mercoledì 31 dicembre 2008

Auguri, mr Salinger. Il silenzio di un grande scrittore


"Salinger vive, conta gli anni come noi? Spegne oggi 90 candeline? E c'è chi gli fa festa? Una cosa è certa: assorda il silenzio volontario, rigoroso, in cui s'è da anni allontanato, esiliandosi da un paese la cui scena letteraria diventava via via più globale, con scrittori smepre più in cerca di successo planetario. J. D. Salinger, al contrario, in nome di un'estetica buddista o zen, si è preoccupato semmai di scomparire, di non lasciare tracce. Non c'è riuscito del tutto, perché rimangono di lui libri esili, ma indimenticabili: primo fra tutti Il giovane Holden, capolavoro minimalista. Lì un adolescente osservava con implacabile severità una società ai cui modelli non si piegava, sì che il giovane eroe non celebrava nessun rito di passaggio, ma piuttosto confermava la propria renitente distanza dal mondo che voleva educarlo. Distanza anche da modelli letterari, come quello di huck Finn, giovane scavezzacollo che pure alla fine compie la prorpia iniziazione. Con Holden Caulfield l'avventura dell'iniziazione - tema caro alla letteratura, in specie americana - si trasforma nell'avventura dell'obiezione di coscienza, non però alla guerra, ma alle forme sociali della vita quotidiana. Nella grande letteratura del secolo passato lo scrittore americano e il suo eroe non sono mai del tutto ignari della società, la quale società è spesso rappresentata come un mostro ostile, una vasta massa che oppone all'io individuale serie minacce, e malevole intenzioni, sì che ogni forma di controllo è vissuta come maligna, ogni forma di autorità come il portato di uno spietato autoritarismo, la cui mossa fondamentale è volta a divorare la libertà dell'individuo. [...] Salinger è un grande scrittore, grande e profetico: anticipa il futuro. La letteratura - che ha sempre questa vocazione, ma non smepre la realizza - con Salinger ci riesce e grazie ai suoi bambini protagonisti - da Franny a Zooey a Teddy - dà figura al crollo lento di un ideale di famiglia che nella sua menzogna politica la società americana non vuole riconoscere; la famiglia come nido d'amore protettivo non esiste più, la famiglia non protegge e non prepara alla vita, è al meglio stupidamente snetimentale come sono i suoi protagonisti adulti, i genitori, quando non siano colpevolemnete indifferenti, o sordi, solo interessati alla performance ordinaria del successo. [...] Ecco, Salinger è questo scrittore di un mondo post-eroico, post-umano. Lo ha rappresentato grazie alla creazione dei suoi protagonisti infanti, quei bambini angelici, tristi, compassionevoli, in fondo 'buoni'. A me piace immaginare il suo silenzio come la sua ultima scrittura. Come il raggiungimento della piena e realizzata verità dell'infanzia, quasi che l'infanzia fosse il regno non dell'assenza, ma dell'implosione della parola. E con tutto il cuore gli auguro buon compleanno, e come regalo gli offro il motto di Descartes: qui bene latuit bene vixit. E' proprio il suo." (da Nadia Fusini, Auguri, mr Salinger. Il silenzio di un grande scrittore, "La Repubblica", 31/12/'08)

Da Istanbul a Kobe, la faglia nel cuore



"Pagine terremotate nascono - non è difficile capire perché - soprattutto dove la terra trema. L’esperienza del sisma - quella che poi troverà forma espressiva nella scrittura o in altre creazioni di un artista - prima di tutto prende in ostaggio, dentro la sua tellurica filigrana, esistenze. Vite simili a tante altre che si trovano repentinamente a fare i conti con il terrore della distruzione e la perdita delle persone amate. In pochi attimi devono prendere atto dell’annullamento di luoghi e dello sgretolamento di mondi che non potranno mai più ricomporsi. Né fuori né dentro le loro quotidianità. Di questa ferita irredimibile, una sorta di faglia che il terremoto scava nel profondo dei sopravvissuti, dà conto lo scrittore giapponese Haruki Murakami - l’autore di opere quali Tokyo Blues, Feltrinelli 1993, poi uscito da Einaudi nel 2006 col titolo originale Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo - nei sei racconti del volume, sempre pubblicato da Einaudi, Tutti i figli di Dio danzano. A far da filo conduttore alle vicende che confluiscono nel libro è il terremoto che colpisce la città di Kobe nel 1995. In quel sisma che provoca quattromila vittime, e lascia senza casa più di trecentomila persone, perdono la vita anche i genitori dello scrittore che, con una lunga rielaborazione del dolore, ambienta le sei storie in un tempo che sembra sospeso tra due apocalissi. Gli eventi si svolgono infatti a trenta giorni dal terremoto di Kobe e un mese prima che si registri l’attacco di una setta - con l’impiego del Sarin, un gas venefico impiegato nella guerra chimica - contro ignari viaggiatori della metropolitana di Tokyo. Pur assai dissimili l’uno dall’altro i tragitti esistenziali dei personaggi di questi racconti di Murakami sono avvolti dallo stesso gelo che, all’indomani della scossa di Kobe, ha collocato le vite dei sopravvissuti sotto un cono d’ombra. Opaco a qualsiasi tepore di sole. Anche Orhan Pamuk - scrittore che viene da un Paese come la Turchia dove la terra trema spesso, provocando disastri severi - non poteva non fare i conti con il disastroso terremoto che nel 1999 colpisce la sua amatissima Istanbul. I morti sono migliaia, decine di migliaia i feriti, incalcolabili le rovine tra le quali si aggira, partecipando ai soccorsi, lo scrittore poi destinato al Nobel. La visione della città messa a nudo dalla macerie - quasi il sisma avesse dato visibilità a tutti i passaggi di civiltà, al transito delle popolazioni che si sono concatenate nei secoli, finendo sepolte, strato dopo strato, dai successi arrivi - è il tema che Pamuk va a svolgere nelle pagine, pubblicate da Einaudi, che confluiscono in Altri colori. Un testo dove la scrittura sembra farsi carico di un intervento riparatore, successivo ai primi soccorsi ma niente affatto irrilevante, contro l’implosione del sisma che capovolge mondi e azzera consolidati modi di vivere. Se questi sono i più recenti faccia a faccia tra scrittori contemporanei di ogni latitudine e i terremoti che hanno colpito la loro terra, anche in passato, a ogni sisma severo che annichilisce città e semina distruzione, corrispondono voci - poetiche o narrative, di impegno civile o di riflessione filosofica - che si fanno strada tra le macerie. La cultura italiana del Novecento, ad esempio, è costituita anche da questo vertiginoso e doloroso passaggio attraverso le rovine sismiche di personaggi, già noti o destinati a diventare tali, che si sono visti sottrarre dal terremoto affetti e sicurezze. E, dopo aver fatto il vuoto attorno a loro, impone loro di ricominciare, di essere quello che, forse, non erano destinati a diventare. È il caso di Benedetto Croce che nel sisma del 1883 di Casamicciola perde i genitori e la sorella. Il terremoto di Messina del 1908 toglie a Salvemini cinque figli e la moglie. Ignazio Silone, nel sisma che colpisce la Marsica nel 1915, sopravvive solo col fratello alla distruzione dell’intera famiglia. Destini, dunque, davvero terremotati. Certo ci sono nella letteratura personaggi - non in carne e ossa ma altrettanto vivi - che solcano macerie sismiche perché lì sono stati mandati dai loro autori. Voltaire, ad esempio, non perde l’occasione di mandare il buon Candide e il suo maestro Pangloss a continuare l’apprendistato attorno al 'migliore dei mondi possibili' nella Lisbona devastata dal terremoto del 1755. Con tutto quel che ne consegue. E poco dopo Heinrich von Kleist in un racconto del 1807, cinque anni prima di ammazzarsi, fa del terremoto, più precisamente del Terremoto in Cile del 1647, il poderoso e terrificante strumento che - al prezzo di azzerare una città e la sua popolazione, peraltro tutt’altro che misericordiosa e dunque non meritevole di alcuna pietà - ristabilisce un fuggevole attimo di tregua nella vita di due amanti derelitti. Ma è, appunto, un fragile intervallo. Collocato in quell’interminabile terremoto che, con scosse sismiche o senza, è in definitiva la vita di tutti. " (da Giorgio Boatti, Da Istanbul a Kobe, la faglia nel cuore, "La Stampa", 30/12/'08)

martedì 30 dicembre 2008

Rhemes o della felicità di Ernesto Ferrero


"Sulla meridiana al cimitero di Rhêmes c’era scritta negli Anni Settanta una frase che forse è ancora là: 'Nos jours passent comme l’ombre'. I nostri giorni passano come l’ombra. Ernesto Ferrero l’aveva scelta per titolo al capitolo sui seminari einaudiani pubblicato in I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli). Valeva una domanda: che trova ora risposta in Rhêmes o della felicità, per l’editore Liaison di Courmayeur, allo stesso tempo saggio sul rapporto tra scrittori e montagna, ricordo vibrante di quegli anni in cui l’Einaudi era una sorta di religione laica, e memoir d’autore dedicato significativamente alla moglie Carla. In quella 'icona di una felicità irraggiungibile e non più ripetibile, perfetta nell’immobilità del ricordo' rappresentata dal piccolo centro valdostano, è la consapevolezza di allora che 'i nostri giorni non sarebbero passati come l’ombra'. Poi ci sono gli aneddoti, le lievi ironie in cui Ferrero eccelle, per esempio ricordando con umoristica dolcezza le passioni terzomondistiche, quando rapiti dall’oratoria di Ruggiero Romano 'ci vergognavamo di non parlare il quechua, lingua andina per eccellenza'. Le ultime righe del racconto, dove la sua storia d’amore con la ragazza dalla 'pelliccetta di marmotta' culmina nel matrimonio, sono dedicate ai regali dell’Editore: una pianta di limone, un gelsomino di San Giuseppe, una forsizia, una camelia, una rosa. L’aneddotica su Giulio Einaudi è ricca e affettuosa, dal celebre litigio con Giorgio Manganelli per questioni di forchetta alle reprimende messe all’ordine del giorno contro l’assenza di Calvino che 'tiene più alla famiglia'. Ma non è questo il cuore del libro. Parallelo al memoir corre il gusto non solo critico di mettere in rapporto quegli stili di scrittura (per esempio Lalla Romano, ma anche Mila, Levi, Rigoni Stern, Venturi, Calvino) e la montagna, con le sue durezze, la sua disciplina. Da Calvino che 'le gambe se le è fatte da partigiano' a Cesare Cases, che da cittadino fatica un po’ e 'malgrado la tosse da fumatore' arranca e resiste, ciò che resta è una grande scuola e un’altissima idea di lavoro e di servizio. Una felicità appunto. Quella che si può solo conquistare" (da Mario Baudino, Einaudi regalava limoni, "La Stampa", 30/12/'08)

