lunedì 22 dicembre 2014

Scrittori, attenti alla trappola dei racconti morali


"Al mondo dei più piccoli Daniel Pennac ha sempre guardato con grande attenzione. Per i lettori più giovani ha infatti scritto diversi libri che hanno ottenuto un grandissimo successo, come dimostrano L'occhio del lupo, le storie della serie Kamo e, più di recente, Ernest e Celestine. Convinto che sia più che mai necessario rivolgersi ai bambini, lo scrittore francese sa però che scrivere per loro è un esercizio delicato che richiede impegno, sensibilità e umiltà, oltre che la capacità di rispettare l'intelligenza dei piccoli destinatari.
«Quando raccontiamo una storia ai bambini, in realtà non facciamo altro che rispondere al loro ontologico bisogno di mitologia», spiega Pennac, di cui è appena giunta in libreria una nuova edizione dell'ultimo romanzo, Storia di un  corpo (Feltrinelli), illustrata con i disegni di Manu Larcenet. «Le storie consentono loro di appropriarsi di un universo di miti e narrazioni necessario alla costruzione dell'identità e ad affrontare l'esperienza della vita. E non è vero che ai piccoli si debbano raccontare solo storie semplici e brevi: si possono proporre loro anche storie di grande respiro. A cominciare dalle due principali epopee dell'antichità: l'Iliade e l'Odissea».
Lei ha scritto diversi libri per bambini. È un esercizio difficile?
«La scrittura per i piccoli è il risultato di un'alchimia misteriosa, nella quale lo scrittore cerca di conservare la propria voce specifica, le proprie peculiarità di narratore, ma mettendosi al livello di destinatari speciali, nei confronti dei quali bisogna evitare di essere pedanti e didascalici. Per raccontare una storia ai più piccoli, occorre trovare le parole, la musica e il tono giusti. Nella letteratura per l'infanzia le frasi sono infatti meno complesse e con meno subordinate, ma proprio per questo occorre scegliere con più attenzione il vocabolario. Io ho sempre cercato di scrivere racconti precisi e lineari, evitando i giochi di parole incomprensibili».
Qual è la maggior difficoltà, quando ci si rivolge ai bambini?
«Bisogna soprattutto stare attenti a non finire nella trappola della letteratura edificante, sia quella che vuole difendere la morale tradizionale sia quella che invece li vorrebbe "liberare" dall'alienazione borghese. Quando si parla ai bambini, non bisogna essere didattici né ideologici».
Una lezione che lei ha messo a frutto ad esempio nell'Occhio del lupo, uno dei suoi maggiori successi.
«Un libro scritto per i bambini che però esprime un sentimento da adulti, quello dell'esilio. Per costruire quella storia che racconta la sofferenza di un lupo in gabbia, avevo bisogno di un personaggio prigioniero di una situazione simile. È nato così il personaggio del piccolo immigrato lontano dal suo mondo che comprende e dà voce al dolore dell'animale. Un tema da adulti, ma che i piccoli possono benissimo capire».
Nei suoi libri per l'infanzia compaiono spesso gli animali.
«Preferisco le storie di fantasia a tutti quei libri che raccontano la quotidianità domestica dei bambini, le relazioni con i fratelli, con i genitori, i piccoli problemi della vita quotidiana. In letteratura la psicologia non m'interessa, preferisco l'immaginazione e l'avventura. Per esempio, in Ernest e Celestine ho perfino affrontato i segreti della narrazione e il meccanismo da cui nascono le scelte di un romanziere. Ma con leggerezza e ironia».
Certe storie non sono troppo difficili per i bambini?
«Quando si legge o si racconta una storia ai bambini, non bisogna preoccuparsi troppo se non capiscono tutto. Ai bambini piace ascoltare l'adulto che racconta, di conseguenza trasformano in piacere dell'ascolto anche i dettagli che eventualmente non capiscono. Le difficoltà di comprensione sono più che altro una scusa per la pigrizia degli adulti che non hanno voglia di mettersi in gioco con i più piccoli. Preferiscono parcheggiarli davanti al televisore o al computer. E invece dobbiamo formare i lettori di domani»." (da Fabio Gambaro, Scrittori, attenti alla trappola dei racconti morali, "La Repubblica", 14/12/'14)

Pennac su IBS

martedì 25 novembre 2014

Eroine che ci fanno capire, ecco la biblioteca delle donne



"Erano tutti maschi, gli eroi. Si inizia a leggere per andarsene, per stare da un'altra parte dove, possibilmente, ci siano tigri, mari, battaglie da combattere per salvare l'umanità. Ma quando io ero bambina, l'unica femmina la cui vita valeva la pena di invidiare era Pippi Calzelunghe. Abitava a villa VillaColle col signor Nilsson e zietto, aveva una forza che stendeva a pugni qualunque bastardo, e progettava la sua esistenza come un'eterna avventura. Per questo invidio quelle ragazzine col naso affondato nei giganteschi tomoni degli Hunger Games o nella trilogia di Veronica Roth, Divergent. Si inizia a leggere per desiderio di avventura (anche quando le tue avventure le vivono tutte i maschi) e, una volta che il credito è stato accordato, si può cominciare a leggere qualcos'altro. 
Quando si è imparato che bisogna tener duro per le prime tre pagine, perché entrare in una storia è come saltare dentro un buco nero, la letteratura fa tana nei nostri cuori. Ed è in quel momento che nella vita di una lettrice entrano le regine: Jane Austen, Emily e Charlotte Bronte. Orgoglio e pregiudizio, Jane Eyre e Cime Tempestose. Si parte da lì, ovunque si decida di andare. Io sono andata sempre verso le storie, ho sempre avuto questa passione imperdonabile e inestinguibile per la narrativa. Lo dico perché altre sapranno indicare meglio di me saggi e riflessioni, la non-fiction che deve stare sul comodino di ogni donna. Io  sono devota profondamente e senza possibilità di guarigione al valore dell'invenzione, alla verità dell'immaginazione, a  quella catena di meravigliosi inganni che costituisce un romanzo. Ogni romanzo, persino quello che sembra più vicino alla realtà. I diari per esempio, o le lettere. 
Tra i libri che sarebbe bene attraversare subito dopo l'adolescenza, un attimo prima di dover cominciare a organizzare tutta la faccenda dell'esistenza di adulti, ci sono le lettere di Marina Cvetaeva - raccolte da Adelphi in due volumi, Deserti luoghi e Il paese dell'anima - e Il diario di Etty Hillesum. Cvetaeva fu poesia, fino alla fine dei suoi giorni. Nacque in una famiglia agiata e colta, sposò un uomo bellissimo e durante la rivoluzione del 1917, si trovò dalla parte sbagliata. Quella dei Bianchi, i vinti. Fuggì in Francia, senza soldi, senza niente, ma non arretrò mai e mise l'arte sempre avanti a tutto. Le lettere ai suoi amici/amanti, a Pasternak, Rilke, al marito, alle amiche, sono un romanzo delle vette e degli abissi che insegna la forza, la tenacia, la disperata bellezza di essere quello che si vuole essere, ovunque siano gli altri. Guai a quel tempo che non riconosce più gli artisti e la loro insopportabile ostinazione ... Etty Hillesum invece avrebbe voluto diventare una scrittrice. Morì ad Auschwitz, lasciandoci il suo diario e qualche lettera. Scrisse "l'unica cosa che conta è offrirsi umilmente come campo di battaglia", che mi è sempre sembrata anche una delle definizioni più belle di letteratura. 
Per Anna Maria Ortese i libri furono di certo quella roba lì, quel dono di sé straziante, orribilmente faticoso. Una partita di giro con l'eterno, sempre persa. L'iguana è uno dei più stralunati racconti dell'impossibile che abbia mai letto, e uno dei più belli. Rebecca la prima moglie di Daphne du Maurier e Bonjour, tristesse di Francoise Sagan sono due romanzi perfetti sull'amore e la sua insopportabile serialità. Vale la pena perderla da giovani quell'illusione, quella del per sempre. Sagan, Du Maurier, quel capolavoro che è Riflessi in un occhio d'oro di Carson Mc Cullers, ma anche Nancy Mitford e Mary McCarthy e Dorothy Parker perché essere cattive e divertenti è sempre un buon piano B, nell'esistenza di ogni donna. Di Alice Munro tutto, ma in particolare quei racconti che Einaudi ha riunito sotto il titolo Nemico, amico, amante. Nonostante sia famosa per Il trentesimo anno, io di Ingeborg Bachmann preferisco Tre sentieri per il lago e addirittura quella pazzia che è Malina. E un ultimo, meraviglioso, romanzo: La piazza del diamante, di Mercè Rodereda. Di cui c'è poco da dire, la perfezione è indescrivibile. A me e a chi ne avesse voglia, consiglio di rileggere Agatha Christie. Non sono sicura, ma ho l'impressione che potremmo scoprire che è stata una grandissima scrittrice." (da Elena Stancanelli,
Eroine che ci fanno capire, ecco la biblioteca delle donne, "La Repubblica", 25/11/'14)

