sabato 30 maggio 2009

La notte dei poeti assassinati


"Il volto forse più inquietante dell’antisemitismo è la sua tenacia endemica, unita alla capacità di essere a un tempo ambiguo e categorico, dogmatico e insinuante. Questa «polivalenza» sconcerta lo storico e spesso lo pone di fronte a circostanze inedite, problematiche. Un giornalista russo di nome Leonid Mlecin ha di recente pubblicato un libro dove sostiene che il contributo sovietico alla creazione dello stato d’Israele sia stato determinante: Perché Stalin creò Israele. Al di là del titolo iperbolico, si pone qui in evidenza il ruolo della Russia nella nascita dello stato ebraico (e in quella mancata dello stato arabo palestinese votato anch’esso dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947). Tesi questa interessante ma indubbiamente ancora aperta, e discutibile, soprattutto perché come spesso capita si è portati a dare poco peso specifico all’autodeterminazione dei due popoli cui questa storia appartiene, cioè ebrei e arabi. Sul fronte dei figli d’Israele, questa immagine quasi irenica di Stalin convive con un’altra, di cifra opposta. La storia dell’antisemitismo deve ancora una volta fare i conti con una ambiguità di fondo, contraddizioni di cui a fare le spese sono le solite vittime. Della congiura, e relativa strage, dei medici ebrei già si sapeva. Ora dagli archivi dell’Unione Sovietica emerge La notte dei poeti assassinati: la trascrizione del processo farsa che nel 1952 portò alla condanna a morte di tredici (dei quindici imputati) scrittori e intellettuali ebrei russi, viene pubblicata in italiano dalla Sei a cura di Francesco Maria Feltri e in collaborazione con lo United States Holocaust Memorial Museum. E’un testo che sconcerta per la sua «immediatezza»: i verbali delle udienze riportano come in una cronaca viva il dramma di queste persone, alcune di spicco, falsamente accusate, processate in segreto e condannate per tradimento o spionaggio. Una vecchia storia tremendamente brava a ripetersi. Il processo ai poeti ebrei ha peraltro clamorosi antefatti di sangue, come l’assassinio, nel gennaio del 1948, di Solomon Mikhoels. Celebre attore e regista, Mikhoels è eliminato a Minsk per ordine diretto di Stalin. La sua colpa è quella di avere espresso pubblicamente il proprio dolore per la perdita di tanti ebrei nella Shoah. Di lì a quattro anni, il processo ai poeti ebrei è innescato dallo stesso, letale, meccanismo: il «tradimento» di questa gente sta infatti in quel senso di vuoto abissale che lo sterminio nazista ha lasciato nel popolo ebraico sopravvissuto. E nel fatto che gli imputati avessero dato voce al dramma vissuto dagli ebrei durante la guerra e sotto l’occupazione tedesca. C’è in sostanza un negazionismo di fondo, anche prepotente, nell’approccio di Stalin e dell’Unione Sovietica al dopoguerra devastato dalla Shoah. Guai a nominare l’appartenenza ebraica di quei milioni di vittime che andavano lasciate indistinte, e possibilmente non menzionate affatto. E tutta la parte di sterminio ebraico avvenuta al di là del confine stabilito dalla cortina di ferro all’indomani della guerra, andava rimossa. Come se non ci fosse mai stata. La Lettonia, la Lituania, l’Ucraina erano costellate di fosse comuni: prima di Auschwitz e della tecnologia al gas, prima dei forni crematori a pieno regime, lo sterminio degli ebrei d’Europa si fece infatti con i fucili, direttamente sulle fosse aperte, in quelle regioni nord-orientali. Eppure, sino al crollo dell’impero sovietico, di questa storia non si trovava traccia. Non una lapide, non un ricordo. La rimozione degli orrori è passata anche per uno dei tanti processi farsa della dittatura staliniana, che in questo volume viene rievocato con una precisione feroce, e dove ogni dettaglio riporta il lettore dentro un incubo terribile,mavero." (da Elena Loewenthal, Stalin: fucilate i poeti ebrei, "TuttoLibri", "La Stampa", 30/05/'09)

mercoledì 27 maggio 2009

Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani


"Tra il 2002 e il 2008 l’Africa sub-sahariana ha conosciuto una nuova stagione di crescita trainata dal boom globale delle materie prime e dagli investimenti cinesi.
Si è chiuso così uno dei periodi più tormentati nella storia recente del Continente: una fase lunga tutta una generazione durante la quale la maggior parte dei Paesi della regione ha registrato un crollo del reddito pro capite, talvolta a livelli mai conosciuti sin dalla fine del colonialismo. Quest’inversione di tendenza segna l’apertura di nuove opportunità per gli africani; eppure, il clamoroso crollo dei prezzi delle materie prime registrato lo scorso anno per effetto della recessione globale indica quanto sia fragile il trend di ripresa. Né vi sono evidenti segnali di una svolta politica. Gli anni segnati da questa fase di crescita, infatti, hanno visto lo scoppio di una drammatica guerra nella Repubblica democratica del Congo che ha provocato oltre 5 milioni di vittime, un altro conflitto di minore entità ma altrettanto devastante nel Nord dell’Uganda, una catastrofe umanitaria in Darfur e la permanente tragedia dello Zimbabwe di Robert Mugabe.
In Occidente, le cause e i rimedi al mancato sviluppo dell’Africa sono stati dibattuti principalmente da osservatori maschi e di pelle bianca come Jeffrey Sachs e William Easterly, che si sono espressi rispettivamente a favore e contro una massiccia assistenza dall’estero. E il primo ha incassato il sostegno di celebrità come Bob Geldof, Bono e Angelina Jolie. È dunque utile e interessante scoprire le originali analisi di due donne africane: Wangari Maathai, del Kenya, e Dambisa Moyo, dello Zambia.
Le due autrici vengono da percorsi molto diversi. Wangari Maathai, che è stata parlamentare prima di perdere il seggio alle elezioni del 2007, ha ricevuto nel 2004 il premio Nobel per la Pace per l’attività di opposizione al regime dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, e per l’impegno a difesa dell’ambiente culminato con la fondazione del movimento di base «Green Belt» (cintura verde). È una donna chiaramente coraggiosa. Pur essendo di origini kikuyu, ha invocato a gran voce il riconteggio dei voti quando Mwai Kibaki, appartenente alla stessa etnia, ha tentato di accaparrarsi la vittoria alle presidenziali del 2007, innescando una sanguinosa escalation di violenza etnica. Dambisa Moyo, invece, ha lasciato lo Zambia per frequentare l’università negli Stati Uniti e, dopo essersi laureata a Oxford e ad Harvard, ha lavorato alla Banca mondiale e alla Goldman Sachs.
Si direbbe che anche i loro libri abbiano ben poco in comune. In The Challenge for Africa, Maathai traccia una lunga serie di conclusioni. L’autrice sostiene che non esista un compromesso naturale tra crescita economica e difesa dell’ambiente, e che i governi africani dovrebbero perseguire entrambe. Punta l’indice contro il colonialismo occidentale, colpevole di aver disprezzato l’identità e la cultura africana, ma rimprovera anche agli africani il pernicioso attaccamento a frammentarie «micro-nazioni». Critica la dipendenza dagli aiuti, ma non solleva forti obiezioni al programma Sachs-Bono per un significativo incremento dell’assistenza allo sviluppo da parte dell’Occidente. È convinta che il cambiamento dovrà scaturire dall’attivismo di base, e che gli africani debbano stringersi attorno alle proprie tradizioni.
Il libro di Moyo, Dead Aid, contiene al contrario un messaggio molto semplice: l’assistenza esterna allo sviluppo è alla radice del sottosviluppo dell’Africa e va rapidamente e completamente interrotta, se si vuole che il Continente progredisca. L’autrice si dice a favore dello sviluppo del settore privato, anche se di provenienza cinese, e inveisce contro il protezionismo agricolo nel Nord del mondo, che impedisce all’attività commerciale di diventare un motore di crescita. Non sorprende, dunque, che il suo libro si rivolga a un pubblico molto diverso da quello che ha premiato Maathai con il Nobel per la Pace. Si direbbe, anzi, che Maathai e Moyo siano votate a uno scontro polarizzato, simile a quello tra Sachs e Easterly, circa il giusto approccio allo sviluppo. In realtà, questi due libri hanno molti più elementi in comune di quanto le autrici siano disposte a riconoscere.
Entrambe ritengono che il problema di fondo dell’Africa sub-sahariana sia il malgoverno. Non esiste il concetto di bene pubblico; la politica è degenerata in una lotta per tenere in pugno lo Stato e qualsiasi bene esso controlli. Tutti i problemi della regione derivano da questa dinamica distruttiva. Le risorse naturali, si tratti di diamanti, petrolio o legname, si sono presto trasformate in una maledizione, perché esasperano la violenza della lotta politica. Etnicità e tribù, costrutti sociali di spesso dubbia origine storica, sono stati sfruttati dai leader politici nella loro rincorsa al potere. L’avvento della democrazia non ha modificato le mire della politica, ma semplicemente alterato il metodo di lotta. Solo così si può spiegare un fenomeno come la Nigeria, che ha incassato qualcosa come 300 miliardi di dollari in proventi petroliferi nell’arco di una generazione e tuttavia, durante lo stesso periodo, ha subìto un crollo del reddito pro capite. Il punto, dunque, è: se la cattiva politica è alla radice dei problemi di sviluppo dell’Africa, come si è arrivati a questa situazione? E in che modo la regione potrebbe evolvere in un’altra direzione? Su questo punto, ovviamente, le differenze tra le due autrici sono marcate. Dambisa Moyo non lesina prove a sostegno della sua articolata denuncia degli aiuti stranieri come causa del malgoverno. Fa notare che durante la Guerra Fredda si è prestato incondizionatamente aiuto a personaggi come Mobutu Sese Seko nello Zaire, che accompagnò la figlia alle nozze volando su un Concorde proprio mentre i donatori occidentali acconsentivano a rinegoziare un prestito. Non fosse stato per la continua disponibilità di prestiti agevolati, sostiene l’autrice, i Paesi africani sarebbero stati costretti a rimboccarsi le maniche e adeguarsi agli standard di governance internazionali per poter accedere ai mercati obbligazionari globali. È una tesi ricca di verità. In passato, l’assistenza dall’estero non ha fatto altro che alimentare la macchina clientelare e contribuito alla permanenza al potere di leader corrotti in Paesi come la Somalia e la Guinea Equatoriale. I governi africani, molti dei quali ricavano oltre il 50 per cento del loro bilancio nazionale dai donatori internazionali, sono tenuti a rendere conto non alle rispettive popolazioni, bensì a schiere di nazioni sovrapposte e contraddittorie. Ma la tesi — propugnata dalla stessa Moyo — per cui se non fosse per l’afflusso di aiuti internazionali, l’Africa vanterebbe un buon governo, è assai difficile da accettare, anche perché non opera alcun distinguo tra l’assistenza militare prestata allo Zaire durante la Guerra Fredda e i trattamenti anti-retrovirali distribuiti dal Fondo globale o dal Pepfar ( President’s emergency plan for Aids relief), il piano di emergenza contro l’Aids avviato dall’amministrazione Bush, cui non si fa praticamente cenno nel libro. In realtà, il business degli aiuti ha messo a frutto qualche lezione, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda. Si firmano meno assegni in bianco ai dittatori, e si concentra l’attività di soccorso in settori come la sanità pubblica, ricavandone apprezzabili risultati.
Se, come suggerisce l’autrice, gli aiuti venissero bloccati, un’intera fetta di popolazione africana morirebbe prematuramente. Altri programmi, come il Millennium Challenge Account (Mca, Fondo per la sfida del millennio), creato dall’amministrazione Bush nel 2004, mirano alla lotta contro la corruzione. Potrebbero non essere sufficienti, ma non aggravano certo il problema di fondo.
Se il blocco degli aiuti stranieri non può essere una cura per l’Africa, il libro di Maathai, Challenge for Africa, propone un’alternativa migliore? L’attivismo di base può stimolare soluzioni locali ed esercitare pressioni sui governi affinché migliorino le loro performance. Ma la società civile funge in definitiva da complemento di istituzioni forti, non da loro surrogato. Verso la conclusione del libro, Maathai allude alla necessità di una leadership visionaria e di un nation-building dal centro, come fece Julius Nyerere quando riunì i numerosi gruppi etnici e linguistici della Tanzania grazie all’uso del Kiswahili come lingua nazionale.
Nel corso della Storia, tuttavia, i progetti di nation-building hanno spesso richiesto una medicina molto più forte di quella che la nostra autrice o la gran parte degli africani di oggigiorno sono disposti a prendere in esame, tra cui la variazione dei confini e l’inclusione, anche forzata, di «micro-nazioni» in un’unica e più grande entità. Se nessuno di questi libri propone soluzioni pienamente soddisfacenti, entrambi mettono almeno a fuoco il vero nocciolo del problema, ossia il livello di sviluppo politico della regione. In quest’ambito, le soluzioni dovranno nascere in seno alla regione stessa. Spostare il dibattito dai doveri del mondo verso l’Africa a quelli degli africani verso loro stessi è un buon primo passo." (da Francis Fukuyama, Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani, "Corriere della Sera", 24/05/'09; New York Times Syndicate traduzione di Enrico Del Sero)