Nobel e scrittori sfidano la Cina: 'Liberate il dissidente Liu Xiaobo


"Umberto Eco e Salman Rushdie, Nadine Gordimer e Wole Soyinka. E poi altri 146 nomi: premi Nobel, letterati, ativisti per i diritti umani. Ha raccolto 150 firme da tutto il mondo l'appello lanciato da Human Rights Watch per la liberazione del dissidente cinese Liu Xiaobo, arrestato dal Governo di Pechino per aver scritto un documento con cui chiedeva ai responsabili cinesi di concedere ai loro cittadini quei diritti di cui la dichiarazione universale dei diritti umani si fa portatrice: libertà di stampa e di espressione, libertà religiosa e tutti gli altri principi di un vero Stato di diritto. 'E' urgente che la leadership centrale cinese assicuri che nessuno venga arrestato o molestato semplicemente per aver espresso pacificamente le proprie opinioni - recita il testo della lettera, inviata al presidente Hu Jintao - è allo stesso modo urgente che le autorità giudiziarie in tutta la Cina cessino di usare la legge anti-sovversione per perseguitare chi muove critiche in modo pacifico, come Liu Xiaobo che dovrebbe essere rilasciato immediatamente e senza condizioni'. Ex professore dell'Università di Pechino, sceso in piazza accanto agli studenti che nel 1989 si ribellarono in Piazza Tienanmen, rinchiuso in carcere per quasi due anni quando il movimento venne represso, Liu ha oggi 53 anni: è stato arrestato a inizio dicembre. Decine di poliziotti hanno fatto irruzione in casa sua e sequestrato libri, dischetti, computer e appunti dopo che l'uomo aveva firmato, insieme ad altri 300 intellettuali, un documento noto come Carta 08, manifesto del dissenso contro il Governo. Da allora di lui si è saputo poco o niente e gli attivisti di Human Rights Watch temono che questo sia il preludio a un altro lungo periodo di detenzione: 'Liu Xiaobo è il più importante dissidente cinese degli ultimi 10 anni - ha detto Brad Adams, direttore per l'Asia di Human Rights Watch - il suo arresto può essere interpretato come un avvertimento ad altri dissidenti, ma può anche indicare un irrigidimento contro le aspirazioni della gente cinese'. Nei giorni scorsi anche l'Unione Europea aveva espresso preoccupazione al Governo cinese per l'arresto del dissidente, ma nessuna pressione internazionale sembra finora scalfire la durezza di Pechino. 'La Cina si oppone a ogni ingerenza internazionale nei suoi affari interni che viene fatta in nome dei diritti umani', ha detto ieri un portavoce del Ministero degli Esteri. Come a dire che per Pechino il discorso sulla sorte di Liu Xiaobo è chiuso." (da Francesca Caferri, Nobel e scrittori sfidano la Cina: 'Liberate il dissidente Liu Xiaobo, "La Repubblica", 24/12/'08)

Il libro ci salverà? Ecco le feste piene di libri


"Il libro ci salverà? Nel clima funerario che avvolge l´economia, con i consumi in caduta verticale rispetto al Natale precedente, segnali rassicuranti arrivano dalle librerie, piene zeppe sotto le feste a dispetto delle più cupe previsioni. Al tempo della crisi, quello strano oggetto con cui metà degli italiani non ha per niente confidenza, e l´altra metà scarsa dimestichezza, viene inaspettatamente promosso a ultimo bene rifugio: non solo come regalo identitario, da donare con modica spesa; ma anche come unico approdo possibile, al quale aggrapparsi spaesati per poi ricominciare. In assenza di cifre definite - ancora troppo presto per tracciare bilanci certi - intervengono le testimonianze degli editori, omogenee nel rilevare la tenuta dell´editoria libraria all´urto della crisi. E a riscuotere maggiori consensi non sono titoli frivoli o d´intrattenimento, ma saggi pensosi o di contenuto spirituale, dalle analisi del Nobel Krugman alle meditazioni in forma di ricordo di padre Enzo Bianchi, dai grandi affreschi sociologici di Zygmunt Bauman alle riflessioni su vita e morte del cardinal Martini. Che la crisi ci costringa a rivedere le nostre abitudini? Da Mondadori a Laterza, dal gruppo Mauri-Spagnol a Feltrinelli, i nostri publisher concordano nel restituire un ottimo andamento del mercato librario italiano. A differenza di quel che accade altrove. 'Il 2008 è andato bene, meglio delle previsioni', dice Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Mondadori, il primo gruppo italiano. 'La crisi da noi non si è manifestata con la virulenza che ha avuto in altri paesi. Negli Stati Uniti ad ottobre il mercato è crollato di circa il 15 per cento e poi non si è più ripreso. In Spagna è crollato sempre con percentuali a due cifre a partire da settembre. Da noi c´è stata una flessione ma molto più contenuta nella seconda metà di settembre e poi, ancora inferiore, nel mese di ottobre. Ma dopo il mercato si è ripreso'. Anche a Segrate i conti registrano un incremento: 'Nel 2008 le nostre case editrici trade - fatta esclusione dunque per la scolastica, le vendite congiunte, il canale edicola e le attività non editoriali di Electa - raggiungeranno un fatturato di copertina netto rese di circa 482 milioni di euro. Circa l´1,5 % in più rispetto al 2007'. Un quadro dai contorni ancora più rosei proviene da Stefano Mauri, alla guida della costellazione ereditata dal padre Luciano e da lui ancora accresciuta (un fatturato dichiarato più 7% rispetto al 2007). 'Stando ai dati censiti settimanalmente da Nielsen, le vendite in libreria non si sono fermate neppure nelle settimane più nere della Borsa. E dai primi risultati il Natale appare un trionfo'. Segnali d´un mercato dinamico arrivano da Carlo Feltrinelli, che registra un incremento di fatturati sia nelle librerie (più 7 %) che in casa editrice (tra il 5 e il 6 %). E a partire dal 2009 annuncia grandi progetti affidati, pur in un quadro poco sereno, a una permanente fiducia nella lettura. 'Apriremo una libreria di 2.700 quadri nella stazione centrale di Milano: spazi analoghi sono programmati nelle stazioni di Napoli e Torino. E in giugno sarà inaugurato a Genova un nuovo modello di libreria integrata, il megastore finora più avanzato: libri, dischi, dvd, caffetteria e molte altre cose. Per noi sarà un anno carico di impegni, nonostante le brutte avvisaglie che arrivano dagli Stati Uniti. Ma io continuo a credere nel libro e nelle sue possibilità'. Le ragioni di questa tenuta possono essere differenti. Di natura merceologica, ma anche di carattere culturale. 'Il libro ha il vantaggio di essere ad altissima identità', interviene Giuseppe Laterza, editore di saggistica di qualità 'premiata' dalla crisi (il 2008 si chiuderà in linea con l´anno precedente, tra i più brillanti per la casa editrice nell´ultimo ventennio). Nello scaffale degli autori più richiesti figurano il sociologo Bauman, profeta della società liquida, e uno storico come Christopher Duggan, artefice di un monumentale saggio sulla nostra identità nazionale irrisolta. 'A differenza di altri oggetti', spiega Laterza, 'il libro identifica chi lo regala e chi lo riceve, per giunta a un prezzo molto contenuto'. La libreria Laterza, a Bari, ha registrato sotto le feste un 10% in più di venduto. 'Nel paniere di una società del benessere', interviene Stefano Mauri, 'ci sono beni ben più voluttuari di un libro, che a conti fatti ha un costo orario assai basso in cambio di un intrattenimento molto gratificante. Un costo cresciuto meno dell´inflazione negli ultimi anni'.
Ma alla spiegazione mercantile s´aggiunge un´analisi più profonda. 'Quando accadono grandi eventi che colpiscono l´opinione pubblica', dice Laterza, 'i libri sono strumenti essenziali per capire cosa succede. Dopo l´11 settembre aumentarono le vendite del Corano: i lettori vi cercavano le spiegazioni più complesse. Lo stesso accade ora con la crisi economica. Le persone vogliono capire in che cosa abbiamo sbagliato e come cambiare'. L´enorme frastuono di un´informazione televisiva sciatta, superficiale e spesso strumentale ti spinge a cercar riparo in altri luoghi. 'Si cercano analisi meno mistificatorie e superficiali di quelle propagandate dai talk show', dice Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale di Garzanti e autore del recente I mestieri del libro. È venuto il momento di prendersi una pausa di riflessione. 'La gente ha bisogno di pensare, ritrovando una dimensione spirituale', dice Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi. 'Non è casuale il favore racccolto dai libri di padre Bianchi o del chirurgo Atul Gawande, che invitano a prendersi cura dei valori più profondi'. Siamo dinanzi a un mutamento culturale? Il timoniere di Segrate, Gian Arturo Ferrari, suggerisce cautela. 'Non esistono generi favoriti o sfavoriti dalla crisi', anche se i lettori tendono a premiare 'libri che colgono meglio di altri il senso della crisi', da qui 'il successo del volume di Tremonti e la buonissima accoglienza riservata al saggio di Carlo De Benedetti e Federico Rampini'. A livello più generale, secondo Ferrari, il fenomeno in assoluto più rilevante è quello dei megaseller, libri che superano il mezzo milione di copie e molto spesso il milione. 'E´ un fenomeno ancora tutto da studiare, ma di fatto determina il risultato delle case editrici'. Il riferimento è al milione di copie venduto da Paolo Giordano e ai due milioni raggiunti da Roberto Saviano: ma, a guardar bene, specie Gomorra rientra a pieno titolo nel genere di libri che fanno pensare. Megaseller e impegno non sono dunque incompatibili. Il libro resiste alla crisi anche perché quello italiano rimane un mercato ancora esiguo. 'Siamo protetti dalla nostra arretratezza', sintetizza Ferrari. 'Non abbiamo mass market, a leggere libri regolarmente siamo cinque milioni, un decimo della popolazione adulta. Ma siamo cinque milioni di persone con un livello di istruzione elevato e di elevato livello socioeconomico. Non rinunciamo ai libri'. Siamo un paese di non leggenti, ma con un´invidiabile nicchia di lettori forti, tra le più alte in Europa. 'Pur contenuto', suggerisce Laterza, 'il nostro s´è rivelato un settore solido, che in questi anni ha resistito alla concorrenza del web e dei quotidiani con i libri allegati'. Un mercato stabile, osserva Giovanni Peresson dell´Aie, 'che pur registrando modesti incrementi nei fatturati, negli ultimi anni ha dato vita a uno straordinario indotto di film, dvd, programmi satellitari'. Piccolo, ma prolifico. Il 'piccolo' appare la misura favorita dalla crisi, che sembra penalizzare le vendite nei supermercati, 'meno frequentati quando il piatto piange', dice Mauri, dall´osservatorio delle Messaggerie. Gli scaffali tradizionali tornano a essere luoghi di festa per il libro, come conferma una libreria storica di Bologna, la Giannino Stoppani, specializzata nell´editoria per ragazzi. 'I lettori arrivano profondamente motivati, non solo spinti dalla necessità di risparmiare', dice Silvana Sola. 'Sotto Natale abbiamo respirato un´atmosfera di attenzione e calore che ci conforta nella nostra scelta ormai venticinquennale'.
Previsioni per l´anno che viene? Qui i toni si fanno più prudenti. Unico dato certo, le prenotazioni dei nuovi titoli sono sensibilmente calate. 'I librai hanno tagliato del 10% sulle loro normali abitudini, che sono sempre caute al principio dell´anno', spiega Mauri. 'Ma per sapere come andrà a finire, bisognerebbe avere la sfera di cristallo'. Secondo Ferrari, è probabile un calo di qualche punto in percentuale, 'più per la possibile mancanza di megaseller, che per la crisi'. In generale si attende guardinghi. Nella speranza che a salvarsi nel maremoto dell´economia sia proprio il 'consumo meno consumistico'. Uno dei pochi, da cui ricominciare." (da Simonetta Fiori, Ecco le feste piene di libri.
E arrivano nuove librerie, "La Repubblica", 29/12/'08)