mercoledì 29 ottobre 2014

Lettera alla citta' di Pavia per Dieci minuti a libro aperto


"Mi dispiace tanto di non essere con voi oggi, in una giornata così speciale per tutti noi che amiamo i libri e la scuola. E, come succede quando si è lontani ma vicini col cuore, vi scrivo.
Dovete sapere che tutto è cominciato tanti anni fa, quando, nella redazione di “Topolino”, ho conosciuto Daniela Bonanni. Non starò a raccontare il perché e il per come. Dirò solo che è stato un incontro folgorante, che non ci siamo più lasciate, e che da lì, ho poi conosciuto le altre due maestre del fantastico trio, Maria Teresa Camera e Tina Natale. Tre maestre intorno al cor mi son venute, mi vien da dire ... Erano così speciali ai miei occhi, che avrei voluto diventar maestra anch’io per lavorare con loro!
Avevano entusiasmo, ecco. E anche un’idea tutta particolare della scuola: per esempio, pensate, leggevano in classe i libri, ai loro bambini. Libri interi, per un anno, tutti i giorni!
Non so se lo facessero in molti, allora, tra gli insegnanti. Non so se si facesse anche alle medie o alle superiori. Ma cominciai a dirmi: e perché non lo faccio anch’io? Sapete, il contagio è un affare potente. Venire contagiati dalle idee buone è la più gran fortuna che ci possa capitare. Insomma, cominciai anch’io, al liceo: nelle mie due classi, ogni volta che c’era italiano, io entravo e leggevo, per dieci minuti (proprio dieci minuti!), qualche pagina di un libro. Facevo scuro, cioè abbassavo le tapparelle, prendevo una piccola lucina, di quelle con la pinza, che si applicano alle pagine, e leggevo. Mi sembrava che non solo il tempo, ma anche la luce dovesse diventare piccola e puntiforme: una specie di faro che puntava dritto sulle pagine, e tutt’intorno niente, solo buio.
Leggevo e basta.
Poi, allo scadere del decimo minuto, chiudevo il libro e cominciavo la solita lezione. La cosa commovente è che a quel punto nessun ragazzo avrebbe più voluto smettere. Mi supplicavano di continuare. Ma io implacabile dicevo: la prossima volta. I piaceri vanno dosati, si va un po’ alla volta. E poi, il dovere è dovere ...
Tanto, andava bene così. In quei dieci minuti qualcosa di miracoloso era comunque accaduto. Senza che io facessi o dicessi niente: nessun commento, nessuna spiegazione su figure retoriche, sequenze narrative, e tutte quelle miriadi di cose astruse, inutili e secondo me anche dannose, tipo narratore eterodiegetico o omodiegetico ... In quei dieci minuti c’era solo il libro: la storia, e le parole con cui l’autore aveva scelto di raccontarcela. C’era, anche, il loro ascolto. Mentre leggevo, a poco a poco, si creava un silenzio irreale, profondo. Lo sentivo intorno. Sentivo le parole cadere nell’aria, e fermarsi con noi.
Non so se anche altri insegnanti facessero la stessa cosa. Al liceo non era così comune, forse. C’era l’idea di non dover perdere tempo, che i programmi andavano svolti. Già, il dio Programma ... Quante vittime abbiamo sacrificato in suo onore! In quegli anni si parlava poco di lettura libera, eravamo ben lontani dalle tre giornate nazionali dedicate alla lettura in classe. Io stessa non lo dicevo a nessuno, lo facevo e basta. Era una cosa tutta nostra, tra i miei allievi e me, una specie di segreto quasi peccaminoso: una trasgressione. Sì, ci sentivamo trasgressivi e ribelli, clandestini, carbonari ...
Non so se quei ragazzi, poi, abbiano iniziato a leggere libri per conto loro. Lo spero. Spero che in loro sia nato, o nasca chissà fra qualche anno, una passione naturale e incontenibile per la lettura. Non glielo chiederò mai, per carità, la vita è loro e a me nulla è dovuto. Chi semina non deve poi andar a ispezionar le zolle, per scovare semino dopo semino ... Qualcun altro però vedrà le piante cresciute, un giorno, e basta. I ragazzi vanno lasciati liberi, di continuare o anche di smettere, se smettere sarà la loro volontà. Ricordo una bellissima poesia di Prévert, in cui l’innamorato diceva alla sua donna: voglio che tu sia libera, di amare me, o anche di amare un altro, se un altro ti piace ...
La lettura, come l’amore, è libertà. Non certo costrizione, o richiesta di qualcosa in cambio.
E la lettura in classe è ancora di più: è rivoluzionaria!
Leggere in classe è andarsene via, da un’altra parte, in un altro paese di cui nessuno ci chiede conto. È farsi due baffi, della scuola. Non pensare più ai compiti, ai voti, alle interrogazioni. È riprendersi la bellezza della vita, che solo i libri ci sanno indicare così precisamente e gratuitamente, senza un prezzo da pagare. Senza dover dimostrare niente, senza che ci venga richiesta alcuna performance, verifiche, schede di lettura, voti, giudizi ... Niente. Puro ascolto.
Ho fiducia nei libri. Ho fiducia nelle parole dei libri: ho da sempre, e per sempre, la cocciuta speranza che le parole, quelle grandi, quelle dei poeti e degli artisti, scendano in noi, e ci cambino.
Ma tutti i giorni dobbiamo venire a contatto con queste parole grandi, non solo una volta ogni tanto.
La lettura deve essere per noi il pane quotidiano. Semplice, come un gesto della vita di tutti i giorni. Come ci laviamo i denti, beviamo il caffè, prendiamo l’autobus, chiamiamo un amico. Così. Tra le mille cose che facciamo, ci sia anche questa, e anche a scuola, soprattutto nel tempo infinito che passiamo a scuola: aprire un libro, affondare nelle sue parole. Dieci minuti, mezzora, due ore, fa lo stesso. Affondare. E poi, naturalmente, riemergere, a far le cose che si devono fare: ma cambiati, ripuliti, nuovi.
Questo il mio augurio, a tutti, oggi che vorrei essere con voi, e ci sono soltanto con queste poche, insufficienti, parole: che la lettura diventi un’abitudine dolce, un gesto automatico e naturale, di normale sopravvivenza, in un mondo che ci appare sempre di più un deserto pieno di vuoti rumori ...
Grazie di avermi insegnato questo, grazie alle mie tre grandi maestre di Pavia, e a tutti voi.
Buona festa!" (da Paola Mastrocola, Lettera alla città di Pavia per 'Dieci minuti  a libro aperto', "La provincia pavese", 29/10/'14)

