Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
domenica 17 maggio 2009
Tienanmen, un mistero lungo 20 anni
"I carri armati non fanno più rumore. Sono passati, sono lontani. La Tienanmen è silenziosa. Il caos insanguinato di vent’anni fa non si sente più. Sparito dall’orizzonte della Cina: le nuove generazioni non sanno o quasi, solo pochissimi coltivano apertamente la memoria ed è più facile farlo all’estero. «Di allora — ha ricordato sui giornali Wuer Kaixi, uno dei leader studenteschi — mi addolora la sorte delle vittime. Noi capi siamo sopravvissuti, loro no. Ma la colpa è solo del regime».
Ciascuno dei superstiti ha vissuto una Tienanmen diversa. Durante le proteste emersero divergenze fra le anime della piazza, poi ci sono state liti tra reduci. Ma «le differenze di opinione su come andarono le cose non dovrebbero intaccare la grande nobiltà di quant’è successo» ha commentato Ma Jian, che l’anno scorso ha condensato il suo ’89 in un romanzo visionario, Beijing Coma, presto in uscita in Italia (Feltrinelli). Anche allora ci furono tante Tienanmen. La protesta prese corpo tra il 15 e il 22 aprile, morte e funerale dell’ex segretario riformista del Partito comunista Hu Yaobang. Le inquietudini per le disuguaglianze tra beneficiari ed esclusi delle aperture economiche, le richieste di democrazia, l’insofferenza per la corruzione, l’inflazione agitavano la società cinese da almeno tre anni ed è anche per questo che nell’87 Hu Yaobang era stato rimosso da Deng Xiaoping. «Fu la prima volta — spiega da Hong Kong il sinologo Jean-Philippe Béja — che un movimento così coinvolse centinaia di città. Proprio su quanto accadde nelle province, sulla lotta nel Partito, sui rapporti fra i segretari regionali e Pechino si deve ancora indagare».
Molte cose accaddero dal 15 aprile fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno. Il bilancio è ancora controverso, centinaia di morti (secondo alcuni anche migliaia), più la repressione successiva. Tentativi di dialogo, la mobilitazione della popolazione (non solo studenti, ma anche intellettuali, operai, comuni cittadini), lo sciopero della fame, la legge marziale. E, nelle stanze del potere, la divaricazione fra i falchi, come il premier Li Peng che ottenne l’appoggio di Deng, e i fautori della linea morbida, come il segretario del Pcc, Zhao Ziyang, che venne esautorato e poi messo ai domiciliari fino alla morte (2005).
Molte cose accaddero, appunto. E la Tienanmen non fu uguale per tutti, anche dopo. Shao Jiang, più volte incarcerato, ha ammesso: «Come molti studenti, non fui picchiato con la ferocia riservata ai lavoratori. Loro soffrirono il peggio». Trascorsi 14 anni di carcere e 5 di libertà condizionata, Zhang Yansheng, uno di loro, ha potuto parlare: «Gli studenti non hanno patito gravi conseguenze, tornarono nelle aule, li rieducarono lì. Noi operai fummo puniti duramente, come monito per loro». È la voce di un’emarginazione innominabile. Secondo la Fondazione Dui Hua nelle carceri cinesi rimangono una trentina di persone condannate per i fatti dell’89, un anno fa il Dipartimento di Stato americano diceva tra 50 e 200: chi ne è uscito porta con sé un corpo devastato e un passato di cui non si può parlare. Quando negli anni Novanta l’ex studentessa Diane Wei Liang, diventata docente negli Usa, venne invitata in Cina per un corso di business administration, provò a parlare della Tienanmen ai suoi allievi: «Non era nei libri. Chi ne sapeva qualcosa conosceva solo la versione del regime. Agli altri non importava. Pensavano solo a far soldi». Bollati come controrivoluzionari, studenti e lavoratori del movimento proclamavano invece che «il patriottismo non è un crimine» e cantavano l’Internazionale. Il mutismo delle autorità di Pechino sembra destinato a non incrinarsi neppure con la pubblicazione, in questi giorni, delle memorie di Zhao Zhiyang, un atto d’accusa ai vertici, una vendetta postuma. Un silenzio non privo di imbarazzi, come in una lettera al giornale di Hong Kong Ming Bao ha sottolineato Wang Dan, forse il più carismatico dei leader studenteschi, ora a Oxford: coloro che sostengono che la repressione militare fu la «giusta decisione» tacciono, anzi «non solo non è permesso criticarla, ma è anche vietato elogiare il governo. Ragionate: se i leader pensano sul serio di aver ragione, perché evitano di affrontare l’argomento? Solo gli insicuri scansano i problemi ...». Molte carriere politiche sono dense di omissis. Il premier Wen Jiabao, uno dei più riformisti di oggi, comparve accanto a Zhao che implorava gli studenti di lasciare la piazza. Un’espressione impietrita, quasi a dire: che ci faccio qui? «È stato molto abile a far dimenticare quella foto, Wen» dice Béja. Guidava lo staff del segretario generale del Partito, cioè Zhao, ed era lì in quel ruolo. Un funzionario, leale all’incarico più che alla persona del capo: «Non fece parte del gruppo che decise la legge marziale ma Wen per ricomparire avrà dovuto fare autocritica e si sarà difeso dicendo che aveva eseguito gli ordini. Non ha convinzioni politiche forti e infatti non ha incarnato alcun new deal».
Vent’anni dopo si lambisce il paradosso di constatare che certe rivendicazioni della piazza sembrano soddisfatte. «Non la richiesta di democrazia, però. Anzi, il sistema e la riflessione sulle riforme sono più che mai bloccati» avverte Béja. Wang Xiaodong, ricercatore presso un centro di pedagogia che dipende dalla Lega della gioventù comunista, ha curato il recente bestseller «nazionalista» La Cina è infelice (Unhappy China) e non può essere sospettato di avversione al sistema: «Sì, il governo non ama che le gente parli dell’89. Ma in questi anni — dice al Corriere — la vita è migliorata, la libertà politica aumentata. Una parte delle richieste fatte dagli studenti di 20 anni fa sono state realizzate, anche se certamente ci sono anche quelle non realizzate. Quindi forse i giovani non sentono l’importanza di quell’evento. Che il governo ne parli o no, non dipende dalla sua forza. Se ne discuterà se la società cinese sarà migliore, più tranquilla e parlare del 4 giugno non provocherà turbolenze. Francamente neanche adesso causerebbe disordini parlarne. Ma forse il governo ha altro a cui pensare»." (da M.D.C., Tienanmen, un mistero lungo 20 anni, "Corriere della Sera", 17/05/'09)
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