lunedì 29 dicembre 2008

Per i diritti umani non basta una Carta


"Il 6 gennaio del 1941 Franklin Delano Roosevelt tenne un famoso messaggio al Congresso degli Stati Uniti in cui proclamò che in tutto il mondo e a tutti gli uomini dovevano essere riconosciute quattro fondamentali libertà: libertà di coscienza, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. Erano le radici di un grande albero, quello del riconoscimento dei diritti umani. Il passo successivo fu l’adozione, alle Nazioni Unite, della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 1948, sessant’anni fa. Già esistevano il Bill of Rights inglese del 1689, la dichiarazione americana del 1776 e quella francese del 1789. Ma mancava un testo che valesse per tutti e che realizzasse l’idea kantiana che la violazione di un diritto in un paese desta scandalo nel resto del mondo, come scrive il giurista Antonio Cassese in Voci contro la barbarie (Feltrinelli), che narra la battaglia per i diritti con le voci di chi l’ha combattuta. Si tratta di un’antologia, curata da questo studioso che ha rappresentato l’Italia in diversi tribunali dell’Onu. Dà conto dei casi più clamorosi di violazioni dei diritti nel secolo scorso: dal massacro degli armeni allo sterminio degli ebrei, dai gulag sovietici alle dittature sudamericane, dal genocidio in Ruanda agli stupri nel Darfur, ma al tempo stesso ricostruisce gli episodi di ribellione e di speranza: per i diritti delle donne, contro l’oppressione coloniale, per l’obiezione di coscienza, contro il razzismo e le disuguaglianze. Fra i testimoni, Mahatma Gandhi, Primo Levi, Alexandr Solzenicyn, Nelson Mandela. Alla fine un appello: 'Continuiamo a gridare'. Dello stesso Cassese, ecco un’antologia di vent’anni di suoi scritti giornalistici: Il sogno dei diritti umani (Feltrinelli), a cura di Paola Gaeta, con introduzione di Antonio Tabucchi. Il filo rosso è l’ipotesi che si debba favorire la crescita d’una società civile internazionale. Scettico (per esperienza?) nei confronti della politica, il giurista scandaglia il contributo, al di là degli estremismi e delle ingenuità, della domanda di giustizia che si avverte nel mondo, delle denunce di semplici cittadini contro il potere e i potenti, e dei movimenti di ribellione (da Seattle a Genova) che insorgono contro la riduzione delle persone a 'elementi di un enorme mercato mondiale'. Ma qual è l’essenza di quelli che chiamiamo 'diritti umani'? Su quali basi li riconosciamo, li proclamiamo, li facciamo valere? E ancora: che cosa s’intende per dignità umana? Quand’è che dobbiamo considerarla calpestata?
Interrogativi cui rispondono altri due libri: lo storico Marcello Flores, studioso degli Human Rights, pubblica una Storia dei diritti umani (Il Mulino), che parte dall’età classica, attraversa il cristianesimo, percorre Umanesimo e Rinascimento, colloca la scoperta dei diritti nell’età dei lumi, e arriva sino ai problemi e alle contraddizioni del nostro secolo; l’altro libro s’intitola I diritti umani da un punto di vista filosofico (Bruno Mondadori), breve testo postumo della filosofa ginevrina Jeanne Hersch (1910-90), a cura di Francesca De Vecchi, con prefazione di Roberta De Monticelli, in cui si esamina il fondamento e la varietà dei diritti umani: alla vita, all’uguaglianza, alla felicità, alla pace. Indagine storica e riflessione filosofica mettono a fuoco problemi e contraddizioni. Flores deve misurarsi con la questione dell’universalismo, perché i diritti dipendono dai valori da cui derivano nelle varie culture: 'Ciò che si ritiene un diritto umano in una società può essere considerato come antisociale da un’altra', osservavano gli antropologi americani sessant’anni fa. Come conciliare universalismo dei diritti e differenze delle culture? Bisogna riferirsi a una svolta storica: la seconda guerra mondiale come risposta a regimi che avevano fatto della negazione dei diritti e della loro universalità un perno ideologico. D’altra parte, la Hersch, con la sua 'digressione filosofica' affonda il coltello nella proverbiale piaga: perché i diritti, nella sua visione, 'non sono un dato di natura', 'non appartengono al mondo dei fatti', dipendono dall’aspirazione di ogni uomo a essere rispettato come tale, e a poter esercitare una 'libertà responsabile'. In questo senso l’uomo vuole, desidera, sceglie, si propone dei fini, introducendo nel mondo dei diritti e il diritto. 'Ma non per questo – scrive la filosofa – il diritto smette di appartenere alla natura'. Continua a dipendere dal regno della forza. Separati del tutto dalla forza, i diritti non avranno realtà. Per la loro affermazione non basta una carta: si realizza nei conflitti, fra politica e giustizia, fra potere e identità, fra interessi delle maggioranze e tutela delle minoranze, fra valori simbolici e memorie collettive. Come sanno Amnesty International, Save the Children, Human Rights Watch o Médecins sans Frontères, il riconoscimento dei diritti è un processo storico costantemente in atto." (da Alberto Papuzzi, Per i diritti umani non basta una Carta, TuttoLibri", "La Stampa", 27/12/'08)

sabato 27 dicembre 2008

Harold Pinter 1930 - 2008


"Come spesso accade per gli scrittori veramente grandi, di Harold Pinter abbiamo conosciuto molte dissimili facce da quando, cinquantadue anni fa, si rivelò ventisettenne nelle vesti di commediografo con La stanza a cui seguì, in un breve giro di tempo una serie di testi che l'avrebbero fatto rapidamente catalogare tra gli 'arrabbiati', allora intenti, sulla scia di Osborne, a mettere a nuovo la scena del teatro londinese e non soltanto. Ma era difficile dare una qualifica restrittiva a uno scrittore che era al tempo stesso attore non solo per i suoi testi, soggettista per il cinema, poeta, e che riusciva a dar voce a tutte queste sue qualifiche alla pari e per di più lo avrebbe presto dimostrato con quella serie di opere rivoluzionarie oggi divenute classiche, ovvero lo stupefacente poker costituito da Il compleanno, Il guardiano, Il calapranzi e Il ritorno a casa, sulle prime così poco considerate in patria per le situazioni affrontate e per il modo di svolgerle, ma via via lette con agilità dappertutto, in Europa e nel mondo. Ed erano lavori non solo passibili di riferimenti agilmente vaganti tra Cechov, Kafka e Beckett per la profondità con cui l'autore sapeva leggere nella trasparenza della vita il senso del mistero e viceversa, contestando allo stesso tempo il modo di vivere imposto dall'establishement. [...] Come è ben noto Pinter vinse tre anni fa il Nobel per la letteratura, che da qualche anno frequenta con deciso interesse il teatro, e nella motivazione si leggeva tra l'altro che l'autore ' ... svela il baratro sotto le chiacchiere quotidiane e ci costringe a entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione'. Nella sua risposta lo scrittore annotava una propria frase del 1958: 'Non vi sono confini netti tra reale e irreale né tra vero e falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa, può essere, contemporaneamente, sia vera che falsa'. E' una risposta che ci conduce diritti ai suoi personaggi perennemente in bilico tra le molte possibili verità, a volte tra le loro stesse identità, dove nulla è scontato e loro stessi vengono lasciati liberi, entro certi confini, nei rispettivi modi di esistere e nei possibili comportamneti in un contesto che spesso rimane indecifrabile, mentre non si può sapere nulla né del prima né del dopo, e neppure della loro esistenza, come capita ad altre creature beckettiane, ma col vantaggio però di parlare una lingua ricca di giochi compiaciuti e, a differenza di quei condannati, immesse a rispecchiarsi in un mondo levigato come il nostro, concedendosi un gioco intrigante di un dialogo sempre ai massimi livelli di inventiva, con gran godiemnto per i registi, gli interpreti e gli spettatori." (da Franco Quadri, Harold Pinter, un teatro sempre aperto, "La Repubblica", 27/12/'08)

