un figlio a caccia di moglie ricca! una nobiltà inventata!). Gli abitanti del villaggio sono ignoranti e diffidenti, ed è interessante come in un romanzo di inizio Novecento, quindi vecchio di centodieci anni, scritto da una donna e perciò giudicato allora superficiale, si accenni a quell'antisemitismo già diffuso nella Germania imperiale anni prima dell'avvento del nazismo. È il buon pastore luterano a mettere in guardia la stupefatta e indignata Anna: «Qui in mezzo a noi, dappertutto, a prendere i soldi dalle nostre tasche, anzi il pane dalle nostre bocche, ci sono gli ebrei». E il sangue dalle vene cristiane, e gli omicidi rituali, sibila quello che sarebbe «il più mite degli uomini» e che, «anche solo a nominare la parola ebreo, veniva colto da una furia cieca». E gli altri maschi del paese, contadini, servitori? Sprezzanti delle donne, certi, in quanto uomini, di essere superiori anche alla bella signora ricca e colta, generosa e appassionata, ma svalutata in quanto donna. Esperienza autobiografica, come l'arresto del nobile vicino innamorato di lei e da lei fino ad allora respinto. Visitandolo in prigione, «Anna, quasi accecata dalla lacrime, gli cinse il collo con le braccia; con quell'unico gesto gli consegnò se stessa e il suo futuro completamente, ammainò per sempre la bandiera dell'indipendenza». Nella realtà, Henning era finito in prigione accusato di appropriazione indebita, e quella tragedia fece scoprire a Elizabeth come a quell'uomo più vecchio di lei, possessivo, gelido, litigioso, sempre sull'orlo della rovina finanziaria, impegnato ad allevare maiali e a coltivare patate con scarso successo, anche adultero, fosse profondamente legata.

Il 27 ottobre 1902 nasceva finalmente l'erede maschio, Henning Bernd von Arnim, e come esentata da una colpa, la bella contessa, pacificata con il marito, con se stessa, con la vita, liberata dagli obblighi del suo rango e del suo genere, da quel momento può dedicarsi alla scrittura, ai giardini e ai cani, ai figli che l'adorano, ai viaggi e alla season di Londra, dove frequenta femministe e intellettuali che spesso sono più che semplici amici. Infatti, può essere che il piccolo Henning non sia un von Arnim ma un Russell, figlio del conte Francis, che, diventata vedova, anni dopo, innamoratissima, sposerà, rovinandosi gli anni della maturità. Nel periodo che precede la prima guerra mondiale, il bel mondo londinese pare travolto dagli scandali amorosi, da adulteri multipli, da drammatici divorzi, che coinvolgono anche la contessa-scrittrice. E per esempio la bella e libera signora diventa l'amante dello scrittore di fantascienza H. G. Wells (La guerra dei mondi), che già tradisce la moglie con un'amante ufficiale, per essere poi tradita con la tanto più giovane e appassionata saggista politica e femminista Rebecca West (Il significato del tradimento). Separata dal terribile conte Russell, Elizabeth, amica inseparabile del di lui fratello Bertrand, ogni tanto finisce nel suo letto malgrado l'alternarsi di quattro mogli, fino a quando, cinquantenne, di lei si innamora Alexander Stuart Frere Reeves, editore della rivista Granta, che ha ventisei anni di meno, e le resterà legato per anni, sposando poi la giovane figlia del giallista Edgar Wallace. Quando compie settant'anni, Elizabeth scrive nel suo diario: «Adesso sono davvero una donna anziana, e non devo dimenticarlo. Ci si abitua talmente ad essere giovani che si finisce per credere che sarà per sempre. Mi devo ricordare che non è così e mi aiuteranno gli specchi»." (da Natalia Aspesi, Elizabeth, la prima donna, 30/01/'12)

mercoledì 18 gennaio 2012

I mille volti di Pessoa per cogliere la realta'


"Un uomo sale su un tram e osserva i viaggiatori che gli siedono di fronte. In realtà li guarda senza distinguerli, perché gli interessano soltanto i «dettagli». Dunque si concentra in particolare su una ragazza, separando mentalmente il vestito che indossa «dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo». Lo colpisce «il ricamo leggero che orla il colletto», una linea verde scuro sul verde chiaro dell'abito, e subito «vede» la filanda dove la fibra di seta è stata ottenuta, le sezioni della fabbrica, le macchine, gli operai, le sarte, gli uffici, i contabili, i dirigenti. In un velocissimo flusso di percezioni, entra nelle case di quelle persone, in regioni lontane, e intuisce il significato delle esistenze di ognuno, gli amori, i segreti, il loro spirito. È un attimo. La testa gli gira. Scende dal tram esausto e sonnambulo. Ha «vissuto tutta la vita».