martedì 26 maggio 2009

Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze


"«Tra pochi minuti m´impiccano, aiutatemi!». E´ difficile non ricordare le ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La muta (Bompiani), il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una storia di brutalità, disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah è onnipotente. Una impiccagione reale è invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da minorenni. Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e là nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge è contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione islamica la Legge per la Protezione della famiglia fu abolita e si tornò alla sharia, che riduceva l´età per il matrimonio a nove anni, limitava il diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e imponeva a tutte il velo.
Ma l´Iran è un paese di paradossi e uno di questi è stata l´esplosione di donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne parteciparono, lottando per la giustizia e la libertà senza neanche immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz Kar, con Shirin Ebadi una delle più importanti giuriste iraniane: «Con tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la parità dei diritti era tra ciò che era loro dovuto. La richiesta di parità non viene più da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale separazione tra Stato e religione».
«Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio» scrive Simin Behbahani, la più famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero. Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva scritto soprattutto poesie d´amore nella forma classica, anche se modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente.
Il passaggio dalla lirica alla prosa è anche la storia di una emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario privilegiato perché con le sue metafore, i suoi simboli era stata anche un vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di coloro che erano stati spinti all´esilio, mentre gli uomini spesso non avevano altrettanto coraggio di affrontare la realtà. La sessualità è ancora una linea rossa che non può essere superata, ma anche qui molte scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza. Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori più noti sono un romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush Parsipur, Forugh Farrokhzad(che provocò uno scandalo per aver lasciato figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di sé per le più giovani: «Adesso sono/in posizione da poter/ spaccare il sole come fosse un melograno/e con il succo farne inchiostro per la mia penna ...», (Fereshteh Sari, L´attimo, citato da Figlie di Shahrazad di Anna Vanzan, Bruno Mondadori). In un blog ho letto di recente: «I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il loro onore. Chi sono io? Sono l´onore di mio fratello, mio padre, marito, zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al posto della mia fotografia metteranno una rosa, perché la vista di una donna può turbare un uomo ...»." (da Vanna Vannuccini, Se le scrittrici sfidano i mullah. Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze, "La Repubblica", 25/05/'09)

lunedì 25 maggio 2009

L'altra Eszter di Magda Szabò


"Pagine aspre, impietose, spiazzanti, lucidissime, impossibile uscirne indenni. Non è difficile farsi catturare immediatamente dal mondo interiore di Eszter, anima sdoppiata e scorticata che fa scempio di sé. Lei celebre attrice teatrale, sceglie come palcoscenico emblematico la parabola della sua esistenza. Disperatamente sincera, interpreta se stessa in un lungo lancinante monologo, dedicato al suo grande amore Lorinc, che esplode dalla penna del "pesce d'oro della letteratura ungherese", così la definì Herman Hesse, Magda Szabò. Coacervo di sentimenti esasperati e fosche passioni, è un'esperienza nel territorio senza frontiere della mente, infrange il tabù di dichiararsi cattivi, il coraggio di odiare. L'infanzia nasconde il mistero della vita adulta lo sa bene Eszter, nata da una famiglia aristocratica caduta in miseria, bisogno, sacrifici, rinunce, che diventano insopportabili quando incontra la compagna di studi e di giochi Angèla. Bella, adorabile, ricca, elegante, dolce, sensibile, Angèla ha tutto ciò che manca a Eszter. Un veleno mortifero le pervade l'anima da aristocratica umiliata ed ecco deflagrare l'altra Eszter dal ghigno sanguinario: "Ho odiato Angèla dal primo istante in cui l'ho vista e non ho mai smesso…la odierò sempre persino quando sarò morta ...". Le ucciderà l'amato capriolo, le ruberà il marito, ossessionata dall'istinto criminale chiamato gelosia, incurabile e irragionevole. Ormai adulta ripercorre il passato con continui flashback, Eszter è finalmente anche lei ricca e famosa, ma c'è l'altra se stessa in agguato: polare, spietata, che si ingozza per placare i ricordi della fame infantile, che imbosca il denaro nelle scatole, che non dimentica le scarpette scomode tagliate in punta ereditate da zia Irma, braccata dal pensiero di Angèla e dal fato vendicatore. Angèla non si accorgerà mai di nulla, non vede, non sente, non sa che l'amica vive per distruggerle qualunque anelito di felicità. Sarà Lorinc, il conteso marito di Angèla, moribondo a scarcerare Eszter, a svincolarla dai suoi immondi sentimenti: "Eszter, ma non ti sei accorta che io amo te, non Angèla?". Privo di epica, stracolmo di anima, ci impone un viaggio ingrato ma necessario, nell'oscurità segreta dei nostri sentimenti, lì dove albergano le nostre fragili paure, il "mostro" umanissimo che spesso non sappiamo definire, di cui sentiamo la potenza se ci abbandoniamo a noi stessi. Odio oltremisura nel grumo delle passioni radicali, quello patologico che soffoca e uccide, che quasi perdoni, nonostante tutto, perché dettato da una necessità che si trasforma in pulsione irrefrenabile. Un libro senza tempo, scritto nel 1959, che mette in mostra il talento e le ragioni del successo della Szabò, che finalmente e a onore torna alla luce in Italia pubblicata da Einaudi." (da Francesca Motta, L'altra Eszter, "IlSole24Ore.com", 18/05/'09)

Bestseller voluti e no


"I bestseller interessanti sono quelli voluti, non quelli spontanei. Per comprendere gli spontanei occorrono indagini e analisi di alto profilo, sulla società, la storia e il gusto. Mentre i voluti sono piccole faccende di cucina editoriale, nel complesso più alla nostra portata. In Italia l'inventore del bestseller voluto fu il primo vero editore moderno, Emilio Treves, il quale, innamoratosi (editorialmente) di D'Annunzio, concentrò ogni risorsa su Il piacere, a scapito del precedente astro Giovanni Verga che di lì a poco ne morì. Ma la prima vera e grande operazione bestseller, così come oggi l'intendiamo, si deve a Einaudi (inteso come figura editoriale collettiva, non come persona) che nella primavera del 1974 pubblicò La storia di Elsa Morante con una determinazione e una inventiva mai viste prima (la sola determinazione infatti non basta, come si potè constatare l'anno successivo con l'Horcynus Orca di Mondadori, eminente e memorabile flop). Le invenzioni furono due. La prima riguardò il publishing del libro in senso stretto, cioè la collana, il prezzo e la copertina. La storia è un voluminoso romanzo di oltre seicento pagine. Invece di metterlo nella sua collana regolare e naturale, i Supercoralli, Einaudi lo piazzò negli Struzzi, che era allora la collana economica, e di conseguenza abbassò drasticamente il prezzo. Il significato di queste scelte era 'Ci credo talmente e sono così sicuro che venderà tanto da potermi permettere un prezzo bassissimo'. Per la copertina scelse un'immagine solarizzata nera e rossa, quasi grafica, estremamente aggressiva. Ma la principale innovazione fu l'uso della pubblicità. Invece di tristi quadratini con più tristi frasette, prese, di domenica, tutta l'ultima pagina del "Corriere", la lasciò bianca e in mezzo mise una piccola riporoduzione della copertina del libro. La tappa successiva nella storia della bestselleristica fu, nel 1997, il ciclo di Ramses. Erano quattro romanzi pubblicati in Francia a distanza di anni e di qualità letteraria non eccelsa. Lì l'idea chiave fu di concentrare le uscite in pochi mesi, come se fosse un'unica opera in quattro puntate. Questo consentì un investimento pubblicitario molto ingente e tutto all'inizio, sul modello delle opere a dispense. E permise di collocare l'investimento sul mezzo più costoso, cioè su quello televisivo. Lo spot realizzato da Mondadori tendeva a popolarizzare al massimo la serie e, puntando sul fascinoso attore che interpretava Ramses, a orientarla verso un pubblico femminile. Il fatto che, poco dopo, una disinvolta signora che aveva tentato di uccidere il marito risultasse possedere un solo libro e che quel libro fosse Ramses, confermò la giustezza di queste vedute. L'ultimo capitolo della storia è stato scritto, per ora, da Dan Brown. Qui il concetto guida è stato quello di trasformare un bestseller in un best-long-seller. Quando, nell'autunno 2003, Mondadori si apprestò a pubblicare Il Codice da Vinci, sapeva di avere uno svantaggio e un vantaggio. Doveva recuperare un anticipo ingentissimo, perché aveva comperato il libro dopo un'asta feroce. Ma aveva la backlist, tre titoli precedenti, da pubblicare nella scia del prevedibile successo del Codice. Per sostenere un così lungo ciclo di vita, il publishing, all'opposto di quanto era stato fatto per Ramses, fu indirizzato allora a innalzare il libro, a renderlo austero e nobile. La copertina era misteriosa ma severa, senza carnevalate. La pubblicità era di piccolo e dimesso formato, come per le opere letetrarie, ma iniziò ben prima dell'uscita, non tanto per creare attesa, ma per significare prestigio e importanza. Tuttavia oggi il bestseller voluto, il frutto dell'editoria come volontà e rappresentazione, deve dichiarare la propria sconfitta di fronte al bestseller spontaneo. La debole scienza editoriale è stata travolta dai maremoti emotivi, spontanei e incomprensibili, che hanno fatto nascere i megaseller, giganti da un milione e oltre di copie. E di questi colossali ordigni - i Saviano, i Giordano, i Larsson, le Meyer, i Khaled Hosseini, le Barbery - lungi dal comprendere il funzionamento, non abbiamo neppure ancora trovato l'innesco." (da Gian Arturo Ferrari, Bestseller voluti e no, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/05/'09; l'autore dell'articolo è Direttore generale della divisione libri Mondadori. La sua conferenza dal titolo 'La costruzione di un bestseller' si terrà sabato 30 maggio, alle ore 15, nell'Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza di Trento, al Festival dell'economia)

