Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
venerdì 26 dicembre 2008
La Germania di Weimar. Utopia e tragedia di Eric D. Weitz
"C´è una insidia intellettuale e ideologica nel riaprire il discorso storico sulla repubblica di Weimar. È l´insidia del suo 'pacifico' tramonto (non è stata infatti abbattuta né da una rivoluzione, né da un colpo si Stato) avvenuto tra faticose crisi politiche, frequenti ricorsi alle urne, insanabili contrasti tra i partiti della sinistra (una socialdemocrazia forte, riformatrice e autorevole e un partito comunista, piccolo, estremista, in attesa della rivoluzione) e mentre dilagavano una destra reazionaria e un centro moderato sostenuti dall´estensione e variabilità sociale delle loro componenti: i ricchi dell´industria, delle finanze e delle grandi proprietà terriere, alcuni milioni di disoccupati provocati dalla crisi economica, le alte gerarchie cattoliche o protestanti, i militari revanscisti, gli intellettuali inquieti e falliti, i «benpensanti» e giovani nazionalisti, impazienti che volevano vendicare la sconfitta subita nella grande guerra. Un fronte ampio e deciso, saldato dal rifiuto dei trattati di pace di Versailles: trattati, per la verità, politicamente ciechi e ingiusti nei confronti del popolo tedesco.
Un tramonto, dunque, che affascina con insistenza politologi, giornalisti e naturalmente gli storici; costretti, questi ultimi, a suggerire nuove interpretazioni di una storia ormai ben conosciuta e forse senza più grandi misteri nascosti.
Se tra le ricerche più recenti vale la pena di ricordare quella di Eric D. Weitz, uno storico americano dell´Università del Minnesota intitolata La Germania di Weimar. Utopia e tragedia (Einaudi), tanti sono stati i libri e gli articoli dedicati a Weimar, ai suoi protagonisti (con preferenza, in fondo, per quelli di destra, da Heidegger a Jünger a Carl Schmitt) ed ai suoi scenari della politica e della cultura. L´interesse degli storici è tuttavia meno contingente e strumentale di quello dei politologi e dei giornalisti ed è prevalentemente indirizzato al racconto della vita di quella repubblica più che alla descrizione delle sue malattie e della sua forse non inevitabile morte. Risiede, in definitiva, nella intenzione di inscrivere la storia di Weimar in quella della attuale democrazia tedesca, ritrovando gli elementi attivi di una continuità e di una tradizione culturale e artistica, e il lascito della verità e dignità dell´agire politico più che considerarla il prologo del dramma del Reich nazista.
È anche vero però che la risonanza che da sempre ha la storia dei quattordici anni di democrazia vissuti dalla Germania dal 1919 all´avvento di Hitler, si avverte con più forza ogni volta che nelle democrazie dell´Occidente (soprattutto in Italia) affiorano malesseri sociali e il tormento delle instabilità politiche. Infatti il pensiero va subito a quell´esperienza tedesca e scattano meccanismi di esorcizzazione, mescolati però all´ammirazione di quanti hanno capito quel che è accaduto in un tempo della politica e della vita civile della Germania che fu comunque positivo e creativo. Ammirazione per una democrazia originale, sperimentata per la prima volta nel Novecento in uno dei luoghi dell´Europa più degni e mentre irrompeva nel vecchio continente la società di massa, anzi la «rivoluzione delle masse» (o anche l´«uomo-massa» e «Metropolis», per dirla in linguaggio weimariano), la loro modernizzazione, la loro americanizzazione. E a questo proposito è interessante e inquietante la definizione che nel l930 aveva dato Thomas Mann del nazionalsocialismo: 'Una ondata gigantesca di barbarie eccentrica e di fiera delle vanità democratiche di massa'. Weimar non può essere perciò un comodo e neutrale metro sociologico o, come avrebbe detto uno dei suoi fondatori, Max Weber, un Ideal Typus della democrazia moderna. È piuttosto un insieme di problemi, la cui lettura scientifica, cioè storiografica, è necessaria per correggere le deformazioni ideologiche della storia tedesca del Novecento (rinchiusa ormai in media televisivi e cinematografici i cui orizzonti sono soltanto quelli del nazismo) e certe approssimazioni della stessa storiografia contemporanea, per lo più non tedesca, poiché per fortuna i tedeschi sono stati più bravi di noi nell´elaborare il lutto del loro Fascismo. E poi per scoprire, se è possibile, le ragioni di questa stessa storia, per dare un significato meno spettrale all´intrecciarsi di eventi (le crisi economiche e sociali, la socialdemocrazia e il comunismo, la razionalizzazione capitalistica, il formarsi del nazionalsocialismo, il teatro, il cinema, la musica, gli spettacoli, i poeti di Weimar, la 'cultura di Weimar') che fanno di quella repubblica il laboratorio di una transizione a una