Questo squarcio rivelatore del Libro dell'inquietudine lascia capire i meccanismi con cui si accendeva e prendeva energia la sensibilità quasi sciamanica di Fernando Pessoa (Lisbona, 1888-1935) e ci permette di intuire come funzionava l'inafferrabile enigma della spersonalizzazione e della compresenza. «Sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutti i lati, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo / realizzare in sé tutta l'umanità di tutti i momenti / in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante». Ecco: è con tale processo di lampeggiamenti simultanei che certi «inquilini sconosciuti» rischiaravano le ombre della sua mente in un continuo dialogo con lui, che come un medium li aveva chiamati - in modo di essere «non tanto uno scrittore quanto un'intera letteratura» - da un altrove che stava già dentro di sé. Erano gli eteronimi. Cioè, letteralmente, «altri nomi», nuclei vitali di individui autonomi e diversi da lui, pur essendo proiezioni del suo pensiero. Dei figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, cioè il Pessoa lui-stesso, a sua volta allievo di un eteronimo. Una folla di alter ego del poeta (tra eteronimi e semieteronimi ne sono stati censiti una cinquantina, ma per alcuni sarebbero addirittura più di settanta), affiorati da un continuo gioco di autofecondazioni, reincarnazioni, dissociazioni. Ciascuno con propria dimensione, pronta a interferire con quella degli altri. Concepiti con fisionomie fisiche, schede anagrafiche, professioni, biglietti da visita, stili, idee politiche e morali, manie e persino segni zodiacali differenti.

C'è un giorno preciso in cui questa identità vertiginosa comincia a manifestarsi, l'8 marzo 1914, quando Pessoa colto da una specie di «estasi» compone di getto trenta poesie, firmandole come Alberto Caeiro. E immediatamente dopo gliene escono altre sei, di altra musicalità e ritmo, a sua firma. È l'inizio di un vortice di continui sdoppiamenti, scissioni, sottrazioni, amputazioni che trova più di una analogia nella storia della letteratura. Infatti, se il portoghese definiva la propria ansia di totalità e la propria anima multilaterale spiegando di sentirsi «multiplo» come «una misteriosa orchestra», l'americano Walt Whitman delle Foglie d'erba non molti anni prima aveva scritto di sé: «I am large, I contain multitudes».

Ma quelli di Whitman (di cui non a caso è discepolo l'eteronimo Álvaro de Campos) come di Hölderlin e di qualche altro sono solo pallidi precedenti, rispetto alla potenza del «drama em gente», dramma fatto persona, che è la cifra dell'opera plurale e con un quid anche esoterico di Pessoa. «Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Cos'è questo intervallo che c'è fra me e me?» E confessa ancora: «Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi».

Insomma: il conflitto tra sincerità e simulazione, con una progressiva disgregazione dell'io, in lui si risolve con un visionario scavo nella sfera tra coscienza e incoscienza e nell'idea - modernissima - di «letteratura come menzogna». E qui scatta l'amletismo geniale di chi non si basta, ma vissuto in una maniera così mostruosamente tormentata che qualcuno ha preteso di derubricarla al rango di sconfinamenti patologici, esiti da isteria cronica. «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente».

Un percorso al termine del quale, comunque la si pensi sull'origine della sua poetica, restano esiti lirici commoventi. Come scoprì chi per primo affondò le mani dentro il baule da biancheria nel quale, otto anni dopo la sua morte, furono pescati più di 27 mila testi sconosciuti: poesie, frammenti di diario, sequenze di racconti, progetti di libri appuntati dalle sue tante repliche, eteronimi maggiori o minori, o che aveva attribuito direttamente a se stesso. Una miniera di pagine dalle suggestioni inaspettate, dato che in vita Pessoa si era protetto con una monotona e scialba routine da impiegato. Scrivendo però molto, quando la sera si chiudeva nella sua camera ammobiliata o nelle taverne in cui si stordiva di alcol e fumo, e sempre fuori da ogni disciplina accademica: «Ubbidisca alla grammatica chi non sa pensare ciò che sente». E, pur frequentando la società letteraria portoghese, pubblicando poco (ma non così poco come si è spesso detto) su effimere riviste a bassissima tiratura di quella Lisbona allora assai marginale rispetto a Parigi o Londra, dove fermentavano le grandi avanguardie artistiche.

Dal giorno di quel ritrovamento Pessoa continua a parlarci, «con la civetteria di uno che si è voluto quasi tutto postumo», come ha detto Andrea Zanzotto. La sua voce resta tra le più acute e profetiche nella percezione del dolore, dell'assurdo, della solitudine, pur in un'apparente indifferenza. Come gli succede in certi «giorni di luce perfetta ed esatta, / nei quali le cose hanno tutta la realtà che possono avere» e nei quali però la stessa bellezza «non significa nulla». Come nei versi della «Tabaccheria», quando dalla finestra di casa scruta il padrone del negozio di fronte, che va e viene sulla porta, e riflette: «Lui morirà ed io morirò. / Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi. / A un certo momento morirà anche l'insegna, e anche i versi. / Dopo un po' morirà la strada dov'era stata l'insegna, / e la lingua in cui erano stati scritti i versi. / Morirà poi il pianeta ruotante in cui è avvenuto tutto questo»." (da Marzio Breda, I mille volti di Pessoa per cogliere la realta', "Corriere della Sera", 17/01/'12)