"Non c'è il megaseller, ma la crisi è battuta" (da LaStampa.it)

L'intruso di Antoine Wilson


"Un thriller epistolare. E' questa l'idea forte attorno alla quale il giovane canadese Antoine Wilson ha costruito L'intruso (Cairo Editore), suo romanzo di esordio. Un'idea forte ma anche difficile da svolgere, dato che dovrebbe svilupparsi su due piani apparentemente antitetici ma allo stesso tempo strettamente collegati l'uno all'altro. Vediamo come procede Wilson. La vicenda inizia con l'evolversi delle scontentezze di Owen, giovane marito un tempo felice, ora oppresso, bersagliato, soffocato dal ricordo della morte del cognato C. J. che moglie e suoceri evocano continuamente, ininterrottamente. A cena, durante le visite degli amici, lungo la giornata (di qui, il titolo, L'intruso). C. J. è stato ucciso da un criminale senza che si sia potuto stabilire un movente. E che il colpevole sia stato condannato a vent'anni di reclusione, alla famiglia del defunto non sembra sufficiente. E' così che nasce in Owen l'idea di iniziare un rapporto epistolare con il detenuto Raven. Firmerà le lettere con un nome femminile e userà tutta la sua astuzia per farlo innamorare e poi spezzargli il cuore rivelandogli la verità e vendicandosi così dell'infelicità in cui il criminale ha fatto precipitare la sua famiglia. Siamo all''overture', suonata a piena orchestra. Poi l'autore mette mano alla parte di vera e propria suspense, e qui gli accordi non gli riescono più. [...] Antoine Wilson, non ci sono dubbi, ha applicato tutte le regole del thriller, incluso il finale a colpo di teatro, ma non riesce ad agganciare le emozioni. Forse gli manca ancora il graffio e anche il cinismo, usato da chi scrive storie di questo tipo." (da Laura Grimaldi, Rivincita in forma di lettera, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/05/'09)

Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini di Giovanni Ragone


"Quando è stata pubblicata la prima volta la Divina Commedia? È una domanda non certo da odierno quiz televisivo, ma da esame universitario di quelli d’una volta ... Salvo prova contraria, è accaduto a Foligno l’11 aprile 1472, lo stampatore si chiamava Johann Numeister, veniva da Magonza (dove poi se ne tornò): il compositore-correttore si chiamava Evangelista Angelini di Trevi. Traggo questa notizia, insieme ad una miriade d’altre, una più interessante dell’altra, dal denso, ma fascinoso libro Classici dietro le quinte. Da Dante a Pasolini, che aduna sedici Storie di libri e di editori, ad opera di un italianista della Sapienza di Roma, Giovanni Ragone, e di un drappello di suoi collaboratori (la Capaldi, il Ceccherelli, il Di Pietro, l’Ilardi, il Tarzia). La «ridda» delle affascinanti e spesso contrastate, talvolta drammatiche, vicende editoriali di altrettanti capolavori si apre, per l’appunto, con Dante, per proseguire con Petrarca, per cui sale in cattedra la Venezia quattrocentesca, capitale dell’editoria, con le duecento e più tipografie attive tra il 1463 e il 1500, sino all’arrivo nel 1489 di un genio, il laziale Aldo Manuzio. Dopo di lui sfilano sul dotto proscenio Luigi Pulci e il suo Morgante (e qui l’antagonista è il tonante Girolamo Savonarola, che ancora dieci anni dopo la morte dell’autore - 1494 - avrebbe voluto «farne fuoco e sacrificio a Dio»); poi è la volta dell’Orlando innamorato del Boiardo, con cui il conte di Scandiano, tra la gotta e le incombenze del governo, rinnova e nobilita nel 1482 l’enorme successo dei cosiddetti «libri di bataia», qualcosa, secondo le stime del Ragone, come mezzo milione di esemplari venduti nel corso del Cinquecento; ed infine vi fa la sua bella sfilata l’Ariosto col Furioso, stampato il 22 aprile del 1516 da Giovanni Mazzocchi da Bondeno, dopo sei mesi di costante applicazione ai 40 canti: ma già tre mesi dopo, grazie anche agli sforzi di messer Lodovico, si lavorava alla distribuzione tra potenti, letterati, ma anche un bel po’ di lettori comuni, della seconda edizione. Abbiamo citato i casi di alcuni tra i «maggior nostri» e delle loro opere sublimi: ma il Ragone scava anche tra i cunicoli della contro-editoria, quella pornografica (ma a che livello di stile! altro che le nostre Melissa P.!): quella che vede a Venezia, dove corrispondeva con i Grandi d’Europa, evitando accuratamente di pagare l’affitto, il focoso Aretino dei Ragionamenti impegnato a creare, con alcuni giovani aristocratici della Serenissima, un vero e proprio atelier di libri «scandalosamente erotici». La galleria del Ragone - inutile negarlo - si fa via via più avvincente quanto più ci si approssima all’Otto-Novecento. Il capitolo sul Cuore, anzi - per essere precisi - fra il torinese De Amicis e il milanese Treves è il «gioiello della corona»: si tratta della minuziosa ricostruzione d’una vera e propria maratona di tallonamento, a colpi di lettere e cartoline, tra l’ingiurioso e il patetico («Sono sgomentato. Tu mi scrivi ogni cosa fuorché del Cuore ... Io aspetto il Cuore, il Cuore, il Cuore», missiva del Treves del 27 maggio 1879), durata la bellezza di otto anni, dal 2 febbraio 1878 al 15 ottobre 1886: ma i risultati ripagano largamente autore ed editore, diciottomila copie vendute in 13 giorni, quarantamila in soli 2 mesi: nel 1907 - precisa Ragone - Cuore era giunto alla venticinquesima edizione. A rileggere di alcuni casi del secondo dopoguerra, a cui assistemmo di persona o di cui fummo ragguagliati dai protagonisti o da loro testimoni - Vittorini e Valentino Bompiani impegnati contro la censura politica a difesa della (ancor oggi) mirabile antologia Americana; Livio Garzanti inquieto per le reazioni moralistiche dei benpensanti in vista dei pasoliniani Ragazzi di vita; Giulio Einaudi in sorniona attesa, come il gatto col topo, dell’interminabile, ed alfine incompiuta, Cognizione del dolore gaddiana - c’è da provare un misto di commozione e di sgomento. Che tempi eran quelli, quando il pubblicare - magari in disagiate condizioni economiche - significava condividere una privilegiata avventura della mente e del cuore! Che tempi son questi, in cui il dare alle stampe si riduce ad aride strategie di marketing e di comunicazione, al tempestivo acquisto di adeguati spazi pubblicitari ed alla garanzia certa di prestigiose (?) comparsate televisive ..." (da Guido Davico Bonino, 'Io aspetto il Cuore, il Cuore, il Cuore ...', "TuttoLibri", "La Stampa", 23/05/'09)

venerdì 22 maggio 2009

Oliver Sacks: "Mio padre medico si vergognava dei miei libri"