venerdì 26 dicembre 2008

La Germania di Weimar. Utopia e tragedia di Eric D. Weitz


"C´è una insidia intellettuale e ideologica nel riaprire il discorso storico sulla repubblica di Weimar. È l´insidia del suo 'pacifico' tramonto (non è stata infatti abbattuta né da una rivoluzione, né da un colpo si Stato) avvenuto tra faticose crisi politiche, frequenti ricorsi alle urne, insanabili contrasti tra i partiti della sinistra (una socialdemocrazia forte, riformatrice e autorevole e un partito comunista, piccolo, estremista, in attesa della rivoluzione) e mentre dilagavano una destra reazionaria e un centro moderato sostenuti dall´estensione e variabilità sociale delle loro componenti: i ricchi dell´industria, delle finanze e delle grandi proprietà terriere, alcuni milioni di disoccupati provocati dalla crisi economica, le alte gerarchie cattoliche o protestanti, i militari revanscisti, gli intellettuali inquieti e falliti, i «benpensanti» e giovani nazionalisti, impazienti che volevano vendicare la sconfitta subita nella grande guerra. Un fronte ampio e deciso, saldato dal rifiuto dei trattati di pace di Versailles: trattati, per la verità, politicamente ciechi e ingiusti nei confronti del popolo tedesco.
Un tramonto, dunque, che affascina con insistenza politologi, giornalisti e naturalmente gli storici; costretti, questi ultimi, a suggerire nuove interpretazioni di una storia ormai ben conosciuta e forse senza più grandi misteri nascosti.
Se tra le ricerche più recenti vale la pena di ricordare quella di Eric D. Weitz, uno storico americano dell´Università del Minnesota intitolata La Germania di Weimar. Utopia e tragedia (Einaudi), tanti sono stati i libri e gli articoli dedicati a Weimar, ai suoi protagonisti (con preferenza, in fondo, per quelli di destra, da Heidegger a Jünger a Carl Schmitt) ed ai suoi scenari della politica e della cultura. L´interesse degli storici è tuttavia meno contingente e strumentale di quello dei politologi e dei giornalisti ed è prevalentemente indirizzato al racconto della vita di quella repubblica più che alla descrizione delle sue malattie e della sua forse non inevitabile morte. Risiede, in definitiva, nella intenzione di inscrivere la storia di Weimar in quella della attuale democrazia tedesca, ritrovando gli elementi attivi di una continuità e di una tradizione culturale e artistica, e il lascito della verità e dignità dell´agire politico più che considerarla il prologo del dramma del Reich nazista.
È anche vero però che la risonanza che da sempre ha la storia dei quattordici anni di democrazia vissuti dalla Germania dal 1919 all´avvento di Hitler, si avverte con più forza ogni volta che nelle democrazie dell´Occidente (soprattutto in Italia) affiorano malesseri sociali e il tormento delle instabilità politiche. Infatti il pensiero va subito a quell´esperienza tedesca e scattano meccanismi di esorcizzazione, mescolati però all´ammirazione di quanti hanno capito quel che è accaduto in un tempo della politica e della vita civile della Germania che fu comunque positivo e creativo. Ammirazione per una democrazia originale, sperimentata per la prima volta nel Novecento in uno dei luoghi dell´Europa più degni e mentre irrompeva nel vecchio continente la società di massa, anzi la «rivoluzione delle masse» (o anche l´«uomo-massa» e «Metropolis», per dirla in linguaggio weimariano), la loro modernizzazione, la loro americanizzazione. E a questo proposito è interessante e inquietante la definizione che nel l930 aveva dato Thomas Mann del nazionalsocialismo: 'Una ondata gigantesca di barbarie eccentrica e di fiera delle vanità democratiche di massa'. Weimar non può essere perciò un comodo e neutrale metro sociologico o, come avrebbe detto uno dei suoi fondatori, Max Weber, un Ideal Typus della democrazia moderna. È piuttosto un insieme di problemi, la cui lettura scientifica, cioè storiografica, è necessaria per correggere le deformazioni ideologiche della storia tedesca del Novecento (rinchiusa ormai in media televisivi e cinematografici i cui orizzonti sono soltanto quelli del nazismo) e certe approssimazioni della stessa storiografia contemporanea, per lo più non tedesca, poiché per fortuna i tedeschi sono stati più bravi di noi nell´elaborare il lutto del loro Fascismo. E poi per scoprire, se è possibile, le ragioni di questa stessa storia, per dare un significato meno spettrale all´intrecciarsi di eventi (le crisi economiche e sociali, la socialdemocrazia e il comunismo, la razionalizzazione capitalistica, il formarsi del nazionalsocialismo, il teatro, il cinema, la musica, gli spettacoli, i poeti di Weimar, la 'cultura di Weimar') che fanno di quella repubblica il laboratorio di una transizione a una modernità globale interrotta bruscamente nel l933 e poi posta per un decennio al servizio di idee politiche e programmi di azione completamente opposti. Sappiamo bene quali possono essere i rischi di una ricostruzione a tesi della storia di Weimar. Weimar stessa si è presentata sotto una lente di ingrandimento; come se gran parte delle cose avvenute in quegli anni siano state più grandi e «meravigliose» del normale. Forse per questo gli storici tedeschi hanno atteso fino al l973, a un convegno storico internazionale tenuto a Bochum, per avviare una indagine a tutto campo su di essa. E ricordiamo pure che in quel periodo la Germania era divisa in due Stati, vi era il muro di Berlino e incombeva la guerra fredda. Non è escluso quindi che anche il ricordo e la riflessione su Weimar possano essere stati un piccolo contributo alla caduta di quel muro e alla riunificazione politica e culturale del popolo tedesco. Al tempo della repubblica di Weimar altre divisioni penetravano in Germania e nella sua nascente democrazia: la presenza in Europa del comunismo sovietico, le tensioni sociali, la lotta di classe (allora i «borghesi» e i «proletari» erano delle realtà ben visibili), un´economia capitalistica nella quale convivevano la organizzazione, la razionalizzazione e la depressione. La Germania di Weimar ha sopportato infatti il peso di due grandi crisi economiche. La prima, dovuta alla sconfitta nella prima guerra mondiale: la terribile inflazione dei primi anni ?20 che ne seguì fu in gran parte indotta dalle potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, con la richiesta di esose riparazioni dei 'danni di guerra' non si sa se per punire una Germania imperiale (responsabile quanto loro della prima guerra mondiale) che comunque non esisteva più, o per rallentare l´evoluzione istituzionale della repubblica tedesca verso un inedito modello di democrazia progressiva e socialmente più giusta. Almeno settecentomila tedeschi morirono di fame e di stenti in quegli anni. La seconda crisi, proveniente dal crollo di Wall Street del 1929, investì la ancora debole razionalizzazione industriale, finanziaria e commerciale cominciata cinque anni prima grazie al Piano Dawes, cioè grazie ai dollari di società e banche statunitensi.
Nel primo caso, il capitalismo tedesco si riprese dall´inflazione grazie alle strategie monetarie del banchiere Hjalmar Schacht (che rivalutò il marco strappandolo all´abisso in cui era caduto nel l923, quando un pezzo di pane costava miliardi), alla fiducia da lui cercata nei circoli finanziari inglesi e ai crediti del Piano Dawes, ma gli imprenditori si impegnarono, in cambio, a evitare lo svolgimento della democrazia tedesca verso uno «Stato sociale» ante litteram. Fu la prima grande difficoltà creata al partito socialdemocratico al governo e alla sua guida teorica, l´economista marxista Rudolf Hilferding. Nel secondo caso, l´avvento del nazismo distrusse le basi istituzionali e formali della repubblica, anche se, è necessario ripeterlo, Hitler giunse al potere nel rispetto delle forme weimariane. E non si trattava comunque di «forme vuote», come le statue colossali della decadenza imperiale romana, e come fece credere il giornale conservatore inglese Times (ecco una prova dell´immagine negativa che dà l´instabilità della democrazia) che salutò nel governo di Hitler, che aveva la maggioranza al Reichstag, 'il ritorno a un corretto sistema parlamentare'. Paradosso per paradosso, si può ben dire infatti che la repubblica di Weimar finì idealmente per mano di coloro che avrebbero dovuto sostenerla, i liberali, i cattolici del 'Centro' anzitutto e che invece si piegarono al grande capitale e al populismo revanscista del nazismo che sigillò il tutto. In questo quadro (a parte l´utopia rivoluzionaria dei comunisti) resta ovviamente aperto il problema del ruolo giocato dal partito socialdemocratico tedesco al quale Rudolf Hilferding avrebbe voluto invece, tra difficoltà e incomprensioni, affidare il compito di preparare una pianificazione generale dell´economia capitalistica nell´ambito però degli istituti della democrazia; una prospettiva di lungo periodo che fu avversata, tra gli altri. anche dagli interessi corporativi e di breve periodo dei sindacati. Il punto di non ritorno non fu soltanto il 1933; la data esatta sarebbe il 1930, quando fu eletto cancelliere il cattolico liberale Heinrich Bruning. Il suo metodo di governo fu accusato di presidenzialismo, di abuso di decreti legge e di scarsa convinzione sul ruolo dei partiti dentro le istituzioni. In verità il governo Bruning (al quale comunque non parteciparono i socialdemocratici) fu l´ultima carta giocata dalla repubblica per salvarsi dalla Destra, dei nazionalsocialisti, dai comunisti e dalla crisi importata dall´America.
Penso che i due anni del governo Bruning siano stati la chiave di volta politica dell´indebolimento «involontario» della democrazia di Weimar. Bruning governò la crisi economica adottando gli strumenti della deflazione (controllo dei prezzi, riduzioni dei salari, intervento sul mercato) puntando su un efficiente presidenzialismo e rafforzando il potere esecutivo, ma con un obiettivo positivo e preciso: bloccare il nazionalsocialismo (era stato deciso lo scioglimento delle formazioni paramilitari naziste, ma anche comuniste), affrontare la depressione economica con iniziative e controlli pubblici (come di lì a poco farà Roosevelt con il New Deal in America); fermare la pressione francese e inglese sulle riparazioni dei danni di guerra (si trattava di decine di milioni di marchi-oro che la Germania avrebbe dovuto pagare fino al 1952). Dai paesi vincitori era stata concessa, per la verità, una moratoria sulle rate dei pagamenti, ma in quel momento drammatico per l´economia tedesca (i disoccupati erano sei milioni) erano indispensabili, appunto, atti democratici fortemente impegnativi: una politica di controllo deflattivo dei prezzi contro gli speculatori, l´aumento delle tasse ai più abbienti, «piani di lavoro» per la disoccupazione; intervento diretto dello Stato sulla produzione industriale. Erano strategie, discusse o criticate anche nell´ambito dei sindacati e del partito socialdemocratico, ma la Destra e i comunisti attaccarono frontalmente e duramente Bruning che nel maggio 1932 diede le dimissioni. Fu sostituito, dopo un tentativo pacificatore del generale von Schleicher da un cattolico più gradito ai conservatori, Franz von Papen. Ed ecco infatti la sua prima dichiarazione in Parlamento: 'Il governo ha di mira il ritorno ai principi dell´economia di mercato'.
Come si vede, ho parlato della crisi finale della repubblica di Weimar più che della sua storia. Nella quale vi furono forme e momenti felici, divertenti, meno drammatici di quanto non sembri. Di questi aspetti si occupa tra l´altro la ricerca, citata all´inizio, di Eric D. Weitz, che disegna la cultura di Weimar e immette il lettore nei luoghi e nelle atmosfere dove le arti figurative, il cinema, le architetture, la letteratura, la musica, i Kabarett sprigionavano i linguaggi delle avanguardie, della sperimentazione, dell´inconsueto. Il cuore è Berlino, la città che pare rinnovata con la felicità e la leggerezza di Parigi e di Londra. Il capitolo Camminando per la città (comincia con 'Weimar era Berlino; Berlino Weimar') è proprio il racconto affascinante di una città dove tutto ha il segno della vitalità. È il momento in cui i berlinesi scoprono il Jazz. La musica negra e americana che spezza convenzioni e schemi tradizionali e senza la quale, dice Weitz, nè Kurt Weill né Brecht avrebbero imposto il loro stile agli spettacoli che li resero famosi. La Weimar raccontata da Weitz è anche il teatro della liberazione della donna tedesca. Il capitolo molto suggestivo Corpi e sesso spiega bene, ad esempio, la scoperta della sessualità disinibita che è simmetrica della modernizzazione accelerata, tecnologica, socializzata che la società di massa comincia a gustare per tutti gli anni Venti. Il cinema, i dischi, la moda sportiva, la fotografia, gli oggetti «Novecento», l´intraprendenza femminile, il nudo e la purezza della bellezza (peccato che Weitz non ricordi il contributo che, prima del nazismo, a questa immagine della figura umana come dei paesaggi naturali diede l´attrice e regista Leni Riefenstahl) sono nel libro di Weitz i contrappunti di una analisi storica e di un giudizio politico e morale sulla repubblica di Weimar assolutamente condivisibili. Tornano alla ribalta la rivoluzione architettonica di Gropius, Mendelsohn, Bruno Taut, le analisi filosofiche di Heidegger, Kracauer, Bloch, i pittori e i registi cinematografici dell´Espressionismo, i romanzi e i presagi di Junger, Joseph Roth, Benjamin. ... Insomma, l´Utopia di cui parla il titolo del libro. Un 'tempo moderno' che la tragedia del l933 farà sparire dalla Germania ma che continuerà a vivere altrove, soprattutto negli Stati Uniti; un mondo che il racconto di Weitz restituisce alle verità relative e immodificabili di una storia del Novecento." (da Luco Villari, Weimar, una crisi esemplare, "La Repubblica", 23/12/'08)