LeggerePavia

Paola Mastrocola su IBS

venerdì 10 ottobre 2014

Nasce a Pavia un archivio di Hard Disk della letteratura


"Se le biblioteche vanno incontro al futuro, gli archivi non possono restare indietro. Vi siete mai chiesti che fine farà, nell’epoca del digitale, la conservazione di manoscritti d’autore, scartafacci, appunti, malloppi di carta pieni delle correzioni di poeti insoddisfatti? Probabilmente no. In ogni caso, non allarmatevi: tutto va per il meglio. La digitalizzazione dei materiali è un eroico atto di salvataggio e insieme un regalo all’umanità: ad Harvard, per esempio, hanno messo online milioni di pagine accessibili liberamente; da qualche settimana sul sito tolstoy.ru si possono vedere i diari dell’autore di Guerra e pace, un tesoro di quasi cinquemila pagine scaricabili in diversi formati.
Ma c’è di più: lo studioso può ingrandire decine di volte un vecchio manoscritto e decifrare ciò che all’occhio nudo è negato, come spiega Paola Italia nel suo avventuroso Editing Novecento (Salerno). La Rete non sembra dunque nemica dei letterati, anzi: Trifone Gargano, docente di Informatica per la letteratura all’università di Foggia ha appena pubblicato in proposito La letteratur@ al tempo di Facebook (Progedit) per fugare le ansie dei tradizionalisti. Certo viene da chiedersi che cosa studieranno i filologi in futuro: da venti o trent’anni il più degli scrittori ha abbandonato la penna e le Olivetti per comodissimi fogli Word. Addio carta, addio correzioni a mano, addio varianti!
Il computer le inghiotte, spostiamo virgole e cambiamo parole, ma nessuno lo saprà. Senza carta, l’archivio di un autore perde un po' di fascino, ma non interesse.
A Pavia si sono attrezzati: nell’università dove Maria Corti, nel ’72, aprì il Fondo manoscritti, è nato il progetto Pad (Pavia Archivi Digitali). In sintesi? Una squadra di giovani filologi guidati dal professor Paul Gabriele Weston chiede agli scrittori di oggi di donare il proprio hard disk. La squadra conserva, cataloga (e protegge): diverse stesure dello stesso libro, appunti preparatori salvati di fretta, articoli, progetti abortiti, carteggi in forma di email. Spiega Weston: 'E’ una macchina del tempo dell’opera: non si tratta solo di recuperare singole varianti, ma di osservare la stratificazione di un testo, la sua storia segreta'. La sfida di Pad è quella di offrire agli studiosi del presente e del futuro una rete di connessioni esplorabile a vari livelli, utile a ricostruire anche il contesto storico, sociale, editoriale in cui l’opera è nata. 'Per questo gli scrittori' continua Weston 'non sono semplici donatori, ma complici di questa scommessa. Dalle scoperte del lavoro filologico potrebbero essere sorpresi loro stessi'. Borges e Calvino si sarebbero divertiti. 'Se la carta sembra fragile, lo sono anche i supporti digitali, che cambiano rapidamente. Noi li custodiamo anche a vantaggio dei pronipoti dei filologi di oggi'". (da Paolo Di Paolo, Nasce a Pavia un archivio di Hard Disk della letteratura, "Il Venerdi' di Repubblica", 10/10/2014)