"Chi inizia a scrivere la sua autobiografia si mette al lavoro con i suoi ricordi, ma la motivazione che lo spinge a scrivere un´autobiografia sembra spesso la conseguenza di una situazione inversa: sono i ricordi che si mettono al lavoro con lo scrittore. «Nel 1993, mentre mi avvicinavo al mio sessantesimo compleanno», scrive Oliver Sacks ripensando alla stesura della sua autobiografia Zio Tungsteno, «cominciai a sperimentare un fenomeno curioso, l´emergere spontaneo e non richiesto di ricordi precoci, ricordi rimasti assopiti per più di cinquant´anni. E non solo ricordi, ma veri e propri stati d´animo, idee, atmosfere, e le relative passioni, ricordi soprattutto della mia infanzia». Quando Oliver Sacks, nell´ottobre del 2005, è venuto a Groninga per una conferenza, ha accettato di rilasciare un´intervista su ciò che il tempo fa ai ricordi e su ciò che i ricordi fanno al tempo. La conversazione, inaspettatamente, ha preso una piega malinconica. Sacks stava male e questo sembrava rafforzare la sua propensione a riflettere sul rapporto con i suoi genitori, sul corso preso dalla propria vita e sulla vecchiaia.
Quarant´anni di America non sono passati invano per Sacks, che si presenta con un berrettino arancione e scarpette da ginnastica cool. Ma senza berretto e con le scarpe sotto il tavolo, seduto davanti a me, c´è di nuovo innegabilmente l´inglese che lui è per nascita. Non vi è traccia di accento americano. Sacks parla con fare timido, con dolcezza e precisione. «Quando avevo cinquant´anni non avevo ancora mai preso in considerazione la possibilità di scrivere la mia autobiografia. Ma verso il mio sessantesimo compleanno ho notato che cominciavano ad affiorare spontaneamente dei ricordi di avvenimenti, persone, oggetti ai quali non avevo più ripensato dai tempi della mia fanciullezza. In quello stesso periodo mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sui musei scientifici di Londra. Quei musei, per la mia formazione, sono stati più importanti di qualsiasi altro corso di studi. Una volta iniziato a scrivere sui musei e anche su mio zio Tungsteno era come, be´, come urinare: non potevo più fer-marmi».
Lei scrive che non riesce ad ascoltare Nachtgesang di Schubert senza dover pensare, "con nitidezza quasi insopportabile", a sua madre che cantava in piedi vicino al pianoforte. Perché "insopportabile"? «Perché mi rendo conto che lei non c´è più, che questo è il passato, che non puoi tornare al passato, che lei è morta, che quel tempo è morto, ma anche perché c´è un´insopportabile penosità nella musica di Schubert. Dopo la sua morte per un po´ l´unica musica che riuscivo a sopportare era quella di Schubert».
La scrittura dell´autobiografia ha cambiato il suo modo di pensare riguardo alla memoria? «Già non credevo, per cominciare, che i ricordi si fondassero sulla semplice riattivazione delle tracce cerebrali. I ricordi sono delle ricostruzioni, e il modo in cui si ricostruiscono dipende tra l´altro dall´età. Avevo messo in conto che avrei dimenticato parecchio. Ma la presenza di ricordi, ricordi molto vividi, rivelatisi non tanto ricostruiti quanto completamente fabbricati, mi ha davvero sorpreso.»
Ripensa talvolta al corso preso, professionalmente, dalla sua vita? «Sì, e pure di recente, nel treno verso Groninga. La vita di un dottore è diversa da quella di un ricercatore. Io dipendo da persone che bussano alla porta, mi telefonano, mi scrivono. C´è di certo meno coerenza nella mia vita. La mia forza creativa risiede, credo, nelle digressioni inventive verso soggetti esotici. Per la mia carriera non avevo in mente un tragitto chiaro. Ma più libri scrivo, più vedo i miei temi in prospettiva. Vedo con maggior chiarezza quale sia il mio orientamento intellettuale, quale sia il mio valore. Adesso posso commuovermi quando dei giovani mi raccontano di aver deciso di diventare dottori dopo aver letto i miei libri alla scuola media. Tuttavia, ora che sono entrato nella mia ottava decade, spero di avvicinare un po´ di più i miei temi tra loro, di cercare una sintesi. I colleghi qualche volta mi chiedono: "Sacks, dov´è la tua teoria?". Ma io non sono portato per le teorie generali, io fornisco i casi e gli esempi che devono formare il materiale per una simile teoria».
E adesso che è stato insignito di tutta una serie di dottorati di ricerca, appartenenze onorarie, premi letterari e scientifici? «Credo di essere stato un buon dottore per i miei pazienti. Un paio di giorni fa ho visto la signora Herbst. Ho ascoltato con attenzione, suggerito alcune cose, io conosco la mia disciplina come neurologo. Entrambi i miei genitori erano bravi dottori e loro avrebbero visto che anche io sono un buon dottore, pur avendo sensazioni contrastanti su molte cose che facevo. Nel 1970, dopo la pubblicazione di Emicrania, un giorno entrò nella mia stanza mio padre, cinereo, tremante, con il Times in mano: "Sei sul giornale!". Era sconvolto. C´era un pezzo sul mio libro, definito equilibrato e brillante, ma mio padre riteneva che un medico non dovesse finire sul giornale. Vigeva allora un´etica medica rigorosa, con le A proibite: adultery, alcohol, addiction e anche advertisement. Mio padre trovava doloroso il fatto che avessi reso pubblico in tal modo il nostro nome».
Suo padre visse fino al 1990, cambiò mai opinione sulla sua opera? «In seguito divenne più benevolo, più mite. Forse perché facevo qualcosa che piaceva fare anche a lui, era bravo a scrivere lettere e a raccontare storie. Forse era orgoglioso di me, anche io ero orgoglioso di lui. Era un tipo modesto, troppo modesto. In Inghilterra, nella medicina, c´erano due livelli, i medici di famiglia, che erano gli operai, e gli specialisti, che si sentivano socialmente e intellettualmente al di sopra dei dottori comuni. Ma mio padre nel fare diagnosi era straordinario, vedeva cose che agli specialisti erano sfuggite. Quando raggiunse l´età di novant´anni gli dissero: smetti adesso di fare visite a domicilio. Ma lui replicò: io smetto col resto e continuo con le visite a domicilio. Sfiorò i 95. Dedicò settant´anni di esperienza e dedizione a quelle visite a domicilio. Lasciai l´Inghilterra per andarmene dai miei genitori e da quella rigida gerarchia medica. Volevo spazio, provavo una sorta di risentimento nei loro confronti. Si può leggere quella rabbia "tra le righe" di Zio Tungsteno. Però man mano che invecchi cominci a vedere le cose diversamente. Nutro grande simpatia per le persone che fanno bene il loro lavoro e mio padre lo faceva. Non erano tempi facili e nemmeno io ero un figlio facile. In un certo senso li avevo sorpassati. Ciò mi impauriva e deve aver impaurito anche loro». Quindi partendo è stato un bravo figlio? «That´s a way to put it»." (da Douwe Draaisma, Oliver Sacks: 'Mio padre medico si vergognava dei miei libri', "La Repubblica", 21/05/'09)

mercoledì 20 maggio 2009

Il presente e niente più. Fare letteratura al tempo della cronaca


"Nel senso comune la letteratura sembra una cosa del passato. Ma è nel presente che viene letta e di nuovo scritta. E’ il contagio della letteratura del passato che spinge a scrivere. Ma si scrive perché il presente lo esige, non perché i classici lo impongono. Chi scrive letteratura ripete e annulla il passato, ricomincia. E’ chiaro in molti incipit. Le prime frasi che aprono un racconto o una poesia provocano sempre uno shock dell’inizio: se comincio a leggere Gli indifferenti, La metamorfosi, Lo straniero, La terra desolata, ogni volta il presente mi viene incontro con un volto diverso.
Di che cosa è fatto il presente? Certo non è solo cronaca. Anche il passato e il futuro sono strati del presente. La letteratura è uno strumento di rilevazione e rivelazione dei più imprevisti livelli di realtà. Il presente è per definizione extra-storico, è (per il momento) fuori da ciò che chiamiamo Storia. La Storia a sua volta è un costrutto culturale, un processo unitario e gerarchico con il suo alto e il suo basso, la sua essenza fondamentale e i suoi epifenomeni trascurabili. Di questo processo si credette di poter fare scienza, come della guerra secondo von Clausewitz. E’ noto che Tolstoj in Guerra e pace fece guerra all’idea della storia e della guerra come qualcosa di concettualmente dominabile. Antonio Scurati è fra i giovani scrittori colui che si sta più appassionando a questi problemi. Nel suo dialogo con Vattimo, pubblicato sabato scorso su questo giornale, ha detto che il tempo della letteratura non è quello della cronaca, e ha ricordato che un tempo al posto della cronaca c’era la storia. Ma il tempo della letteratura non è stato mai il tempo della storia. C’è stata una lotta secolare fra letteratura e grandi eventi pubblici, fra letteratura e filosofia della storia, fra letteratura e giornalismo. La posta in gioco è la definizione di ciò che è realtà, o di ciò che è più reale di qualcos’altro. Nel Novecento antropologi, filosofi dell’esistenza, storici della vita quotidiana, del costume, delle idee, della cultura materiale hanno smembrato l’idea unitaria di storia, hanno pluralizzato ciò che prima si pensava come totalità. Questo smembramento dell’idea di storia ha fatto anche crollare l’idea di progresso, perchè non è detto che nella marcia trionfale verso il futuro tutto migliori contemporaneamente. Non c’è progresso globale e assoluto, ci sono solo vantaggi relativi a prezzo di certe perdite, spesso impreviste, ma che più tardi possono rivelarsi catastrofiche e irreversibili.
Dunque sia la storia che il presente sono entità mobili e stratificate. Per Leopardi erano sommamente importanti il suo «ermo colle» e la morte di Silvia. Per Manzoni il presente erano il 5 maggio e la morte di Napoleone. Ma questa lotta per stabilire che cosa è più reale non richiede necessariamente una poetica realistica. In Kafka non c’è niente di cronachistico, il senso del presente è dato da ciò che la cronaca rende invisibile.
La letteratura è una forma di storiografia. Ma che cos’è la letteratura? Come non esiste la storia in quanto entità trascendentale, così non esiste neppure la letteratura in se stessa. Esistono gli scrittori che la scrivono. Lo stesso presente può essere quello delle poesie di Saba o di Montale, di Brecht o di Benn. Qualche anno fa Tom Wolfe, attaccando la moda della narrativa astratta, antirealistica e antidocumentaria (la moda Borges-Calvino) disse che si doveva tornare al romanzo nello stile di Dickens e di Zola. Questo naturalmente è il problema del romanzo in quanto genere della verosimiglianza e degli «effetti di realtà». Ma la letteratura non è solo il romanzo. Né va dimenticato che gli strumenti e i media con cui oggi si fa indagine e comunicazione sono molto più prensili e veloci del giornalismo tradizionale. Oggi la Storia ha preso la forma della Cronaca. Al posto di una totalità pensabile, carica di idee e di imperativi morali, abbiamo una totalità invadente che divora e cancella il rapporto fra passato e futuro. Letterariamente questa totalità che è il presente può essere afferrata solo isolando dettagli e usando dei frammenti come ipotetiche allegorie. Si tratta di scegliere di volta in volta le tecniche migliori per interrompere il continuum della cronaca, come Benjamin voleva interrompere il continuum della storia per rendere concepibile il salto nell’utopia. La nostra utopia conoscitiva è comunque la realtà. Per questo la inseguiamo, per questo la inventiamo." (da Alfonso Berardinelli, Il presente e niente più. Fare letteratura al tempo della cronaca, "La Stampa", 20/05/'09)

lunedì 18 maggio 2009

Rosetta Loy: "Sa di polvere il mio lessico famigliare"