lunedì 16 gennaio 2012

Borges, libros y lecturas


"La Biblioteca Nazionale di Buenos Aires non è più quella che aveva conosciuto Jorge-Luis Borges (1899-1986) a Calle México, nel quartiere di San Telmo. È un edificio moderno nel quartiere della Recoleta che ricorda vagamente il bunker antiaereo dello zoo di Berlino, e ha vicende poco meno militari, giacché il terreno su cui sorge era quello della residenza di Perón, distrutta insieme ad altre vestigia del regime dopo il 1955. Dopo varie vicissitudini, fu alla fine inaugurata nel 1992 da Carlos Menem, quello che gli argentini chiamavano El Turco, trasformandolo a tutti gli effetti nel personaggio di una novella di Borges. Così come borgesiana è non solo la grande biblioteca, prefigurazione della Biblioteca di Babele, ma anche la storia che ho appreso girando per la biblioteca.

Borges ha diretto la Biblioteca dal 1955 al 1973, nominato alla caduta di Perón, di cui era un fermo antipatizzante, e dimissionato subito dopo il ritorno del generalissimo. Aveva scritto una poesia quando ricevette la nomina, in cui ironizzava sull´ironia di Dio che aveva pensato di dargli, insieme, una miriade di libri e la cecità. Non è la sola ironia, perché per cacciarlo si sostenne che ne aveva rubati. Perciò, prima di andarsene, convocò uno scrivano che constatò la proprietà e fece la lista delle opere che dovevano essere ritirate dall´ufficio, perché appartenevano a Borges che le aveva portate lì per controllare i riferimenti delle sue Opere complete, pubblicate durante la sua direzione, e per altri lavori del periodo (ad esempio il Manuale di zoologia fantastica, del 1957). Dei libri di sua proprietà ne lasciò un migliaio alla Biblioteca, perché Borges non rubava libri, ma compiva l´azione simmetrica, regalandoli. A casa non ne teneva più di millecinquecento, molti li dava ad amici per far spazio a nuove letture, e giunse sino ad abbandonare pacchi di libri nei caffè. Gli impiegati, peronisti, non si diedero molto da fare per timbrare come «fondo Borges» e classificare questi libri (che si riconoscono perché sul frontespizio c´è la firma di Borges e la data in cui li aveva comprati), che si dispersero come aghi in un pagliaio di novecentomila volumi.
Due giovani ricercatori, Laura Rosato e Germán Álvarez, impiegati nella Biblioteca, con un lavoro di dieci anni li hanno recuperati. Il risultato è un grande catalogo: Borges, libros y lecturas raccoglie cinquecento titoli, gli altri, per il momento non pubblicati, sono o doni di scrittori amici o libri che richiedevano lavori di restauro. Per ritrovarli nel pagliaio il trucco è stato, in un autore così iper-letterato come Borges, partire dalle sue opere, guardare le fonti che citava, e di lì appunto andare a frugare. Poi, da un libro si trovavano gli altri, visto che ogni libro rinviava ad altri libri, come Pollicino. Abbiamo così le letture (e soprattutto le riletture) di Borges come ce le darebbe la cronologia dei siti consultati dal nostro computer ma in modo molto più selettivo e sulla distanza cronologica di trent´anni e più. Come in un Web cartaceo Borges mette in dialogo autori disparati, con un sistema di rimandi: "Cf.", "vide" (dove si amplia il concetto segnato), ma anche il "sed contra", dove si crea l´opposizione. Questo leggere scrivendo, e scrivere leggendo, non ha niente di sistematico. Borges è per sua ammissione un lettore edonista. Si fa guidare dal principio di piacere, che però molto spesso lo porta più ai saggi che non alla letteratura.
Ci sono letture filosofiche: da Anselmo d´Aosta che lo attrae per la prova ontologica, al libro della Anscombe su Wittgenstein a quello di Augusto Guzzo su Giordano Bruno; Gentile sul pensiero del Rinascimento italiano, Nietzsche (le Considerazioni inattuali) e soprattutto l´amatissimo Schopenhauer. Il che non sorprende per un autore che considerava la filosofia un ramo della letteratura fantastica. Ma c´è anche il libro di Samuel Butler sui santuari del Piemonte e del Canton Ticino, quello di Houston Stewart Chamberlain (l´autore amatissimo da Wagner e da Hitler) su Goethe, quello di Max Brod su Kafka, e Jung e Hume, Plutarco e Poe, Strindberg e Tasso. Più una molteplicità di anonimi, di compilazioni, di minori. Molto Croce, ma soprattutto sulla letteratura (Ariosto, Carducci ...), le saghe nordiche e quelle orientali e la letteratura secondaria sull´argomento, e, sopra tutti, l´amatissimo Dante, in molte edizioni e commenti.
Generalmente nella lingua originale dei libri (Borges leggeva oltre che in spagnolo in italiano, francese, tedesco, inglese e latino), le annotazioni non invadono mai il testo e consistono in un riuso giudizioso di quello che Gérard Genette ha chiamato «paratesto», giacché si trovano sul frontespizio o alla fine del libro, e raramente sulla copertina, come in una edizione tascabile dell´Amleto. Sono in gran parte nello stampatello minuscolo, le lettere "come formiche" che Borges elesse come la propria grafìa. E dopo il 1954 e la cecità la scrittura è quella della madre Leonor Acevedo de Borges, che vediamo fotografata sulla copertina del catalogo mentre scrive e postilla per il figlio nell´appartamento di calle Maipú 994. Le annotazioni sono in apparenza impersonali, e consistono molto spesso nella scelta di espressioni, proprio come nei taccuini che Erasmo raccomandava di tenere ai suoi discepoli. Ma proprio nella loro impersonalità catturano l´identità di Borges. Lui è quei libri e quelle citazioni ne definiscono l´originalità. Lui è quel compendio incarnato.
In qualche caso, però, la pagina diventa lo spazio su cui elaborare progetti di libri a venire. Come per esempio quando nel frontespizio di un libro tedesco di occultismo troviamo il progetto di un saggio che avrebbe dovuto uscire dopo la Storia dell´eternità (1936), e che si troverà in parte in altre raccolte, soprattutto in Altre inquisizioni (1952). A volte invece nei frontespizi o in fondo ai libri Borges lascia tracce delle sue amicizie, per esempio The Principles of Mathematics di Russell, in cui scrive che è «regalo di Bioy Casares» (che sempre Borges considerò come il suo tutore logico), o degli amori, come quando annota la data di un appuntamento con Estela Canto al fondo di un´edizione dell´Inferno di Dante, oppure ancora della vita pubblica, quando nel frontespizio della Vita di Schopenhauer di Wilhelm Gwinner troviamo la lista delle sue conferenze tra il 1949 e il 1952.
In un caso, poi, il libro diviene il supporto per una poesia rimasta inedita sino a oggi. Si tratta dell´ultima pagina del quarto volume del libro del teologo Christian Walch sulle eresie e le lotte religiose dopo la Riforma (1773, undici volumi) comprata durante il soggiorno europeo. La poesia data 11 dicembre 1923, poco prima della partenza dall´Europa, e sembra contenere ironicamente il giovane Borges, che si lascia andare ai sentimenti, il Borges maturo, poco incline a esprimerli, ma appassionato di eretici, catari e guerre di religione, e soprattutto il Borges che ci ha raccontato come i libri nascano da altri libri, e l´immediatezza sia il frutto della mediazione: La speranza/ come un corpo di ragazza/ ancora misterioso e tacito./ Ancora non amato di amore/ e una chitarra che appassionatamente muore e con sollievo/ dolorosa risorge/ e il cielo sta vivendo un plenilunio/ con il rimorso e la vergogna della/ insoddisfatta speranza e di non essere felici." (da Maurizio Ferraris, La biblioteca di Borges, "La Repubblica", 15/01/'12)