Le biblioteche di Babele


"Qualcuno di noi, in un futuro neppure troppo lontano, racconterà d’essersi da tempo barricato dentro a una biblioteca. Giustificherà la sua scelta dicendo: 'Dopo la calata dei barbari, e dopo uno strenuo, drammatico e soccombente tentativo di difesa, sono stato costretto a chiudermi dentro a una biblioteca. E qui starò, custode e guardiano, fin quando sarà passata la diffusa isteria che vorrebbe distruggere i libri. L’amabilissimo oggetto, il libro di carta, che per secoli ha surrogato la nostra memoria, a un certo punto era "andato fuori moda". Destinato all’infungibilità venne progressivamente sostituito da elettronici congegni e le biblioteche corsero il pericolo d’essere abbandonate e poi distrutte. S’era diffusa l’idea che le raccolte di libri fossero perniciose, una malattia per l’umana esistenza. D’altra parte, più di duemila anni fa, Giulio Cesare, assistendo all’incendio dell’antica Biblioteca d’Alessandria, a chi lo implorava di salvarla, aveva impietosamente risposto: Lasciatela bruciare, non è che memoria di infamie'.
E, ancora, confesserà quel qualcuno di noi, barricato nella biblioteca: 'Per quanto mi è consentito dalla sorte, tale a un monaco d’una sperduta abbazia del profondo medio evo, per chi verrà dopo di noi, starò qui a preservare la scrittura di cui si sta perdendo l’uso, a custodire l’onore della lingua ormai franta in balbettii ... Starò qui per salvaguardare il libro nella sua sublime imperturbabilità, mentre fuori, il mondo civile è ormai presa della svagatezza, della disattenzione, della trascuratezza, delle folgori elettroniche'.
A questo, con una visione dell’immaginario, anche un po’ insensata, corre subito la mente sfogliando l’appena pubblicato La Biblioteca. Una storia mondiale di James W. P. Campbell (Einaudi).
Libro di storie e di vedute, nelle cui pagine si possono contemplare le 'più belle biblioteche del mondo' tramite le fascinazioni fotografiche dovute a Will Pryce. Ma cos’è oggi una biblioteca? All’amoroso sguardo dell’appasionato esploratore, le biblioteche viste attraverso questo libro, più che luoghi del sapere, appaiono sotto specie di vere e proprie vestigia archeologiche. Un catalogo di luoghi estranei di cui salvare almeno l’aspetto 'visivo' prima che si trasformino in qualche desolata Pompei addormentata. E allora cos’è oggi una biblioteca?
“L’universo, che altri chiama biblioteca, si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie, con vasti pozzi ...”.
L’incipit che ne celebra il mito, un edificio destinato a contenere libri, è un fin troppo scoperto omaggio al sommo tra i bibliotecari, a Jorge Luis Borges.
'L’universo che altri chiama biblioteca' – avvio del suo iperbolico La Biblioteca di Babele – è un luogo non luogo, fuori del tempo. Null’altro che una collezione di volumi. Borges che era diventato cieco, sapeva tuttavia e perfettamente cosa stesse dentro a tutti i libri. Aveva percezione della memoria della storia universale che si è voluta tramandare prima su tavolette d’argilla, poi su rotoli di pergamena e nfine con quell’oggetto di definita essenza, pensato e realizzato nella sua compiuta forma fin dall’attimo della sua invenzione. Una struttura perfetta, mai mutata. Un libro può essere confezionato con eccezionalirà di lussi.
Impreziosito con legature regali, stampato su carte di ineffabile rarità. Può essere prodotto in totale economia, tipo un tascabile.
Libro è. Sempre e comunque un certo numero di pagine assemblate, da sfogliare. Ed è il libro con l’immutata sua forma che ha sempre determinato la struttura degli ambienti ove viene custodito. Cercato. Trovato. Scrutato. Dimenticato.
Tra i corridoi formati da fittissime pareti di tomi sovrapposti e muti, 'passa la scala a spirale che s’inabissa e ascende al remoto'.
Conturbante l’ordine-disordinato dei libri.
Una biblioteca pretende somigliare alla cartografia del razionale. In realtà altro non è che la rifrazione sulla terra della perfettissima scompaginazione del cosmo. Un controtipo disordinato, anche se tutti i volumi che compongono una ideale incomparabile raccolta, perfettamente giustapposti, sembrerebbero richiamare l’ineccepibile formalità di un teorema euclideo. Cioè un ordine biblioteconomico che fa del metodo di costruire una biblioteca una scienza a mezzo tra la burocrazia borbonica e la maniacalità. L’uomo aduna libri secondo schemi per trovare illusoria conferma della sua inutile ostinazione: comporre il disordine universale.
In realtà, nella loro apparenti immutabili sequenze, i libri tendono sempre a scombinarsi. Ed e‘ soltanto l’uomo, testardo, che volendo far quadrare i conti del caos, si affida fideisticamente alla capricciosità dell’ordine. E per memento dei propri ghirigori esistenziali, affinchè “gli eredi’’ e “i posteri’’ s’affannino nel labirinto delle eterne incertezze, consegna la memoria di sè, declinata su ogni paradigma dello scibile, alla totale fragilità di un oggetto che teme l’acqua, il fuoco, l’aria. Una roba in perenne pericolo di infungibilità. Il libro. L’oggetto fondante di ogni biblioteca del mondo. Superbe macchine del pensiero che funzionano nutrendosi di carta. Luoghi dove, sfoglicchiando appena un po’ di pagine giuste, si può contemplare nettamente la luce che si effonde, inondando ... Si vedono gli sterminati deserti, i poli, e dietro ai poli altri contentinenti, e dietro ai continenti le città, e oltre le città le coste ... Si vedono le navi che solcano gli oceani, poi le foreste, savane, catene montuose ... E dove, con i sensi alti, per un attimo, si può percepire l’inconcepibile segreto, il cui nome usurpano gli uomini. E’ questo un sunto maccheronico dell’Aleph (per continuare a riesumare il sommo Borges). Ma come si può comunicare la sensazione di esaltazione quando, nel sovrano silenzio di una sala di lettura, il fruscio delle pagine voltate s’effonde nell’animo con messaggi universali?
Adesso, fuori da ogni sgangherata metafisica d’accatto, si deve pur trattare dei luoghi dove tutto questo avviene. Occorre anche dar conto della casa dei libri, come i cinesi chiamano le biblioteche, che, sulla terra, a migliaia hanno agglutinato sotto i loro tetti, da che mondo è mondo, uno sprofondo di volumi.
Dai plutei e dalle scansie che sorreggono i cartacei impassibili e vivacissimi testimoni della memoria nostra, l’attenzione si sposta allora sulle strutture che adunano miliardi di memorie sparpagliate tra le pagine. Accumuli che esaltano il delirio della conoscenza. Lo splendore dell’intelligenza.
Le biblioteche illustrate nel volume La Biblioteca. Una storia Mondiale, individuate tra tante, dall’antichità ai tempi tecnologici nostri, sono una parade di architettoniche bellezze.  Presi da pensieri vagheggianti e demenziali, si è indotti qui a guardare i volumi ordinati a schiere, a scomparti, a piani sovrapposti, sistemati in scaffali di essenzialità conventuale, in anfratti le cui campate sono sostenute da svolacchiamenti angelici, volumi infratti tra voluto e auliche decorazioni, in fra dipinti e affreschi secondo il gusto e la fantasia che dominava il tempo in cui la biblioteca fu edificata. Sale solenni, congelate nei loro stili sontuosi: rigori formali dell’umanesimo, grazie opulente del barocco, impassibilità neoclassiche ... Contemplando le architetture delle biblioteche, immobili, deserte, congelate nelle loro magnificenze, contraddicendo ogni esaltazione che fa del libro il loro essenziale fondamento, pur nel rigoroso rispetto dell’aura dei volumi custoditi, affiora una sinistra e drammatica similitudine: le sontuose biblioteche somigliano a lussuosi cimiteri. Le grandi scaffalature hanno l’aspetto di superbi colombari. Il nome degli autori impresso sul dorso d’ogni libro muta nel paradigma immaginario delle epigrafi di un cinerario. Dietro a ogni dorso, in polvere cartacea, ostinatamente, nonostante i lussi in cui sono calati, persiste la memoria di esistenze. Silenziose. In attesa del miracolo. In quelle solennità architettoniche, che esistono soltanto in funzione del loro contenuto, si è portati a bisbigliare qualcosa che potrebbe somigliare a una preghiera: beato l’uomo capace di risvegliare un testo che equivale a resuscitare un morto. Che equivale a resuscitare l’umanità che ci ha preceduti, facendoci partecipi di un’etica universale. La conoscenza di se stessi. In un libro." (da Giuseppe Marcenaro, Le biblioteche di Babele, "Il Venerdi' di Repubblica", 10/10/2014)