"«Attrazione e fastidio. Desiderio di stracciarlo, di buttarlo nel cestino, quel racconto. Dopo un po’ l’ho chiuso, non volevo proseguire con quelle pagine che mi facevano star male, che parlavano di fucili a canne mozze, mafia, clan, Sacra Corona Unita e “ciclo del cemento”. Poi l'ho ripreso, meraviglioso, straordinario, e ne ho apprezzato il finale per nulla enfatico ma capace di darti fiducia. E’ stato per me il libro più importante degli ultimi trent'anni. Mi ha tenuto sveglia per più di una notte». E così Rosetta Loy ha trovato la sua stele, il suo testo di riferimento. L’autore? Mister Gomorra, ovvero Roberto Saviano. Anche se non c’è niente di più lontano delle smitragliate di Casal di Principe dal Monferrato della Loy, scrittrice che con i romanzi - La bicicletta, Le strade di polvere, All'insaputa della notte - ha edificato un Eden un po' speciale, il «suo» Piemonte. [...] Il lessico famigliare dei Provera (cognome da signorina della Loy) è il protagonista di questa autobiografia tra il Concordato e l’attentato di via Rasella con cui la scrittrice prosegue sulla strada dell’intreccio tra storia intima e vicende con la maiuscola, già tracciata da Natalia Levi-Ginzburg che raccontava di fascisti e antifascisti visti dal salotto di casa sua, dove approdavano Eugenio Montale, Cesare Pavese, Vittorio Foa. Il suo rapporto con Natalia? «Lessico famigliare senza dubbio aveva una luce speciale. Appena uscito, nel 1963, è stato una rivelazione. Ma non mi identificavo con i Levi. Anzi li ho sempre un po' invidiati. Padre, madre, fratelli appartenevano a un contesto più intellettuale di quello in cui io sono vissuta. Di Natalia ammiravo l’estremo pudore, l’ironia, il riserbo con cui scriveva e affrontava la tragedia dell’uccisione di suo marito, Leone, per mano dei nazifascisti a via Tasso. E la scrittura semplice, quasi elementare». L’amicizia? «Successiva. Ero andata appositamente a Milano per incontrarla alla presentazione del Lessico. Una sorpresa l’aspetto severo e volutamente dimesso, con cappottino grigio e scarpotte tonde e basse, la disattenzione verso qualsiasi tipo di ricercatezza femminile. Le portai La bicicletta, non le piacque in un primo momento, poi cambiò idea». Bombe, biondi tedeschi sanguinanti, pareti crollate in questa Prima mano: sotto le incursioni della Raf nel rifugio di Viale di Villa Grazioli c’era qualche libro a farle compagnia? «No, solo la paura. In generale fin da piccola sono sempre stata una grande lettrice. Colpita dalla perdita dell’udito a un orecchio in seguito a una parotite, ero solitaria e piuttosto appartata. Era difficile, anzi impossibile dire a un ragazzino “scusa, parla più forte, non ci sento”. Per consolarmi mi rifugiavo tra i volumi che leggevo una decina di volte, come la favola di Perrault dedicata a Barbablù. Non per mia volontà ma perché negli scaffali non c’era molto altro. C’era, per esempio, Paul Bourget, amato da mia madre ma non adatto a noi ragazzi, o le interpretazioni della Rivoluzione francese e le biografie di Napoleone predilette da mio padre. Così, dopo la collana Scala d'oro che annoverava racconti di tutti i tipi, da Victor Hugo a Charles Dickens, è stato il momento di Delly e delle novelle per giovinette». A Mirabello, la mitica campagna? «Macché, la mia vita girava al contrario. A Roma io e i miei fratelli seguivamo un tabellino di marcia con orari molto rigidi. A Mirabello si potevano compiere lunghi tragitti in bici, stare all'aria aperta, correre nei campi. Qualcosa di molto diverso è accaduto dopo l’incontro con Giuseppe Loy, fratello del regista Nanni, e mio futuro marito». Cosa? «Giuseppe era laureato in legge e, per mantenersi, faceva il venditore rateale einaudiano. Il mio partner, destinato a scomparire assai giovane (a soli 53 anni), portò a casa mia una ventata di modernità: mi consigliava La casa dei doganieri oppure Ungaretti e Quasimodo. Su suggestione di mio padre, oltre Pascoli e Carducci non si andava. Era un uomo dell’800 con un grande senso dello Stato e anche del Piemonte. Tutto ciò che era piemontese era eccelso, tutto il resto un po’ meno. Sempre in competizione anche con Milano. Nessuno poi poteva tentare l’avventura della narrativa se non esibiva il talento di Alessandro Manzoni. E se eri di sesso femminile ... beh, le donne dovevano stare in casa a gestire il ménage. Tra una culla e un biberon, essendo una madre un po’ insofferente ..., con una mano facevo dondolare il passeggino di Benedetta e con l’altra tenevo in bilico il Dottor Zivago, Guerra e pace, Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, Gli occhiali d'oro di Giorgio Bassani e così via. Scrivevo per me e facevo lavoro di traduzione. Ero molto interessata alla storia. Mi ero imbattuta nel Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, sulle sue orme ero pronta a ripercorrere l’odissea militare in Russia durante la Seconda guerra mondiale. Impresa ardua. E’ uno dei due inediti che ho nel cassetto. Successivamente mi si è spalancato il tunnel di una terribile depressione da cui mi hanno aiutato a uscire le cure mediche». Momenti di full immersion nella lettura? «Tanti. In particolare quelli trascorsi nella mia vita in comune con Cesare Garboli. Discussioni intellettuali in cui però non me la sentivo di fronteggiarlo. Era una personalità sorprendente, capace di furie spaventose che mi annichilivano, di grandi litigate - ne ricordo una con il critico Alfonso Berardinelli - e di riappacificazioni. Anche se Cesare non era proprio il tipo che andava facilmente a Canossa. Aveva un lato infantile, giocoso, che non nascondeva. Dipingendo per esempio la casa di Vado, vicino a Camaiore, diceva che ricreava gli stessi colori della cattedrale di Chartres e poco mancava che lui stesso ci credesse ...». Libri condivisi? «Da Alain Fournier a François-René Chateaubriand di cui si parlava a Parigi, camminando sotto il sole o la pioggia, sempre e comunque rigorosamente a piedi; a Nietzsche riscoperto in Engadina, a Sils Marie, sui sentieri già calpestati a suo tempo dal filosofo. Garboli era un grande comunicatore diretto e senza filtri. Un critico che, per esempio, poteva presentare un libro per farne una stroncatura in pubblico (è capitato con la Letteratura italiana in tre volumi diretta da Enzo Siciliano). Sandro d’Urso, commentandone l’immediatezza, diceva: “Non ha avuto un’educazione”. E si riferiva alla singolare formazione di Cesare tra le grandi disponibilità economiche del padre, facoltoso industriale, e le abitudini materne, una ragazza di un piccolo paese abruzzese che nella sua semplicità e spontaneità non gli aveva trasmesso il senso della mediazione». Altri personaggi che con lei hanno condiviso un mondo di libri? «Giulio Einaudi. L’immagine più forte che ho di lui è il nostro primo incontro. Stavo entrando in casa editrice in procinto di pubblicare La bicicletta e lo trovai seduto nella portineria. Era un uomo piuttosto attraente, fascinoso, e se ne stava lì, aspettando la macchina che doveva venirlo a prendere. Non so. Mi ha colpito. Dal primo momento all’ultimo: ci siamo visti poco prima della sua morte nell’appartamento romano dietro piazza Argentina per nulla sfarzoso né lussuoso. Il suo arredo? Volumi e ancora volumi. Che raccontavano di una vita dedicata ai libri»." (da Mirella Serri, Sa di polvere il mio lessico famigliare, "TuttoLibri", "La Stampa", 16/05/'09))

domenica 17 maggio 2009

La vera storia del Piccolo Principe di Alain Vircondelet


"André Gide scrisse nella prefazione a Volo di notte che il libro di Antoine de Saint-Exupéry gli aveva insegnato che la felicità dell'uomo non è nella libertà ma nell'accettazione di un dovere. Era il 1931. Fino a quell'anno e per molto tempo ancora per l'aviatore-scrittore il dovere ha un volto bifronte ma preciso: volare, per dimostrare l'ethos umano basato sul coraggio e sull'azione, e scrivere, per testimoniare quell'ethos. Ma quando si rifugiò a New York alla fine del 1940, anche sul dovere le sue idee erano confuse. Smobilitato dall'esercito dopo l'armistizio se n'era andato dalla Francia, ma tra gli emigrés di oltreoceano non si sentiva a suo agio. [...] E' questo funesto giro di anni americani il periodo che ricostruisce Alain Vircondelet in un libro che ha coraggiosamente intitolato La vera storia del Piccolo Principe (Piemme), sfidando la sterminata bibliografia di Saint-Exupéry e dell'incantato racconto che ha venduto in tutto il mondo e in tutte le lingue ottanta milioni di copie. Vircondelet è dalla parte di Consuelo, la moglie un po' imbarazzante che secondo la perfida e brillante Louise de Vilmorin, prima fidanzata di Antoine, era rimasta con lui solo perché non era mai riuscito a sbarazzarsene e che fu emarginata nel mito postumo di Saint-Exupéry. Invece secondo il biografo che ha a lungo lavorato sul materiale inedito del periodo newyorkese, la signora Saint-Exupéry è la vera ispiratrice della figura della Rosa nel Piccolo Principe (lei stessa lo sosterrà in un racconto autobiografico intitolato Memorie della Rosa che sarà pubblicato in Francia nel 2000, ventun anni dopo la sua morte), il fragile e commovente fiore che il misterioso bambino caduto nel deserto dal suo asteroide non può dimenticare e a cui ritornerà. Nutrito dei ricordi e delle emozioni di Antoine, per Vircondelet, insomma, Il Piccolo Principe è un'autobiografia mascherata. Del resto, Saint-Exupéry non era uno scrittore che inventava: lui raccontava ciò che aveva vissuto. E anche se sognava la 'douce France' e inneggiava alla ricomposizione della patria lontana, non fece mai mistero, anzi lo dichiarò esplicitamente nelle appassionate lettere alla madre, che per lui l'unica vera patria, anzi l'unico vero paradiso era l'infanzia, l'infanzia che, parola di Stendhal, è interminabile." (da Elisabetta Rasy, 'Petit prince' autobiografico, "Il Sole 24 Ore Domenica", 17/05/'09)