sabato 14 gennaio 2012

Antonio Scurati: “Ogni giorno m’inchino a Faulkner"


Antonio Scurati mi accoglie all'ora della prima colazione in una stanza piena di sole e tappezzata di libri del suo appartamento milanese a Città Studi. È una luminosa mattina d'inverno, eccezionale in questa stagione a Milano. Lo scrittore, convalescente da un'influenza, mi fa accomodare a un grande tavolo di legno chiaro apparecchiato per caffè e biscotti e siede di fronte a me abbracciato dalle due ali variopinte della sua biblioteca che si distendono alle sue spalle irradiando
un’atmosfera di confortevolezza e calore. L’enfant prodige dalla prosa brillante e dall’argomentazione tagliente che esordì un decennio fa trentaduenne con un saggio (Guerra) e un romanzo (Il rumore sordo della battaglia) e che da allora ha pubblicato dieci libri in dieci anni ha un curriculum da paura.
Romanziere, saggista, commentatore giornalistico, lucido polemista, professore di sociologia della comunicazione e di scrittura creativa, a soli 42 anni è un intellettuale straordinariamente versatile e impegnato ...
Incontrato nel suo elemento però ha ancora l'aria del giovane di belle promesse, dello studente di talento. Sarà perché, illanguidito dalla febbre dei giorni scorsi, si abbandona alle ammissioni e alle confidenze: la discendenza da famiglia non intellettuale, il nonno operaio specializzato dell’Alfa Romeo al Portello, il primo impiego giovanile del papà che lavorò alla Hoepli come libraio «poi fu assunto per concorso come quadro alla Rinascente, ma nutrì per una vita, e mi trasmise, un estremo rispetto per i libri».
E gli anni della scuola: «Al liceo, pur avendo frequentato un istituto prestigioso, il Foscarini di Venezia, convitto napoleonico di antica e nobile tradizione, non studiavo. E libri non ne leggevo per niente».
Ora invece ha tutta l'aria del ragazzo serio, studioso, preparato, diligente. Sarà perché a fare da cornice al suo racconto sono proprio le opere e gli autori che all'universo dei libri lo hanno poi conquistato e ancora lo trattengono nella loro malia. «I pilastri della mia formazione », si gira indicando gli scaffali, descrivendo la svolta decisiva che ha tutto il sapore di una conversione, «sono questi. Ti spiego come funziona ...».
La parete alla tua sinistra, la più vicina alla finestra, è coloratissima ...
«Sono quasi tutti remainders, edizioni economiche, tascabili dalle copertine colorate: i libri che arrivarono sui miei scaffali negli anni dell’università. Tutti
“vissuti”, davvero voluti, acquistati con i pochi soldi a disposizione
o presi a prestito e mai restituiti. Lì c'è tutta la narrativa anglo americana, alla fine degli Anni Ottanta in cui cominciai a leggere davvero, un orizzonte imprescindibile».
Da dove ha iniziato? «Potrei dire da Thomas Pynchon. Ma mentirei. Poi l’ho letto e ammirato a posteriori, come un fenomeno che dovevo attraversare da intellettuale. Piuttosto Bret Easton Ellis, anche se ho avuto la ventura di incontrarlo un anno fa per presentare la traduzione italiana del suo Imperial Bedrooms, e ho conosciuto un uomo finito, annoiato, sfatto. Ai tempi di American Psycho era quasi un dio. Ha incarnato l’idea dello scrittore star. Giovane, bello, era venerato dal pubblico perché scriveva libri capaci di andare a letto con lo spirito del tempo».
Lo spirito del nostro tempo? «Sì, lo spirito che ha colto è ancora quello di oggi. Uno spirito di morte in cui siamo stati immersi per trent’anni. Il disastro culturale, oltre che economico, che stiamo vivendo è un portato dell’interminabile coda di cometa degli Anni Ottanta. Risalendo a ritroso nel passato ho poi ripercorso
la letteratura americana del XX secolo. Ho letto gli autori della generazione perduta tra le due guerre. Hemingway, Fitzgerald: più il secondo del primo. Il suo L’incrinatura (The crack-up) è un capolavoro esistenziale, pervaso di una malinconia terminale: il breve racconto retrospettivo di un uomo finito. Poi venendo agli Anni Cinquanta e Sessanta, Norman Mailer, Truman Capote: più il primo che il secondo. Di lui ho amato anche i titoli che si leggono meno: Il nudo e il morto, Un sogno americano, Le armate della notte, Pubblicità per me stesso. Ma esercizio di ammirazione quotidiana è per me William Faulkner, il più grande scrittore del XX secolo credo».