modernità globale interrotta bruscamente nel l933 e poi posta per un decennio al servizio di idee politiche e programmi di azione completamente opposti. Sappiamo bene quali possono essere i rischi di una ricostruzione a tesi della storia di Weimar. Weimar stessa si è presentata sotto una lente di ingrandimento; come se gran parte delle cose avvenute in quegli anni siano state più grandi e «meravigliose» del normale. Forse per questo gli storici tedeschi hanno atteso fino al l973, a un convegno storico internazionale tenuto a Bochum, per avviare una indagine a tutto campo su di essa. E ricordiamo pure che in quel periodo la Germania era divisa in due Stati, vi era il muro di Berlino e incombeva la guerra fredda. Non è escluso quindi che anche il ricordo e la riflessione su Weimar possano essere stati un piccolo contributo alla caduta di quel muro e alla riunificazione politica e culturale del popolo tedesco. Al tempo della repubblica di Weimar altre divisioni penetravano in Germania e nella sua nascente democrazia: la presenza in Europa del comunismo sovietico, le tensioni sociali, la lotta di classe (allora i «borghesi» e i «proletari» erano delle realtà ben visibili), un´economia capitalistica nella quale convivevano la organizzazione, la razionalizzazione e la depressione. La Germania di Weimar ha sopportato infatti il peso di due grandi crisi economiche. La prima, dovuta alla sconfitta nella prima guerra mondiale: la terribile inflazione dei primi anni ?20 che ne seguì fu in gran parte indotta dalle potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, con la richiesta di esose riparazioni dei 'danni di guerra' non si sa se per punire una Germania imperiale (responsabile quanto loro della prima guerra mondiale) che comunque non esisteva più, o per rallentare l´evoluzione istituzionale della repubblica tedesca verso un inedito modello di democrazia progressiva e socialmente più giusta. Almeno settecentomila tedeschi morirono di fame e di stenti in quegli anni. La seconda crisi, proveniente dal crollo di Wall Street del 1929, investì la ancora debole razionalizzazione industriale, finanziaria e commerciale cominciata cinque anni prima grazie al Piano Dawes, cioè grazie ai dollari di società e banche statunitensi.
Nel primo caso, il capitalismo tedesco si riprese dall´inflazione grazie alle strategie monetarie del banchiere Hjalmar Schacht (che rivalutò il marco strappandolo all´abisso in cui era caduto nel l923, quando un pezzo di pane costava miliardi), alla fiducia da lui cercata nei circoli finanziari inglesi e ai crediti del Piano Dawes, ma gli imprenditori si impegnarono, in cambio, a evitare lo svolgimento della democrazia tedesca verso uno «Stato sociale» ante litteram. Fu la prima grande difficoltà creata al partito socialdemocratico al governo e alla sua guida teorica, l´economista marxista Rudolf Hilferding. Nel secondo caso, l´avvento del nazismo distrusse le basi istituzionali e formali della repubblica, anche se, è necessario ripeterlo, Hitler giunse al potere nel rispetto delle forme weimariane. E non si trattava comunque di «forme vuote», come le statue colossali della decadenza imperiale romana, e come fece credere il giornale conservatore inglese Times (ecco una prova dell´immagine negativa che dà l´instabilità della democrazia) che salutò nel governo di Hitler, che aveva la maggioranza al Reichstag, 'il ritorno a un corretto sistema parlamentare'. Paradosso per paradosso, si può ben dire infatti che la repubblica di Weimar finì idealmente per mano di coloro che avrebbero dovuto sostenerla, i liberali, i cattolici del 'Centro' anzitutto e che invece si piegarono al grande capitale e al populismo revanscista del nazismo che sigillò il tutto. In questo quadro (a parte l´utopia rivoluzionaria dei comunisti) resta ovviamente aperto il problema del ruolo giocato dal partito socialdemocratico tedesco al quale Rudolf Hilferding avrebbe voluto invece, tra difficoltà e incomprensioni, affidare il compito di preparare una pianificazione generale dell´economia capitalistica nell´ambito però degli istituti della democrazia; una prospettiva di lungo periodo che fu avversata, tra gli altri. anche dagli interessi corporativi e di breve periodo dei sindacati. Il punto di non ritorno non fu soltanto il 1933; la data esatta sarebbe il 1930, quando fu eletto cancelliere il cattolico liberale Heinrich Bruning. Il suo metodo di governo fu accusato di presidenzialismo, di abuso di decreti legge e di scarsa convinzione sul ruolo dei partiti dentro le istituzioni. In verità il governo Bruning (al quale comunque non parteciparono i socialdemocratici) fu l´ultima carta giocata dalla repubblica per salvarsi dalla Destra, dei nazionalsocialisti, dai comunisti e dalla crisi importata dall´America.