Tienanmen, un mistero lungo 20 anni


"I carri armati non fanno più rumore. Sono passati, so­no lontani. La Tienanmen è silenzio­sa. Il caos insanguinato di vent’anni fa non si sente più. Sparito dall’oriz­zonte della Cina: le nuove generazio­ni non sanno o quasi, solo pochissi­mi coltivano apertamente la memo­ria ed è più facile farlo all’estero. «Di allora — ha ricordato sui giorna­li Wuer Kaixi, uno dei leader studen­teschi — mi addolora la sorte delle vittime. Noi capi siamo sopravvissu­ti, loro no. Ma la colpa è solo del re­gime».
Ciascuno dei superstiti ha vissuto una Tienanmen diversa. Durante le proteste emersero divergenze fra le anime della piazza, poi ci sono state liti tra reduci. Ma «le differenze di opinione su come andarono le cose non dovrebbero intaccare la grande nobiltà di quant’è successo» ha com­mentato Ma Jian, che l’anno scorso ha condensato il suo ’89 in un ro­manzo visionario, Beijing Coma, presto in uscita in Italia (Feltrinelli). Anche allora ci furono tante Tie­nanmen. La protesta prese corpo tra il 15 e il 22 aprile, morte e funerale dell’ex segretario riformista del Par­tito comunista Hu Yaobang. Le in­quietudini per le disuguaglianze tra beneficiari ed esclusi delle aperture economiche, le richieste di democra­zia, l’insofferenza per la corruzione, l’inflazione agitavano la società cine­se da almeno tre anni ed è anche per questo che nell’87 Hu Yaobang era stato rimosso da Deng Xiaoping. «Fu la prima volta — spiega da Hong Kong il sinologo Jean-Philip­pe Béja — che un movimento così coinvolse centinaia di città. Proprio su quanto accadde nelle province, sulla lotta nel Partito, sui rapporti fra i segretari regionali e Pechino si deve ancora indagare».
Molte cose accaddero dal 15 apri­le fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno. Il bilancio è ancora controverso, cen­tinaia di morti (secondo alcuni an­che migliaia), più la repressione suc­cessiva. Tentativi di dialogo, la mo­bilitazione della popolazione (non solo studenti, ma anche intellettua­li, operai, comuni cittadini), lo scio­pero della fame, la legge marziale. E, nelle stanze del potere, la divarica­zione fra i falchi, come il premier Li Peng che ottenne l’appoggio di Deng, e i fautori della linea morbi­da, come il segretario del Pcc, Zhao Ziyang, che venne esautorato e poi messo ai domiciliari fino alla morte (2005).
Molte cose accaddero, appunto. E la Tienanmen non fu uguale per tut­ti, anche dopo. Shao Jiang, più volte incarcerato, ha ammesso: «Come molti studenti, non fui picchiato con la ferocia riservata ai lavoratori. Loro soffrirono il peggio». Trascorsi 14 anni di carcere e 5 di libertà con­dizionata, Zhang Yansheng, uno di loro, ha potuto parlare: «Gli studen­ti non hanno patito gravi conse­guenze, tornarono nelle aule, li rie­ducarono lì. Noi operai fummo puni­ti duramente, come monito per lo­ro». È la voce di un’emarginazione in­nominabile. Secondo la Fondazione Dui Hua nelle carceri cinesi riman­gono una trentina di persone con­dannate per i fatti dell’89, un anno fa il Dipartimento di Stato america­no diceva tra 50 e 200: chi ne è usci­to porta con sé un corpo devastato e un passato di cui non si può parlare. Quando negli anni Novanta l’ex stu­dentessa Diane Wei Liang, diventata docente negli Usa, venne invitata in Cina per un corso di business admi­nistration, provò a parlare della Tie­nanmen ai suoi allievi: «Non era nei libri. Chi ne sapeva qualcosa cono­sceva solo la versione del regime. Agli altri non importava. Pensavano solo a far soldi». Bollati come controrivoluzionari, studenti e lavoratori del movimen­to proclamavano invece che «il pa­triottismo non è un crimine» e can­tavano l’Internazionale. Il mutismo delle autorità di Pechi­no sembra destinato a non incrinar­si neppure con la pubblicazione, in questi giorni, delle memorie di Zhao Zhiyang, un atto d’accusa ai vertici, una vendetta postuma. Un si­lenzio non privo di imbarazzi, come in una lettera al giornale di Hong Kong Ming Bao ha sottolineato Wang Dan, forse il più carismatico dei leader studenteschi, ora a Oxford: coloro che sostengono che la repressione militare fu la «giusta decisione» tacciono, anzi «non solo non è permesso criticarla, ma è an­che vietato elogiare il governo. Ra­gionate: se i leader pensano sul se­rio di aver ragione, perché evitano di affrontare l’argomento? Solo gli insicuri scansano i problemi ...». Molte carriere politiche sono den­se di omissis. Il premier Wen Jiabao, uno dei più riformisti di oggi, com­parve accanto a Zhao che implorava gli studenti di lasciare la piazza. Un’espressione impietrita, quasi a dire: che ci faccio qui? «È stato mol­to abile a far dimenticare quella fo­to, Wen» dice Béja. Guidava lo staff del segretario generale del Partito, cioè Zhao, ed era lì in quel ruolo. Un funzionario, leale all’incarico più che alla persona del capo: «Non fece parte del gruppo che decise la legge marziale ma Wen per ricomparire avrà dovuto fare autocritica e si sarà difeso dicendo che aveva eseguito gli ordini. Non ha convinzioni politi­che forti e infatti non ha incarnato alcun new deal».
Vent’anni dopo si lambisce il para­dosso di constatare che certe riven­dicazioni della piazza sembrano sod­disfatte. «Non la richiesta di demo­crazia, però. Anzi, il sistema e la ri­flessione sulle riforme sono più che mai bloccati» avverte Béja. Wang Xiaodong, ricercatore presso un cen­tro di pedagogia che dipende dalla Lega della gioventù comunista, ha curato il recente bestseller «naziona­lista» La Cina è infelice (Unhappy China) e non può essere sospettato di avversione al si­stema: «Sì, il governo non ama che le gente parli dell’89. Ma in questi anni — dice al Corriere — la vita è migliorata, la libertà politica aumen­tata. Una parte delle richieste fatte dagli studenti di 20 anni fa sono sta­te realizzate, anche se certamente ci sono anche quelle non realizzate. Quindi forse i giovani non sentono l’importanza di quell’evento. Che il governo ne parli o no, non dipende dalla sua forza. Se ne discuterà se la società cinese sarà migliore, più tranquilla e parlare del 4 giugno non provocherà turbolenze. Franca­mente neanche adesso causerebbe disordini parlarne. Ma forse il gover­no ha altro a cui pensare»." (da M.D.C., Tienanmen, un mistero lungo 20 anni, "Corriere della Sera", 17/05/'09)

Tutte le e-mail di Amadeus


"Mozartiani di tutto il mondo segnatevi un adata: 1 giugno 2009. Quello sarà per voi un girono magico. Perché dal vostro computer potrete avere accesso a tutte le lettere di Mozart. Da aprire dal palmare, dal telefonino, in viaggio su un'isola deserta, liberamente, ovunque arrivi la copertura della rete: chiare, gustose, facili da raggiungere, click. E nella lingua originale oppure tradotte in inglese, francese e - udite, udite, non lo crederete mai - persino in italiano, lingua che Mozart amava e padroneggiava con estro fin da bambino. Mai fino ad ora si erano date, in integrale, nel nostro idioma: sono 1400. Datano Settecento, ma sembrano scritte ieri. Anzi, domani: perché Mozart ci parla sempre al presente, da vicino. Matto, istrionico, imprevedibile, spietato, burlone. Con un gusto malandrino nella cronaca, le osservazioni piccanti da eterno manigoldo, i dettagli rivelatori. E con una vena di malinconia sottesa alla velocità, a quella che lui chiama, ancora bambino, in una delle sue primissime lettere, 'scrittura selvaggia', che ce lo rende caro come un amico prezioso. Cuore a cuore. Esattamente come la sua musica. Le lettere sono per lo più di viaggio, di lui che in 35 anni di vita viaggiò per 3720 giorni, attraverso 204 tra paesi e città, in 9 stati diversi. Moderno Mozart, fratello del nostro correre perenne. Con un tempo sempre che manca, per cui le missive a volte sono cifrate, in codice. Sms. Anche il padre Leopold si firma sul modello essenziale di oggi: 'Mzt'. [...] Il sito è già attivo. Anzi, documenta con dovizia di informazioni la ricca attività di una squadra di dotti e appassionati, distribuiti in Europa, che dal 2006, anniversario dei 250 anni dalla nascita di Mozart, lavorano a indagare le strade in Europa percorse dal musicista. Marta Majno, milanese colta e moderna, colonna della Società del Quartetto, ne è la presidente; Savatore Carrubba regge lo scettro della branca italiana delle 'Vie italiane' di Mozart. I rimandi tra ieri e oggi sono stati fruttuosi. Ma questo dono finale delle lettere on line arriva con sorpresa geniale. [...]" (da Carla Moreni, Tutte le e-mail di Amadeus, "Il Sole 24 Ore Domenica", 17/05/'09)

sabato 16 maggio 2009

Manguel: "La mia fede nel romanzo"