Da liceale negligente a lettore fortissimo, e sistematico si direbbe. «Per la verità sono un lettore compulsivo, bulimico. Invece ho un tasso di assorbimento molto alto del libro».
Che significa? Rivolge un'attenzione particolare alla prosa, alla forma? «Per carità. Mi indispettisce anzi, in tante dichiarazioni da salotti buoni, la professione di formalismo. Vorrei citare il conte Tolstoj che, intervistato da un
giornalista che si divertiva a stuzzicare la sua misoginia rispose: “Mi dicono che ci siano autrici capaci di comporre romanzi congegnandoli come orologi svizzeri. Avessero anche qualcosa da dire ...”. Aveva ragione: tanti romanzi perfettamente costruiti non hanno niente da dire. Ciò che in un romanzo mi conquista, è sì lo stile, ma inteso come la cifra insuperabile di un'intimità intellettuale. Lo stile è un'idea di mondo. È la verità confessata da un individuo che ti interessa sentir parlare».
E la verità di Faulkner, incapsulata nei suoi periodi lunghi, densi, involuti, sinuosi? «Leggo Faulkner perché trovo rapinosa la sua idea di mondo. A tratti la sua prosa è complessa, oscura, spesso perché era troppo ubriaco mentre scriveva. Assalonne, Assalonne! (Adelphi) è la stella polare. In questo libro gli riesce il più alto conseguimento letterario della nostra epoca: scrivere un'epopea della fine. Io sono costantemente alla ricerca di un'epica, pur nella consapevolezza della sua impraticabilità nel nostro tempo. L’epica è un racconto delle origini. A Faulkner invece riesce un'epica della fine. Nel suo ciclo dedicato alla contea di Yoknapatawpha è il mondo del Sud degli Stati Uniti a finire. Poi il Novecento non cesserà di scrivere epopee della fine dei tempi. Cormac McCarthy, per citare il più grande tra gli odierni, riprende la testimonianza faulkneriana. Il suo Meridiano di sangue è un libro fondamentale».
L'altra ala della biblioteca invece è tutta in bianco e nero, grondante di tomi ponderosi. «È il pilastro filosofico. Mi sono iscritto a Filosofia alla Statale
di Milano, poi ho fatto il dottorato a Parigi. Ho sempre avuto un interesse fortissimo per la teoria, coltivato frequentando gli autori dello
strutturalismo e post strutturalismo francese. Foucault, Derrida, Barthes, Deleuze, che si gettò da una finestra nel '95 proprio quando io ero a Parigi. La sua Logica del senso, le sue Conversazioni con l'allieva Claire Carnet, la sua lettura di Sotto il vulcano di Lowry sono un esempio supremo di sapienza filosofica applicata alla letteratura. Oggi non ne resta più niente. Sul fronte teorico la letteratura tace. La filosofia non ha più nulla da dire. Leggo Blumenberg, Sloterdijk. Poco altro».
Più convincenti i narratori contemporanei? Americani? Italiani? Che altro? «Riguardo agli italiani devo astenermi. Se non risali indietro di una, due generazioni il giudizio è viziato da dinamiche competitive. In generale direi che la narrativa letteraria italiana è al livello di quella europea, viziata da logiche commerciali. Negli anni passati abbiamo nutrito l'illusione che l'arte e la letteratura potessero sposarsi felicemente con il mercato. Falso, basta guardare le classifiche».
Vedo però sul tavolo l’ultimo Murakami, 1Q84, che appena tradotto ha scalato le classifiche. «Ci sono le eccezioni. Per esempio non avevo mai letto Stephen King, poi L’ombra dello scorpione, un testo di straordinaria forza narrativa mi ha confortato. E questo Murakami. Una scrittura ipnotica, che testimonia una fede ben riposta nelle potenzialità di una finzione assoluta. Questi e altri casi, per esempio gli autori della rentreé letteraria francese Jonathan Littel con Le benevole, Laurent Binet con HHhH o la Zona di Matthias Enard mi fanno dire: sì, forse l’umanità ce la può fare»." (da Alessandra Iadicicco, “Ogni giorno m’inchino a Faulkner”, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/01/'12)