mercoledì 3 settembre 2014

Ecco come i romanzi migliorano le funzioni cerebrali

"Che leggere faccia bene e che si legge troppo poco lo sentiamo dire continuamente. Ma che i benefici della lettura siano così concreti e misurabili non è così scontato. Diverse ricerche di psicologia e di neuroscienze si sono concentrate ultimamente sul potere dei libri e sui loro effetti: tra le più recenti, quella realizzata dalla New School for Social Research di New York e firmata da David Comer Kidd ed Emanuele Castano.
Sulla base di cinque distinti esperimenti, i ricercatori hanno concluso che la lettura di opere di narrativa migliora la cosiddetta Teoria della Mente, ovvero la capacità di comprende come e che cosa le persone sentono, vogliono e pensano e hanno quindi un'influenza importante sulle relazioni sociali complesse. La relazione tra romanzi ed empatia non è una novità ed è stata esaminata dal punto di vista psicologico da diversi anni (per esempio nel libro del 2007 di Suzanne Keen Empathy and the novel o in quello di Lisa Zunshine del 2006 Why we read fiction: Theory of mind and the novel). Certo è che passare da una semplice considerazione intuitiva a una conclusione che abbia valore scientifico non è una strada semplice.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science e ha ottenuto una larga eco. In sostanza, nei 5 esperimenti, gli autori hanno valutato gli effetti di alcune letture (catalogate in narrativa letteraria, narrativa di genere e non fiction) su un gruppo di volontari, misurando la teoria della mente dei soggetti dopo le diverse letture. I ricercatori hanno concluso che chi aveva letto testi di narrativa letteraria, considerati quelli con maggiore valore artistico, mostrava punteggi migliori rispetto agli altri. Questa correlazione positiva si spiega con la maggiore complessità psicologica dei personaggi della letteratura narrativa, che permetterebbe al lettore di empatizzare e riconoscere il suo mondo interiore.
Un processo che, concludono i ricercatori, migliora le capacità empatiche di chi legge e quindi le sue abilità sociali. Sicuramente la ricerca psicologica ha ancora molta strada da fare per approfondire e spiegare meglio come si svolgono questi processi viste queste prime considerazioni. Certo è che un aiuto può sicuramente arrivare dalle neuroscienze. La rivista Brain Connectivity ha pubblicato uno studio che mostra come la lettura di un romanzo possa migliorare alcune funzioni cerebrali a vari livelli e se questi miglioramenti persistano nel tempo. Con l'utilizzo della risonanza magnetica funzionale, a cui i soggetti sono stati sottoposti per 19 giorni consecutivi, durante i quali hanno letto un romanzo.
Al termine dei test, i ricercatori hanno rilevato un significativo incremento di connessioni nel giro angolare sopramarginale sinistro e nella regione del giro temporale posteriore destro, aree associate con la comprensione della storia e la scelta di prospettiva. Ma i cambiamenti in queste regioni decadono rapidamente. Quello che è più interessante sono i cambiamenti a lungo termine, che si sono dimostrati resistenti per più giorni dopo la lettura, nella corteccia somatosensioriale, che suggeriscono un potenziale meccanismo di "semantica incarnata", in altre parole con il coinvolgimento di neuroni che hanno a che fare con le sensazioni fisiche e il sistema del movimento.
"I cambiamenti neuronali che abbiamo rilevato – spiegano gli autori – suggeriscono che la lettura di un romanzo possa trasportare il lettore nel corpo e nei panni del protagonista", non solo mentre legge ma anche per alcuni giorni successivi. Una capacità, quella di mettersi nei panni di un altro, che senza dubbio riveste un ruolo importante in termini di empatia e quindi di abilità relazionali." (da Chiara di Cristofaro, Ecco come i romanzi migliorano le funzioni cerebrali, "Il Sole 24 ore", 03/09/'14)

Stanislas Dehaene, I neuroni della lettura (Raffaello Cortina)

martedì 8 luglio 2014

Leggete ai bimbi anche quando non capiscono


"Siamo in estate, i pomeriggi sono lunghi, i viaggi in macchina interminabili e la sera i bambini si rifiutano di andare a nanna. Che fare per evitare la noia, intrattenerli amabilmente e, nel contempo, favorire lo sviluppo delle loro potenzialità? Ci giunge, dall'Accademia americana di pediatria, una raccomandazione importante: leggete libri ai vostri bambini!
Da quando? Dalla nascita.
Come? Ad alta voce.
Perché? Perché nei primi tre anni di vita il cervello è straordinariamente plastico e i processi di apprendimento particolarmente efficaci. Può sembrare che i neonati non capiscano quanto sentono e probabilmente molti contenuti sfuggono alla loro comprensione ma la capacità di intendere le parole è molto più precoce rispetto alla loro verbalizzazione. Difficilmente il piccolo comprende lo svolgimento della narrazione ma di sicuro coglie, nelle modulazioni della voce, il tono emotivo delle scene che state illustrando. La voce, come la musica, non ha bisogno di competenze lessicali per trasmettere le vibrazioni del cuore. La lettura di un libro introduce inoltre, nel lessico quotidiano, parole nuove e costrutti grammaticali e sintattici più elaborati. Anche se alcune situazioni possono suscitare emozioni negative, come la paura, la condivisione che si crea tra chi parla e chi ascolta garantisce i necessari margini di sicurezza e di fiducia. L'importante è non essere generici ma ritagliare la lettura a misura di quel bambino, del suo livello di maturità, della sua storia e della sua personalità. Particolare delicatezza è richiesta per i piccoli malati o che si trovano, per qualsiasi motivo, in condizioni di ansietà. Se sapremo osservarli, potremo monitorare le loro reazioni attraverso i gesti e la mimica facciale. Appena esprimono disagio, cambiate il racconto rendendolo più familiare e amichevole, come dimostra il successo di «Peppa Pig» e «La Pimpa».
I libri, da non confondere con i giocattoli, se vengono somministrati in giuste dosi e nei modi più opportuni, costituiscono un efficace antidoto contro le distorsioni indotte dai supporti digitali portatili. Secondo i pediatri americani, la frequente lettura di libri per l'infanzia nei primi mille giorni di vita concorre a evitare, più tardi, problemi di apprendimento e comportamento scolastici. Il divario che separa, per quanto riguarda il successo tra i banchi, i figli di genitori acculturati da quelli meno favoriti può essere ridotto dall'abitudine di leggere libri ad alta voce. I testi cambiano con l'età ma non abbiate timore, a un certo punto, di introdurre le fiabe. Possono sembrare antiquate per la generazione dei «nativi digitali». Ma le favole, come i sogni, non hanno tempo e, con la garanzia del buon esito finale, insegnano ad affrontare gli aspetti più crudeli della vita senza smarrire la speranza nella bontà e nella giustizia. Accade però che i bambini desiderino «fare storie», diventare essi stessi narratori. È un passaggio importante, che merita di essere accolto favorevolmente e sostenuto affettivamente perché in tal modo imparano a utilizzare il pensiero per elaborare e comunicare i vissuti negativi che possono turbare la loro vita" (da Silvia Vegetti Finzi, Leggete ai bimbi anche quando non capiscono, "Corriere della sera", 07/07/'14)