"E' stato leggendo L'isola del tesoro di Stevenson, a otto o nove anni, che sono stato improvvisamente colpito dal dubbio su chi veramente io fossi. La mia edizione portava un'introduzione intitolata 'Come questo libro è stato scritto', che spiegava come Stevenson, in un pomeriggio piovoso, avesse cominciato a raccontare la storia al suo figliastro disegnando per lui la mappa dell'isola. Un'immagine della mappa era fedelmente riprodotta sul frontespizio. L'isola del tesoro iniziava con una confessione: 'Prendo in mano la penna nell'anno di grazia 17--, e torno indietro al tempo in cui mio padre gestiva la locanda chiamata Admiral Benbow'. La comparsa alla locanda del malvagio Vecchio Lupo di Mare, impaurito da un ignoto 'marinaio con una gamba sola', aveva cominciato a riempirmi di delizioso terrore quando, dopo poco più di venti pagine, mi accorsi che tutto ad un tratto il narratore veniva chiamato 'Jim'. 'Jim': sfogliai nuovamente l'introduzione. Non c'era alcun dubbio. L'autore, leggevo, era qualcuno il cui nome di battesimo era 'Robert Louis'. Eppure qui, sulla pagina stampata, figurava come 'Jim'. Non riuscivo a comprendere come fosse possibile. Il narratore non era la stessa persona il cui nome appariva sulla copertina? Era ovvio che non potessi sbagliarmi, perché 'prendo in mano la penna' era scritto distintamente nel primo paragrafo. L''io' che aveva cominciato a raccontarmi la sua storia, non era quindi Robert Louis, l'autore dichiarato del libro, ma qualcuno chiamato Jim che, apparso dal nulla, aveva misteriosamente usurpato il posto di Robert Louis nel mio libro. La storia era fasulla, dunque? Possibile che l'autore avesse mentito? [...] Il dialogo che uno scrittore stabilisce con il lettore è fatto di artificio e inganno. Per dire la verità, lo scrittore deve mentire in un numero di modi intelligenti e convincenti; lo strumento per farlo è il linguaggio - inaffidabile, manipolato e manipolativo, ufficialmente sacrosanto in quanto pretende di dire quel che il dizionario afferma che dice, ma in pratica soggettivo e circostanziale. La voce narrativa è sempre una finzione dietro cui il lettore assume (o gli si chiede di assumere) una verità. L'autore, il personaggio guida, appare al lettore dal nulla, quasi ma non del tutto una creatura in carne e ossa, resa presente dalle sue stesse parole, come la voce beckettiana che parla a Mosè dal roveto ardente, dicendo: 'Io sono colui che sono'. Questa è l'identità assoluta, divina, autodefinita, circolare che ogni scrittore si garantisce con la prima persona singolare. Un'identità a cui i lettori sono chiamati a rispondere: 'Se noi, spesso attraverso i chilometri e i secoli, possiamo sentire la voce che dice 'Io' sulla pagina, allora 'Io' deve esistere e 'Noi' dobbiamo credere ad essa'. Dire 'Io' significa mettere davanti al lettore la prova apparentemente irrefutabile di uno speaker le cui parole possono dire la verità o mentire, ma la cui presenza, attestata dalla sua voce, non deve essere messa in dubbio. Dire 'Io' significa disegnare un cerchio in cui scrittore e lettore condividono un'esistenza comune all'interno dei margini della pagina, dove realtà e irrealtà si cancellano a vicenda, dove le parole e ciò che esse indicano a vicenda si contaminano. Se questo è il caso, e s ei personaggi che incontriamo lungo la strada di Dante dalla foresta oscura all'Empireo hanno la qualità dei sogni, cosa dire allora degli altri, di cui l'evidenza dei nostri sensi ci dice che sono vivi: noi, i lettori costanti? 'Ti racconterò una storia' dice Dante, e in quella affermazione preliminare sia lui che il suo pubblico sono intrappolati fino a che l'ultima parola sia detta - e anche oltre. 'Tu, lettore, esisti', dice il poeta, 'come testimone e destinatario del mio libro, e quindi io, dimostrato da te stesso, poiché tu vedi e ascolti le mie parole, devo esistere a mia volta. E inoltre, tu puoi testimoniare per le creature della mia storia, i personaggi della mia trama, poiché essi occupano lo stesso spazio linguistico mio e tuo. Almeo all'interno del circolo della nostra relazione, delimitata dalle parole, dobbiamo credere l'uno nell'altro e nella reciproca onestà, sapendo che la finzione che ci lega contiene anche la verità. All'intero di quel circolo, puoi tu, lettore, decidere in termini assoluti che io esisto ma il Minotauro no? Che Beatrice e s. Bernardo e Virgilio e Gianni Schicchi sono reali perché la storia ci dice che un tempo hanno vissuto, ma che l'Angelo di guardia al Passo del Perdono non esiste se non nella fede, e che Caronte non è altro che materiale di storie antiche?'. Dante, come ogni poeta, ripete le parole dell'Unicorno ad Alice attraverso lo specchio: 'Se tu crederai a me, io crederò a te. D'accordo?'. Sette secoli di lettori hanno volontariamnete aderito a questo accordo mefistofelico. Ma la fede letteraria non è mai assoluta: essa esiste fra lo scetticismo che impedisce il godimento dell'immaginazione, e la follia che nega la realtà del mondo tangibile." (da Alberto Manguel, La mia fede nel romanzo, "La Repubblica", 16/05/'09; dalla lectio magistralis che Manguel terrà domenica 17 maggio alle 17 nella Sala azzurra del Lingotto)

venerdì 15 maggio 2009

Il falso mito del talento naturale


"La gente nutre ancora idee romanti­che a proposito del genio: crede che sia il prodotto di una scintilla divina. Molti sono convinti che nel corso dei secoli siano esistiti cam­pioni di eccellenza — come Dante, Mozart, Einstein — il cui talento andava ben al di là dell’umana comprensione e sfiorava addirittu­ra la verità suprema. Fortunatamente noi vivia­mo nell’era della scienza e la ricerca moderna sa sfatare i falsi miti. Ai nostri giorni, predomina l’opinione che persino le speciali e precoci doti di un Mozart non fossero affatto conseguenza di qualche dono spirituale innato. Le sue prime composi­zioni non presentano meriti particolari, appaiono piuttosto rimaneggiamenti di opere al­trui. Sin dalla più tenera età, Mozart fu un buon musicista, ma in nessun modo si sareb­be distinto dai nostri bimbi prodigio. Quello che contraddistingue Mozart, e questo lo ab­biamo capito oggi, è un tratto in comune con Tiger Woods, ovvero un’ottima capacità di concentrazione e un papà deciso a coltivare il talento del figliolo. Fin da bambino, Mozart si esercitava costantemente al pianoforte e ben presto raggiunse le diecimila ore di pratica, sul­le quali avrebbe costruito in seguito la sua car­riera. Le più recenti indagini suggeriscono una vi­sione del mondo assai più prosaica e democra­tica, se non addirittura puritana. Il fattore chiave che separa il genio dall’eccellenza non è affatto la scintilla divina. E non è nemmeno il quoziente di intelligenza, solitamente un in­dicatore inaffidabile del futuro successo, per­sino in un campo come gli scacchi. Il segreto sta nella pratica, svolta con metodo e convin­zione. Coloro che eccellono, in qualunque campo, trascorrono moltissime ore a esercita­re rigorosamente il loro mestiere. Le ultime ricerche sono state condotte da studiosi come K. Anders Ericsson, lo scomparso Benjamin Bloom e altri, e riassunte in due godibilissimi nuovi libri: The Talent Code di Daniel Coy­le, e Talent Is Overrated di Geoff Colvin.
Se volete capire come si sviluppa un tipico genio, prendete una ragazzina con capacità verbali appena al di sopra della media. Non occorre un grande talento, solo quanto basta per darle un senso di distinzione. Poi fatele conoscere, diciamo, uno scrittore, che di pre­ferenza condivide con lei alcuni dettagli bio­grafici. Forse è nato nella stessa città, ha le me­desime radici etniche oppure lo stesso com­pleanno, qualunque cosa possa creare un sen­so di affinità. Questo contatto potrebbe offri­re alla ragazzina un’idea del suo potenziale fu­turo. Potrebbe farle scorgere, Coyle ci tiene a ribadire, quello spiraglio di un cerchio incan­tato nel quale entrare in futuro. A questo pun­to, se uno dei genitori dovesse per caso venire a mancare verso i suoi dodici anni, una perdita si­mile genererebbe purtroppo un profondo sen­so di insicurezza ma anche una fame dispera­ta di successo. Armata di ambizioni, la ragazzi­na allora leggerebbe romanzi e biografie lette­rarie a non finire, accumulando le conoscen­ze di base del suo settore: da una parte i ro­manzi vittoriani, da un’altra gli esponenti del realismo magico e ancora in un altro scompar­to i poeti rinascimentali. Questa capacità di suddividere le informazioni in campi, o secon­do modelli precisi, affina notevolmente la me­moria. La nostra ragazza saprebbe indagare più a fondo i nuovi testi e afferrarne rapida­mente i meccanismi interni.
Poi si metterebbe a scrivere, una pratica len­ta, laboriosa e spietata. Racconta Colvin che Ben Franklin prendeva i saggi pubblicati nella rivista The Spectator e li metteva in versi. Poi trasformava nuovamente i versi in prosa e stu­diava, frase per frase, tutti i punti in cui il suo saggio gli sembrava inferiore all’originale. Coyle descrive una scuola di tennis in Russia dove le partite si giocano senza pallina. Lo sco­po è quello di concentrarsi meticolosamente sulla tecnica (provate a rallentare il vostro swing di golf per eseguirlo in novanta secondi, e contate gli errori!). Nell’esercitarsi a questo modo, si rallenta il processo di automatizza­zione. La mente cerca sempre di trasformare abilità apprese consapevolmente di recente in azioni inconsapevoli e automatiche. Ma la mente è facilona, e si accontenta presto. Nel fare pratica lentamente, scomponendo i gesti in piccole parti e ripetendoli all’infinito, lo stu­dente assiduo costringe il cervello a interioriz­zare un modello superiore di esecuzione.
Torniamo alla nostra scrittrice in erba, che a questo punto si cercherà un maestro capace di esaminare il suo lavoro dall’esterno e di cor­reggere i più piccoli errori, incitandola ad af­frontare sfide sempre più impegnative. Ora la giovane si applica a risolvere alcuni problemi — come riunire tutti i personaggi in una stan­za — provando e riprovando decine di volte, e così facendo rafforza abitudini mentali alle quali potrà attingere per capire e superare fu­turi ostacoli. La caratteristica fondamentale della nostra ragazza non è una qualche miste­riosa forma di genio, bensì la capacità di svi­luppare procedure di esercitazione consape­voli, inflessibili e ripetitive. Coyle e Colvin de­scrivono decine di esperimenti a conferma di questo processo. La ricerca spoglia i grandi successi del loro alone di magia ma ribadisce un fatto che è spesso trascurato: il dibattito pubblico oggi è dominato dalla genetica e da ciò che saremmo «programmati» a fare, ed è vero che il nostro patrimonio genetico gesti­sce le nostre potenzialità. Ma non dimenti­chiamo che il cervello è anche straordinaria­mente plastico. Noi ci costruiamo attraverso il comportamento. Nelle parole di Coyle, non conta chi siamo, ma quello che facciamo." (da David Brooks, Il falso mito del talento naturale. Il genio nasce dall’allenamento. Anche Mozart ha dovuto studiare, "Corriere del Sera", 14/05/'09)