martedì 3 gennaio 2012

Freud, Racconti analitici


"Nel 1936 uno dei candidati al premio Nobel per la Letteratura, proposto da Romain Rolland, era un anziano psicoanalista viennese: Sigmund Freud. Era stato candidato dozzine di volte al Nobel per la Medicina, che con suo grande dispiacere gli fu sempre negato, perché il suo lavoro "non era basato su prove scientifiche". In suo sostegno erano stati sottoscritti pubblici appelli: tra i firmatari figurano i principali scrittori dell¿epoca, da Alfred Döblin a Jakob Wassermann, da Knut Hamsun e Lytton Strachey fino a Thomas Mann. Questi, maliziosamente, firmò purché la candidatura di Freud fosse al Nobel per la Medicina. Con ciò, riconosceva che lo psicoanalista poteva rappresentare un rivale temibile. Il premio per la Letteratura del 1936 fu assegnato a Eugene O'Neill. E Freud rimase senza Nobel: la sua opera era considerata troppo romanzesca per essere scientifica, e troppo scientifica per essere letteraria.

Ripensavo a questa vicenda leggendo la dotta introduzione di Mario Lavagetto ai Racconti analitici di Freud, appena pubblicati da Einaudi nella collezione dei Millenni. Con la consueta acutezza Lavagetto - anch'egli, come Freud, uno scrittore anomalo, che ha regalato alla letteratura italiana, e non solo alla storia della critica, dei gioielli fin dai tempi della Gallina di Saba - affronta la questione centrale dell'opera del fondatore della psicanalisi. Che cosa sono davvero le Krankengeschichten di Freud? Qual è la loro natura? E come dobbiamo chiamarle? Storie cliniche? Casi clinici? Studi? Lavagetto le intitola racconti.

I primi - i quattro casi femminili di isteria - apparvero nel 1895. Erano il frutto eretico di un genere codificato che aveva già prodotto i suoi classici. Fra questi, la Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing (1886), la più straordinaria enciclopedia della devianza mai scritta, nella quale l'autore descriveva, col distacco di un entomologo, innumerevoli casi di zoofilia, coprofagia e via dicendo. Qualcosa di simile aveva fatto in Italia anche Cesare Lombroso, che aveva raccolto storie di perversione e follia tra i bassifondi della società: ma la formazione positivistica e deterministica gli impediva di riconoscere nei suoi casi comportamenti universali e perfino la comune umanità.

Freud scriveva per illustrare le sue nuove teorie. I suoi casi avevano uno scopo "dimostrativo". Divennero subito tutt'altro. Krafft-Ebing li stigmatizzò come "favole scientifiche". I lettori, in un certo senso, fecero lo stesso. Le "favole" - inizialmente rivolte al pubblico dei medici della psiche - attirarono l¿attenzione dei profani. Erano scritte con stile elegante, chiaro. Parlavano non di mostri - come quelli di Krafft-Ebing e Lombroso - ma di gente perbene che tutti avrebbero potuto incontrare nei salotti. Le leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere. Le reazioni degli uni e degli altri costrinsero Freud a interrogarsi di continuo sui suoi metodi e a difendere e motivare le sue scelte, tanto che nei testi inserì una quantità di riflessioni "metaletterarie". Benché insistesse a sminuire le sue capacità artistiche e a prendere le distanze dalla letteratura, questa si affaccia spesso nella teoria psicanalitica - offrendole chiavi interpretative, archetipi, immagini, personaggi - e Freud non era ignaro delle sue doti.