Il mistero del Bambino. Quando Virgilio ne cantò la nascita


"All´inizio della quarta ecloga Virgilio aveva avvertito le Muse: sto per cantare qualcosa di più grande, arbusti e tamerici non bastano più! La poesia bucolica, con le sue selve abitate da pastori innamorati, cede il passo a ben altro annunzio. Di che si trattava? Nientemeno che di una nuova era, profetizzata dalla Sibilla di Cuma. L´ordine dei tempi ricomincia da capo, aveva detto la veggente, e una nuova progenie sta per scendere dal cielo. Torna l´età dell´oro, mentre la Vergine, cioè la giustizia, scende nuovamente fra gli uomini. E se ancora restano tracce della colpa, quella provocata dagli orrori della guerra civile, con il 'suo' avvento anch´esse saranno cancellate. Ma l´avvento di chi? Di un bambino. La grande invenzione che dà vita alla quarta ecloga è per l´appunto questa: la fine dell´orrore e l´inizio di un tempo nuovo vengono fatti coincidere con la nascita di un puer. Un bambino vero, al quale si chiede di sorridere ai propri genitori - la madre lo ha portato in grembo per nove mesi, lo merita - affinché essi ricambino a loro volta quel sorriso; ma nello stesso tempo un bambino divino. Il puer infatti è destinato a vivere con gli dei, mentre attorno alla sua culla le meraviglie si moltiplicano. Cade il velenoso serpente assieme ad ogni erba mortifera, le pecore non debbono più temere i leoni e le caprette offrono fiduciose le mammelle gonfie di latte. Nel frattempo, la culla in cui giace il puer si riempie spontaneamente di fiori profumati. La rinascita del mondo, nella quarta ecloga di Virgilio, si annunzia dunque in questo modo. Vi era di che colpire la fantasia di chiunque. Anche di un imperatore. Quasi quattro secoli dopo, infatti, Costantino tenne un´omelia per il venerdì santo indirizzandola «all´assemblea dei devoti di Dio». In questo discorso l´imperatore - lo stesso che dichiarò cristiano l´impero - compì un atto che avrebbe mutato il destino della quarta ecloga: la cristianizzò. L´intenzione era chiara. Dimostrare che la nuova religione aveva dalla sua perfino il maggior poeta di Roma. Secondo Costantino, infatti, Virgilio aveva parlato in modo coperto, per timore di rappresaglie, ma la sua volontà di annunziare il Salvatore era chiara. Chi altro poteva essere la 'Vergine' dell´ecloga se non Maria? E quale segno più esplicito del velenoso serpente che «cade» contestualmente alla nascita del bambino? Anche sulla culla del puer, in verità, Costantino compì un´operazione di sottile ermeneutica cristiana - anzi, di abile falsificazione. Nella versione greca del testo di Virgilio, offerta ai fedeli dall´imperatore, la «culla» in cui giace il bambino viene sostituita dalle «fasce» che lo avvolgono. Perché? La spiegazione è teologica. Nel Vangelo di Luca, quando l´angelo annuncia ai pastori la nascita del Salvatore, lo fa con queste parole: 'ed ecco il segno: troverete il bambino avvolto nelle fasce e deposto in una mangiatoia'. Le fasce formano una parte imprescindibile dello scenario cristiano, costituiscono addirittura un 'segno' della divinità. Sostituendole alla 'culla' di Virgilio, Costantino identificava definitivamente il puer dell´ecloga con il bambino Gesù. Gli studiosi continuano a chiedersi se questa orazione sia davvero opera dell´imperatore - o meglio, di qualche letterato di corte - oppure l´abile montatura di un falsario. Ma questo importa poco. Negli stessi anni, infatti, un analogo tentativo di cristianizzare l´ecloga era stato compiuto anche da Lattanzio; e qualora l´autore dell´orazione fosse non Costantino, ma un falsario, ciò non farebbe che confermare il desiderio, da parte della nuova religione, di avere dalla propria parte il maggior poeta romano. In ogni caso, al contenuto messianico dell´ecloga credettero fermamente, nel corso del tempo, personaggi come Pietro Abelardo o Dante Alighieri; e innumerevoli generazioni di cristiani hanno continuato a credervi. Ma allora, chi fu veramente il puer della quarta ecloga? Torniamo all´inizio della vicenda. Siamo nel 43 avanti Cristo, nel pieno della sanguinosa guerra civile fra Ottaviano e Antonio. Inutile dire che, a questa data, Virgilio non poteva avere alcuna nozione del cristianesimo, per il semplice fatto che esso non era ancora nato. L´ecloga è dedicata a Pollione, console di quell´anno, per cui si potrebbe semplicemente pensare che il puer fosse figlio di costui. Ma davvero Virgilio avrebbe potuto celebrare il rampollo del console come se si fosse trattato di un fanciullo divino, il cui avvento doveva segnare un rinnovamento cosmico?
Sarebbe stato troppo. Non sono mancate perciò interpretazioni più mistiche, o esoteriche, dell´ecloga, secondo le quali il poeta si sarebbe ispirato a culti egiziani o a testi giudaici. Ma quale senso avrebbe avuto, per il pubblico di Virgilio, la ripresa di temi o motivi biblici di cui in quel tempo a Roma si conosceva ben poco? Non facciamoci ingannare dall´importanza che il giudaismo, specie attraverso la mediazione cristiana, ha assunto nel seguito della storia occidentale: la cultura dei Romani, nel primo secolo a. C., era ben diversa dalla nostra. In realtà, non sapremo mai chi fu il puer della quarta ecloga. Ma forse possiamo saperne di più sulla sua culla. Nella tradizione antica, infatti, altri bambini giacquero in una culla dai caratteri divini. Dioniso prima di tutto, deposto dopo la nascita in un lìknon, un ventilabro: ossia una sorta di cesto, aperto su uno dei lati, che veniva utilizzato per separare il grano dalla pula. Gli antichi definivano 'mistico' il lìknon di Dioniso, e liknìtes, 'quello del ventilabro', era uno dei nomi con cui il dio veniva invocato nei misteri. Ma anche Zeus, nella grotta di Creta che lo ospitò neonato, fu deposto in una 'culla dorata', mentre la capra Amaltea gli porgeva la mammella e l´ape Panacride gli dispensava il proprio miele; e ancora in una «sacra culla» giacque Hermes, il futuro uccisore di Argo. Sono gli innumerevoli miti che ci raccontano la storia di bambini, destinati a cambiare il corso degli eventi, che proprio per questo ebbero anche una nascita straordinaria. Non solo Dioniso o Zeus, ma anche Ciro il grande o Romolo e Remo, eroi che, quando vennero al mondo, trovarono ad accoglierli una natura inaspettatamente benevola. Acque che placano il loro corso vorticoso, piante che nutrono, animali del bosco o della campagna - un lupa per i gemelli romani, una cagna per Ciro - che esibiscono mansuetudine, e in questo modo forniscono un «segno» indiscutibile del superiore destino che attende l´eroe. Proprio quel che avviene attorno al puer di Virgilio. Di questa medesima schiera fa parte anche il piccolo Gesù del Vangelo di Luca. Anche lui deposto in una culla insolita, la mangiatoia, proprio come Dioniso nel ventilabro; anche lui circondato da una natura splendente e miracolosa. Guardata con gli occhi dell´antropologo del mondo antico, l´interpretazione della quarta ecloga fornita da Costantino finisce in realtà per rovesciarsi. Se l´imperatore credeva che il puer virgiliano fosse una metafora del Salvatore, a noi sembra piuttosto il contrario. La tradizione cristiana della nascita di Gesù - con il suo scenario di meraviglie, le sue greggi, la sua coppia di animali soccorrevoli - ricorda molto il modo in cui Virgilio, oltre un secolo prima che i vangeli fossero redatti, aveva descritto l´avvento del misterioso puer destinato a rinnovare il mondo. Il fatto è che entrambe queste nascite sono episodi del ciclo millenario del bambino meraviglioso. All´interno di questo ciclo miti e racconti hanno continuato ad inseguirsi, ad alludersi, a cercarsi, in un gioco che non si è mai interrotto. Come dire che, quando oggi si sparge il muschio attorno alla mangiatoia, nel presepio, o si dispongono le caprette fuori dalla grotta, si ricompone uno scenario al quale ha verosimilmente contribuito anche Virgilio." (da Maurizio Bettini, Il mistero del bambino. Miti e storia dietro i simboli del Natale. Fin dall´età pagana. Quando Virgilio ne cantò la nascita, "La Repubblica", 24/12/'08)