Penso che i due anni del governo Bruning siano stati la chiave di volta politica dell´indebolimento «involontario» della democrazia di Weimar. Bruning governò la crisi economica adottando gli strumenti della deflazione (controllo dei prezzi, riduzioni dei salari, intervento sul mercato) puntando su un efficiente presidenzialismo e rafforzando il potere esecutivo, ma con un obiettivo positivo e preciso: bloccare il nazionalsocialismo (era stato deciso lo scioglimento delle formazioni paramilitari naziste, ma anche comuniste), affrontare la depressione economica con iniziative e controlli pubblici (come di lì a poco farà Roosevelt con il New Deal in America); fermare la pressione francese e inglese sulle riparazioni dei danni di guerra (si trattava di decine di milioni di marchi-oro che la Germania avrebbe dovuto pagare fino al 1952). Dai paesi vincitori era stata concessa, per la verità, una moratoria sulle rate dei pagamenti, ma in quel momento drammatico per l´economia tedesca (i disoccupati erano sei milioni) erano indispensabili, appunto, atti democratici fortemente impegnativi: una politica di controllo deflattivo dei prezzi contro gli speculatori, l´aumento delle tasse ai più abbienti, «piani di lavoro» per la disoccupazione; intervento diretto dello Stato sulla produzione industriale. Erano strategie, discusse o criticate anche nell´ambito dei sindacati e del partito socialdemocratico, ma la Destra e i comunisti attaccarono frontalmente e duramente Bruning che nel maggio 1932 diede le dimissioni. Fu sostituito, dopo un tentativo pacificatore del generale von Schleicher da un cattolico più gradito ai conservatori, Franz von Papen. Ed ecco infatti la sua prima dichiarazione in Parlamento: 'Il governo ha di mira il ritorno ai principi dell´economia di mercato'.
Come si vede, ho parlato della crisi finale della repubblica di Weimar più che della sua storia. Nella quale vi furono forme e momenti felici, divertenti, meno drammatici di quanto non sembri. Di questi aspetti si occupa tra l´altro la ricerca, citata all´inizio, di Eric D. Weitz, che disegna la cultura di Weimar e immette il lettore nei luoghi e nelle atmosfere dove le arti figurative, il cinema, le architetture, la letteratura, la musica, i Kabarett sprigionavano i linguaggi delle avanguardie, della sperimentazione, dell´inconsueto. Il cuore è Berlino, la città che pare rinnovata con la felicità e la leggerezza di Parigi e di Londra. Il capitolo Camminando per la città (comincia con 'Weimar era Berlino; Berlino Weimar') è proprio il racconto affascinante di una città dove tutto ha il segno della vitalità. È il momento in cui i berlinesi scoprono il Jazz. La musica negra e americana che spezza convenzioni e schemi tradizionali e senza la quale, dice Weitz, nè Kurt Weill né Brecht avrebbero imposto il loro stile agli spettacoli che li resero famosi. La Weimar raccontata da Weitz è anche il teatro della liberazione della donna tedesca. Il capitolo molto suggestivo Corpi e sesso spiega bene, ad esempio, la scoperta della sessualità disinibita che è simmetrica della modernizzazione accelerata, tecnologica, socializzata che la società di massa comincia a gustare per tutti gli anni Venti. Il cinema, i dischi, la moda sportiva, la fotografia, gli oggetti «Novecento», l´intraprendenza femminile, il nudo e la purezza della bellezza (peccato che Weitz non ricordi il contributo che, prima del nazismo, a questa immagine della figura umana come dei paesaggi naturali diede l´attrice e regista Leni Riefenstahl) sono nel libro di Weitz i contrappunti di una analisi storica e di un giudizio politico e morale sulla repubblica di Weimar assolutamente condivisibili. Tornano alla ribalta la rivoluzione architettonica di Gropius, Mendelsohn, Bruno Taut, le analisi filosofiche di Heidegger, Kracauer, Bloch, i pittori e i registi cinematografici dell´Espressionismo, i romanzi e i presagi di Junger, Joseph Roth, Benjamin. ... Insomma, l´Utopia di cui parla il titolo del libro. Un 'tempo moderno' che la tragedia del l933 farà sparire dalla Germania ma che continuerà a vivere altrove, soprattutto negli Stati Uniti; un mondo che il racconto di Weitz restituisce alle verità relative e immodificabili di una storia del Novecento." (da Luco Villari, Weimar, una crisi esemplare, "La Repubblica", 23/12/'08)
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