mercoledì 13 maggio 2009

Siamo sulla strada o stiamo per finirci


"«Io, gli altri». Non so voi, ma io, gli altri li incontro innanzitutto per strada. E non è detto che ci si parli. Anzi. Tra noi infatti c'è quella virgola. Ed è una barriera architettonica più che sufficiente. Utilissima, in quest'epoca esibizionista fondata sull'Ego. Gli altri? E che vogliono? Che c'entrano con me? Io sono io. Gli altri, che si arrangino. Non è forse questo il principio-guida del liberismo? Tra le conseguenze, non solo il crollo di Wall Street. Per dire: anni fa, in seguito a grandi piogge, Torino rimase isolata dal resto del Paese per la prima volta nella storia. In certi quartieri vennero a mancare luce ed acqua. E in un supermercato della Crocetta, posto sciccosissimo, vidi due dame griffate e senza dubbio istruite venire alle mani per l'ultima confezione da sei di minerale. Scena promettente, per il futuro. Comunque: se si digita la parola «strada» sul sito di Ibs, la libreria italiana on-line per definizione, non compare subito Sulla strada di Kerouac, ma salta fuori nientepopodimenoche il Nuovo codice della strada e regolamenti, con tanto di «guide dottrinali, giurisprudenza, tabelle e formule». E infatti di cosa avremmo bisogno, se non di un nuovo codice con tutti gli annessi? Ma di nuovi codici non c'è traccia. Quanto a quello vecchio, non sono in molti a ricordarselo. Più o meno, diceva: non ci alza da tavola finché tutti non hanno finito di mangiare. Ecco. In Questo non è un paese per vecchi, il libro, non il film, di Cormac McCarthy, il vecchio sceriffo ricorda a un tratto di essersi imbattuto una volta nei registri polverosi di una scuola texana, risalenti agli Anni Sessanta. E di avere scoperto come all'epoca, da parte degli insegnanti, la maggior preoccupazione dal punto di vista della condotta fosse che gli allievi avevano l'abitudine di attaccare la gomma da masticare sotto i banchi. Sono passati appena quarant'anni, riflette lo sceriffo, e oggi all'ingresso delle nostre scuole ci sono i metal detector. Deve essere successo qualcosa, si dice l'uomo con a stella di latta appuntata sul petto. Già, deve essere successo qualcosa. Solo che spesso non sappiamo dire esattamente cosa: strada facendo, ce lo siamo dimenticato. Certo di mezzo c'è stato tra le altre cose il Sessantotto. Ma il discorso sarebbe lungo e le probabilità di urtare la suscettibilità dei numerosi reduci, sempre in prima linea a rivendicare le rispettive imprese in quell'anno formidabile, elevatissime. E se per sbaglio uno cita L'elogio della disciplina di Bernhard Bueb, col fatto che l'autore è tedesco si becca automaticamente del «nazista». Perciò amen. Sta di fatto che «io, gli altri» come si diceva li incontro innanzitutto per strada. E difatti è per strada che di norma si finisce accoltellati, specie tra adolescenti, a Roma come a Londra. Niente di nuovo sotto il sole, per carità: gli storici stornelli della mala capitolina cantati a Regina Coeli e dintorni pullulano di lame. Ma colpisce oggi la frequenza con cui nelle pagine di cronaca ci si imbatte in «bravi ragazzi» di «buona famiglia», scritto per giunta senza ironia. Sarà tutta colpa del gangsta-rape dei videogiochi? O c'entra per caso anche il fatto che noi adulti abbiamo da tempo rinunciato a comportarci da genitori? (Troppo faticoso: si sa, meglio farseli «amici», i pupi). Ecco, le dame che s'accapigliano per l'acqua minerale e i bravi ragazzi che si accoltellano per una parola di troppo paiono nulla rispetto a tanti altri episodi di degrado, dal caso Parmalat all'ultimo stupro «del branco» passando per torture in nome e per conto della Democrazia e quant'altro. E però fanno parte dello stesso trend. A proposito di trend: quello attuale com'è noto, tra le varie crisi economica ed ecologica ed energetica e la new entry messicana, è alquanto negativo, anche se non è bello dirlo perché bisogna sempre mostrarsi ottimisti. Tanto che a Hollywood non sanno bene che fare con il film tratto da La strada, altro romanzo di McCarthy, perché troppo duro, senza speranza. E pensare che nel libro la speranza c'è, ed è davvero un miracolo, a quel punto della storia. Ora, di romanzi e racconti che hanno a che fare con la strada ce n'è a bizzeffe. Tra i miei amati, Vecchio al ponte di Hemingway, ritratto della disperazione dei profughi di ogni guerra. Ma se c'è un romanzo che mi ha ossessionato, tra quelli usciti negli ultimi anni, è proprio La strada. Che qualcuno per pigrizia ha scambiato per fantascienza, mentre è innanzitutto una profezia (McCarthy come Cassandra, le dame dell'acqua minerale e i bravi ragazzi coi coltelli precoci interpreti di un futuro fatto di disastri e cannibalismo: vedi l'ultimo rapporto di Nature, secondo cui ci restano appena vent'anni per cercare di evitare la catastrofe ambientale; però tutti a ironizzare per ignoranza e/o scaramanzia sui 99 mesi ipotizzati da Carlo d'Inghilterra), o se va bene una metafora di questo nostro bel presente. Insomma: o siamo già sulla strada, oppure siamo diretti proprio lì. Io, gli altri. Com'è che diceva quel tale? Homo homini lupus. Qualcuno per caso ha in mente una strada diversa?" (da Giuseppe Culicchia, Siamo sulla strada o stiamo per finirci, "TuttoLibri", "La Stampa", 09/05/'09)

martedì 12 maggio 2009

Quei fanciulli liberi e selvaggi contro gli adulti


"Nella storia della letteratura per l’infanzia e soprattutto nei libri che in questo ambito sono universalmente considerati i classici, domina quasi sempre un Io che può avere caratteristiche addirittura sensazionali. Pietro Citati notò che Jim, nell’Isola del tesoro, è dovunque, vede tutto, fa muovere, da solo e interamente, la macchina del romanzo. Non diversamente, il Remigio di Senza famiglia, morto Vitali, il suo compagno di viaggio, si sente libero, avverte la bellezza del rapporto tra sé e le strade di Francia dove è quasi sempre solo. Anche Il fanciullo rapito di Stevenson non vorrebbe tornare alla civiltà e si duole, alla fine del romanzo, di essere di nuovo un cittadino, non più un solitario Robinson tra le maree, i tramonti, le spiagge vuote. Fernando Tempesti, il compianto, massimo studioso di Pinocchio, accostò il burattino alla maschera di Stenterello perché entrambi si valgono del soliloquio e dialogano solo quando non possono proprio evitare di farlo. Gli Altri sono clamorosamente strumentalizzati in una pagina in cui Mark Twain mostra Tom che si fa pagare dai suoi amici per concedere loro il mediocre privilegio di imbiancare uno stecconato. Giannino Stoppani è solo contro l’universo adulto e non manca mai di deriderlo, di punirlo, di umiliarlo, soprattutto mettendone in evidenza la vacuità, l’ipocrisia, la falsità. L’alterità di Pel di Carota lo colloca sempre ai margini di un ambiente che non può assolutamente capirlo perché lui è il filosofo della solitudine, cerca solo il dialogo con se stesso, scruta solo nel proprio animo. Davvero tristissimo è il congedo del Piccolo Principe dal suo Pilota: il misterioso bambino biondo ha del resto fornito una galleria terrificante di adulti non molto diversi da quelli che avviliscono l’esistenza di Gian Burrasca. Se Jo ha tre meravigliose sorelle e ben quattro libri per frequentarle e per amarle, è pur vero che il suo autentico regno è la soffitta, e del resto la sorellina prediletta dice che Jo è libera e sola come un gabbiano. Si può e si deve riflettere su questa tipicità della condizione infantile entro i grandi classici dedicati ai bambini, essa sembra derivare soprattutto da quella che fu definita la «scoperta dell’infanzia», uno degli eventi con cui inizia davvero la Modernità. Mentre vengono scoperti, appunto, davvero guardati, osservati, analizzati, resi con accurata credibilità, i bambini sembrano tutti parenti di quel «ragazzo selvaggio» dell’Aveyron che il professor Itard scruta davvero, senza usare la vecchia ermeneutica che li considerava adulti rimpiccioliti e difettosi. Poi, come in uno splendido mandala pedagogico, il massimo poeta dell’infanzia novecentesca, François Truffaut, nel suo film Il ragazzo selvaggio, assegna a se stesso il ruolo del professor Itard. E il suo Antoine Doinel, portato nel cellulare dalla polizia, contempla la sua Parigi con lo stesso sguardo che appartenne al suo coetaneo Gavroche nei Miserabili di Hugo. Si comincia a vederli davvero, ma non in gruppo, non in rapporto con gli altri, non entro quelle provvisorie congreghe di ladri piccoli che appaiono in Malot e in Dickens: i due autori denunciavano la formazione di gruppi scellerati, l’Altro, per Oliver e per Remigio, è uno da borseggiare. Tanto il nazismo quanto il fascismo e il comunismo ebbero piena coscienza del pericolo derivato dall’esaltazione dell’individualità nella letteratura per l’infanzia: la Hitlerjugend, i Balilla e i Pionieri furono la risposta imponente proprio alle raffigurazioni dei bambini soli. I più celebri, fra i nostri «Libri di Stato per le elementari», ovvero Il balilla Vittorio e il Quartiere Corridoni sono libri corali, così come è collettivo e avverso nei confronti delle solitudini il Cuore: ma De Amicis era già socialista quando lo scrisse. Si deve, per altro, segnalare un curioso accadimento nella storia della letteratura per l’infanzia: la «Biblioteca dei miei ragazzi» di Salani, tanto amata da Umberto Eco, apprezza i gruppi e mostra sentitamente l’Io in rapporto con gli altri. Derivata dai volumi pubblicati prima a puntate, poi con belle rilegature, da "La semaine de Suzette", i libri di Salani mostrano molto spesso gruppi di ragazzi e di bambine, con una raffigurazione molto attenta a rendere proprio unicamente il rapporto tra sé e gli altri, fino a non concedere spazio a talenti solitari. Un autore, fra gli altri, André Bruyère, offriva solo storie di liete «tribù» di bambini e bambine: La tribù dei conigli selvatici, La squadra dei sei, Verdi contro azzurri, Il tesoro meraviglioso, sono piccoli capolavori del vivere insieme, del realizzare sé in rapporto agli altri. "La semaine de Suzette" era chiaramente orientata in senso politico, era un settimanale cattolico liberale per bambine: un enigma pedagogico su cui riflettere." (da Antonio Faeti, Quei fanciulli liberi e selvaggi contro gli adulti, "TuttoLibri", "La Stampa", 09/05/'09)