lunedì 22 dicembre 2008

Nel segno di Kali. Cronache indiane di Carlo Buldrini


"Il 28 novembre, due giorni dopo l'inizio dei terribili attacchi a Mumbai, quando ancora polizia e militari stavano dando la caccia agli ultimi terroristi asserragliati nel Taj Mahal Hotel, usciva il libro sull'India di Carlo Buldrini. Giornalista, già addetto reggente dell'Istituto Italiano di Cultura di New Delhi, insegnante alla Jamia Millia Islamia (l'università islamica della capitale) nell'anno 2001/2002, Buldrini ha vissuto nella terra di Gandhi per oltre trent'anni. Ecco, allora, che la sua ultima fatica, dal titolo Nel segno di Kali. Cronache indiane, è un'ottima occasione per capire qualche cosa di più di questa straordinaria nazione che, oggi più che mai, sembra un "mondo grande e terribile" come ebbe a definirlo, a suo tempo, Kipling. Il libro, edito da Lindau, racconta diversi momenti chiave degli ultimi tre decenni della storia del Paese. Semplice, essenziale ma sempre preciso ed esauriente, Buldrini passa da un'intervista ad Indira Gandhi alla ricostruzione della battaglia del Tempio d'oro dei Sikh, dall'incontro con Krishnamurti alla cronaca dell'attentato a Rajiv Gandhi. La lettura diventa, così, un viaggio nel tempo e nello spazio nel cuore del subcontinente indiano, una vera e propria mappa per cercare di decifrare una realtà che l'Occidente tende, da sempre, a fraintendere e a deformare. Che si vedano, infatti, solo l'estrema miseria e le condizioni igieniche precarie (per anni uno dei filtri più utilizzati per mettere a fuoco il Paese) oppure la favoleggiata dimensione spirituale, la realtà indiana spesso viene, comunque, travisata. Non perché quelli appena citati non siano aspetti presenti in questa terra quanto piuttosto perché così facendo si rischia, di volta in volta, di considerare una sola parte come il tutto e di ridurre un complesso mosaico ad una sorta di monolite. Nel segno di Kali, invece, ha l'indubbio pregio di offrire uno sguardo, se non onnicomprensivo (non sarebbe d'altra parte possibile), certo capace di abbracciare le varie anime del mondo indiano senza lasciarsi condizionare da preconcetti e senza mai cercare di incasellare la realtà in una griglia prefabbricata. Tra le storie meno conosciute in occidente spicca, per esempio, la vicenda quasi leggendaria di Phoolan Devi, la regina dei banditi. Buldrini non tralascia, poi, le affascinanti descrizioni della mitologia hindu, così legata alla vita di tutti i giorni degli indiani. La nascita di Kali, l'epopea di Rama (settima incarnazione di Visnù), le battaglie mitiche tra dei e demoni. Non manca,una parte dedicata a Gandhi e alla sua eredità, che l'autore ritrova oggi (in una nazione fragile e attraversata da ondate di violenza) affidata ad un vecchietto di 90 anni, uno degli ultimi sathyagrahi. Anche l'India del boom economico è evocata da Buldrini, che racconta le contraddizioni e i grandi contrasti della 'Silicon' Valley di Bangalore. Ma i capitoli che, forse, colpiscono di più in questo momento sono quelli dedicati ai ripetuti pogrom contro la comunità musulmana nel nord del Paese. Da quelli seguiti alla distruzione della moschea di Ayodhya da parte di gruppi di fondamentalisti hindu, alle persecuzioni del 2002 in Gujurat, durante le quali i musulmani venivano stanati casa per casa, negozio per negozio, uccisi a bastonate o cosparsi di cherosene e bruciati vivi. E una luce sinistra su un certo tipo di integralismo e nazionalismo ci viene anche dalla tremenda vendetta compiuta sulla comunità Sikh, dopo l'assassinio di Indira Gandhi, quando Buldrini osserva Delhi che brucia, mentre la caccia all'uomo si scatena da una parte all'altra della città. Con queste lenti si vedono meglio, allora, anche i recenti fatti di Mumbai. Una risposta a qualcosa, che, a sua volta, era la reazione a qualcos'altro. E così via, all'infinito, in una folle rincorsa nella quale 'a dare inizio a tutto' è sempre stato l'altro e nella quale ci sono sempre dei morti da vendicare, del sangue da lavare col sangue. Linciaggi e persecuzioni che seguono gli attentati e dai quali verranno, fatalmente, nuovi attacchi. Ecco il cuore di tenebra dell'India che raramente riusciamo a scorgere dall'Occidente. Da qui, è difficile vedere come sotto la brace covi, costantemente alimentato dalla politica, il fuoco di un odio e di un rancore quasi inestinguibili. In tutto questo, verrebbe da chiedersi, che fine abbiano fatto gli insegnamenti sulla non-violenza del Mahatma Gandhi che sognava una nazione nella quale potessero convivere musulmani, hindu, cristiani, buddhisti, giainisti. Ripensando oggi alle sue idee ci si rende conto che, in fondo, non era un utopista. Il suo progetto di una società pacifica che comprendesse musulmani e hindu era anche e soprattutto pragmatico. L'alternativa, delirante, è solo quella che vediamo ai nostri giorni. D'altra parte il Mahatma aveva avvertito tutti: 'Occhio per occhio e il mondo diventerà cieco'." (da Marco Barbonaglia, Nel segno di Kali, "Il Sole 24 Ore, 18/12/'08)

La république des livres


"Di cosa va pazzo chi naviga sul web francofono? Piccanti novità su chi possa essere il segreto responsabile del pancione del ministro della Giustizia Rachida Dati? Rivelazioni su cosa Materazzi disse nell'orecchio di Zidane, prima della celebre testata? Possibile diossina nel foie gras? Sesso? No. I francesi divorano quel che scrive un critico letterario, saggista e giornalista: Pierre Assouline, che parla ad esempio della difficoltà di un traduttore davanti all'enigmatica bellezza di un testo. Di Philippe Jaccottet che non riesce a decifrare le parole di Malina, romanzo intriso di morte, opera dell'ammiratissima Ingeborg Bachmann. E così decide di andarla a trovare a Roma, nel '72. Di fronte alla confusione e alla tristezza di lei (morirà bruciata un anno dopo, un incidente, forse no) si intimidisce. Non trova le parole per dirle che non riesce a capire quel che lei scrive. E torna a casa senza aver finito la traduzione. È il post di giovedì 4 dicembre, supera di sei o sette volte la lunghezza massima consigliata, pieno di parole difficili, nomi poco noti e citazioni. Risultato: 79 commenti appassionati. Gli internauti tirano in ballo Musil, Freud, Apollinaire, e frasi della stessa Bachmann (nota anche come Ruth Keller). O ancora, domenica 7, Assouline – incurante delle morbose curiosità degli internauti, o del retro-lateral pensiero da dare loro in pasto - commenta il discorso che Jean Marie Le Clézio ha fatto all'accademia di Svezia, alla vigilia del Nobel. Si dilunga sul fatto che sono poche le letture di questo tipo che possono essere considerate un'opera di valore letterario, come quella tenuta da Camus, o la più recente di Orhan Pamuk. Non sembrerebbe il caso del testo di Le Clézio, pieno di buoni sentimenti, eau tiède, quando invece la letteratura serve per disturbare. Risultato: 200 commenti. E quando Assouline commenta la decisione del ministro dell'educazione francese di eliminare la prova di cultura generale per l'esame da funzionario statale – secondo la politica di Sarkozy 'Meno conoscenza, più competenza' – e rivendica il potere civilizzatore della letteratura è una vera esplosione di interventi: 485.
Il suo blog, La république des livres, uno delle centinaia ospitati da "Le Monde", è da mesi uno dei più letti di tutto il web francofono. Le statistiche salgono e scendono in continuazione, ma se si seguono per esempio quelle di Wikio, si va dai primi dieci ai primi trenta. In quattro anni ha accumulato 1.600 post e 160mila commenti. Ha 15 mila lettori al dì, nei periodi caldi salgono anche a 45 mila. Duecento la media degli interventi giornalieri. Tanto che il diario online è diventato un libro, estratto dei post più belli e dei migliori commenti dei lettori: Brèves de blog. Una cronaca appassionata e ironica della continua interazione con gli 'inguaribili chiacchieroni' e con gli amanti della tenzone filosofica che affollano il Web nascosti dietro pseudonimi, come Pessoa con le sue tante identità. Un ritratto di gruppo: estimatori di letteratura, grandi lettori, intellettuali e una certa quota di professori, perlopiù francesi, ma anche belgi, canadesi, svizzeri, del Maghreb (un estratto del libro nel post La douceur de notre commerce me ravit). Incuriositi, decidiamo di intervistare Assouline. Siccome ci piace l'idea di metterlo alla prova (e poi a "Le Monde" ci dicono di richiamare il giorno dopo e parlare con l'assistente), sul finire del pomeriggio gli mandiamo un'e-mail all'indirizzo ugualitario, quello sul blog per tutti i fan. Del resto un'intervista su un diario digitale si può fare anche per posta elettronica. Lui replica a tarda sera, accetta. Raccogliamo la sfida, alle 2.34 di notte gli spediamo 15 domande. Alle 11.34 del mattino abbiamo le sue risposte (e nel frattempo sul suo blog è comparso la sua pubblicazione giornaliera, lunghissima, gustosissima).
Spiega che La repubblica dei libri gli porta via cinque ore al giorno: 'è un mezzo lavoro'. Legge tutti i commenti che arrivano. Ha due tipi di argomenti: informazioni (le notizie del giorno, la morte di un autore…) e recensioni di nuovi libri, film, documentari. 'Non parlo mai di me', precisa. Le regole per comporre un post: esattamente le stesse che segue da 30 anni per scrivere un buon articolo. Il segreto del suo successo: pubblicare tutti i giorni, un post serio, completo, informato: 'il sito deve essere vivo, nella blogosfera sono quasi tutti morti, con gente che spesso pubblica una volta al mese'. Eppure questa esperienza non gli ha sconvolto la vita. Il tête-à-tête con i lettori non ha cambiato di una virgola (è il caso di dirlo) il suo modo di scrivere. E certo, ammette che l'essere già un autore famoso lo ha aiutato a divenire popolare online. 'Il web è semplicemente un nuovo mondo, ma non è importante. È un modo per fare nuove esperienze, ma non andranno lontano'. Nelle parole dello scrittore francese manca retorica roboante cui ci hanno abituato i nostri autoproclamatesi 'guru' della blogosfera. Assouline risponde con frasi semplici, pochi fronzoli, chiarezza degli obiettivi: l'essenzialità di chi non ha bisogno di nascondere il vuoto del pensiero. 'Il blog è ottimo per vendere più libri' ci risponde. 'È bello essere letti in ogni parte del mondo'. 'Sono oggi più giornalista che mai, e mi piace innescare dibattiti intellettuali'. Non è poi così stupito di avere tanto successo: 'La Francia è un Paese di letteratura, non si dimentichi che il premio Goncourt è un evento nazionale'. Inutile andare a vedere le classifiche dei blog più letti in Italia. Ai primi posti non c'è nulla di simile. Eppure ci possono essere mondi (virtuali) migliori e non per questo meno 'democratici' (da leggersi con la r di Giorgio Gaber)." (da Lara Ricci, 'La république des livres'. Pierre Assouline spiega il successo del suo blog letterario, "Il Sole 24 Ore", 18/12/'08)