Nati per leggere

Pediatrics Group to Recommend Reading Aloud to Children From Birth (NYTimes)

mercoledì 25 giugno 2014

Da Austen a Wilde i tesori della British si svelano online



"Una ciocca di capelli del poeta Percy Shelley, il dizionario dello slang criminale usato da Dickens per scrivere Oliver Twist, la corrispondenza in cui Jane Austen riportava le recensioni private dei familiari a Orgoglio e pregiudizio, le vignette sul processo per omosessualità a Oscar Wilde. E poi manoscritti originali, diari, lettere, prime edizioni, ritagli di giornali sulla letteratura classica inglese dell'epoca vittoriana e romantica: in tutto 1200 documenti, che la British Library ha messo da ieri sul proprio sito, a cui chiunque può accedere gratuitamente per consultarli. Sono «i più grandi tesori letterari dell'Inghilterra», dice Roger Walshe, curatore di Discovering Literature (Scoprire la letteratura), l'iniziativa lanciata dalla grande biblioteca pubblica britannica per portare gradualmente sul web tutta o quasi l'immensa mole di materiali custodita nei suoi archivi.
Non è casuale che il progetto parta dalla Austen e dai suoi contemporanei. Un sondaggio tra 500 insegnanti di lettere nelle scuole secondarie superiori del regno ha rivelato recentemente che gli studenti «fanno fatica a identificarsi» con gli autori classici, come riportava ieri il quotidiano Guardian di Londra. Il 76% degli insegnanti afferma che i propri allievi sono in difficoltà a percepire gli scrittori dell'Ottocento come "persone reali", forse perché troppo diversi e distanti dalla loro realtà quotidiana nell'era di internet, di Facebook e degli smartphone. Ma il medesimo rilevamento registra che gli studenti, secondo l'82% dei professori di liceo, sarebbero ispirati dal contatto diretto con manoscritti e reperti originali del tempo. Sono cifre che hanno probabilmente un valore non solo per il Regno Unito, ma pure per altri paesi attraversati dalla rivoluzione digitale.
Ed ecco che internet può in un certo senso rimediare quello che internet ha provocato, colmando il distacco col passato.
La British Library, che è la biblioteca nazionale britannica e una delle più importanti al mondo, con più di 150 milioni di beni di inventario a cui aggiunge ogni anno 13 milioni di nuovi elementi, intende gradualmente trasportare la maggior parte dei suoi materiali online nell'ambito del progetto Discovering Literature, fino a coprire l'intero spettro della letteratura dal poema arcaico Beowulf fino ai contemporanei. Tra i classici messi ora sul suo sito vi sono un racconto scritto e illustrato da Charlotte Bronte per la sua sorellina Anne, il manoscritto di L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, la prima pagina autografa di Tess d'Huberville di Thomas Hardy, disegni originali per le prime edizioni di Alice nel paese delle meraviglie e Cappuccetto rosso, così come altri documenti e testimonianze su Blake, Wordsworth, Shelley, Keats e altri giganti della letteratura inglese." (da Enrico Franceschini, Da Austen a Wilde i tesori della British si svelano online, "La Repubblica", 17/05/'14)

Vi spiego perche' Ovidio e' un gioco da ragazzi

Vittorio Sermonti, Le metamorfosi di Ovidio

"Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte proprio così. Ma il problema vero francamente mi sembra un altro: perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio? Potrei dire: leggitele, e poi mi rispondi! Ma se tu mi chiedessi — richiesta più che ragionevole, data anche la stazza del volume — chi te lo fa fare, suggerirti una risposta su due piedi non sarebbe la cosa più semplice del mondo. [...]
E allora? Allora mi prenderò il lusso di semplificare: le Metamorfosi sono un libro sull'adolescenza, un dizionario mitologico dell'adolescenza che canta il corpo dell'uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie. Vuoi che semplifichi ancora di più esemplificando? Prendi il famoso Narciso. Chi è, che cos'è "Narciso"? È, come saprai anche tu, il nome di un ragazzo bellissimo, figlio di un fiume e di una ninfa, che specchiandosi nell'acqua d'un laghetto si innamora della propria immagine; ma è anche quella categoria clinica, che consiste appunto in un esclusivo, maledetto amore di sé (mai sentito parlare di narcisismo? mai praticato?); ma è anche un fiore color zafferano con i petali bianchi. La metamorfosi si compie all'interno di un nome. Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l'io che era. Innamorato, spaventato di sé.
Le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell'adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell'identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei. Vorresti amarti di più, ma non sai chi dovrebbe amare e chi vorrebbe essere amato. E senti il tremore della «inespugnabile solitudine» che punisce ogni bellezza, che ogni bellezza si merita. Ma l'illusione non demorde: il ragazzo Narciso sa bene di essere lui l'oggetto del proprio amore, e ne muore lo stesso; va nell'Ade e continua a specchiarsi nell'acqua del fiume Stige. L'illusione si illude.
Assumere però il bel Narciso a prototipo dell'eroe in mutazione è un arbitrio come un altro. Perché nel nostro libro le mutazioni ininterrottamente si accavallano ricorrendo il più delle volte a qualche inattendibile pretesto: una omonimia, un doppio innamoramento simultaneo, una coincidenza topografica ... ed ecco sgranarsi un incredibile assortimento di storie, scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un'ironia micidiale, sull'orlo talora del gossip, dove dèi bugiardi ed erotomani ed eroi o eroine spesso assai discutibili ragionano le loro pulsioni cieche con cavillosità avvocatesca; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia o, comunque, una smorfia del racconto che assecondi il nostro bisogno segreto di mostri ...
Ma ripensando l'impressione che mi fa la baraonda di queste favole a ripensarle tutte in una volta, vedo semmai il disordine che instaura un bambino quando, in una stanza dove ne ha fatte di tutti i colori, tenta di ripristinare l'ordine senza ricordarsi bene dove erano gli oggetti, né perché fossero lì: ordine mirato a realizzare puntigliosamente un "effetto ordine", che rappresenta insieme la perfezione e la parodia di ogni perfezione. Come "effetto" passi, ma non scherziamo!
Alla resa dei conti, sia ben chiaro, tutta la strepitosa messinscena delle Metamorfosi di Ovidio non ha nulla di puerile, e tanto meno di adolescenziale. Anzi, è governata da un geniale uomo di mondo, che naturalmente non crede a quello che racconta (additandoli come responsabili di tutto quello che capita in cielo in terra e in mare, egli non manca di precisare che i suoi dèi è molto probabile non esistano affatto), ma gli piace far finta che tu ci creda (sapendo naturalmente che non ci credi neanche tu), e così con la leggerezza, con l'irresponsabilità di un canto spiegato, facendo onore al delicato nonsenso di essere sempre quelli stessi che siamo diventando continuamente altri, ci fornisce una scheggia di verità sottratta alla opacità del reale, alla pedanteria della verisimiglianza: cioè la famosa, inutile, insostituibile poesia. Finché, d'accordo, non arriva la Vecchia Falciatrice (che in un modo o nell'altro arriva comunque) a renderci definitivamente il ricordo animale, vegetale, minerale di noi stessi. E quella di diventare un ricordo concreto di sé, almeno fin tanto che goccioleremo resina o mirra nella memoria di qualchedun altro, non è detto sia la più lugubre delle metamorfosi.
Coraggio, amico mio, chiunque tu sia, qualunque età ti succeda di avere! Prova! e se cominci, c'è anche caso che il compito obsoleto della lettura si trasformi, annaspando in questo assurdo capolavoro, in un vizio ostinato e sottile per il te sconosciuto che sei. E se è troppo sperare che il poema dell'adolescenza interessi anche qualche adolescente, io spero lo stesso." (da Vi spiego perché Ovidio è un gioco da ragazzi, "La Repubblica", 19/05/'14)