Lui stesso si assimilava al romanziere: nell'Introduzione alla storia di Dora del 1905, esprimeva il timore che sarebbe stata vista dai lettori "non come un contributo alla psicopatologia della nevrosi ma come un roman à clef destinato al loro divertimento". Proprio come un romanziere riassumeva, censurava, montava e manipolava la sua materia. Era consapevole che - non potendo riferire il contenuto delle sedute così come si erano effettivamente svolte nel suo studio nel corso di settimane, mesi, a volte anni - la narrazione del caso diventava un'interpretazione e una costruzione: un'opera.

Ciò che costituiva una debolezza scientifica è anche la ragione del suo fascino. La lettura della storia dell'Uomo dei Lupi, il giovane russo che a quattro anni sognò sette lupi bianchi che lo fissavano accoccolati su un albero, restituisce ancora il piacere di quella che fu una delle più avvincenti avventure intellettuali del Novecento. I pazienti fobici, ossessivi, nevrotici di Freud, e il medico che ne raccoglie le angosce, le narra, le spiega e narrandole le guarisce, diventano i protagonisti di un'indagine sull'anima, l'infanzia, la sessualità, la vita - ciò che costituisce anche la materia della letteratura. Freud si paragonava a chi tenta di risolvere un puzzle, a un archeologo che riporta alla luce la città di Pompei, disseppellendo quanto la lava ha nascosto. In realtà usa una strategia narrativa simile a quella del coetaneo Conan Doyle: si tratta di trovare un colpevole che ha agito nell'ombra.

Lo psicoanalista svolge la funzione dell'investigatore. Il lettore viene preso nel meccanismo. Vuole sapere cosa è successo e perché. E Freud interroga, accumula indizi, esplora mondi sotterranei e inaccessibili (l'inconscio, il sogno), guida se stesso, il paziente e il lettore attraverso un labirinto di segni e alfabeti di lingue ignote (le strutture della psiche e il suo funzionamento) e infine consegna a sé e a noi la sua spiegazione. La forza catartica di queste storie resta immutata anche dopo che la teoria di Freud è diventata nozione comune, dopo cent'anni di discussioni e aggiustamenti, dopo che i costumi sessuali e la società sono profondamente mutati.

Quando Freud pubblicò i suoi racconti, doveva tranquillizzare il lettore, attenuare, smussare: il pubblico restava traumatizzato dalle rivelazioni sulla sessualità infantile, l'ambivalenza delle pulsioni, la libidine etc. Oggi la "verità" di Freud suona come la spiegazione di un giallo, che ci interessa meno dei personaggi, del loro desiderio di conoscenza e del loro dolore. E la commedia umana che Freud mette in scena fra il 1895 e il 1920 - negli anni in cui, come osserva Lavagetto, si attua la rivoluzione estetica che scardina la rappresentazione classica basata sulla verosimiglianza e sulla causalità, e in cui nasce la nuova letteratura - ancora turba, appassiona e coinvolge." (da Melania Mazzucco, Così Freud ha inventato il thriller dell'anima, "La Repubblica", 03/01/'12)