sabato 20 dicembre 2008

Le lune di Giove di Alice Munro


"'Forse siamo solo degli anacronismi. No, non è il termine giusto. Volevo dire vestigia. In un certo senso lo siamo già. Vestigia del passato'. Non è un pensoso intellettuale a parlare, ma una solida venticinquenne, Ruth, alta 'quasi un metro e ottanta'. Contava di fare l’attrice, ma ha rinunciato, e 'adesso studia da insegnante per bambini con problemi psichici'. Ci troviamo in campagna, nel cuore dell’Ontario, in Canada, un luogo dagli ampi spazi e dagli infiniti silenzi. Ruth partecipa a una festicciola famigliare: per essere precisi, a una Festa di fine estate, secondo il titolo del racconto di Alice Munro di cui è una dei personaggi. Sembrerebbe una circostanza occasionale, ma in realtà la grande scrittrice canadese mette in scena qui uno di quei 'processi di ricerca', come li ha appropriatamente definiti W. H. New, nei quali 'sono coinvolti personaggi e narratore'. Ma soprattutto, come è peculiare dei suoi racconti, si affida a quella circostanza per offrirci un autentico microcosmo. I personaggi chiave sono generalmente donne, come in questo racconto, ma gli uomini recitano una parte decisiva che definirei di sponda, in genere incapaci di sentimenti ricchi, creativi, e invece persuasi del loro ruolo di protagonisti, non di rado ottusi. La festa, nella sua scansione, consente alla scrittrice di presentarci la storia insieme fattuale e interiore, vissuta in una prolungata quotidianità, caratterizzata da insuccessi esistenziali ormai introiettati, portati come cicatrici vecchie e nuove. Sono queste - per rifarci ancora alle osservazioni di New, 'le ambiguità psicosessuali' caratteristiche della narrativa della Munro, le complesse e spesso contraddittorie relazioni sociali, vertiginosamente trasferite nel linguaggio. Uno dei vertici di simili ambiguità si coglie in un altro racconto, Storie finite male, dove essa acquista un risvolto inquietantemente ironico, quasi beffardo. Qui la scrittrice manovra una storia dentro la storia, fin quasi a produrre un caleidoscopio al tempo stesso letterario ed esistenziale, fino alla memorabile chiusura. Douglas, personaggio maschile, tradisce una insicurezza che rasenta l’inconsistenza mascherandosi di velleitarie certezze. L’altro uomo, Leslie, 'è freddo, ostinato, superficiale, avaro d’affetto, onesto, sincero, nobile d’animo e vulnerabile'. Ancora una volta, sono le donne, le due mogli, la narratrice in prima persona e la sua amica Julie, a tenere in pugno le fila della storia, giocando tra realtà e finzione, quella dei libri, sui quali gradualmente la vicenda si snoda, anche tenendo conto che la prima è di professione bibliotecaria. Sulle ceneri della loro delusione esistenziale, del loro matrimonio, allora, le due donne possono affidarsi alla immaginazione, ricostruirsi nel segno della fantasia. Sarà lecito, e possibile, rimuovere le storie finite male e inventarne nelle nuove, sanzionate dalla prevedibile conclusione: 'E vivere tutti felici e contenti'. Uno dei culmini si raggiunge nel racconto che chiude la raccolta e le fornisce il titolo,
Le lune di Giove (The Moons of Jupiter). Il referente drammatico è un uomo, un anziano ricoverato in ospedale per subire un delicato intervento di cardiologia dal quale potrebbe non riprendersi e sopravvivere. Ancora una volta la prospettiva è fornita da due donne, la figlia e una nipote, poste di fronte alle antinomie, addirittura agli enigmi, della loro esistenza, e insieme della morte. Trova spazio una visita al museo, dove è possibile ammirare un planetario, e dunque un ulteriore trascendimento della realtà, prima di visitare ancora il paziente in ospedale. Quasi simbolicamente, le due visite si incrociano, e segnano un momento cruciale, un’epifania, nella quale confluiscono presente e passato, nel segno di una lucida intelligenza. Ma la vita è fatta anche di piccoli gesti quotidiani, mai di fiammate tragiche. Alla fine del racconto, la protagonista si recherà a prendere un caffè. Mai si configurerà un’esasperazione tragica; sempre trionferà l’universalità del quotidiano. La Munro non conosce rivali nella riduzione della storia, dello spessore tragico, alla consumazione di una simile, universale quotidianità, senza cercare consolazioni o ricette. Grazie a Susanna Basso per la splendida resa italiana." (da Claudio Gorlier, Quante donne alla festa dell'ambiguità, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/12/'08)