mercoledì 15 gennaio 2014

Spegnete i vostri tablet e isolatevi in quelle pagine


"I vantaggi degli ebook sono evidenti. Gli ebook sono immediati. Seduto a casa mia in Pakistan posso leggere l'accattivante recensione di un libro, non ancora disponibile nelle librerie da noi, e con un semplice 'click' iniziarne subito la lettura. Gli ebook sono anche immateriali. Quando viaggio, come mi accade di frequente, posso portarmi appresso vari volumi, senza peso e in verità senza volume, e ciò mi consente di conseguenza di preparare un unico bagaglio a mano. Eppure non sempre leggere gli ebook è un'esperienza del tutto appagante. Sì, è possibile modificare le dimensioni del carattere del testo, funzione che riveste una sua importanza per me, ora che a quarantadue anni inzio a rendermi conto di quanto si affatichino presto i muscoli oculari. Sì, gli ebook possono esssere letti al buio, essere autoilluminati, caratteristica promettente quando mia moglie dorme e io sono troppo pigro per alzarmi dal letto, o quando a Lahore i blackout si protraggono così a lungo da far scaricare anche i generatori di riserva. E infine sì, gli ebook offrono più frequenti indicazioni sul fatto che la lettura procede, dato che la necessità di cliccare lo schermo per andare avanti si presenta con una rapidità superiore alla necessità di voltare la pagina stampata, perché gli schermi a pixel tendono a contenere meno dati delle pagine stampate, senza contare che avanzano uno alla volta e non a coppie.
Nonostante ciò spesso preferisco la lettura del libro cartaceo alla lettura in formato digitale. O per meglio dire, dato che non si può più dare per scontato il predominio della carta, la c-lettura alla e-lettura.
Credo che le mie motivazioni siano dovute al fatto che ho disabilitato il browser del mio cellulare. Non l'ho eliminato ma ho sfruttato la funzione del sistema operativo del mio telefono che consente di nasconderlo e che per tornare a mostrarlo e renderlo operativo richiede l'inserimento di un codice. Pertanto posso utilizzare il browser solo quando lo ritengo necessario. Ma per la maggior parte del tempo questa impostazione serve quasi  a ricordarmi di mettere in discussione i desideri del produttore, e opporvi una certa resistenza a meno di avere buoni motivi per non farlo.
Nello stesso modo ho modificato il mio account di posta elettronica passando dall'impostazione 'push' che sollecita di continuo l'attenzione e consuma la batteria, alla funzione manuale molto meno convulsa. Le email mi arrivano quando lo decido io e cioè non tanto spesso. E il browser del mio laptop sottile e funzionale adesso visualizza un avviso che mi rammenta quanto tempo ho trascorso online (o me ne mette in guardia?).
Il tempo è il nostro bene più prezioso. Di conseguenza è importante essere incoraggiati, ogni qualvolta è possibile, a considerare la nostra attenzione non tanto in termini di qualcosa che si presta quanto di qualcosa che si consuma. Questo vago sovrapporsi di lavoro e intrattenimento costituisce il presupposto stesso, per esempio, dell'alchimia finanziaria che assegna valutazioni da decine di miliardi di dollari alle aziende dei Social Network.
Adoro la tecnologia e la possibilità di connettermi. Ma adoro anche la solitudine. Addentrandoci nell'era cyborg, una volta avviata quella trasformazione fisica che porterà a un ibrido tra essseri umani e macchine, ci saranno coloro che accoglieranno a braccia aperte questo cambiamento epocale e rimpiazzeranno felici un po' di spazio del loro cranio con processori incorporati. Ci saranno altri che invece respingeranno queste novità nella loro interezza, arrivando forse al punto di dichiarare una guerra santa, con limitate possibilità di successo a fronte di droni che operano in modo autonomo, mentre masse imperturbate di individui che adorano condividere tutto posteranno Selfie e aggiornamenti del loro status.
E poi ci saranno quelli come me, con robusti esoscheletri lasciati spesso nell'armadio, capaci di balzare in cima a un edificio se ne viene la voglia, ma anche propensi ad andarsene in giro svestiti e a sentire in spiaggia scorrere la sabbia fra le dita dei piedi.
In un mondo fatto di intrusioni tecnologiche dobbiamo ingaggiare una specie di battaglia se desideriamo conservare i nostri momenti di solitudine.
La lettura in digitale spalanca le porte alla distrazione. Invita a connettersi, a cliccare, ad acquistare. Viceversa il perimetro chiuso di un libro stampato pare offrire maggiore serenità. Riporta indietro nel tempo, a un'epoca antecedente alla connessione alla realtà virtuale. Tela, carta, inchiostro di fatto sono elemetto, corazza, scudo. Essi ofrono un certo grado di protezione e rendono possibile un'esperienza di lettura meno mediata, meno frammentata. Fanno la guardia al nostro isolamento. E' per questo che li amo. Ed e' per questo che leggo tuttora libri stampati." (da Mohsin Hamid, Spegnete i vostri tablet e isolatevi in quelle pagine, "La Repubblica", 12/01/'14)