lunedì 2 gennaio 2012

La vittoria dei classici. Sainte-Beuve e Voltaire per capire il mondo


"Domandarsi cosa legga un matematico, è come domandarsi cosa mangi: anche perché, in fondo, i libri sono il cibo dello spirito. Ma, in entrambi i casi, la domanda non ha una risposta definita: ci sono lettori e mangiatori di ogni tipo, tra i matematici, così come in ogni altra categoria di persone.
Più facile domandarsi cosa legga uno specifico matematico: quello che scrive, ad esempio, il quale può facilmente raccontare quali libri abbiano caratterizzato il suo anno. Un anno che avevo iniziato con una gita al Cairo, giusto prima dello scoppio dei moti che hanno rivoluzionato il Nord Africa. E avevo portato con me il Vicolo del mortaio di Nagib Mahfouz, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Infatti, come mi annoio a praticare il turismo letterario seduto sul divano di casa, mi diverto a immergermi nei racconti dei luoghi e delle popolazioni che sto visitando. Anche quando il legame tra ciò che leggo e ciò che vedo è più spaziale che temporale, come nel caso della storia raccontata da Mahfouz, che risale ormai al 1947: all´Egitto non solo pre-Mubarak, ma addirittura pre-Nasser, quando sul trono dei Faraoni sedeva ancora re Faruq.
Ma i romanzi sono solo svaghi, e insieme a essi porto sempre con me almeno qualche saggio che mi stimoli a pensare. In Egitto si trattava di Fede e scienza, una raccolta di saggi scritti da Ratzinger prima e dopo la sua elezione. Uno di essi era un estratto dalla sua Introduzione al cristianesimo, e ne riportava l´apologo di apertura: quello in cui il giovane teologo si domandava se lui, e quelli come lui, non fossero altro che clown, che quando vogliono allertare il pubblico del circo a un pericolo imminente, riescono solo a farlo sghignazzare. E si chiedeva se sarebbe comunque bastato che i preti si togliessero il trucco e gli abiti da clown, per diventare più credibili, o se invece a far ridere era proprio il copione dello spettacolo portato da loro in pista.
Si trattava di un Ratzinger inaspettato e irriconoscibile. Tornato a casa, mi procurai immediatamente l´Introduzione al cristianesimo. e leggendolo trovai finalmente il teologo col quale potevo e volevo discutere. Un teologo aperto e coraggioso, che non si nascondeva dietro a un dito, e non spazzava sotto il tappeto le problematiche connesse alla fede, alla religione e al cristianesimo. Un teologo che accettava di porsi in discussione scendendo sul piano di chi criticava radicalmente la religione.
Decisi dunque di rispondergli in Caro papa, ti scrivo. Anche se le letture che feci per completare l´opera, furono più deludenti di quel suo primo libro. In particolare, né nell´intervista Luce del mondo, né nei due volumi su Gesù di Nazaret, ho ritrovato lo stesso Ratzinger.
Tra i saggi scientifici ho letto due classici della matematica: la Geometria intuitiva di David Hilbert e Stefan Cohn-Vossen, ed Euclide e i suoi rivali di Charles Dodgson. Il primo è un capolavoro della divulgazione, concepito da una delle menti più brillanti del Novecento. Il secondo è invece un´imbarazzante e anacronistica difesa d´ufficio della geometria euclidea, sostenuta da uno dei più innovatori letterari dell´Ottocento: il matematico Lewis Carroll, lo stesso di Alice nel paese delle meraviglie.
Tra i romanzi, mi sono gustato L´energia del vuoto di Bruno Arpaia, esemplare in due sensi complementari: l´opera, come romanzo scientifico divertente e informato sulla fisica delle particelle, e l´autore, come letterato interessato e competente in faccende non umanistiche. L´esatto contrario di Solar di Ian McEwan, irrealistica e sciocca storia di un premio Nobel della fisica.
Per farsi perdonare, l´Einaudi (che ha pubblicato Solar) mi ha regalato un´opera straordinaria e sterminata: Port Royal di Charles de Sainte-Beuve. Difficilmente mi sarei avventurato lungo le sue duemila pagine, se non fossi stato nella mia vita professionale un logico, e non avessi sempre sentito parlare della Logica di Port Royal di Antoine Arnauld e Pierre Nicole, senza aver mai avuto l´occasione di approfondire l´argomento.
Ma Sainte-Beuve ha fatto ben altro, per me. Mi ha introdotto alle dispute sulla Grazia alimentate dai giansenisti. Mi ha aperto le porte delle loro due istituzioni, per metà conventi e per metà manicomi. Mi fatto conoscere uno stuolo di personaggi, compresi Arnauld e Nicole. Ma, soprattutto, mi ha permesso di osservare il Seicento da una molteplicità di punti di vista: compreso quello letterario, perché all´interno dell´opera si possono leggere le biografie di Corneille, Montaigne, Moliere e Racine.
E, naturalmente, di Pascal. Della sua matematica non si parla in Port Royal, anche se il suo vero lascito intellettuale sta lì: ma, si sa, certe cose «intender non le può chi non le prova». Avendo però in casa i Pensieri, che non avevo mai letto, ho colto l´occasione. Ma a parte gli aforismi che tutti conoscono, il libro rimane un abbozzo di progetto di apologia del cristianesimo che non mi ha convinto. E mostra, come già notò Voltaire, che «anche gli spiriti più eminenti si sbagliano come le persone più comuni».
Dopo aver sbirciato il Seicento di scorcio, mi era ormai venuta la voglia di osservarlo da una prospettiva centrale. E, per farlo, cosa meglio di Il secolo di Luigi XIV di Voltaire, appunto? Ora che l´ho letto, sono felice e dispiaciuto allo stesso tempo: felice per averlo letto, e dispiaciuto di non averlo più da leggere. Ci sono pochi libri, e non solo di storia, come quello.
Tra ottobre e novembre ho fatto un viaggio in Nepal, e ho portato con me L´ardore di Roberto Calasso. Un´altra volta, in India, avevo portato Ka e non me n´ero pentito. Ma questa volta ho fatto un buco nell´acqua: L´ardore è antimoderno e antirazionalistico. Per fortuna avevo il Newton di Niccolò Guicciardini (Carocci), nel quale la saggezza e la profondità si trovavano abbondantemente, sia nel lavoro del grande scienziato, che nel racconto del nostro bravo storico.
Ora, mentre l´anno sta per finire, sta finendo anche l´ultimo libro che sto leggendo: Formiche di Edward Wilson e Bert Holldobler (Adelphi). Un´opera che da sola, smonta tanti miti, su come la natura sia o debba essere, che albergano nelle menti di coloro che pretenderebbero di vivere, e far vivere, appunto "secondo natura". Chissà per quale associazione libera, il prossimo libro nella mia lista è Allegro ma non troppo di Carlo Cipolla (Il Mulino), che contiene le sue famose "leggi fondamentali della stupidità umana". Ma da questo ripartiremo il prossimo anno, se qualcuno mi chiederà ancora quali sono i libri che ho letto nell´anno passato." (da Piergiorgio Odifreddi, La vittoria dei classici. Sainte-Beuve e Voltaire per capire il mondo,
"La Repubblica", 31/12/2011)