giovedì 18 dicembre 2008

Dall'Ulisse dublinese di Joyce all'Antigone di Brecht contro le SS


"I classici sono tra noi. La loro presenza rivoluzionaria nella cultura e nelle emozioni stesse del Novecento è testimoniata da un'opera per tutte, che continuamente rimanda alla mitologia greca: L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, uscita nel 1899, un anno prima che cominciasse il secolo delle ideologie, il secolo più violento della storia, il secolo della modernità, che per spiegare il nuovo, per prenderne le giuste distanze, ha dovuto aggrapparsi ai classici greci e latini, a volte unica ancora di salvezza di fronte al cambiamento. Ecco qualche spunto di lettura, nella consapevolezza che ciascuno può suggerire un proprio percorso alternativo. In principio fu Omero. 'Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente dalla mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò: Introibo ad altare Dei'. L'avete riconosciuto? Ma sì, è l'incipit dell'Ulisse di James Joyce, dove Stephen Dedalus è Telemaco, Buck Mulligan, suo amico, è Antinoo, Leopold Bloom, il protagonista, è Ulisse, nei panni di un pubblicitario ebreo dublinese che si sente straniero in patria e ha sposato la carnale Molly, una Penelope non tanto fedele. Il capolavoro di Joyce, che si svolge in una sola giornata, dalla mattina a notte inoltrata, raccontando l'ordinario viaggio di un uomo dall'apparenza ordinaria per le strade e i bar di Dublino, è considerato l'omaggio maggiore del Novecento alla grande cultura classica. Non importa che lo scrittore irlandese componga un mosaico di stili, divertendosi a giocare con la prosa da feuilleton o con quella da manualistica, l'intenzione dichiarata è davvero fare i conti con l'epica omerica, che però dev'essere attualizzata e, se necessario banalizzata, per raccontare la vita e la sensibilità dell'uomo moderno. Modernità espressa soprattutto dal 'flusso di coscienza'.
Chi considerava l'Ulisse di James Joyce il punto di non ritorno dall'epica classica si è dovuto ricredere quando nel 1990, oltre settant'anni dopo i gorgoglii di Leopold Bloom, è comparso sulla scena internazionale il poema Oméros di Derek Walcott: ottomila versi divisi in sette libri e sessantaquattro capitoli che sono valsi al poeta caraibico (nato a Saint Lucia nel 1930) il massimo riconoscimento letterario, il premio Nobel, nel 1992. I meno informati, soprattutto in Italia, dove per leggere l'opera nella bella traduzione di Andrea Molesini per Adelphi, abbiamo dovuto attendere il 2003, hanno gridato al Carneade: chi è costui? Ma gli specialisti, come Sergio Perosa o Luigi Sampietro, ci avevano subito avvertito che Derek Walcott, uno splendido signore dagli occhi verdi e dalla carnagione di mulatto, negli anni Ottanta formava a Boston, con Joseph Brodskij e Séamous Heaney, il più incredibile trio poetico che si sia visto: all'università di Harvard, dove insegnavano, li chiamavano i magnifici tre. Sarebbero tutti stati insigniti del Nobel. Se Joyce e Walcott sono l'alfa e l'omega del rapporto che il Novecento ha avuto con Omero, una citazione a parte merita La guerra di Troia non si farà, dramma composto nel 1935 dal francese Jean Girodoux. 'Amiamo persino le lodi che non crediamo sincere. Il privilegio dei grandi è vedere le catastrofi da una terrazza' esclama uno dei protagonisti. È chiaro che qui non siamo nell'ambito dell'epica ma nel terreno molto più frequentato durante il Novecento: quello della denuncia. Per quanto riguarda l'Italia, il più omerico dei romanzi del Novecento può essere considerato Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo, l'epico racconto del ritorno al paese natale Cariddi di 'Ndrja Cambria, marinaio della regia marina scampato alla carneficina della seconda guerra mondiale. Una Odissea cui l'autore lavorò per oltre vent'anni, dopo la pubblicazione di un capitolo nel 1960 sul Menabò di Elio Vittorini, e che uscì da Mondadori nel 1975. E come dimenticare, per arrivare ai nostri giorni, la rivisitazione dell'Iliade di Alessandro Baricco? Il suo testo pubblicato nel 2004 e composto per il teatro attraverso ventuno monologhi di altrettanti personaggi fa rivivere le voci di pace in un poema di guerra. Tanto che lo stesso Achille ammette: 'Niente, per me, vale la vita'.
Oltre l'epica. Per rispondere all'angoscia contemporanea il Novecento ha attinto soprattutto al repertorio dei tre grandi drammaturghi, Eschilo, Sofocle, Euripide. A chi ha in mente il volto di Maria Callas nel film Medea di Pier Paolo Pasolini, ispirato all'opera di Euripide, ricordiamo che Pasolini ha tradotto l'Orestea di Eschilo, l'unica trilogia del teatro classico giunta sino a noi per intero. La versione pasoliniana è stata quella più rappresentata nel teatro italiano del secondo Novecento. Ma il personaggio e il dramma più frequentato dalla grande drammaturgia è forse Antigone di Sofocle. L'eroina che si ribella al dittatore Creonte è stata rivisitata da Bertolt Brecht e da Jean Anouilh: entrambi hanno ambientato la tragedia nella seconda guerra mondiale. La scena iniziale in Brecht, che rivede Holderlin, è un'impiccagione nell'aprile 1945 a opera di SS. E lo scorso mese, la nuova versione di Séamous Heaney, The Burial at Thebes, rappresentata a Londra, è stata ambientata sotto la direzione di Walcott in un Paese latinoamericano retto da un dittatore. Poeti, dei ed eroi sono tornati. Alla fine gli eroi e lo spirito dei poeti classici rivivono nella modernità. Il secolo scorso si apre con l'invocazione di un grande poeta, Costantino Kavafis, nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia greca, che nei suoi versi ritrova la grazia degli antenati. Kavafis fa dire al suo Ulisse: 'Se per Itaca volgi il tuo viaggio / fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze'. Così l'incanto delle voci antiche rivive in un altro testo che fece scandalo in tempi di neorealismo imperante, Dialoghi con Leucò, che invece rimane uno dei testi più grandi di Cesare Pavese, in cui tornano a parlare Achille e Patroclo. La tedesca Christa Wolf, cresciuta nella dittatura del socialismo reale, dà invece voce a una moderna Cassandra, che si interroga sulla sensualità e sul ruolo delle donne, sul potere e la libertà. Un altro personaggio femminile rivive in un romanzo recente, Il salto di Saffo (Bompiani) di Erica Jong: la poetessa, prossima alla vecchiaia, vuole evitare l'onta di una vita senza eros, gettandosi da una rupe. E prima di compiere il gesto, ricorda i tanti amori che l'hanno condotta ai confini del mondo conosciuto e del piacere. Come concludere senza ricordare Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi) in cui Roberto Calasso racconta, attraverso l'ultimo banchetto tra gli dei e gli uomini, la grande mitologia greca." (da Dino Messina, Dall'Ulisse dublinese di Joyce all'Antigone di Brecht contro le SS, "Corriere della Sera", 16/12/'08)

Gabbiani di Francesco Petrarca


"Petrarca scrisse degli epigrammi latini. Il loro carattere, quasi sempre occasionale e leggero, li rende ancora oggi freschi, sorprendenti. Giuseppe Billanovich in Petrarca letterato (Edizioni di Storia e Letteratura) lasciò una fascinosa ipotesi, ricordando che forse esistette un quaderno ove il poeta 'riunì i suoi versi improvvisati'. Ora Francisco Rico, studioso tra i più apprezzati del sommo autore, ne ha raccolti dodici che gli sono sembrati 'di maggior valore tra quelli di attribuzione sicura'. Li ha intitolati Gabbiani (Adelphi). Scritti per lo più in distici elegiaci (ma cinque sono in esametri caudati), soltanto due di essi furono pubblicati per volontà dell'autore che li incluse nelle Lettere Familiari. Rico così spiega la traduzione: 'Dato per scontato che non potevo azzardarmi a volgere in italiano il Petrarca latino, ho chiesto ad alcune grandi studiose ed eccellenti amiche di farlo per me, e di farlo senz'altro in limpida prosa'. Ogni epigramma è stato poi commentato e annotato nel senso alto del termine, tanto che il lettore intraprende con questo svelto libretto dodici percorsi. Sono viaggi ideali che nascono dalle parole del sommo umanista per approdare in luoghi privilegiati della cultura occidentale. Perché il titolo Gabbiani? È quello del terzo epigramma di codesta raccolta, datato 1341. Sembra che Petrarca — ricorda Rico — navigando alla volta dell'Italia, dinanzi alle coste di Roma, risentisse in sé gli echi di una allora nota canzone che gli attuali studiosi di folklore conoscono come Le trasformazioni. È una conversazione tra l'amante e l'amata, nella quale l'uomo promette alla donna che, se prenderà le sembianze di un certo essere, egli la inseguirà tramutandosi. L'amore, in altri termini, cambierà la sua natura. Petrarca improvvisò un dialogo fittizio con un amico caro, forse il musicista fiammingo Ludovico di Beringen, o il nobile romano Lello Tosetti: anche se non rivela in quale 'pulcra avis' potrebbe mutarsi Laura, Rico conclude: 'Chi, solcando il Mediterraneo, allude a un uccello che vola in stormo e si sposta sull'acqua non può che riferirsi al gabbiano'. Una libertà, un sogno filosofico, una fantasia dietro cui si avverte un soffio platonico: seguendolo si scopre che l'amore trasforma l'amante nell'amato o 'in amatos mores' (così nel Secretum), nel modello dell'amato. O, scostandosi da questa ipotesi, si può scegliere un'altra via: l'amico è un alter idem e con lui si vive un accordo totale. Nasce in tal modo la speranza che i due giungano all'identica metamorfosi; se così fosse, hanno seguito una nozione aristotelica, mediata da Cicerone. Questo è un esempio dei dodici possibili. Non sono degli inediti ma aiutano a entrare in un universo di sensazioni gentili. Tra l'altro, dell'epigramma ricordato c'è già una raffinata traduzione italiana di Michele Feo in Petrarca nel tempo (Bandecchi; Vivaldi)." (da Armando Torno, Riscoperte. Dodici divertimenti Laura, Petrarca e il volo d'amore dei gabbiani, "Corriere della Sera", 16/12/'08)

mercoledì 17 dicembre 2008

After Dark di Haruki Murakami


"L'idea di un racconto che si sviluppi e si concluda nell'arco di una sola notte sembra esercitare maggiore attrazione sui registi di cinema che sugli scrittori. Da Mentre Parigi dorme di Marcel Carné a Fuori orario di Martin Scorsese, innumerevoli sono gli esempi di film giocati su una narrazione a spirale, la cui curva, avvicinandosi e allontanandosi, si avvolge intorno a un unico centro, la notte. Catturare le vite di alcuni personaggi nello spazio di poche ore offre all'autore l'opportunità di aprire e chiudere un intero ciclo narrativo in un tempo breve, imprigionando al suo interno una significativa campionatura di destini. In After Dark, Murakami, reduce da un'impresa di grandi ambizioni come quella di Kafka sulla spiaggia e desideroso di dedicarsi a un progetto su scala ridotta, ha scelto questa idea prettamente cinematografica e l'ha seguita fino in fondo realizzando il suo romanzo più concentrato e compatto. In After Dark, come nei modelli filmici a cui si ispira, l'unità di tempo è rigorosamente rispettata - i capitoli sono scanditi dall'immagine di un orologio dove le lancette indicano con precisione il passare delle ore - mentre quelle di luogo e azione sono infrante con la massima libertà. Murakami compone il racconto di una città polimorfa e vagamente mostruosa che si espande in ogni direzione, un gigantesco animale attraversato da un'infinità di arterie luminose e pulsanti. [...]" (da Giorgio Amitrano, Bellissima e misteriosa. Il Giappone e una ragazza, "La Repubblica", 17/12/'08)

lunedì 15 dicembre 2008

La politica nell'era della sfiducia di Pierre Rosanvallon


"'La democrazia non è solamente il voto nell´urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale'. È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi è considerato uno dei più influenti intellettuali d´Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légitimité démocratique (Seuil), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell´era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubbettino). 'Il disincanto democratico è oggi un´evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso', spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri. 'Oggi il voto non è più un momento d´identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un´identità sociale, oggi esprime un´opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell´interesse comune'. Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica? 'Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un´elezione e l´altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell´era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo'. Di che si tratta? 'La "controdemocrazia" è costituita dall´insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all´esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E´ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet'. Lei parla anche di sovranità negativa ... 'È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell´attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d´impedire e facoltà d´agire, in democrazia. E´ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati'. Quali sono le altre forme della controdemocrazia? 'Un´altra componente importante è l´esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall´ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L´atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell´opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo'. Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l´antipolitica. Non è un rischio? 'Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall´altro, possono anche indebolirla, alimentando l´antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell´antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un´appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo'. Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni? 'No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell´interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l´amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un´incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono'.
In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere ... 'Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d´innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un´illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso'. Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica? 'In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E´ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l´appoggio di altre forme di legittimità'. In che modo? 'Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall´imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C´è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l´uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell´istante. Infine, c´è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l´accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell´allargamento della concezione della democrazia'. Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre? 'No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all´interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio'." (da Fabio Gambaro, Democrazia. Il paradosso dell'antipolitica, "La Repubblica", 15/12/'08)