Il giro del mondo in biblioteca


"Chissà se nella biblioteca di Alessandria d’Egitto hanno finalmente risolto il problema acustico dovuto alle gambe delle sedie spostate dai lettori. Lettori che hanno a disposizione una sala immensa e molto ben illuminata, ma un numero di libri ancora limitato e con qualche esclusione “mirata”. Non ci sono, per esempio, I versi satanici di Salman Rushdie, che però, assicura la direzione, si possono leggere in traduzione, così come mancano altri libri sospetti di poca correttezza verso l’Islam. Fu costruita sul finire del secolo scorso, non senza qualche polemica perché le ruspe avrebbero sacrificato reperti della biblioteca antica: quella che secondo una vulgata Cesare avrebbe fatto bruciare con suprema indifferenza. Luciano Canfora attribuisce invece l’incendio al Califfo Omar nell’anno del Signore 640. La Biblioteca di Alessandria è nell’immaginario di molti la biblioteca per antonomasia, anche se nessuno ovviamente ha mai visto la biblioteca antica e quella nuova è bellissima ma nuova, appunto, e potrebbe essere dovunque nel mondo.
Così la nuova Bibliothèque National di Parigi, intitolata a Mitterrand, criticatissima perché d’inverno si scivola su certe pendenze dell’entrata, non ha certo il fascino della Richelieu, antica sede ora in via di ristrutturazione, dove si conservano preziosi fondi antichi, documenti rari e molte carte di scrittori (tra le ultime acquisizioni ci sono anche quelle di Tabucchi). Quando la Biblioteca Nazionale di Roma era ospitata nei palazzi del Collegio Romano, frequentarla aveva un sapore ben diverso dal mettere piede nei saloni lucidi della nuova sede costruita in mezzo alle caserme di Castro Pretorio, ma — e lo sa chiunque abbia in casa anche una modesta biblioteca personale — gestire e aggiornare un patrimonio librario non è facile. E certo non è facile il compito delle biblioteche nazionali che devono per legge possedere e schedare ogni libro pubblicato, a costo di scoppiare e di essere costantemente in emergenza.
Comunque, Alessandria docet, c’è sempre qualcuno in qualche parte del mondo, che vuole incendiare i libri nemici e non è affatto vero che i roghi siano finiti con quelli dei nazisti. Nel 1992 i serbi hanno incendiato la biblioteca di Sarajevo e all’incirca dieci anni dopo sono state devastate le biblioteche dell’Iraq “liberato” dagli americani. Per paradosso il tiranno Saddam Hussein, con un gesto politico e non certo culturale, aveva staccato un assegno da ventun milioni di dollari (uno in più del principe degli Emirati Arabi, Feisal) per finanziare la costruzione della nuova biblioteca di Alessandria.
Confesso che frequento malvolentieri le biblioteche immense, anche se non manco mai di visitarle, magari solo per dare un’occhiata ai cataloghi. A Buenos Aires, per esempio, è inevitabile fare un salto alla Biblioteca Nazionale per rendere omaggio a Borges che ne fu il direttore. E Borges ci autorizza a dire che, dopotutto, anche le biblioteche immaginarie hanno una loro esistenza e una loro capacità di accogliere il lettore (sempre di lettore si tratta). Borges, con la sua biblioteca di Babele che poi è l’Universo, si qualifica subito come un estremista del libro. Elias Canetti destina al fuoco la biblioteca del sinologo dottor Kean, protagonista del romanzo Autodafè. Abbiamo assistito al suo ampliamento, visto che Kean ha eliminato le finestre per poter aumentare i suoi scaffali. Ma ha anche sposato, nel corso del romanzo, una incredibile tiranna popolana ignorantissima che se ne infischia dei suoi libri e del sapere e che lo ridurrà allo stremo. La cultura combatte con la barbarie, è un topos. Un’altra biblioteca immaginaria che ormai è divenuta leggenda è quella descritta da Eco neI Nome della rosa anche se qualcuno gli ha rimproverato di aver messo troppi volumi in una biblioteca medievale: ottantasettemila, mentre nel Trecento le biblioteche si potevano al più permettere venti codici e trecento manoscritti, come racconta Lucien X. Polastron nel suo Libri al rogo. Già, anche Eco fa bruciare la sua biblioteca.
Il nome della rosa, come si sa, ruota intorno a un’opera perduta di Aristotele. Non è facile che in una biblioteca si trovi un’opera perduta di un grande autore, ma non è nemmeno da escludere a priori. Chi frequenta una grande biblioteca non sa mai quali libri può trovare, mentre è escluso che possa fare scoperte sorprendenti nella propria biblioteca, dove tutto gli è noto. Così per esempio ragionava un grande studioso, Carlo Dionisotti, per lunghi anni insegnante di letteratura italiana a Londra e frequentatore della British Library.
In Italia abbiamo la fortuna di poter entrare in molte biblioteche più o me-no rimaste come erano quando furono fondate ed è un vero piacere per gli occhi muoversi, per esempio, nella grandiosa sala della seicentesca Biblioteca Angelica di Roma che ha un notevole patrimonio librario proveniente dai lasciti di vari cardinali e anche, dal 1940, il fondo librario dell’Arcadia di cui ora è praticamente la sede. L’Angelica fu una delle prime biblioteche a essere aperte al pubblico, così come la quasi coeva Biblioteca Ambrosiana fondata a Milano dal cardinal Borromeo, proprio quello citato dal Manzoni come un sant’uomo, mentre un recente studio di Edgardo Franzosini (Adelphi) racconta che proprio santo non era. Comunque la Biblioteca è lì e accanto c’è la Pinacoteca, sempre voluta dal Borromeo, dove si può ammirare tra l’altro (e l’altro è moltissimo) il famoso Cesto di frutta del Caravaggio. A Ventimiglia ho avuto modo di frequentare anni fa la Biblioteca Aprosiana, fondata appunto da Angelico Aprosio (siamo sempre nel Seicento) che oltre a sbrigare oggi l’ufficio di biblioteca pubblica, conserva anche un buon fondo antico, in gran parte dovuto al fondatore. Ci lavorò per qualche tempo lo scrittore Francesco Biamonti.
Quando tutto sarà digitalizzato e tutte le biblioteche saranno raggiungibili con il computer rischieremo di perdere lo spettacolo dei libri e delle cattedrali che li contengono? Mi auguro di no: per secoli i libri di carta ci hanno fatto una compagnia straordinaria. E poi la “birbioteca”, come la chiamava maliziosamente il Belli, è un luogo e non deve diventare un non luogo. Quando a marzo riaprirà al pubblico dopo la pausa invernale ci sarà una ragione in più per visitare il castello di Masino, nel Canavese, già della nobile famiglia Valperga e da oltre vent’anni proprietà del Fai che lo ha ristrutturato in modo mirabile. E la ragione sarà proprio la grande e antica biblioteca che il Castello contiene e che ora è stata riordinata e schedata. Il primo volume del catalogo è appena stato pubblicato da Interlinea, con magnifiche fotografie, a cura di Lucetta Levi Momigliano e Laura Tos. In quelle sale, amico dell’eruditissimo Tommaso Valperga di Caluso, che era il padrone di casa, circolava l’inquieto Alfieri. E le sue opere in varie edizioni sono ben presenti nella biblioteca del castello." (da Paolo Mauri, Il giro del mondo in biblioteca, "La Repubblica", 12/01/'14)